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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Gian Paolo Scano

Il flogisto e la "cosa" transferale.
Verso una formulazione intersoggettiva della problematica transferale



Sommario:
L'intento di questo saggio è quello di stabilire anzitutto la necessità di una riformulazione teorica della problematica transferale e, in secondo luogo,di proporre un esempio di concettualizzazione alternativa che sappia tradurre la ricchezza degli asserti tradizionali in un quadro teorico coerente, epistemologicamente adeguato, empiricamente più controllabile. A questo scopo l'A. analizza il recente dibattito sul transfert ed evidenzia i limiti della posizione tradizionale e di quella interazionista, mostrando come la discussione sia inficiata da una serie di equivoci, che traggono origine dalla diffusa, erronea convinzione che il transfert sia un "fenomeno". Stabiliti i limiti concettuali entro cui la proposta dovrà mantenersi, egli introduce la nozione (puramente strumentale) di "cosa transferale" per indicare l'oggetto della concettualizzazione e servendosi della logica situazionale di K. Popper delinea una concezione dichiaratamente intersoggettiva. Egli identifica così i " transfert" nei "problemi del processo di soluzione", che intervengono inevitabilmente nella interazione terapeutica in virtù della natura interpersonale del metodo e risultano analizzabili sia da un punto di vista intrasoggettivo (in termini di "teorie" soggettive e di regole ripetitive utilizzate dal paziente (e dal terapista) nella costruzione dei contesti,) sia da un punto di vista intersoggettivo (come ripetitive configurazioni dell'interazione co-costruite dal paziente e dall'analista nella dinamica delle rispettive contestualizzazione).Il nodo teorico fondante è indicato nella teoria dell'attaccamento.


Il transfert, da un secolo ormai, occupa una posizione centrale nella letteratura e nella considerazione degli analisti. Tale preminente centralità si è anzi accentuata negli ultimi decenni grazie allo slittamento del dibattito dall'ambito teorico a quello clinico-tecnico in conseguenza dell'eclissi della metapsicologia. Il robusto riesame del concetto di transfert compiuto da Gill negli ultimi venti anni della sua vita, ha rinvigorito l'interesse e innescato nuove discussioni sullo "schermo neutro", l'interazione, la soggettività dell'analista, il controtransfert come sorgente di informazioni sul paziente sino all'enactment. Così, nella situazione di generale transizione teorica, si è man mano diffusa la speranza che la riconosciuta vitalità e centralità del transfert possano fungere da "terreno comune" per lo sviluppo teorico e tecnico, come auspicato da Wallerstein (1990).
La realizzazione di questa speranza non sembra, tuttavia, né garantita né imminente. L'universale riconoscimento della centralità del transfert non poggia, infatti, sulla linearità del concetto, ma su un concorde convincimento di autoevidenza clinica, che funge anche da potente rassicurazione riguardo alla tranquilla continuità dell'agire psicoanalitico. La vivacità del dibattito, poi, se rassicura sulla ricchezza euristica del concetto, ne evidenzia, però, contemporaneamente, i problemi logici e teorici, a cominciare dal fatto che non esiste una accezione universalmente riconosciuta di "transfert"(1). La fiduciosa attesa di una svolta epocale dovrebbe perciò cedere il passo a una decisa volontà di porre mano ai problemi, a cominciare dalla identificazione di un ambito teorico in grado di supportare una riformulazione teoricamente coerente della questione transferale e tale da consentire una ragionevole controllabilità empirica.
Esplorerò sinteticamente, la possibilità di esprimere la problematica del transfert in termini intersoggettivi, tramite l'utilizzazione del metodo contestuale-situazionale. A questo scopo, dopo un breve riesame della discussione attuale (1 e 2), proverò a riformulare il problema in termini, dapprima soggettuali (3) quindi intersoggettivi (4) e, concretamente, in termini di problemi del processo di soluzione (5), per concludere, infine, con un primo bilancio dei costi e ricavi (6).


1. Il dibattito sul transfert

Una ragionata esposizione delle posizioni, che si fronteggiano nel dibattito, risulta assai ardua nello spazio breve a causa della molteplicità confusa delle opinioni. Per semplificare si può ricorrere a un artificio e disegnare un continuum tra un virtuale "punto zero" tradizionale e il suo opposto "interazionista".
Una concezione tradizionale del transfert è un artefatto, che si può ricavare dalle definizioni "da manuale"(2), in cui il transfert è una "ripetizione spontanea" nella situazione terapeutica di vissuti pregressi, (essenzialmente infantili), che si traduce nella distorsione di un qualche aspetto della relazione e, dunque, in un vissuto "irrealistico", "distorsivo" e "fantasmatico", esperito, tuttavia, dal soggetto in modo per lo più adeguato alla situazione. Volendo fissare un criterio, si potrebbe stabilire che quanti conservano le nozioni di "ripetizione", "distorsione" e "spontaneità", possono a buon diritto essere inclusi in una posizione tradizionale. E' logicamente connessa a questa concezione una accentuazione della neutralità e del non coinvolgimento(3), non semplicemente come norma tecnica, ma come conseguenza logica degli assunti teorici. Se infatti il transfert è una produzione ripetitiva, spontanea e distorsiva del paziente, il terapista non ha alcun ruolo essenziale nella sua costruzione, mentre, per quanto attiene al trattamento, gli assunti fondamentali, (ruolo dell'interpretazione e dell'insight, neutralità del terapista rispetto al conflitto del paziente...), sembrano giustificare la nozione di schermo neutro, che risulta del resto coerente con l'impianto epistemologico della teoria e della tecnica classiche.
La posizione "interattiva" è radicalmente alternativa. Nega che il transfert possa essere caratterizzato come ripetizione; pone in primo piano la partecipazione dell'analista nella costruzione dei transfert; conseguentemente, critica la nozione di "spontaneità", ma, soprattutto, contesta che si possa parlare di "distorsione". Essa tende ad interpretare gli assunti tradizionali entro l'ambito complessivo della relazione tra terapista e paziente. Una posizione caratterizzata da questi assunti, di fatto, si configura, anche se ciò non sempre è denunciato a chiare lettere, come "intersoggettiva" e, dunque, sembra implicare una riformulazione sostanziale del metodo e della teoria. In verità, questa seconda accezione di transfert non è affatto virtuale: è stata esplicitamente enunciata da Gill (1985, 1996) e sviluppata da Hoffman (1995), Mitchell (1998) e Renik (1993, 1996) dopo essere stata anticipata da Wolstein e Levenson,
Lo status quaestionis sarebbe dunque chiaro: a una posizione tradizionale, che perpetua l'impostazione concettuale del passato, si contrappone una posizione innovativa, che, passa dalla tradizionale connotazione intrapsichica a una concezione specificamente intersoggettiva. Il paesaggio tuttavia non è così semplice. Il drappello dei "costruttivisti" progressivamente si allarga, ma resta minoritario, mentre, d'altro canto, non sono più moltissimi i difensori dello "schermo neutro", se persino autori come Kernberg (1998) e Eagle (2000a) si dichiarano d'accordo con le critiche mosse alla posizione tradizionale. In realtà, la maggior parte degli operatori si colloca in un qualche punto di equilibrio tra il polo tradizionale e quello interattivo, sposando una posizione compromissoria, che, in genere, tende a mantenere l' essenziale della concezione tradizionale, incluse le nozioni di "ripetizione" e di "distorsione" ammorbidite, tuttavia, da una maggior "partecipazione" dell'analista, mentre la "spontaneità" è stemperata con l'idea che le reazioni transferali nascano anche da inferenze plausibili basate su qualche indizio necessariamente lasciato dall'analista (Eagle, 2000a). Essi si sforzano di utilizzare quegli elementi del quadro tradizionale, che danno qualche valenza alle istanze interazionali, modificando ad esempio la nozione di controtransfert o ridisegnando il suo rapporto con il transfert ("matrice transfert-controtransfert"), o introducendo una qualche forma di "relazione reale", (alleanza,
holding...)(4).
Una qualsivoglia sintesi compromissoria offre un facile bersaglio alla critica, ma ha, comunque, ottimi motivi per esistere. Essa offre, infatti, un modo di intendere e di procedere più adeguato alla situazione clinica rispetto alla concezione tradizionale, ma allo stesso tempo non così rischiosa, insicura e priva di riferimenti identificatori come quella radicale.
C'è tuttavia una ulteriore complicazione: una divaricazione trasversale taglia infatti ambedue i campi. L'assunto fondamentale dei costruttivisti è che la "realtà" non è qualcosa di obiettivamente dato, ma di costruito incessantemente. Esattamente come in epistemologia, esistono differenti livelli di assunzione di questo asserto; in ogni caso è distinguibile una accezione radicale (espressa recentemente da Mitchell (1998), che critica la pretesa tradizionale della possibilità di accesso da parte dell'analista alle dinamiche centrali concepite erroneamente come preorganizzate nella mente del paziente), da una assai meno radicale, che, salvaguardando la distinzione tra ontologia e conoscenza, non ha difficoltà a riferirsi a vari livelli di organizzazione nella mente. Questa non precisa linea di demarcazione si incrocia e salda con la assai più antica divaricazione tra quanti, in ambedue i campi, restano fedeli alla originaria impostazione freudiana, che si preoccupa delle "cause" oltre che dei significati e quanti si attestano su posizioni ermeneutiche, rifiutando l'impostazione "scientifica" del modello classico.
Il mondo dunque è assai confuso. Nell'impossibilità di distinguere e di analizzare criticamente le innumerevoli posizioni, che si collocano in modo variegato tra le opposizioni neutrale\interattivo e causa\significato, ci si può limitare a considerare criticamente le posizioni estreme. Quella tradizionale, in quanto si caratterizza per le nozioni di "ripetizione", "spontaneità" e "distorsione", appare difficilmente difendibile da un punto di vista logico e concettuale. La sua debolezza fondamentale consiste nel fatto che essa dovrebbe implicare logicamente il mantenimento del quadro metapsicologico. Ciò tuttavia non sempre è riconosciuto da quanti vi si attengono; accade così che anche autori che esplicitamente rinunciano alla metapsicologia si mantengono, tuttavia, fedeli alla concezione tradizionale. In questi casi, presumibilmente, la ripetizione, la distorsione e la spontaneità sono concepite come caratteristiche fenomeniche del transfert, intese cioè come "dati" osservati e verificati nella situazione terapeutica. Anche volendo sorvolare su questa fragilità teorica e metodologica, la concezione tradizionale mostra limiti assai gravi. Le nozioni di distorsione, di spontaneità e di non partecipazione dell'analista hanno subito critiche difficilmente controvertibili(5). Più complessa è la questione della "ripetizione", che, verosimile e logica nel quadro dell' apparato freudiano, risulta poco comprensibile, non verificabile e comunque tale da risolvere in modo rigido la questione del rapporto tra passato e presente. A fronte di questa fragilità concettuale, la posizione tradizionale ha tuttavia un merito: essa intende salvaguardare una "specificità" del transfert che, forse non a torto, quanti si attestano su questa posizione ritengono pericolosamente messa a rischio nelle concezioni interattive.
La posizione interazionista appare più accattivante, comprensibile e verosimile, almeno a quanti abbiano smesso il lutto per la metapsicologia. Disegna una visione più equilibrata della situazione terapeutica e si inquadra più agevolmente nell'orizzonte epistemologico attuale in quanto supera l' oggettualismo ingenuo della concezione tradizionale. Consente una più ragionevole articolazione del "passato" e del "presente", della "realtà interna" e di quella "esterna"; considera gli apporti di ambedue i contraenti e pone in primo piano la co-costruzione dei transfert. Appare così più flessibile e maneggevole. A fronte di questi vantaggi, tuttavia, essa si è dimostrata incapace finora, di indicare il quadro delle variabili e di esplicitare un modello formale. In virtù dei suoi presupposti epistemologici sembra, infatti, implicare sostanziali modificazioni non solo nella problematica del transfert, ma nell'impianto teorico generale e nella concezione complessiva del metodo. A fronte di questa debolezza essa ha il vantaggio di non nascondersi i problemi e di non rifuggire da una eventuale necessità di riformulazione dell'intera disciplina nei suoi aspetti metodologici, teorici e tecnici.
Non esistono purtroppo criteri né empirici (al di là del poco affidabile ricorso all'esperienza clinica) né teorici (la teoria classica è defunta; gli interazionisti non hanno prodotto una teoria formale) per orientarsi in questa tela di ragno. L'unico strumento affidabile in situazioni come questa dovrebbe essere l'indagine storico-critica, che consentirebbe di ricondurre ogni concetto alla sua genesi e alla sua trama teorica, impedendo quel trasformismo concettuale, che ha reso equivoca gran parte della terminologia. L'indagine storico-critica, però, è assai poco frequentata in psicoanalisi se si esclude la straordinaria stagione rapaportiana(6).
La via più spesso battuta è quella indicata, con molte buone intenzioni, da Wallerstein che, accettato il pluralismo delle prospettive teoriche e identificato un "terreno comune" nel trattamento del transfert e del controtransfert (Wallerstein, 1988), invita a spostare l'attenzione dalla diversità delle "metapsicologie esplicative" al terreno comune della teoria clinica e dell'esperienza poiché la differenza delle teorie non è in contrasto con una teoria clinica condivisa, con il metodo clinico fondamentale e con dati di osservazione comuni (Wallerstein, 1990).


