Difetti nel Sé: concetto liberatorio o metafora imprigionante?George E. Atwood, Robert D. StolorowSummary: Defects in the self: liberating concept or imprisoning metaphor? In the following we will briefly describe a young woman whose experiences and delusions bear interestingly on the doctrine of defects in the self. This woman, a 22 year-old hospitalised psychiatric patient, said tshe had no self, was not real, did not exist, and was absent rather than present. The defect in her self, speaking phenomenologically, was not located in a preconscious "sense of the incomplete reality of the self" (Kohut, 1971, p. 210), which has been described as the core of narcissistic personality disorders; her experience was rather one involving "a conscious sense of the complete unreality of herself". Zusammenfassung: Defekte im Selbst: befreiendes Konzept oder einengende Metapher? Im folgenden beschreiben die Autoren kurz eine junge Frau deren Erfahrungen und Wahnvorstellungen interessanter Weise auf der Doktrin der Defekte im Selbst beruhen. Diese Frau, eine 22 Jahre alte hospitalisierte Psychiatriepatientin, behauptete, daB sie kein Selbst hätte, nicht wirklich wäre, nicht existieren würde und mehr abwesend als anwesend wäre. Der Fehler in ihrem Selbst, phenomenologisch gesprochen, war nicht in einem vorbewuBten "Gefühl der unvollständigen Wirklichkeit des Selbst" (Kohut, 1971, S. 210), was als Kern der narzisistischen Persönlichkeitsstörung beschrieben worden ist, lokalisiert. Ihre Erfahrung war vielmehr die "eines bewuBten Gefühles der völligen Unwirklichkeit ihrer selbst".
Il contesto clinico dei primi incontri del terapeuta con questa paziente fu caratterizzato da una lotta su un programma di inedia autoindotta, che ella aveva intrapreso. Aveva rifiutato il cibo per un periodo di molti giorni e il suo peso, già basso all'inizio di quest'avventura, aveva cominciato a calare fino ad un livello allarmante. Nelle discussioni spiegava che non poteva assumere cibo, poiché qualsiasi cosa mangiasse sarebbe stata tolta a qualcun altro. Le dispiaceva anche molto che animali e piante dovessero essere sacrificati per far sì che ella avesse qualcosa da mangiare. Affermava che era fatta di "puro amore" e quindi non poteva far niente che privasse o danneggiasse altri esseri viventi. L'idea che poteva morire d'inedia, sembrava non aver alcun significato per lei ed era inaccessibile a qualsiasi argomento razionale riguardante la sua dieta. L'approccio iniziale del terapeuta a questa paziente fu molto concreto e nacque da un desiderio di impedirle di suicidarsi, piuttosto che da una vera comprensione di ciò che stava facendo. Le disse che era assolutamente vitale che ricominciasse a mangiare, e che egli sarebbe arrivato ad una soluzione sicuramente accettabile per lei. Le portò sacchetti di plastica con frutta fresca, noci e uva passa alle loro sedute quotidiane e le assicurò che tutti quei frutti e quelle noci erano caduti spontaneamente dagli alberi nei sacchetti depositati sotto i rami. Tutto ciò che avrebbe mangiato, sarebbe andato altrimenti semplicemente perso nel terreno e, quindi, ella era libera di prendere un po' di quest'alimento, senza tormentarsi di danneggiare altri. Il terapeuta cercò di mostrare una scintilla d'umorismo nei propri occhi quando presentava ciò, nel caso che la paziente avesse prestato attenzione all'assurdità totale di quello che le raccontava. La reazione della paziente, comunque, fu di apparente accettazione, per cui cominciò a mangiare ciò che egli le aveva portato. Il suo psichiatra, poi, partecipò a questa mediazione, portando scatolette di bevande per la prima colazione, ammaccate con un martello e presentate alla paziente con la giustificazione che erano state recuperate dalla spazzatura. Ella cominciò ad accettare anche quelle. Per un periodo di diverse settimane il tema dell'inedia e l'idea di essere fatta solamente di amore diminuirono nella conversazione della paziente e, infine, scomparvero, senza che il terapeuta ne capisse il motivo. Nel frattempo ella continuò ad accettare le cose portate dal suo terapeuta, le bevande per la prima colazione, e un crescente numero di altri cibi dalla mensa dell'ospedale. Qualche mese dopo, la paziente e il suo terapeuta stavano attraversando i giardini dell'ospedale verso la mensa, per il caffè e le frittelle dolci. Ella si voltò verso di lui e fece la seguente affermazione: <<Lì c'è questa macchina enorme. L'interno di qualcuno è agganciato lì. Dei fili escono dalla macchina e vengono agganciati ad un'altra persona. C'è un interruttore sulla macchina che ha solo due posizioni. Quando è su una posizione ti fa dimenticare tutte le tue memorie e anche il tuo nome; quando è sull'altra fulmina l'altra persona>>. Questa macchina straordinaria rende concreto un principio organizzativo, secondo cui la sopravvivenza di altre persone è condizionata dalla cancellazione dell'esperienza della propria individualità autentica. Se la paziente conserva i propri ricordi, pensieri