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Centri per la Salute Mentale |
In quel libro da noi curato e soprattutto in quello che l'ha preceduto ("Una psichiatria sufficientemente buona: la relazione terapeutica nella pratica dei servizi") viene esplorata l'influenza della cultura psicoanalitica nella presa in carico relazionale del paziente psicotico. Se tuttavia volessimo fare considerazioni più generali, non ci sentiremmo di dire che la presenza di questa cultura nelle istituzioni psichiatriche sia davvero rilevante: psichiatria e psicoanalisi, tra rinforzo delle matrici biologiche e difesa della purezza del setting, sono rimaste abbastanza lontane, consentendosi soltanto alcune zone di contaminazione reciproca.
Hanno favorito la creazione di queste aree intermedie la presenza nei servizi di alcuni primari di formazione analitica e le esperienze di supervisione condotte da psicoanalisti che, astenendosi dal proporre "l'esportazione" della propria teoria psicoanalitica e la "colonizzazione" dei servizi, hanno considerato la supervisione come un'opportunità per mettere a disposizione dell'istituzione la propria percezione della sofferenza mentale e far crescere così il contatto degli operatori con gli stati mentali dei pazienti, aiutandoli anche a diventare un gruppo capace di elaborarli.
Barnà (1988) ad es. ritiene possibili differenti livelli di apporto psicoanalitico ai servizi, da un aiuto ad impostare un modello etiopatogenetico aperto e plurifattoriale, ad un apporto più specifico nel campo delle psicoterapie; il pensiero psicoanalitico e quello psicologico contemplano infatti una visione del "disagio psichico" come derivante da difficoltà relazionali complesse, che investono la sfera affettiva ma coinvolgono anche le capacità percettive, intellettive, creative. Curare può significare allora fornire al paziente un'esperienza relazionale controllata e profonda finalizzata alla sua evoluzione; e può richiedere una formazione all'ascolto ed alla percezione psicodinamica per tutte le figure professionali coinvolte nel lavoro di rapporto col paziente.
Non si tratta di diventare tutti psicoterapeuti, come evidenziato da Speziale Bagliacca (1980), ma di formare negli operatori dei servizi una percezione psicodinamica dei conflitti individuali, familiari o di gruppo, come un obiettivo difficile da raggiungere ma realistico, che eviti le velleità terapeutiche insite in certe idealizzazioni della psicoterapia.
Così intesa, la supervisione diventa un'esperienza dalla quale possono derivare conseguenze trasformative sia nei servizi di salute mentale sia nello stesso mondo psicoanalitico, sempre più interessato a confrontarsi con le problematiche relazionali poste dai sempre più numerosi pazienti borderline o psicotici in trattamento psicoterapico o psicoanalitico (vedi ad es. il numero monografico che la rivista Psiche dedica al lavoro psicoanalitico con i pazienti gravi).
La riflessione sull'apporto psicoanalitico ai servizi di salute mentale ci ha portati ad interrogarci sull'influenza del primario nella formazione della cultura del servizio. Una riflessione su questo tema era già cominciata in occasione della presentazione ad Arezzo del secondo dei due volumi prima nominati ("Una psichiatria sufficientemente buona"); nella discussione si era affacciata l'ipotesi che la figura dirigenziale abbia un ruolo significativo nel determinarne il clima emotivo di un servizio e influenzi, sia pure indirettamente, la disponibilità, l'accoglienza ed il livello di elaborazione che gli operatori riservano agli utenti. Per questi motivi era stata valutata l'opportunità di un aggiornamento specifico per chi deve occupare la posizione di responsabile di un servizio.
Uno o due anni dopo veniva organizzato ad Arezzo un gruppo di aggiornamento per alcuni dei primari di Unità Operative della Regione Toscana, condotto da Carli e Paniccia (1995), docenti dell'Università di Roma ed il primo anche psicoanalista; il gruppo era centrato sulle problematiche organizzative e di ruolo affrontate dalla figura apicale, ed ha lavorato per oltre un anno con incontri mensili. Questo gruppo di studio ha consentito ai partecipanti di avvicinarsi alle tematiche connesse con la gestione delle servizi, in un'epoca precedente l'attuale evoluzione aziendale del Servizio Sanitario Nazionale; evoluzione che ha portato
ad una ipertrofizzazione dei concetti di budget e managerialità, ed alla tendenza a collocare sul primario una capacità non solo organizzativa ma anche gestionale, che va ben oltre le competenze per le quali è stato preparato, fino a coinvolgerlo in una problematica economica in cui corre il rischio di muoversi in modo maldestro o approssimativo.
Questa evoluzione aziendale può indurre a volte una forma specifica di burn-out: alcuni primari possono essere indotti da questa evoluzione ad immergersi totalmente in questi linguaggi ed in queste tematiche, sfuggendo in modo onorevole ed apprezzato il contatto col paziente, la sua famiglia e le loro problematiche.
Tuttavia non è nostra intenzione svalutare la necessità per un primario di confrontarsi con i temi connessi con il proprio ruolo e la propria identità di dirigente; necessità che, pur esistendo ancora prima dell'attuale organizzazione aziendale, è diventata oggi di maggior rilevanza. Forse un tempo era più facile eluderla con un'operazione di segno opposto a quella prima descritta, che portava cioè i primari a sfuggire i compiti dirigenziali, nascondendosi dietro il sapere clinico dello psichiatra.
Al di là dei cambiamenti nell'assetto istituzionale, continua ad esistere, per ciascun primario, una funzione che c'è sempre stata: quella di dirigere personale che eroga un servizio. Si può pensare cioè che l'affidamento ad un primario di un certo numero di persone con diversa professionalità, che costituiscono una risorsa dal costo annuale di molti milioni, presupponga implicitamente la richiesta aziendale che questo personale rimanga utile e produttivo, e venga ben "guidato" dal suo dirigente.