2. Alcuni equivoci (apparentemente) invincibili

Wallerstein evita di considerare che da un secolo non si è mai fatto nulla di differente: quel metodo clinico fondamentale, quei dati di osservazione comuni e quella teoria clinica condivisa, sono esattamente gli ingredienti che hanno prodotto il "pluralismo delle teorie generali" mentre, d'incanto, dovrebbero ora funzionare da base sicura, su cui modellare una struttura teorica "scientifica". Per questa via, oltre alla moltiplicazione delle teorie, è nata, invece, una selva di equivoci. Quelle che Wallerstein indica come teorie generali o "metapsicologie" (post-psicologia dell'io, kleinismo, relazioni oggettuali, psicologia del sé, teoria postsullivaniana, Schafer...) sono in realtà semplici "teorie cliniche". E' il primo equivoco. Il secondo, si annida nell'idea che si possa parlare di dati o di eventi in modo esente da teoria.
Fu Rapaport (Wallerstein fa riferimento a G. Klein e Sandler) a precisare in tempi non sospetti la distinzione tra teoria generale e teoria speciale. Quest'ultima, che implica la psicodinamica e la teoria clinica, è una teoria con un assai minore grado di astrazione e ha il ruolo di connettere le astratte formule della teoria formale al caso concreto e singolare. Delle teorie citate da Wallerstein, solo la psicologia dell'Io e la teoria kleiniana fanno riferimento alla metapsicologia freudiana (l'unica esistente); le altre o la rifiutano espressamente o, nel caso della cosiddetta teoria delle relazioni oggettuali, non precisano in modo unitario la propria posizione. Non risultano altre metapsicologie, ma solo teorie cliniche assai poco formalizzate che si rivelano in realtà generalizzazioni tratte da casi clinici di scuola generosamente intessute di interpretazioni, inferenze e congetture incontrollate. Wallerstein fa però riferimento a un livello più basso di esperienza, una sorta di pratica quotidiana, che egli suppone comune in base ad argomentazioni sui casi. Ciò sembra inesorabilmente implicare il secondo equivoco e cioè che si possa agire, raccogliere dati e argomentare su eventi ed esperienze a prescindere dalle teorie. Gill (1996) ebbe modo di criticare in modo assai sferzante e definitivo questa assunzione, che tuttavia è assai presente nella letteratura e nel modo di pensare degli psicoanalisti, soprattutto per quanto attiene a un dato così "evidente" come il transfert. Anche questa evidenza però è frutto di un equivoco e cioè dell'idea che il transfert sia un "fenomeno" tranquillamente osservabile e percepibile da chiunque voglia, senza partito preso, prendere atto di quanto accade in una qualunque seduta psicoanalitica(7). Questa convinzione ha una lunga storia. Fu Freud stesso a dare il via all'equivoco, quando cominciò a trattare il transfert come un fenomeno interveniente inevitabilmente (e anche fastidiosamente) in ogni terapia. Da allora, il transfert non ha più smesso l'abito fenomenico. Non è difficile comprendere da un punto di vista storico-critico i motivi di questa visione freudiana; essi hanno a che fare con i suoi presupposti naturalistici e oggettualistici. Malgrado la convinzione di Freud, tuttavia, il transfert non può essere ascritto alla classe dei fenomeni. Qualunque sia la natura del "fenomeno", cui si riferisce, il transfert è un costrutto teorico, un concetto metapsicologico, di cui è facile ricostruire genesi, struttura topico-dinamica(8) e funzione nell'ambito della complessiva teoria freudiana del metodo(9). Le attribuzioni irrealistiche, distorsive e fantasmatiche, che la letteratura legge come fenomeniche, lungi dall'essere caratteristiche descrittive sono, in realtà, connotazioni che la teoria topico-dinamica esige siano presenti nel fenomeno, perché questo possa essere descritto e spiegato nei termini del concetto di transfert. Si tratta, dunque, di "caratteristiche" della teoria, non del fenomeno(10).
E' un equivoco assai grave, che incide pesantemente sulla struttura stessa del dibattito. Se il transfert è un "fenomeno", la discussione dovrebbe riguardare la sua corretta descrizione e, in questo caso, avrebbe senso riferire osservazioni e dati, che dovrebbero consentire una più corretta fotografia del fenomeno. Se, invece, è un concetto, allora le descrizioni, le osservazioni e il ricorso ai "dati" dovrebbero essere considerati irrilevanti riguardo al merito del problema, che dovrebbe, invece, riguardare la struttura concettuale, la sua solidità critica, la sua coerenza interna e la sua relazione con un modello teorico accettabile. Di rimando, se il transfert è un fenomeno, i tentativi di riformulazione o la messa in discussione di questo o quell'altro punto rischiano di apparire, a quanti vedono in modo chiaro e distinto il fenomeno, come un incomprensibile e illogico tentativo di cambiare il corso naturale delle cose, un'insana tendenza a voler convincere l'uditorio che le galline ragliano e gli asini covano.
La presunta natura fenomenica del transfert si dimostra, purtroppo, una straordinaria levatrice di equivoci. Se il transfert è un concetto, il suo ecosistema concettuale sarà il modello freudiano e cioè quella teoria della mente o della "macchina psichica" descritta da un punto di vista strettamente intrapsichico, in cui appunto ha senso una "ripetizione", che in quanto "trasferita" risulterà "fantasmatica" e "distorsiva". Visto che i cultori della teoria pulsionale sono diventati più rari del panda, si deve pensare che gli autori non utilizzino il concetto di transfert nell'ambito del quadro metapsicologico. E allora in quale? in che modo un concetto costruito per rendere conto di una singolare prestazione della macchina psichica colta da un punto di vista strettamente intrapsichico può circolare nel dibattito attuale in cui pare si debba ammettere che paziente e terapista non possono non interagire e in cui, i riferimenti alla soggettività e all'intersoggettività sono espliciti oltre che insiti nella natura delle cose?
Il transfert circola in questi contesti grazie a un ulteriore equivoco e cioè grazie alla tacita omologazione di "intrapsichico" e "intrasoggettivo". Con questo semplice accorgimento il vecchio concetto può tranquillamente circolare come moneta di scambio in un contesto, che, almeno ufficialmente, sembra aver rinunciato alla macchina freudiana. Gli interazionisti sanno naturalmente di osservare a partire da un punto di vista intersoggettivo\intrasoggettivo, ma chi non è interazionista e anzi critica gli asserti del costruttivismo, da che punto di vista osserva? Il punto di vista intrapsichico fu introdotto da Freud, come è noto, proprio per eliminare ogni possibile fraintendimento "intrasoggettivo" e "intersoggettivo": infatti, è il punto di vista intrapsichico che giustifica la posizione naturalistica di lettore "neutrale" degli eventi psichici al di là del chiassoso mondo epifenomenico del soggettivo e dell'intersoggettivo.
Eppure in questo mosaico di equivoci c'è un solido argomento a favore dell'idea di un "terreno comune". Due tra i dati più solidi della ricerca empirica sulla psicoterapia sono: a) che il risultato non è correlato né alle teorie né alle tecniche, ma piuttosto a variabili legate alla persona del terapista; b) che il risultato è equivalente per un vasto numero di psicoterapie indipendentemente dalle teorie e dalle tecniche (il cosiddetto verdetto di Dodo). A partire da questi dati (non inequivocabili, ma comunque assai solidi) si potrebbe pensare che effettivamente qualcosa di comune accada in tutte le botteghe che si aprono sul foro della psicoterapia e non solo in quelle "psicoanalitiche". Potrebbe trattarsi, tuttavia, di qualcosa di comune, ma estraneo alla teoria clinica evocata da Wallerstein: cioè qualcosa di comune a tutte le corrette interazioni terapeutiche a prescindere dalle intenzioni teoriche e tecniche, da cui i singoli terapisti si lasciano guidare e con cui raccolgono "dati" da utilizzare nei dibattiti e nei congressi. Potrebbe, cioè, trattarsi di fattori ed eventi propri dell'interazione terapeutica in quanto tale e, dunque, di natura assai differente rispetto a quelli evocati dalle teorie benché, per altro verso essi potrebbero rivelare qualche parentela con il transfert, il controtransfert, la neutralità, il coinvolgimento, l'identificazione proiettiva o l'enactment.
Se questa congettura è verosimile, gli interazionisti risulterebbero, più dei tradizionalisti, vicini alla meta, ma c'è un ulteriore equivoco: anche per l'interazione è necessario chiedersi se si tratta di un fenomeno o di un concetto. E' noto che l'imperialismo transferale subì una prima restrizione quando Greenson (1969) introdusse la distinzione tra transfert e relazione reale. Negli ultimi due decenni del secolo, le nozioni di relazione reale o di alleanza di lavoro o terapeutica si sono imposte sino a una giustapposizione "transfert e relazione" o persino a una contrapposizione "transfert\relazione", anche se oggi si preferisce il termine interazione. Il termine interazione (o anche quello di "relazione") ha due significati che non pertengono allo stesso livello logico: anzitutto denota da un punto di vista descrittivo la totalità degli eventi verbalizzati o no, consapevoli o no, che avvengono nella seduta e, dunque, la totalità dell'evento interattivo, che potrebbe essere documentato da una ripresa audiovisiva. Se però interazione è intesa, esplicitamente o implicitamente, come un fattore o una classe di fattori attivi nell'ottenere il cambiamento, allora è un concetto esplicativo esattamente come "transfert". Ciò accade naturalmente tutte le volte si afferma che i significati si "costruiscono nella relazione" o si ascrive il cambiamento a una nuova esperienza emozionale, in contrapposizione all'asserto tradizionale sull' interpretazione e l'insight, ma anche tutte le volte che si attribuisce una valenza terapeutica all'empatia, all'holding, al coinvolgimento o si fa riferimento a una classe di fattori terapeutici relazionali.
In tutti questi casi "relazione" o "interazione" hanno valenza esplicativa. Ogni concetto esplicativo, però, è tale nell'ambito della trama della sua teoria. Il transfert insiste sulla teoria topico-dinamica; ma quale teoria supporta i concetti di relazione o di interazione? Una teoria formale di tal genere non risulta nel panorama. Gli apporti dei costruzionisti sociali, pur meritevoli, sono lontani dal potersi porre come teoria o addirittura come paradigma. Allo stato l'affermazione che il cambiamento avviene per l'azione di fattori propri dell'interazione terapeutica non è che l'inizio di una concettualizzazione in quanto esprime il bisogno o l'intenzione di definire un quadro di fattori e di descriverne l'azione in un qualche modello. In mancanza di una teoria definita, un concetto in genere si sostanzia con una teoria implicita o, più spesso, con il semplice buon senso; nel caso in questione si ricorre a un prodotto già pronto e cioè al transfert. Conseguentemente il transfert, nato per nuotare nella sua acqua topico-dinamica si trova inopinatamente a galleggiare in un inconsueto mare intersoggettivo, utilizzato ambiguamente dai tradizionalisti, per trasferire(!) nel nuovo, il vecchio mondo intrapsichico della macchina o il teatro ambiguo degli oggetti, dagli interazionisti per esprimere la dinamica interazionale, in cui si costruiscono le esperienze e i significati. Così l'equivoco impera sovrano!
Per evitare questo reticolo di trappole, sarà utile stabilire i limiti entro cui la discussione, che si snoderà nelle prossime pagine, dovrà mantenersi:
1. Oggetto della discussione è l'interazione terapeutica, che costituisce l'unica realtà fenomenica osservabile e documentabile: è ciò che deve essere spiegato.
2. Il punto di vista è esclusivamente intersoggettivo\intrasoggettivo.
3. L'ambito teorico-concettuale è quello di una costruenda teoria dell'interazione terapeutica.
4. Entro questo spazio il termine "transfert" è usato (salvo ove riferito alla concezione classica) come semplice denotazione del problema di cui si sta trattando, noto nella letteratura appunto come "transfert".
5. A scopo puramente strumentale si introduce la provvisoria nozione di "cosa" transferale a indicare l'oggetto specifico della concettualizzazione.
6. Tale "cosa" transferale si colloca nella tessitura dell' interazione. Coerentemente con la visione classica, essa è intesa avere una specificità distinta dalla totalità della relazione terapeutica, ma coerentemente con la posizione costruttivista non è intesa in contrapposizione con la relazione.
7. Nella scelta delle congetture si dovrà tener presente l'operazionalità per consentire osservabilità e conferma o disconferma empiriche.
8. Infine, è severamente ... vietato, "introdurre cose nella testa delle persone" (Bateson): immagini, oggetti, relazioni, odi o amori inconsci, ecc.