e l'identità (simboleggiata dal suo nome), qualcun altro muore; se quest'altra persona vive, ella perde tutto il senso di sé stessa. Esiste un isomorfismo parziale tra questa macchina illusoria e il progetto d'inedia descritto prima. Nella messinscena dell'inedia, se ella avesse ingerito cibo per vivere, altri ne sarebbero stati danneggiati o fatti morire; se altri fossero stati protetti, la sua vita, necessariamente, sarebbe stata sacrificata. L'abbracciare l'amore come la propria identità può essere paragonato al pulsante della macchina, messo nella posizione che protegge le altre persone a sue spese. In un universo con queste, e soltanto con queste, possibilità vivere ma uccidere, o amare ma morire ella aveva preferito l'amore. Adottare la dottrina dei difetti nel Sé crea una prospettiva clinica dalla quale prestiamo attenzione a ciò che manca nelle esperienze, che cerchiamo di comprendere, anziché a ciò che è presente. Nell'esplorare i mondi dei nostri pazienti, ci guida un'immagine di un Sé strutturato in modo ottimale, sentito come coesivo nello spazio, continuo nel tempo, e con un senso stabile di autostima. Le disparità tra ciò che si presenta a noi e quest'immagine sono, poi, considerate come fossero difetti del Sé, risultati di vari tipi di deficit e arresti di sviluppo. Vedendo la paziente, che abbiamo descritto da questo punto di vista, come, in effetti, ha fatto il suo terapeuta nel loro primo lavoro insieme, il focus tenderebbe ad essere sul suo senso di non esistenza, sull'assenza apparente di un Sé coesivo e continuo nel tempo, e si potrebbe essere inclini ad attribuire quest'assenza ad una deficienza strutturale interna derivante dalla sua storia evolutiva. Un tale punto di vista potrebbe, in ogni modo, non prendere in considerazione che le sue esperienze di non-esistere erano inserite in una struttura d'esperienza ben consolidata, in un principio organizzativo secondo il quale la vita offre solo alternative, che si escludono reciprocamente: l'assassinio di altri o la propria morte psichica. Tale struttura, ricostruita nel corso del trattamento della paziente, sembrò derivare da un'intimità quasi fusionale con suo padre, la quale le fornì l'unico legame consistente durante la maggior parte degli anni di sviluppo; una vicinanza che serviva a proteggere il padre da sentimenti devastanti d'inutilità e di depressione suicida. Con il procedere del trattamento, ella manifestò, in un delirio transitorio, nel quale era attaccata e punta da uno sciame d'api, cenni di un crescente senso di esistere per diritto di nascita. Il terapeuta finì con il considerare queste api pungenti, simboli concretizzati di momenti sporadici dolorosi, che interrompevano il torpore emotivo simile alla morte, che aveva pervaso in precedenza tutta l'esistenza della paziente. Il delirio delle api può anche aver prolungato la rimanente traccia della macchina, poiché un senso di cupo presentimento e di pericolo accompagnava inevitabilmente il suo crescente cambiamento dall'altruismo verso una posizione disinvolta con l'accettazione del proprio desiderio spontaneo nel nuovo attaccamento al suo terapeuta. Il doloroso pungiglione delle api corrisponde, probabilmente, allo "zap" della macchina che annulla tutti i ricordi e l'identità. I passi verso la crescente autenticità erano collegati, ad ogni stadio, all'ansia struggente per il benessere del terapeuta, che esprimeva, ancora una volta, il legame stretto, nel suo mondo, tra l'esistere come persona propria e il mettere in pericolo altri emotivamente importanti. Questo caso si presta bene per mettere in evidenza le differenti concezioni della struttura psichica, che si presentono nella psicologia del Sé e nella teoria dell'intersoggettività. Nelle formulazioni originali della psicologia del Sé, Kohut (1971) immaginò la struttura psichica in termini di una concezione reificata del Sé. Il Sé, invece di essere considerato soltanto come un contenuto dell'esperienza, era visto come un'entità mentale a sé stante, che riceveva dai processi d'internalizzazione (trasformazione) i vari livelli della propria strutturazione interna. Il concetto di struttura nella teoria dell'intersoggettività, al contrario, si riferisce ad ampi modelli, all'interno dei quali l'esperienza prende ripetutamente forma, e i principi organizzativi preriflessivi si manifestano come temi ricorrenti nel flusso della vita soggettiva (Stolorow, 1978). Se facciamo a meno delle reificazioni inerenti alle formulazioni tradizionali della psicologia del Sé e se contiamo, invece, sull'idea dei principi organizzativi, possiamo vedere che le esperienze del non esistere e dell'irrealtà, presenti nel nostro caso clinico, non sono il risultato di un difetto o di una mancanza della struttura. Tali esperienze nascono come prodotto di una struttura psicologica specifica, vale a dire il principio organizzativo secondo cui la sopravvivenza dell'altro è condizionato dalla cancellazione delle sensazioni della propria esistenza autentica. In