3. Vissuto e costruzione del vissuto

In questo tentativo di riformulazione ci concederemo una congettura teorica generale. Partiamo cioè dall'assunto che le interazioni tra il terapista (T) e il paziente (P), man mano si auto-organizzano come un sistema complesso (Sistema T\P), che coordina le modalità operative dei due sottosistemi T e P e le caratteristiche della situazione (luogo, orario, setting...). Alla luce di questo assunto l'interazione è sempre interazione dell'intero sistema (punto di vista intersoggettivo), che, però, può essere studiata anche a partire dal punto di vista di ognuno dei due sottosistemi P e T (punto di vista soggettuale e intrasoggettuale). Nello studio di qualunque interazione in quanto evento tra due o più soggetti si può inoltre distinguere (Scano, 2000) ciò che effettivamente accade (interazione) da quanto è detto accadere attraverso qualunque tipo di percezione, racconto, interpretazione, spiegazione o teoria (metainterazione).
L'argomentazione sarà condotta tramite l'utilizzazione del metodo situazionale di Popper, la cui applicabilità alla psicoterapia è stata discussa da G. Cadeddu (1995). Secondo Popper la conoscenza e l'evoluzione della conoscenza si inquadrano nella evoluzione biologica generale, di cui condividono la logica. La conoscenza non parte dall'osservazione, ma da problemi da risolvere(11). Il processo conoscitivo si sviluppa secondo lo schema: PP1 --> TT --> EE --> PP2 -->.
A partire da situazioni problematiche (PP), si elaborano congetture di soluzione (TT), che vengono saggiate alla prova dei fatti; eliminando gli errori (EE), si passa a situazioni problematiche di nuovo livello (PP2) . Questo procedimento per tentativi ed errori, congetture e confutazioni, è lo schema della evoluzione biologica, psicologica e culturale, ma anche del processo di conoscenza quotidiana e scientifica. La spiegazione dell' azione di un soggetto segue la stessa logica e si configura come lo studio e l'analisi critica del contenuto oggettivo e della struttura di quel particolare prodotto del mondo 2 che sono le intenzioni e le valutazioni. Questo metodo di spiegazione è noto come analisi situazionale.
Per esempio, la signorina P, in prossimità del suo matrimonio, è colta da improvvisi attacchi di panico, che inducono uno stato di spavento diffuso e di estraniamento sino all'instaurarsi di un preoccupante vissuto depressivo. La signorina consulta un terapista e comincia una psicoterapia.
Possiamo schematizzare la situazione utilizzando la formula di Popper: L'attacco di panico può essere considerato un' azione, che consegue a una situazione problematica (PP1), che è stata affrontata dalla signorina sulla base di una sconosciuta teoria (TT1); l'insieme del processo conduce a un problema nuovo, il panico, la depressione e il viversi come in un vicolo cieco (PP2), per la cui soluzione la signorina si rivolge al terapista. Per comprendere e risolvere PP2 (panico), il terapista dovrà ricostruire PP1 (problema di partenza) e TT1 (teoria della signorina), il che rappresenta un problema di secondo livello, cioè una meta-comprensione della comprensione della signorina e delle congetture che hanno motivato la sua azione. Si può perciò indicare il problema, dal punto di vista del terapista, come un problema di comprensione (PPc). Rispetto a PPc, il terapista formulerà delle congetture e dovrà eliminare, forse, molti errori, giungendo a un nuovo problema PPc1 e così via. Man mano che la terapia procede il terapista e la signorina collaboreranno a risolvere il problema PP1 della signorina e quello PPc del dottore nel comune tentativo di risolvere la depressione e il panico, ma in questo processo succederanno inesorabilmente degli imprevisti. Un giorno, per esempio, la seduta comincia con qualche minuto di ritardo a causa di una telefonata, che ha trattenuto il dottore. La signorina tace a lungo, poi, in modo inatteso, comincia a singhiozzare; tra le lacrime con voce alterata dice: "lei in realtà non si interessa di me; fa il suo lavoro e io sono soltanto uno dei suoi casi". Dopo un rispettoso silenzio, il terapista commenta: "forse, le è capitato spesso, in passato, di sentirsi poco considerata". La signorina solleva gli occhi lucidi e continuando a piangere racconta che, proprio ieri, come al solito, sua madre le ha telefonato solo perché aveva bisogno di essere accompagnata dal medico.
La comprensione di questa sequenza di azioni è un problema di ordine differente rispetto a PP1, a PP2 e a PPc; è un problema che nasce nel processo di soluzione e che deve essere risolto per poter riprendere la collaborazione necessaria a risolvere i problemi in vista della cui soluzione è stata avviata la terapia. Si tratta di un problema del processo di soluzione (PPsn), che segue la stessa logica situazionale, che informa l'azione di ambedue gli attori del processo e il processo stesso da essi costruito.
Dal punto di vista soggettuale, in cui anzitutto ci collochiamo, si tratta di spiegare il vissuto, la protesta e l'accusa della signorina nei termini della sua organizzazione. La posizione classica identifica la "cosa" transferale in ciò che di "irrealistico" e "distorsivo" si manifesta in questa comunicazione e la spiega tramite una ripetizione da un antico contesto. Naturalmente è possibile, che da un punto di vista astratto o di buon senso, un vissuto possa essere ritenuto "irrealistico", ma la considerazione intrasoggettiva, così come quella intrapsichica, non ha alcuna strumentazione per stabilirlo. A parte, forse, i casi estremi, (per i quali si dovrebbe però parlare, forse, di "sintomi"), non si vede, infatti, quali criteri possano essere fissati per poter formulare tale giudizio, in modo neutrale e non autoritario. In secondo luogo, la spiegazione della "distorsione" con la "ripetizione", da un lato, sembra esigere una "mente" che funzioni come l'apparato psichico freudiano e, da un altro lato, utilizza una congettura, che si qualifica da sé come non controllabile. Infine, nell'interazione esemplificativa, al di là di ogni "distorsione" riguardo alla partecipazione "interessata" o "disinteressata" di T, resta comunque vero che la signorina è effettivamente "uno dei casi" del suo terapista, il quale (con il particolare del ritardo) sta effettivamente svolgendo il suo lavoro.
Se ci si sforza di eludere per un momento la forza vincolante delle consuete abitudini esplicative, si può, forse, trovare che non è necessario fare ricorso a ipotesi così scivolose come la ripetizione e la distorsione per spiegare la protesta della signorina. E', infatti, possibile, sulla base della configurazione complessiva del suo personaggio, della conoscenza della sua storia e delle modalità con cui, in genere, costruisce i suoi contesti, formulare delle congetture, che spieghino come e perché all'interno della sua contestualizzazione, tale comunicazione possa essere considerata ragionevole. Si possono cioè congetturare delle "teorie", in qualche modo formulate dalla signorina, che possono giustificare e rendere logicamente comprensibile il suo comportamento senza alcun bisogno di ipotizzare una difficilmente giustificabile "ripetizione". Nel fluire dei vissuti e dei comportamenti della signorina è anche possibile identificare delle ridondanze, per esempio una tendenza a esperirsi poco considerata, in contesti che al terapista potrebbero anche sembrare irrealistici, ma che potrebbero essere del tutto comprensibili all'interno delle teorie della paziente.
Si può, così, avanzare, provvisoriamente, la seguente formulazione, che tende a tradurre la problematica del transfert, da un punto di vista, per il momento, esclusivamente soggettuale(12), ma tenendo, fin da ora presente la possibilità di descrivere le procedure operative necessarie per congetturare un "transfert":
ciò che è stato inteso come transfert è una ridondanza modulare dell' azione di P; più in particolare, é una ridondanza nella sua modalità di contestualizzazione e, conseguentemente, nel suo vissuto e nella sua azione. Tale modularità è effetto dell'esercizio delle regole di costruzione dei contesti. Tali regole sono inferibili dal comportamento e in particolare dall'analisi degli isomorfismi riscontrabili:
1. nella struttura dell'organizzazione sistemica di P ricavata dall'analisi della sua narrativa (in particolare riguardo ai livelli prossimi al problema di P): livello soggettuale e intrasoggettivo;
2. nella struttura delle sue relazioni intersoggettive ricavata dall'analisi anamnestica, dalle sue vicende e dalla sua organizzazione di vita: livello intersoggettivo
3. nella struttura dell'interazione tra P e T dal punto di vista delle contestualizzazioni di P e della conseguente intenzionalità dei suoi scopi e delle sue azioni: livello dell'interazione "qui e ora".
Questa riformulazione implica:
a) che il transfert è una modularità inferita, che concorre a regolare e formare il fluire dei vissuti e dei comportamenti di P in relazione al contesto;
b) che tali modularità e ridondanze derivano da una organizzazione, la cui configurazione e le cui regole possono essere inferite con l'analisi delle tre strutture indicate come isomorfe;
c) che tale isomorfismo emerge dalla deriva storica degli accoppiamenti strutturali (Maturana e Varela, 1992)(13) tra l'organismo e il suo ambiente ed è, dunque, un precipitato della storia dell' organizzazione del sistema, che in quanto tale tende ad autoconfermarsi e alimentarsi;
d) che le manifestazioni modulari o le ridondanze nel fluire del vissuto o nelle vicende del "personaggio" non sono interpretabili come "ripetizioni", ma piuttosto come l'azione di una organizzazione, che costruendo la sequenza dei presenti acquisisce e meta-apprende una modalità relativamente fissa di "costruzione dei presenti", che sono parte integrante della propria auto-organizzazione e auto-costruzione;
e) che l'attività modulare è analizzabile sia al livello di microevento e microinterazione sia a livello di macro-organizzazione degli eventi e delle interazioni;
f) che tale modularità è in genere inconsapevole, che il risultato di tale processo è in genere consapevole, ma tale da celare, molti livelli, anelli o significati, che restano inconsapevoli.
Questa concezione consente di superare le contrapposizioni classiche (presente\passato, reale\irreale, spontaneo\reattivo) e di spiegare la determinazione del passato nella costruzione del presente senza dover assumere un funzionamento difficilmente giustificabile della "mente", evitando ogni ricorso a spiegazioni essenzialistiche e a concezioni della "realtà" (della realtà "psichica" e della realtà "reale") difficilmente armonizzabili con le epistemologie post-positivistiche. Il presente può essere, infatti, concepito come intessuto mediante l'esercizio di regole, che costruite nel passato costruiscono ogni "presente". In questo senso un eventuale effetto "distorsivo" non sarebbe frutto di una persistenza essenzialistica del passato, ma piuttosto dell'unilateralità, rigidità e chiusura delle regole della organizzazione. Non si tratterebbe di "proiezioni" autoctone del paziente, ma dell'esercizio di una modalità funzionale propria di tutti i sistemi "Io" (compreso quello del terapista), che costruiscono la realtà tramite l'esercizio di regole meta-apprese nel costante esercizio di costruzione della realtà. L'aspetto idiosincratico, così sottolineato dalla teoria del transfert, non è del tutto espungibile, in quanto corrisponde alla natura di singolarità, che ha ogni costruzione di un Io nell'ambito della deriva storica di un soggetto. Una tale concezione consente anche, come si vedrà più avanti, di considerare il ruolo del contesto e di T nella costruzione dei transfert.
Si tratta ora di vedere se, in questa dotazione di regole, aspettative e teorie, è possibile identificare in modo più preciso una "cosa" transferale. La signorina P, come tutti i sistemi viventi, ha strutturato una serie di regole e una gerarchia di risposte. Si potrebbe pensare che questa organizzazione sia la "cosa". Noi tutti disponiamo di un tale repertorio. Se il nostro treno è in sosta in una stazione intermedia e se improvvisamente il treno del binario accanto, prende a muoversi, facilmente cadiamo nell'inganno che sia il nostro veicolo ad essere ripartito. Se, poi, per avventura, vedessimo in movimento, anche il treno, che era fermo sul binario opposto, ci accadrebbe probabilmente di sperimentare una netta sensazione, anche fisica, di movimento. Il fatto è che il confronto con un punto immobile è una regola che il nostro cervello utilizza per identificare il movimento: se un punto "immobile" si "muove" il cervello inferisce un nostro movimento. La nostra aspettativa (in genere non consapevole) è che "se il fuori si muove e noi siamo all'interno di un veicolo, siamo noi a muoverci, mentre se stiamo fermi e un oggetto si muove in un contesto di oggetti immobili, è l'oggetto che si muove" ed è una aspettativa in genere corroborata dai fatti. Nel caso del "treno immobile che si muove" si può cercare un altro dato di controllo; in ogni caso non appena i due treni saranno usciti dal campo visivo, il nostro treno "si fermerà" nel nostro cervello. Conferme così decisive non sono, però, facilmente disponibili per la maggior parte delle nostre aspettative e attribuzioni relazionali di significato, che anzi tendono ad avere, per motivi che si possono facilmente congetturare, una conferma virtuale o talvolta anche reale, promossa non dalla correttezza della nostra congettura bensì dall' azione che dalla congettura scorretta è stata promossa. Se inferisco che il comportamento del signor Rossi è sgarbato e aggressivo e mi premunisco con adeguato sgarbo, è probabile che il signor Rossi si confermi sgarbato e aggressivo. Ciò che chiamiamo transfert sembra potersi attribuire all'azione di regole siffatte.
Questa impostazione del problema, tuttavia, invece di identificare una precisa "cosa" transferale sembra piuttosto sciogliere il transfert in un generale brodo di regole, aspettative e contesti, che modellando ogni azione di ogni soggetto, sembrerebbe svuotare di ogni specificità la nozione di transfert. Il fatto è che l' isomorfismo di base tra i sistemi T e P, che poggia, oltre che su un cervello sostanzialmente simile, sulla loro appartenenza agli stessi sistemi (dalla noosfera sino alla nazionalità, la lingua, la cultura e magari lo strato sociale), e sul loro essersi sviluppati in sistemi isomorfi (come la famiglia, la classe delle elementari, o il clan degli adolescenti...), fa si che, per buona parte, essi siano omologhi, mentre ciò che appare rilevante in termini conoscitivi e clinici, in una delimitazione dei transfert, è, semmai, quella caratteristica nella contestualizzazione e quella porzione delle regole di aspettativa e di inferenza, che sono idiosincratiche di P.
Continuando la ricerca della "cosa", potremo allora pensare che essa consista più precisamente nella automatica attivazione di queste aspettative, regole e modalità di risposta da parte della signorina P. Allora la "cosa" transferale sarebbe da identificare nella attribuzione a T di uno schema procedurale di relazione (in termini di percezione, anticipazione e conseguente vissuto) tratto non tanto e direttamente da un altro contesto (per esempio infantile), ma frutto dell'esercizio di un meta-appendimento e applicato automaticamente nel contesto terapeutico. Questa ulteriore identificazione e precisazione della "cosa" transferale appare persino logica e molto prossima alle concezioni tradizionali del transfert, ma, ad una analisi più attenta, si dimostra inutilizzabile e persino priva di rilevanza clinica e conoscitiva. Non si vede, infatti, come si possa identificare una "pura" azione di T, che possa essere assunta come neutro stimolo per la percezione di P, per la sua azione e per il suo vissuto "autonomo e spontaneo", né si può calcolare in alcun modo, al di là buon senso, un "indice di distorsione" o di scostamento da tale presunta, neutra azione o comunicazione di T.
L'ultima alternativa potrebbe essere quella di identificare la "cosa" transferale in quella porzione delle regole e aspettative che sono più direttamente implicate nella costruzione dei contesti relazionali e nei relativi vissuti, emozioni e comportamenti. Questa denotazione sarebbe tuttavia ingiustificata a meno di trovare delle regole specifiche per la costruzione di questi contesti, che risultino differenti rispetto a quelle utilizzate nella costruzione di tutti gli altri.
In tal modo l'unica "cosa" , che ci rimane tra le mani è la ridondanza nella costruzione dei contesti frutto dell'esercizio di regole relativamente invarianti. Si potrebbe, dunque, tagliare la testa al toro, e identificare tale modularità ripetitiva con la "cosa" transferale. Il fatto è, però, che tale ridondanza, anzitutto è una inferenza, una "teoria" o una costruzione di chi (analista o giudice terzo) osserva l'interazione, e, in quanto tale non è una "cosa"; in secondo luogo, è stato finora trascurato il punto di vista intersoggettivo di cui è necessario tener conto. Si può, tuttavia, concludere questa prima parte dell'analisi con alcune osservazioni:
1) Situandoci nel raggio di un'ottica soggettuale, è possibile ricavare nell'azione di un soggetto una ridondanza nell' esercizio delle regole di costruzione dei contesti e conseguentemente una modularità nella sua azione, nel suo vissuto e nelle sue modalità di interazione. E' anche possibile precisare delle procedure per disegnare questa mappa, infatti, esistono molti metodi per ricavare in modo operazionale simili costrutti(14). Il quadro di regole, aspettative e teorie che in questo modo si può ottenere non può, tuttavia, essere inteso come la "cosa" transferale, così come le leggi della visione non sono la "cosa" vista, ma concorrono a determinarla.
2) Tale modularità inferita potrebbe, piuttosto, essere indicata come la teoria predittiva di T riguardo a una certa classe di comportamenti di P, una specie di "previsione di transfert" dal punto di vista soggettuale. E' una costruzione dell'osservatore, una sua "teoria" sul funzionamento dell' osservato, che può o no essere confermata dalle successive interazioni. Tale previsione avrebbe una valenza puramente predittiva, ma molto utile sul piano clinico dato che le ricerche di Luborsky e di Weiss e Sampson concordano nel rilevare la maggiore efficacia degli interventi, che risultano coerenti con i contesti soggettivi dei pazienti.
3) Quanto appena esplicitato vale anche per il terapista. Anche nel suo comportamento è possibile rilevare modularità nella costruzione dei contesti frutto dell'esercizio di regole, non solo tecniche e "cliniche", ma anche di regole sue proprie con cui egli costruisce i suoi contesti personali, all'interno dei quali inesorabilmente si muove. Ciò, del resto è riconosciuto dalla psicoanalisi, seppure ancora in senso "distorsivo", con l'importante concetto di controtransfert.
4) Infine, la ridondanza, osservata e inferita da un punto di vista intrasoggettuale nel comportamento dei due elementi della diade terapeutica, non può essere forzosamente ritagliata dall'insieme dell'interazione e, dunque, dalla più generale ottica intersoggettiva.