qualche scritto precedente, criticando la metapsicologia classica (Atwood & Stolorow, 1980; 1993), abbiamo sostenuto che molti dei costrutti reificati nella teoria psicoanalitica si potevano comprendere proficuamente come simboli condensati di diverse classi di esperienze e che potevano, quindi, essere ritradotti in termini fenomenologici. Applicando questo progetto di traduzione alla topica dell'attuale discussione sorge una domanda: che cosa sono le esperienze reificate nella nozione dei difetti nel Sé? Pensiamo che ci siano due gruppi di tali esperienze, ciascuno collegato ad un distinto contesto intersoggettivo d'origine. In uno di questi l'esperienza di sé è dominata da un senso di difettosità, di essere completamente danneggiati, forse di essere privi di qualcosa di essenziale, che una persona completa senza dubbio dovrebbe avere. In un contesto intersoggettivo, che produce questo tema, i legami con i genitori sono ripetutamente interrotti, ma il bambino mantiene un sottile senso di relazione attribuendo, con vergogna, le rotture e/o le reazioni emotive penose del bambino ad esse ad una debolezza, una mancanza, o un difetto dentro sé stesso. Nel secondo gruppo di esperienze, l'individuo avverte un senso ridotto di esistenza, una deficienza nell'esperienza dell'essere persona. Ciò viene illustrato al massimo grado nel caso presentato prima. Un contesto intersoggettivo condiviso, relativo all'origine di questo modello d'esperienza di sé implica una profonda invalidazione e l'associazione dell'autenticità con il pericolo di una perdita totale o di un annullamento di altre persone emotivamente importanti. La visione del Sé come una struttura reificata, che necessita nutrimenti da oggetti-Sé, come citato prima, stabilisce un focus clinico su ciò che manca anziché su ciò che è presente nell'esperienza di sé. Tale focus restringe seriamente il nostro campo d'osservazione, poiché esso conduce ad una omogeneizzazione e ad una riduzione delle dimensioni multiple del transfert ad un aspetto d'oggetto-Sé inflazionato (Stolorow, 1995). Per noi è diventato evidente, per esempio, che il termine transfert d'oggetto-Sé viene usato con riferimento a due tipi di esperienze relazionali con origini e significati nettamente diversi. In uno il paziente desidera ardentemente il legame con l'analista per compensare difettose esperienze di sviluppo (ciò che Kohut intese originalmente con transfert d'oggetto-Sé). Nell'altro il paziente cerca risposte dall'analista, che possano neutralizzare principi organizzativi invariati, che sono manifestazioni di ciò che chiamiamo la dimensione ripetitiva del transfert (Stolorow, Brandchaft & Atwood, 1987). Nel primo il paziente desidera ardentemente qualcosa che manca; nel secondo il paziente cerca un antidoto per qualcosa presente in modo schiacciante. Questa distinzione ha implicazioni profonde per la formulazione delle interpretazioni del transfert, mentre la fusione dei due tipi di esperienza relazionale in un concetto d'oggetto-Sé inflazionato oscura il contributo clinico di Kohut. L'approccio interpretativo ai desideri di rispecchiamento di un paziente, per esempio, sarà radicalmente diverso, a secondo che il paziente cerchi il rispecchiamento di un'espansività emergente, segregata a lungo, o di una grandiosità difensiva che serve come un antidoto ad un sottostante senso di difettosità o di deficienza (Morrison & Stolorow, 1996). Nel primo caso le esperienze di rispecchiamento favoriscono l'integrazione e la trasformazione evolutiva; nel secondo favoriscono la dipendenza dalla "responsiveness" dell'analista. È la ricerca di antidoti per annientare i principi organizzativi, non delle funzioni di oggetti-Sé arcaici, che conduce a quei fenomeni clinici come dipendenze, perversioni sessuali ed enactments grandiosi e aggressivi. Bibliografia Atwood, G.E.; Stolorow, R.D. (1980). Psychoanalytic concepts and the representational world. Psychoanalysis and Contemporary Thought, 13: 267-290. Atwood, G.E.; Stolorow, R.D. (1993). Faces in a Cloud: Intersubjectivity in Personality Theory. Northvale, N. J.: Jason Aronson. Kohut, H. (1971). The Analysis of the Self. Madison, CT: International Universities Press. Trad. it.: Narcisismo e l'Analisi del Sé. Torino, Boringhieri, 1976. Morrison, A. & Stolorow, R.D. (1996). Shame, narcissism and intersubjectivity. In: New Perspectives on Shame, ed. M. Lansky & A. Morrison. Hillsdale, N.J.: The Analytic Press. Stolorow, R.D. (1978). The concept of psychic structure: its metapsychological and clinical psychoanalytic meanings. International Review of Psycho-Analysis, 5: 313-320. Stolorow, R.D. (1995). Introduction: tensions between loyalism and expansionism in self psychology. In The Impact of New Ideas, ed. A. Goldberg. Hillsdale, N.J.: The Analytic Press, p. xi-xvii. Stolorow, R.D., Brandchaft, B.; Atwood, G.E. (1987). Psychoanalytic Treatment: an Intersubjective Approach. Hillsdale, N.J.: The Analytic Press.
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