4. La co-costruzione dei vissuti

Se si introduce questa ulteriore considerazione, la comunicazione della signorina, da cui questa argomentazione ha preso le mosse, non appare come un prodotto autoctono, ma piuttosto come un elemento del tessuto interattivo, qualcosa che si produce all'interno del "gruppo di due" e non può essere ritagliata e delimitata a piacere dal contesto intersoggettivo. Come è già stato notato, infatti, anche a voler prescindere da ogni altra partecipazione del terapista, è comunque vero che la signorina è "uno dei suoi casi", che egli sta svolgendo il suo lavoro e che, nello specifico, ha ritardato l'inizio della seduta. L'assunto intersoggettivo implica che le percezioni, le azioni e i vissuti di entrambi sono da assumere come co-determinati dall' azione di ambedue. Conseguentemente, anche a prescindere dalle difficoltà incontrate nel tentativo di individuare la "cosa" transferale, questo ulteriore punto di vista impone che essa non possa essere ascritta a qualcosa di proprio o di interno a P o a T, ma che debba piuttosto essere intesa come qualcosa che accade "tra" loro.
In tal modo, però, la logica dell' argomentazione sembra condurre a un punto morto: non solo il transfert sembra doversi ridurre a una inferenza dell'osservatore, ma sembra anche dissolversi e sciogliersi nella trama complessiva dell'interazione di modo che non si riesce a delimitare alcuna "cosa". Il punto morto, tuttavia, è solo apparente e dipende dalla nostra abitudine a cercare la "cosa" nella mente del soggetto. La concezione classica, in virtù del funzionamento della macchina psichica e del punto di vista naturalistico, schiacciava l'intersoggettivo nell'intrapsichico, trasfigurandolo nella relazione fossile infantile, che costituiva appunto la "cosa transferale", mentre la visione relazional-oggettuale lo comprime nell' "oggetto interno", che spiega l'azione rivolta a quello esterno.
Avendo costruito una "mappa" previsionale delle regole della signorina P, possiamo riaccendere il registratore e riattivare il nastro virtuale, che fissa l'evento e cioè l' interazione con il terapista, in cui le azioni si susseguono co-determinate da ambedue. Si tratta di vedere se la considerazione del punto di vista intersoggettivo, permette una più corretta identificazione della "cosa" transferale. Da questo punto di vista più ampio ciò che si può osservare è un flusso costante di interazioni, che si interrompe alla fine di ogni "nastro" (di ogni seduta) per riprendere non appena si inserisce il successivo. Se si deve identificare una "cosa" transferale, essa dovrà presumibilmente essere individuata nella trama di questo flusso. Si pone così, anzitutto, il problema di distinguere quali sequenze debbano essere considerate "transferali" e di determinare un criterio che consenta di posizionare le interpunzioni discriminando tra sequenze "transferali" e "non transferali". Ciò potrà sembrare semplicistico, tuttavia, una decisione del genere, è implicita anche nella concezione tradizionale, che deve pur sempre decidere quali comunicazioni o azioni di P siano da considerare ripetizione distorsiva di un vissuto pregresso. Freud, per esempio, doveva decidere quali comunicazioni, atteggiamenti, azioni o sentimenti del paziente fossero da considerare "transfert positivo" e quali invece dovessero essere interpretati come "transfert resistente". Analogamente quanti distinguono tra "alleanza terapeutica" (o "relazione reale") e "transfert" avranno a che fare con una analoga decisione. Per ogni posizione si pone anche il problema di stabilire un quadro di criteri precisi per riconoscere i "transfert" e prendere queste decisioni.
La traduzione della problematica transferale in termini di contesto e regole di contestualizzazione presenta a questo punto un inatteso, duplice vantaggio. Anzitutto, consente di rendere senza forzature logiche il senso profondo dell'assunto tradizionale secondo cui "tutto è transfert" e secondo cui il transfert è sempre presente sin dal primo contatto tra T e P. Infatti, la costruzione di qualsiasi contesto implica sempre l'intero sistema delle regole e, in particolare implica sempre l'azione di quelle cui si deve attribuire la determinazione dei significati importanti per il soggetto e che, per esempio, determinano la decisione di entrare o non entrare in una relazione o il livello a cui entrarci. Questa attività di contestualizzazione e di attribuzione di significato è costante in ambedue i componenti della diade terapeutica, lungo tutto l'arco della nostra collezione di "nastri" anche se non sarà sempre rilevabile allo stesso modo. In molte circostanze potrebbe agire, per esempio, per lo più come un "rumore di fondo" avvertibile più come assenza che come presenza, per emergere in primo piano se e quando un elemento perturbatore avesse attivato una regola vincolante di P, innescando un contrasto e lacerando un contesto condiviso.
I contesti man mano costruiti rispettivamente da P e da T si incontrano, infatti, in una sorta di interfaccia virtuale che costituisce la "linea del presente". Essa testimonia di volta in volta e in ogni "presente" la situazione intercontestuale: talvolta evidenzierà, un contesto condiviso come in questo momento, in cui la signorina P lavora alacremente sul sogno, che ha appena raccontato, altre volte uno non condiviso come quando la paziente si lamenta del disinteresse di T. Vi saranno anche situazioni, in cui un contesto è solo apparentemente condiviso e, al di là di ciò, vi è sempre un contesto del contesto che come una scatola più ampia contiene e governa lo scorrere dei contesti. Come è possibile cogliere delle ridondanze nelle contestualizzazioni di P osservato da un punto di vista soggettuale, così sarà possibile cogliere delle ridondanze e degli isomorfismi nei contesti condivisi o non condivisi dei due attori e nel loro rapporto con il contesto del contesto. E dunque, e questo è il secondo vantaggio, la prospettiva contestuale consente di trascegliere tra sequenze "transferali" e non, mediante criteri osservazionali e senza incorrere nelle contraddizioni logiche proprie della giustapposizione "transfert-relazione". In questa ottica è possibile indicare, finalmente e con una certa precisione una "cosa" transferale, che può essere identificata in particolari e ridondanti configurazioni dell'interazione, che potranno essere descritte e spiegate sia in termini intersoggettivi, come co-costruzione dei due attori, sia in termini intrasoggettivi, nei termini dei contesti e delle teorie proprie di ciascun soggetto. Anche in questo caso, tuttavia, non si avrà a che fare con "cose" da collocare in qualche anfratto della mente, bensì con l'esercizio di regole.
In modo più concreto e più facilmente punteggiabile, e senza dover incorrere in scivolose assunzioni relative all'ontologia delle "cose", l'esercizio del metodo situazionale permette di identificare una classe particolare di problemi, i problemi del processo di soluzione, che nell'ambito del metodo hanno la stessa funzione, che il metodo classico attribuiva al transfert. Tale categorizzazione, permette di dare un ruolo sia ai fattori "transferali" (regole, anticipazioni, teorie) propri di P sia agli accadimenti "transferali", che si materializzano nel qui e ora come tessiture dell'intreccio intersoggettivo e come precipitato necessario del processo di risoluzione dei problemi tramite l'interazione di due soggetti. Il metodo, consente anche di comprendere la colorazione resistente, che tali accadimenti assumono secondo quanto la tradizione ha sempre affermato.
Un breve esempio, tratto da un caso in supervisione, può essere utile per illustrare la nozione di "problema del processo di soluzione". M è un giovane psicologo. Comincia la seduta, affermando di sentirsi molto arrabbiato e racconta un fatto relativo al cane di casa, che, durante i temporali, cerca protezione all'interno e, nella stanza un tempo occupata dal fratello, si tranquillizza. Quella notte, nel corso di un temporale, M ha aperto la porta di tale stanza, ma suo padre ha cacciato bruscamente il cane e chiuso a chiave la porta. L'animale ha uggiolato per gran parte della notte impedendo al paziente di dormire. M. è arrabbiato per il comportamento del padre, che ha un atteggiamento incomprensibile: tratta il cane come se potesse intendere ragioni, come se non fosse un cane e potesse aderire ai suoi "così dev'essere". Più avanti il terapista osserva che, nel comportamento del padre, egli ha forse riconosciuto un modo di fare che suo padre potrebbe aver esercitato anche con lui. M accetta l'osservazione e si sofferma sul suo rapporto col padre, cui egli ritiene debba connettersi la sua necessità di emergere e di fare cose importanti oltre alla sua invincibile tendenza ad essere trasgressivo. Ambedue questi temi sono stati spesso oggetto di analisi. Il terapista ricorda così che sono stati evidenziati due aspetti nella sua attitudine "trasgressiva": uno, che M considera una virtù, e cioè la sua capacità, curiosità e tendenza a vedere le cose da punti di vista inconsueti e un secondo aspetto, che spesso lo porta, invece, ad azioni o gesti che si traducono in un autodanneggiamento. M assume improvvisamente una espressione tesa; il volto diventa pallido; tace per qualche tempo finché dice seccamente: "sembra che non ci comprendiamo più". T, per quanto colpito dalla intensità della espressione, ancora convinto di aver soltanto ricordato cose già acquisite, sorride (nelle sue intenzioni) bonariamente. M si chiude in un cupo silenzio. Finalmente T capisce di non capire e dopo un certo lasso di tempo osserva : "Qualcosa di quanto ho detto lo ha disturbato o non le è piaciuto"... aggiungendo che questa situazione appare simile a una precedente che creò un grave problema nella relazione. M continua a tacere e sembra sempre più teso così il terapista interviene ancora suggerendo che forse M ha vissuto come giudicante l'osservazione riguardo alla trasgressione (per M il suo essere trasgressivo è parte essenziale dell'identità).Egli nega che si tratti di questo. Sembra disporsi a parlare. E' visibilmente in difficoltà. Dice che si vergogna... dato che si tratta di una sciocchezza. E' stato il sorriso del terapista. La vergogna, spiegherà più avanti era dovuta alla paura che il terapista ridesse di nuovo. La chiarificazione non risolve del tutto la questione e l'elaborazione si prolungherà nella seduta successiva.
Questo frammento d'interazione non è un esempio né di transfert né di problema del processo di soluzione; è solo la narrazione, peraltro molto filtrata, di un evento che può essere letto e spiegato nei termini della teoria classica o della logica della situazione (ma anche di "identificazione proiettiva", di aspettativa inconscia ecc.). Al principio ambedue gli attori si muovono in un contesto di collaborazione: M racconta ed esprime la sua rabbia al terapista, che lo ascolta. Presumibilmente si sente compreso e, infatti, raccoglie volentieri l'invito a spostare l'attenzione sul suo rapporto con il padre mantenendo la collaborazione. Il successivo intervento sui due aspetti della trasgressione, si situa (per il terapista) ancora in questa cornice, ma la risposta di del paziente (silenzio, tensione muscolare, pallore) segna una rottura, che viene anche verbalizzata: "Sembra che non ci comprendiamo più". Il terapista non si accorge o, meglio, sottovaluta il cambiamento di contesto e prosegue nel lavoro relativo al suo problema di comprensione finché il suo "sorriso" fa precipitare la situazione ed egli si ritrova improvvisamente a non capire, sentendosi egli stesso "non capito" mentre M, "colui che era capito", si trova a sperimentare una forte e non evidentemente motivata sensazione di "non comprensione". La risposta rabbiosa, tesa e cupa del paziente sembra costringere il terapista a entrare in un altro campo e a recitare una scena imprevista e non voluta. Egli si rende conto in ritardo del cambiamento avvenuto e così giunge a rischiare la contrapposizione simmetrica; alla fine però si dà molto da fare per ricuperare. La svolta, tuttavia, è fornita in ultima analisi, proprio da M con l'accenno alla vergogna e all'aspettativa di un altro "sorrisino", qualora egli avesse espresso i motivi del suo risentimento. E' da notare che, al di là della convinzione del paziente, la modificazione del vissuto risulta precedente al sorriso del terapista così come la restaurazione di un contesto di fragile condivisione non sembra frutto di interpretazioni del terapista.
Il problema che interviene in modo repentino è di differente livello rispetto a quello relativo all'episodio notturno (M-Padre-Cane) o anche rispetto a quello che il terapista prospetta come correlato (M(cane)-Padre) e si tratta di un problema, che cambia il quadro complessivo in modo da rendere necessaria la sua risoluzione per poter riprendere a lavorare sui primi due livelli. Riguarda infatti la relazione tra i due soggetti e le loro emozioni e azioni in modo prioritario rispetto al contesto definito dai ruoli. La nozione di problema del processo di soluzione intende appunto indicare che, a causa della natura intersoggettiva del metodo, che implica la partecipazione globale dei due soggetti, questa evenienza è inevitabilmente presente in ogni processo terapeutico di modo che il lavoro "tecnico" non può avvenire se non all'interno di meta-contesti impliciti e in gran parte inconsapevoli riguardanti la relazione. Così in modo del tutto concordante con l'assunto freudiano del transfert difensivo, l'efficacia e talvolta la possibilità stessa del lavoro analitico è subordinata al significato determinato dall'incontro di questi metacontesti.
Il cambiamento emozionale e comportamentale di M appare improvviso e, almeno al terapista, ingiustificato, sembrerebbe dunque possedere le caratteristiche di una "ripetizione" spontanea, irrealistica e inconsapevole. Se tuttavia si rinuncia a catalogare l'esperienza di M come una ripetizione(15), si possono conseguire dei vantaggi non solo a livello logico, teorico e concettuale, ma anche a livello clinico:
a) Anzitutto il continuo monitoraggio del contesto (ma anche del contesto del contesto) può consentire al terapista di mantenersi più facilmente dentro il processo e in contatto con il paziente, di cogliere più prontamente le modificazioni contestuali e quindi di operare congetture in tempo reale sui significati che le sue azioni o le sue parole stanno assumendo, qui e ora, nel vissuto del paziente e al livello della relazione terapeutica. Il terapista di M, se avesse immediatamente recepito la modificazione di contesto, avrebbe potuto almeno evitare di aggravare la situazione e di aumentare gratuitamente la contrapposizione resistente, ma probabilmente avrebbe anche risposto con una perturbazione efficace alla aspettativa di non comprensione(16).
b) La rinuncia a un ipotetico "prototipo" infantile, costringe il terapista a cercare la spiegazione del vissuto del paziente nel qui e ora, mediante ipotesi di più breve raggio, relative alle regole, che egli effettivamente utilizza nella costruzione dei suoi contesti ripetitivi, e alle teorie che egli formula sulle emozioni, i vissuti, le intenzioni e le azioni anche "tecniche"del terapista(17). Ciò aiuterebbe efficacemente il terapista ad evitare interpretazioni stereotipe (Peterfreund) o generaliste, ma acuirebbe anche la sua capacità di percepire quelle configurazioni intersoggettive note in letteratura come identificazioni proiettive.
c) Infine la nozione di problema del processo di soluzione con i suoi presupposti intersoggettivi consente al terapista di articolare in modo coerente ed equilibrato l'aspetto intrasoggettivo (del paziente e del terapista) con quello intersoggettivo, collocando nello stesso quadro i due aspetti non scindibili.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il terapista di M avrebbe potuto fare ricorso più immediato al quadro delle sue inferenze riguardo al funzionamento complessivo del paziente. Questi, infatti, aveva descritto più volte comportamenti analoghi nei rapporti amicali e sentimentali. Spesso modificazioni emozionali improvvise con forti connotazioni rabbiose, che preludevano a una risposta di fuga, insorgevano all'interno dei suoi rapporti. Un episodio eclatante del genere (insieme ad altri di minore entità) si era anche verificato nell'interazione terapeutica. Si trattava dunque di un comportamento ridondante, che il terapista avrebbe potuto includere nella sua "mappa previsionale" e ciò avrebbe potuto consentire un intervento più puntuale su quanto stava avvenendo. M, infatti, nelle relazioni affettivamente importanti tendeva a costruire contesti di pericolo (per esempio per timore di giudizio) e teorie soggettive riguardo alle (pericolose) intenzioni dell'altro, tali da giustificare e rendere verosimili le emozioni negative, la tensione, la chiusura, il silenzio e la possibile fuga.. Contemporaneamente la consapevolezza che ogni azione nell'interazione terapeutica è co-determinata, permette al terapista di chiedersi ogni volta in che modo egli abbia partecipato alla rottura del contesto. M attribuisce la sua reazione emotiva e il suo ritiro al "sorriso", che tuttavia interviene successivamente e può dunque al massimo co-determinare l'aggravarsi dell'interazione negativa. La scenetta non proviene da una registrazione e probabilmente una registrazione permetterebbe di cogliere il momento e il modo in cui il terapista, per dirla al modo di Gill, "almeno esagera con il sale", certo è comunque che il mantenimento a oltranza del contesto "comprensione" e la riproposizione simmetrica della collaborazione tramite il sorriso, "salano" abbastanza la minestra di M. Anche il terapista ha sue proprie regole di costruzione dei contesti e teorie, che automaticamente innescano emozioni adeguate, per esempio, alle situazioni esplicite o implicite di incomprensione e attacco. Egli ha, dunque, inevitabilmente una "saliera" sempre pronta all'uso. La consapevolezza e il riconoscimento di aver partecipato all' innesco dei problemi del processo di soluzione restituisce senso all'azione o emozione "irrealistica" del paziente e si traduce probabilmente in una potente e benigna perturbazione dei suoi schemi e delle sue aspettative negative di incomprensione oltre che in una attiva spinta, sperimentata invece che detta, a preoccuparsi di ciò che accade nella "mente" dell'altro.


5. "Transfert" e problemi del processo di soluzione

L' identificazione dei "transfert" con i problemi del processo di soluzione, può sembrare, a prima vista, semplificante e, dal punto di vista dell'eredità clinica freudiana, troppo "cognitiva" e tale da trascurare il ruolo di ciò che, con qualche imprecisione, continua ad essere indicato come l' "inconscio". L'impressione, verosimile ma erronea, deriva in realtà dal taglio dell'argomentazione che, per necessità espositive, ha privilegiato gli aspetti più esteriori del metodo. Un esame della nozione di "contesto" e del suo rapporto con la coscienza può lasciar trasparire un maggiore spessore.
Le regole, che governano la costruzione dei contesti, lavorano per lo più in modo del tutto inconsapevole e i contesti stessi, salvo nei casi in cui diventino oggetto di attenzione, occupano lo sfondo non il proscenio del teatro della coscienza. Consapevoli invece sono, in genere, le emozioni, i sentimenti, i significati e i comportamenti, che in tal modo vengono selezionati. Ciò non impedisce che questa o quella parte del processo o il processo stesso possano risultare più distanti dalla consapevolezza per l'azione di ulteriori regole specifiche, che potrebbero mostrare una parentela stretta con i meccanismi difensivi classicamente intesi. Una classe particolare di contesti, mostra però un rapporto assai differente con la coscienza; si tratta di quelli che più di una volta sono stati indicati come "contesti dei contesti". Nel nastro continuo del nostro vissuto e anche in quello dell'interazione terapeutica, non abbiamo semplicemente a che fare con una sequenza di contesti, che si susseguono in fila ordinata uno dietro l'altro, ma anche con contesti di ordine superiore, che governano quelli costruiti di volta in volta. Supponiamo che la nostra signorina P abbia nel suo repertorio una regola che recita "x sa meglio di me che cosa è giusto per me". Una regola di tal fatta non si limita a contestualizzare in modo puntuale un evento o la comunicazione di qualcuno che può verosimilmente occupare il ruolo indicato dalla x, ma in maniera più sottile agisce su porzioni diacronicamente più ampie, costruendo contesti di ordine superiore (contesti dei contesti o metacontesti), che non solo regolano quelli relativi ai singoli accadimenti, ma possono anche modificarne in modo assai robusto la direzione e il senso. Supponiamo che un bel giorno il solerte dottor T giunga a identificare e interpretare questa regola, che la signorina trovi del tutto illuminante la comunicazione del suo terapista e che la consapevolezza raggiunta le consenta di leggere con occhi nuovi molti capitoli della sua storia. Ebbene, tutto ciò non impedisce che la regola meta-contestuale in questione continui a governare il contesto interpretativo, il lavoro di palese disarticolazione della regola e persino i nuovi contesti nati dall'insight della signorina (infatti, ancora una volta "x ha saputo meglio" della signorina!). Si tratta, infatti, di un metacontesto, che può governare molti possibili contesti relazionali e paradossalmente anche quelli, in cui tale regola venisse verbalizzata. Mitchell (1996) ha fornito una esemplificazione eccellente di tale frequente evenienza in un brillante lavoro, in cui mostra come il terapista in questi casi si trova a sollevare sé stesso tirandosi per il laccio dei propri stivali. Mentre di solito è abbastanza facile identificare i contesti puntuali, è assai difficile vedere i contesti dei contesti anche perché spesso non se ne sospetta affatto l'esistenza. Infine, a un livello assai più basso, abbiamo a che fare con un ulteriore genere di contesti, del tutto esclusi dalla coscienza, che funzionano oltre che come microcontesti, anche e soprattutto come chiavi di innesco e catena di produzione di contesti. A. Damasio (1994) ha congetturato, sulla base di dati assai verosimili, un meccanismo di attribuzione di senso indicato come marcatore somatico, che basandosi sulla memoria delle emozioni in relazione a persone, cose, situazioni e, dunque, sulla aspettativa di emozione, sceglie di volta in volta tra il "vai", lo "stop", e il "vai con prudenza". Tale meccanismo con il suo funzionamento potrebbe essere indicato come parte essenziale del processo di costruzione dei contesti di ordine superiore soprattutto di quelli relativi alle situazioni relazionali e, in generale, ai modi dell'essere con. Questi differenti livelli di contestualizzazione sembrano poter coprire lo spazio tradizionalmente attribuito ai processi inconsci sia per quanto attiene al dominio soggettivo che intersoggettivo.
Al di là di ciò, tuttavia, l'impressione di semplificazione deriva in maniera più consistente dal fatto che finora non è stata in alcun modo presa in considerazione una distinzione, che pure è stata premessa. Sia nella considerazione del vissuto sia nello studio delle transazioni intersoggettive pare, infatti, opportuno distinguere tra un dominio che potremo indicare come "interattivo" a intendere ciò che effettivamente accade nel soggetto e tra i soggetti e un dominio "metainterattivo" che si riferisce, invece, a quanto è detto accadere attraverso qualsivoglia forma di percezione, racconto, spiegazione, o teoria. Questa distinzione non descrive entità intersoggettive o intrasoggettive. E' una congettura che ritaglia nella interazione terapeutica domini distinti, in cui congetturare ventagli differenti di fattori attivi nel processo. La proprietà fondamentale dell'interazione è che essa "avviene" e non può essere cancellata o modificata dalla meta-interazione, (che la può falsare, ma non rendere non avvenuta), essa però non può essere vissuta e raccontata (a sé stessi o a un altro) se non tramite una operazione meta-interattiva. L'elemento essenziale della meta-interazione, invece, è che essa implica sempre e comunque una interazione; anche una interpretazione, infatti, al di là del contenuto, interviene nel contesto come azione con significati propri, che non sono necessariamente quelli voluti dall'intenzionalità dell'agente. Queste caratteristiche implicano che si debba ipotizzare tra i due domini e tra i rispettivi ventagli di fattori una incessante circolarità che sembra regolare e dominare i soggetti e i sistemi di soggetti piuttosto che la causalità lineare, cui siamo abituati a causa della impostazione teorica freudiana. Questi concetti sono stati introdotti in un precedente lavoro (Scano, 2000) cui devo rimandare il lettore; qui basterà dire che la tecnica e i fattori tecnici si collocano nel dominio di ciò che è detto accadere, mentre i fattori più decisivi nel processo di cambiamento sono i fattori specificamente interattivi, i soli in grado di promuovere modificazioni nelle anticipazioni, nella dinamica delle emozioni e nella possibilità di aprire la via a forme nuove di esperire.
La tematica transferale e controtransferale deve essere selettivamente situata in questo terreno complesso in cui la circolarità tra ciò che avviene e ciò che è detto avvenire si articola silenziosamente nel graticcio dei contesti, da quelli elementari e predeterminati dell'aspettativa di emozione (marcatore somatico), a quelli che regolano la scena del vissuto consapevole qui e ora, a quelli che organizzano gerarchicamente le strategie relazionali in ordine alle due necessità insopprimibili di ogni soggetto: mantenere la propria unità e identità e cambiare quanto è necessario e possibile per mantenere la propria unità e identità.
Una trattazione della problematica transferale dal punto di vista della interazione, della meta- interazione e della stratificazione dei contesti supera i limiti di questo studio e deve essere rimandata ad altra occasione; quanto detto basterà a fugare l'impressione di semplificazione e ad evocare al contrario l'effettiva complessità, in cui le regole lavorano in silenzio e tanto più inavvertite e inavvertibili quanto più risultano prossime agli schemi dell' "essere con" o a quelle "scene" non verbali, che costituiscono le cellule germinanti del nostro esperirci.
Prima di concludere questa argomentazione è necessario procedere alla esecuzione di un "omuncolo", che è stato utilizzato senza remore. Si tratta della nozione di "cosa" transferale. Essa è stata introdotta e usata a scopi puramente espositivi per creare un necessario spazio di manovra tra il "transfert" come concetto e il transfert come "cosa" cui il concetto si riferisce. Alla fine si è pervenuti a indicare la "cosa" in accadimenti ridondanti dell' interazione, la cui punteggiatura può essere stabilita a partire da criteri prefissati. E' stata, anzi, identificata con i problemi del processo di soluzione secondo la terminologia del metodo contestuale. In realtà (questa è l'esecuzione!) non esiste alcuna "cosa transferale", almeno nel senso che si è soliti attribuire al verbo "esistere", non esiste comunque in modo dicibile a prescindere dai concetti, dalle delimitazioni e dalle descrizioni che noi ne diamo e che non fotografano una physis, ma piuttosto il nostro modo di intenderla e definirla. Da questo punto di vista la "cosa" transferale (come la "cosa-cambiamento", la "cosa-resistenza"...) è, più precisamente e correttamente, l'operazione stessa di delimitazione, definizione e costruzione della "cosa-problema-transfert", che in quanto tale pertiene all'osservatore e non all' osservato. In concreto, la "cosa transferale" si identifica e confonde con il percorso teorico-concettuale, che, a partire da un problema teorico-clinico (il problema del "transfert" nel dibattito attuale) e dal suo universo di concettualizzazione e a partire da problemi pratici ("perché la signorina P ha il problema x e come si può risolverlo?) conduce a ridefinire la "cosa" in termini di un differente universo epistemologico e concettuale. Per Freud la "cosa" era la descrizione delle ridondanze in termini di prestazione dell'apparato e di ripetizione astorica di un fantasma; nella formulazione qui esposta è esercizio di regole procedurali di contestualizzazione che, nella situazione intersoggettiva, si traducono nei problemi del processo di soluzione.


6. E' ancora utile il termine "transfert"?

Ci si potrebbe ora chiedere perché mai la semplice nozione di "problemi del processo di soluzione" dovrebbe poter ambire a tradurre una problematica così complessa come quella di transfert. Intanto, se la nozione si rivelasse davvero "semplice", ciò sarebbe un vantaggio, che non implicherebbe per sé alcuna riduzione della complessità. La semplicità di un concetto deriva dalla sua costruzione, configurazione formale e traducibilità in operazioni controllabili. Del resto, la complessità della nozione di transfert non nasce dalla sua ricchezza o polivalenza, ma dalle caratteristiche formali della sua costruzione, in cui i contenuti hanno avuto un ruolo rilevante e, dopo Freud, progressivamente sempre più determinante. Nel quadro della teoria freudiana, infatti, il transfert, malgrado la non semplice costruzione, manteneva, grazie alla teoria pulsionale e il rimando allo sviluppo psicosessuale, una sua linearità, seppure determinata dall'eccesso di riduzionismo. In seguito, e in gran parte proprio a causa della necessità di superare il riduzionismo, il ruolo dei contenuti è diventato preponderante in modo quasi esponenziale ed ha moltiplicato le psicodinamiche, che si sono costruite in genere proprio sulla base di contenuti transferali "nuovi" documentati da dati clinici "nuovi". Conseguentemente si è vieppiù complicata anche la procedura di identificazione dei transfert, che si è affidata, in maniera sempre più massiccia, a capacità, (non facilmente definibili e trasferibili nel training), dei singoli analisti, essendosi persa la chiarezza della teoria freudiana e la possibilità di rimando a criteri teorici e tecnici. La semplicità della nozione di "problemi del processo di soluzione" e la sua contemporanea capacità di rispettare la complessità, deriva in ultima analisi dal fatto che l'analisi contestuale è un metodo di risoluzione dei problemi di P, ma è anche la logica interna, che governa ogni processo di sviluppo e, dunque, tanto lo sviluppo del problema che si sta cercando di risolvere quanto quello del processo di soluzione che T e P stanno portando avanti.
Più importante e oscura è invece la questione del perché la situazione terapeutica dovrebbe essere in grado di innescare il processo che è stato decritto. Tale quesito si pone anche per il metodo classico e può essere formulato in questi termini più generali: perché la situazione terapeutica innesca quel tipo di problemi e processi che la tradizione ha sempre denotato con il termine "transfert"? Freud difese a oltranza la tesi secondo cui il transfert è un fenomeno universale riscontrabile in tutti i rapporti umani e non un artefatto della situazione analitica. Questa posizione era motivata dall'assunto naturalistico, dalla conseguente riduzione del transfert a "fenomeno" e dalla sua spiegazione con le modalità operative generali dell'apparato. Se si deve, ormai, rifiutare la spiegazione freudiana, si può però condividere la sostanza delle sue affermazioni. La situazione terapeutica non crea i "transfert", ma ne rende possibile l'emergenza e l'osservabilità. I soggetti umani contestualizzano nel modo che si è descritto in tutti gli scenari e i palcoscenici in cui recitano e costruiscono la loro "storia", ma presumibilmente il "rumore di fondo" diventa musica percepibile solo in certi particolari scenari oltre che nelle linee portanti del canovaccio e della trama del racconto complessivo. Tale rumore di fondo sembra, invece, esplicitarsi in configurazioni palpabili in quelle scene, in cui diventa prioritario il contesto e il contesto del contesto delle relazioni. Sulla base di questa congettura si può, forse, tentare di descrivere sinteticamente come e perché nella situazione terapeutica si inneschi inevitabilmente un processo, che attiva gli accadimenti concettualizzati dalla tradizione come transfert.
Un ruolo importante è, anzitutto, svolto dal setting, che non è solo un "contenitore" tecnicamente adeguato allo svolgimento del lavoro, ma che, in ragione della condizione di bisogno, della situazione di aiuto, della prospettiva di durata costante dell' interazione e della disponibilità del terapista, sembra fungere da ecosistema adeguato a promuovere la strutturarsi di un accoppiamento strutturale, che lega T e P in un unico sistema. Questa capacità generatrice è rintracciabile in altri sistemi semantici umani (madre-figlio, maestro-discepolo, marito-moglie...). Data questa capacità del setting di promuovere lo stabilirsi dell'accoppiamento strutturale, si dovrebbe identificare in quest'ultimo l'effettivo promotore dei "transfert". E' noto, tuttavia, che non basta strutturare un setting per attivare inesorabilmente un efficace accoppiamento strutturale. Talvolta le coppie terapeutiche cristallizzano tipi di legame troppo estrinseci o, forse, anche tipi di accoppiamento strutturale che si rivelano incapaci di innescare processi positivi di cambiamento. E' compito della ricerca empirica fare chiarezza su questo punto così importante per la diagnosi e la prognosi, utilizzando anche l'ottica intersoggettiva, analizzando le tipologie di sistemi T-P e lo spettro delle loro possibili configurazioni e non soltanto le classificazioni psicopatologiche.
Se ci si attiene ai processi, che evolvono favorevolmente, si può congetturare che la promozione dell'accoppiamento strutturale derivi, anzitutto, dall'esistenza di una essenziale omologia tra i due sistemi, in virtù della similare storia di accoppiamenti strutturali, da cui sono emersi. Tale omologia implica un sostanziale isomorfismo di struttura e di funzionamento. Più specificamente e profondamente, tuttavia, tale isomorfismo può essere, in ultima analisi, ricondotto ai sistemi bio-psicologici dell'attaccamento, che costituisce la porta di ingresso nel sistema semantico per ogni cucciolo della specie, e lo stampo in cui si forgiano gli "Io", che replicano tale sistema. Da questo punto di vista, si può congetturare una "legge", cui ricondurre l'attivazione dei contesti più profondi nei processi terapeutici: in virtù della sua genesi nell'ambito di accoppiamenti strutturali, l'io umano apprende e codifica modalità procedurali e regole che vincolano la costruzione dei contesti secondo un "ventaglio di possibilità" determinato dalle effettive esperienze di "essere con". Tali regole modellano l' "essere in" ogni accoppiamento strutturale in modo relativamente vincolante. In tal modo in ogni accoppiamento si attiveranno sempre e solo quei contesti e contesti di contesti, che sono compatibili con tale ventaglio. Il fatto che la situazione terapeutica sembra caratterizzata da eventi connessi all'attaccamento - distacco, accettazione - rifiuto, comprensione - incomprensione, conferma-disconferma, dipendenza - autonomia, amore - odio, passività - attività, collaborazione -competizione, ecc., potrebbe essere un indizio della verosimiglianza di questa congettura.
Conseguentemente, ogni lavoro "tecnico" implicherà inevitabilmente anche l'attivazione di un dominio interattivo e cioè la collocazione dell'attività metainterattiva in un contesto e in un contesto del contesto compatibili con il ventaglio di possibilità proprio del soggetto e dei soggetti implicati nella interazione. In questo senso l'inevitabile attivazione dei "transfert" non è un artefatto del setting, ma piuttosto una conseguenza del fatto che il metodo non può essere applicato se non in situazione intersoggettiva. In questo contesto, infatti, l'attivazione inevitabile delle codificazioni procedurali, rende impossibile ai due soggetti di mantenersi indefinitamente nella posizione meta e, comunque, di eludere il contesto del contesto. In tal modo ogni azione "tecnica" si colloca necessariamente nel dominio delle meta-regole, che governano l'interazione e ciò emergerà, visibilmente, nella struttura e nella dinamica dei "problemi del processo di soluzione". Dal punto di vista del metodo, ciò avviene, in ultima analisi, perché la logica della situazione governa, non solo l'azione dei singoli sistemi dal punto di vista del funzionamento sincronico e diacronico, ma anche la loro azione in quanto sottosistemi del sistema T-P e l'intero sistema duale.
In questa concezione non vi è alcun "trasferimento" né qualcosa suscettibile di essere "trasferita"; resta, dunque, da decidere se è ancora utile e ragionevole conservare il termine "transfert", che dopo una lunga e gloriosa carriera potrebbe essere consegnato alla storia. Le ragioni che inducono ad auspicarne l' archiviazione pertengono a vari ordini di motivi e riguardano argomentazioni teorico-critiche, oltre che considerazioni logiche e preoccupazioni relative alla ricerca e allo sviluppo della teoria e della pratica clinica. Un'analisi appena approfondita del concetto di transfert è sufficiente a svelarne la sostanza metapsicologica: per genesi, natura e funzione il transfert è profondamente marcato dall'orizzonte concettuale in cui è nato. Poggia, infatti, direttamente, sui concetti di spostamento e rimozione e sulla concettualizzazione del rapporto tra processo primario e secondario, così come è descritto nel VII capitolo della Traumdeutung; conseguentemente, implica gli asserti topici, economici e dinamici, che disegnano la "macchina psichica" e il suo funzionamento rappresentazionale. Al di là di ciò, dopo cento anni, l'orizzonte epistemologico si è talmente modificato da costringerci a intendere in un modo, che Freud certo non avrebbe potuto prevedere, gli ingredienti essenziali, che sottendono il concetto, e cioè la concezione stessa della "realtà" e della sua "costruzione", l'articolazione passato-presente, la determinazione genetica e l'accezione stessa di "psichico" o di "mentale".
A partire da queste considerazioni non è tanto sorprendente che si possa pensare di archiviare il transfert quanto piuttosto che ciò non sia già avvenuto. La sua straordinaria longevità si spiega, certamente, con la tenace sopravvivenza della metapsicologia e con le modalità silenziose e non dichiarate del suo recente venir meno, ma soprattutto con la convinzione degli analisti, che l' armatura metapsicologica del concetto sia una sorta di esteriore vestito facilmente sfilabile dal transfert, che, nella sua sostanza di accadimento indubitabile resterebbe vivo e rigoglioso nel suo evidente reiterarsi in ogni terapia. Questo diffuso punto di vista nega che il transfert sia un concetto metapsicologico e, conseguentemente, non solo trova del tutto logico e normale continuare a utilizzarlo, ma si meraviglia che si possa pensare il contrario. Si è già accennato che questa assunzione poggia sulla convinzione che il transfert sia un "fenomeno" che, in quanto tale possiede esistenza e sostanza indipendenti dalla sua descrizione e spiegazione teorica. Un concetto, però, non è un vestito, ma implica la segmentazione e la delimitazione di un problema e cioè la costruzione stessa della "cosa-problema" nei termini di un universo concettuale predefinito. Implica, quindi, la precomprensione e l'impostazione del problema, di cui costituisce la spiegazione e ciò determina, la descrizione stessa del "fenomeno", le coordinate e il punto di vista, secondo cui il problema viene inquadrato, il tipo e la natura delle domande, che si possono formulare e la direzione, in cui le risposte verranno cercate. Da questo punto di vista il transfert continua a portare in giro per il mondo la sua natura metapsicologica anche, paradossalmente, nella mente e nelle parole di quanti la dichiarano esplicitamente morta.
Questo modo di gestire concetti e teorie è, purtroppo, abituale in psicoanalisi. E' buona abitudine delle procedure scientifiche mandare in pensione i concetti, che risultino per qualche verso falsificati. Per questo la fisica non ha più a che fare con un "flogisto". Nella letteratura psicoanalitica sopravvivono, invece, decine di "flogisti", che navigano indefettibilmente grazie alla consuetudine di ridefinire i termini piuttosto che espungerli. Ciò genera un ingovernabile trasformismo, che rende estremamente ardua ogni convenzione semantica e popola la letteratura di parole-funzione, che esigono ogni volta un dibattito per precisarne il significato. Il "punto di vista intrapsichico" è, come si è visto, un significativo esempio di tale abitudine, che testimonia l' evidente difficoltà della disciplina nel coniugare l' identità con il mutamento. Il transfert deve, infatti, più probabilmente la sua longevità alle resistenze, che il movimento psicoanalitico ha opposto al mutamento nell'ambito teorico, ma, soprattutto, in quello clinico e tecnico. E' probabile che le ragioni di tale opposizione esulino dal campo propriamente teorico e traggano, piuttosto, origine e forza da motivazioni, necessità e dinamiche proprie della istituzione psicoanalitica e dal tipo di legami e vincoli, che essa induce nei soggetti che usano le teorie. Queste, infatti, non sono solo reti per pescare pesci-verità (Popper) o strumentali prolungamenti del braccio e della mano (Piaget); malauguratamente sono anche bandiere e tessere di riconoscimento. In qualche misura, ciò, del resto, per quanto riguarda il transfert, è anche comprensibile, dato che il suo ruolo e significato nella terapia psicoanalitica sono tali da identificarsi con l'agire psicoanalitico stesso.
Per tutti questi motivi, però, il transfert non è solo un concetto superato, ma anche un serio ostacolo per la ricerca. Implica, infatti, una precomprensione e descrizione dei fatti in termini, che sono da considerare, in qualche modo, già precostituiti da una teoria falsificata. Per questo, a causa della precisa connotazione teorica, storica e tecnica non è, forse, fuori luogo auspicarne la cancellazione per sostituirlo con una concezione più operazionale, che poggi sulla determinazione di "fattori" empiricamente precisabili.
La prospettiva, che è stata descritta, intende collocarsi come una proposta in tale direzione in quanto sembra poter definire e circoscrivere la cosa-problema "transfert" in termini che possono risultare vantaggiosi dal punto di vista logico, epistemologico e teorico.
1) Il riconoscimento della natura concettuale e non fenomenica del transfert consente di evitare le incongruenze logiche della concezione tradizionale legate alla opposizione "realtà-fantasma" e, soprattutto quelle connesse alle nozioni di "ripetizione" e "distorsione". L' effetto "distorsivo" verrebbe spiegato con l' unilateralità e chiusura delle regole dell'organizzazione.
2) Da un punto di vista epistemologico, si potrebbe, fare a meno di reiterare quel fastidioso e ingiustificato esempio di epistemologia all'incontrario, cui la teoresi psicoanalitica ricorre con estrema frequenza, ogni volta che, per spiegare un comportamento, un vissuto o una azione, evoca una duplicazione causante di ciò che si sta spiegando, (un "odio", una "dipendenza", una "relazione d'oggetto") nella testa di un omuncolo abitante nella nostra testa.
3) La riformulazione evita non solo le "spiegazioni causali di contatto" proprie delle epistemologie positivistiche, ma anche le spiegazioni lineari proprie delle epistemologie pre-evoluzioniste, privilegiando una visione circolare in una assunzione di complessità.
4) Da un punto di vista più prossimo agli assunti teorici, essa consente di salvaguardare, a un tempo, l'autonomia e l'eteronomia dei sistemi. Spiega, infatti, da un punto di vista "interno", i comportamenti "transferali" in termini di organizzazione e chiusura del sistema nella sua unità e singolarità. Ciò, tuttavia, non avviene a discapito della considerazione intersoggettiva o tramite un forzoso taglio delle azioni di P dal fluire degli accadimenti intersoggettivi e dalla co-determinazione congiunta degli eventi.
5) Da un punto di vista più specificamente teorico, la determinazione del presente da parte del passato troverebbe una spiegazione più generale in termini di procedure e regole apprese valide per tutti i vissuti, le anticipazioni e le azioni senza alcun bisogno di categorizzare una classe specifica e separata di azioni e di vissuti all'interno della competenza comportamentale di un soggetto. La distinzione di alcune transazioni da considerare specificamente "transferali" diventerebbe un problema essenzialmente empirico sia per quanto attiene al punto di vista soggettuale, riguardo a quelle regole, anticipazioni e teorie più strettamente connesse al problema di P, sia per quanto attiene alla interazione terapeutica e al tipo di ridondanze da considerare problemi del processo di soluzione.
6) Viene meno l'esigenza di contrapporre "transfert" e "relazione", evitando la difficile composizione di questo binomio e i problemi logici e teorici, che esso comporta, salvaguardando, contemporaneamente, sia le istanze dei difensori della specificità del "transfert" sia quelle dei difensori della "relazione" (18). Contestualmente verrebbe meno la contrapposizione tra fattori "conoscitivi" e "di esperienza" e si creerebbe uno spazio concettuale che può comprendere la nozione di "nuova esperienza" espressa, mezzo secolo fa, da Alexander in termini che la teoria del transfert non poteva contenere e riproposta da Gill, in modo, tuttavia teoricamente non definito.
7) La prospettiva sembra, infine, poter spiegare in modo diverso e meno problematico molte delle affermazioni tradizionali sul transfert. Gli asserti freudiani sul transfert positivo, il transfert resistente, i transfert come neo-produzione, persino la nevrosi come "nuova malattia" e la "coazione a ripetere" possono trovare una collocazione nei termini dell'accoppiamento strutturale, della chiusura sistemica e delle regole di contestualizzazione ed essere agevolmente tradotte nella modularità e ridondanza nella costruzione dei contesti e dei contesti dei contesti, traducendo le straordinarie intuizioni freudiane nell'ambito dell'interazione intersoggettiva.
8) Infine questa prospettiva sembra un promettente punto di approccio per considerare, il cosiddetto "effetto Rashomon" non più come un invalicabile limite alla "scientificità" della psicoterapia, ma piuttosto come l'effettivo strumento della pratica clinica e lo specifico oggetto della ricerca. Questo sentiero può risultare percorribile a patto: a) di rinunciare a identificare la "cosa" transferale in qualcosa di dato in P o in T; b) di riferirla, invece, a una classe definita di eventi interattivi co-costruiti nel gruppo di due come effetto dell'incontro delle due contestualizzazioni; c) di descrivere l'apporto di P e di T in termini di regole, anticipazioni e teorie soggettuali; d) di escludere dall'ordine del giorno una non facilmente concepibile "risoluzione del transfert" per perseguire, invece, più operativi e modesti obiettivi di modificazione nelle procedure di costruzione dei contesti, che si possono verificare sia tramite il ritorno metainterattivo sul vissuto dell'evento, sia tramite l'innesco, nel dominio interattivo, di nuovi processi nella costruzione dei significati.


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WALLERSTEIN, R.S., Una o molte psicoanalisi?, in Gli Argonauti, XI, 43, 1989, pp. 253-276.


Note:

1 Gill sottolinea la non chiarezza del concetto di transfert e la scarsa concordanza esistente in letteratura riguardo, ad esempio, alle distinzioni tra transfert agevolante e ostacolante e tra interpretazione della resistenza alla presa di coscienza del transfert e interpretazione della resistenza alla risoluzione del transfert. Egli discute inoltre altre importanti divergenze come quella relative alla centralità del transfert, al ruolo della realtà nella sua strutturazione, all'onnipresenza del transfert ecc. (M.M.GILL, Teoria e tecnica dell'analisi del transfert, Astrolabio, Roma, 1985, p.13).

2 In uno studio di carattere storico-critico mi sono servito a questo scopo delle definizioni di Laplanche e Pontalis (1974), di Saraval (1988) e di Etchegoyen, (1990).

3 Gill (1995) ha dimostrato che questa corrispondenza non è puntuale e che la posizione tradizionale è di fatto compatibile con differenti atteggiamenti nella pratica clinica concreta.

4 Il padre nobile delle posizioni compromissorie può essere identificato in R.R. GREENSON (1969).

5 In particolare da parte di Gill (1885,1995,1996), Hoffman (1995,1998) Renik (1996).

6 Rimando a un mio studio (Scano, 1995) di qualche anno fa in cui l'analisi storico-critica e teorico-critica del concetto di transfert viene sviluppata almeno per quanto concerne la fase freudiana della teoria.

7 D. Rapaport nel suo saggio, purtroppo poco considerato, sulla metodologia annotava:"... il transfert e la resistenza non sono delle osservazioni empiriche, benché transfert e resistenza siano termini che si possono usare per descrivere delle osservazioni empiriche. La questione è, tuttavia, che i termini transfert e resistenza nella teoria psicoanalitica non sono fatti per descrivere delle osservazioni empiriche; sono dei concetti che condensano un insieme di variazioni dinamiche dei fenomeni in una costruzione teorica". (D. RAPAPORT, La metodologia scientifica della psicoanalisi in Il modello concettuale della psicoanalisi, (1944-1948), Feltrinelli, Milano, 1977, p. 122.) E, in modo più assertivo :"... il transfert che abbiamo qui definito non è un fenomeno; è un costrutto esplicativo teorico che scaturisce dal metodo della relazione interpersonale, adottato e usato nella teoria psicoanalitica". Ib., p.119.

8 Cfr. G. P. SCANO (1995) pp. 150-166.

9 Poiché la metapsicologia non possedeva alcuna strumentazione teorica che consentisse di leggere l'intersoggettività attuale, Freud considerò quest'ultima come epifenomeno e "sintomo", come "relazione fossile" che si riattiva nel setting e, per generalizzazione, non solo nel setting. Questa operazione è riduzionista non solo nel senso epistemologico generale, ma anche nel senso di una riduzione del diadico al monadico e del presente al passato. La concettualizzazione del transfert, tuttavia, non solo riuscì a risolvere in modo geniale un complesso problema teorico e clinico, ma si è dimostrò anche dotata di straordinaria vitalità euristica in quanto consentì di affrontare, per la prima volta, in un disegno scientifico, il problema della formazione della soggettività nell'ambito dell'intersoggettività, seppure in termini di "cosa" naturalistica" .

10 La semplice considerazione di un aspetto come la "ripetizione", da sempre considerato "descrittivo", dovrebbe indurre qualche dubbio a questo proposito. Leggere un evento in termini di "ripetizione" di vissuti pregressi o spiegarlo come determinato dal "passato" è un'operazione logica, che in nessun modo può essere confusa con la osservazione di un fenomeno. Si tratta, infatti, di una spiegazione, che presuppone una teoria in grado di illustrare questa straordinaria prestazione psichica sia sul piano del funzionamento generale sia su quello, più particolare, dell'articolazione del passato-presente nel divenire del soggetto. Non si tratta di qualcosa di fenomenico, di percepibile o di verificabile, si tratta di una spiegazione, di una operazione concettuale che presuppone un modello di funzionamento della mente e che, nel caso concreto, presuppone la metapsicologia freudiana.

11 Ciò non implica che l'osservazione non sia rilevante, ma semplicemente che non è possibile "osservare" se non alla luce di congetture - anche implicite - di precomprensione.

12 La riformulazione seguente si limita a considerare il "transfert" da un punto di vista puramente intra-soggettivo, per questo essa non può essere in alcun modo considerata una "definizione", ma, semmai, come la definizione approssimativa di ciò, che, con qualche rischio, può essere indicato come una "previsione di transfert" costruita sulla base dell'analisi delle ridondanze pregresse.

13 La nozione di "accoppiamento strutturale" (Maturana e Varela, 1980) è usata in biologia per indicare la relazione di congruenza strutturale tra un organismo e l'ambiente, in cui si realizza la sua ontogenesi, o quella esistente tra più unità cellulari, che si aggregano a formare una unità pluricellulare o, ancora, quella che si stabilisce quando due o più organismi si trovano nel corso della loro ontogenesi a costituire (a essere immersi in) una rete di interazioni ricorrenti e stabili sino a formare sistemi o unità di un livello ulteriore e specificamente "sociale"

14 Sono stati enumerati almeno 17 metodi per ricavare e studiare costrutti analoghi a quello qui indicato . Tra i più conosciuti si possono ricordare: il CCRT (Core Conflictual Relationship Theme) di Luborsky, la "Diagnosi di piano" (Plan Formulation Method) di Weiss e Sampson, il "Frame Method" di Dahl, il PERT (Patient's Esperience of the Relationship with the Therapist) di Gill e Hoffman.

15 Ciò non implica né la negazione dell'importanza del passato nella determinazione del presente né l'utilità della ricostruzione del passato per la comprensione del presente, ma soltanto il rifiuto di una concezione essenzialistica e traumatica di questa determinazione. Le regole e le aspettative negative si costruiscono nel passato e tendono a costruire il presente secondo la logica del loro funzionamento in modo assai più complesso e mediato di quanto non possa essere spiegato dalla nozione di ripetizione.

16 Non vi è qui lo spazio per una compiuta analisi clinica di questo frammento di interazione, ma , al di là dei significati e dei motivi specifici che determinano il cambiamento di contesto, anche la semplice non percezione o sottovalutazione del cambiamento, costituiscono un "intervento" del terapista con un suo significato (seppure non voluto) che può facilmente giustificare un vissuto di non comprensione e assumere il valore di una conferma delle aspettative negative del paziente.

17 La teoria classica tendenzialmente non aiuta il terapista in questo lavoro. Se infatti un transfert è una "ripetizione", inevitabilmente l'elemento cruciale per la determinazione del significato sarà da considerare "ciò che viene ripetuto" e su questo si appunterà l'attenzione del terapista. Inoltre l'accentuazione dell'aspetto irrealistico, fantasmatico e spontaneo dei transfert porta a considerare la rottura del contesto condiviso semplicemente come prova della esistenza di un transfert irrazionale preconfezionato nel soggetto. Per la verità si tratta di una tipica prova circolare: si identifica una spiegazione, che crea la prova, che conferma la spiegazione: esiste un transfert che causa un comportamento irrazionale; i comportamenti irrazionali sono la prova dell'esistenza dei transfert.
18 Se si distingue e si giustappone una "relazione non transferale" (alleanza di lavoro, alleanza terapeutica...) a una "relazione transferale", ci si ritrova a non riuscire a distinguere concettualmente e geneticamente tale relazione dal transfert, se invece si decide che "tutto è transfert", si evita il problema di definire che cosa non è transfert, ma ci si scontra con quello di spiegare come sia possibile il cambiamento, di spiegare cioè come e in virtù di che cosa il transfert possa superare sé stesso: se il presente è tutto transfert, ripetizione del passato, in virtù di che cosa sarà possibile un futuro che non sia ripetizione del passato?


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