Uno dei compiti più importanti di un primario è rappresentato dalla facilitazione del passaggio da "gruppo istituzionale", inteso come assemblaggio casuale ed eterogeneo di persone e professionalità diverse, a "gruppo di lavoro"; posizione questa, che non è mai raggiunta in modo stabile e definitivo, rimanendo suscettibile di tutte le possibili oscillazioni e regressioni.
Nello svolgimento di questo compito, risultano pericolosi sia gli atteggiamenti paternalistici sia quelli interpretativi; bisogna quindi sgomberare il campo dal sospetto che la gestione delle complesse interazioni di un gruppo istituzionale pluriprofessionale, tesa a favorire la nascita di un gruppo operativo, comporti una funzione sovrapponibile alla conduzione di un gruppo terapeutico.
Pur riconoscendo come il proprio ruolo attivi una precipua dimensione fantasmatica in se stesso e negli altri, un primario non deve rimanere intrappolato in essa ed "agire" proponendo intepretazioni, ma deve mantenere un'attenzione a quanto accade nel gruppo ed al suo riverberarsi sull'organizzazione del servizio, sulla comunicazione tra gli operatori e sulla circolazione delle informazioni. Il mantenimento di un buon livello di informazione su quanto accade all'interno del Dipartimento di Salute Mentale o dell'Azienda sanitaria può evitare ad es. che prendano campo certe distorsioni delle notizie, così frequenti nei contesti istituzionali.
Un'altro dei compiti dirigenziali può essere descritto allora come il tentativo, che un primario è chiamato a compiere, di tradurre in termini corretti e nella terminologia corrente del gruppo una qualsiasi iniziativa esterna o di livello amministrativo che potrebbe essere vissuta in modo persecutorio. Si tratta a volte di compiti che, essendo stati richiesti all'équipe da un livello organizzativo aziendale, vengono vissuti in modo negativo, ma possono essere trasformati dal primario in qualcosa di pù aderente alla cultura del servizio. Può accadere invece che questi stessi eventi trovino nel primario una cassa di risonanza che ne amplifica gli aspetti persecutori, con ovvie conseguenze negative sulla motivazione e sugli atteggiamenti del personale.
In qualunque azienda di un certo livello il dirigente deve garantire, oltre alla produttività, il mantenimento nel personale della consapevolezza del proprio ruolo e del proprio compito, l'assunzione di responsabilità e la conservazione di una motivazione sufficiente a svolgere il proprio lavoro con correttezza.
Per mantenere tra gli operatori un livello di vitalità operativa accettabile, il primario deve per prima cosa stabilire un clima di valorizzazione degli operatori e del loro lavoro; il personale deve ricevere il riconoscimento del lavoro che sta svolgendo e delle difficoltà che sta affrontando.
Esiste tuttavia la necessità, per ciascun dirigente, di valutare l'effettiva competenza, esperienza professionale e motivazione del singolo operatore; può diventare infatti controproducente sia il non evidenziare mai le insufficenze, sia il demonizzare o disprezzare le eventuali carenze di professionalità. In tal caso occorre piuttosto adoperarsi per cercare di ottenere una migliore aderenza al compito, utilizzando al meglio le capacità effettive del singolo operatore.
Tra le funzioni del primario non dobbiamo dimenticare poi quella relativa alla formazione dei futuri quadri dirigenti. I servizi psichiatrici possono essere, per qualche operatore più dotato, un'esperienza formativa insostituibile nel campo della dirigenza di un servizio; equivalente per importanza e per specificità alla formazione di livello universitario che abbiamo ricevuto all'inizio del nostro precorso professionale.
Un altro aspetto della funzione dirigenziale potrebbe essere descritto come la capacità di "tollerare la voce discordante senza farla sentire emarginata o inascoltata"; occorre cioè dare spazio a tutti i collaboratori, mantenendo una relazione anche con chi manifesta disagio, ribellione e dissenso. Questo comporta la necessità di misurarsi con uno spazio, quello del dissenso, in cui entriamo in gioco non solo con il nostro ruolo di primari, ma soprattutto con le nostre caratteristiche personali.
Mantenere un'apertura ed una tolleranza del dissenso vuol dire riuscire a tollerare gli attacchi rivolti verso la propria funzione senza personalizzarli troppo, e lasciando che si manifestino sia direttamente sia indirettamente attraverso i momenti di conflittualità interpersonale; la tollerenza del dissenso contiene un messaggio implicito per tutti, che si muove in direzione dell'accoglienza dialettica del contributo conoscitivo dato da ciascuno, anche quando si pone in contrapposizione col gruppo o con le strategie e la cultura del servizio.
L'intervento del dirigente non dovrebbe in ogni caso favorire le divisioni esistenti tra gli operatori, la creazione di sottogruppi o il determinarsi di una dinamica del capro espiatorio; spesso accade invece che ci illudiamo di risolvere i problemi di gestione posti da un gruppo istituzionale con l'allontanamento del dissidente, oppure fantastichiamo di mettere insieme un gruppo di operatori ideali, rincorrendo un'utopia fantastica che serve ad allontanarci dal dirigere efficacemente il gruppo reale, o a giustificare le nostre carenze.
Affrontare le situazioni conflittuali è comunque uno dei compiti più faticosi ed impegnativi di un primario, ma è proprio l'attraversamento di questi turbolenti passaggi esperenziali che si può trasmettere agli operatori la speranza di superare le difficoltà, a partire dalla capacità o dall'impegno con cui vengono affrontate dal dirigente.
Abbiamo così tracciato una rapida descrizione di alcuni dei compiti della funzione dirigenziale; una mancata attenzione ad essi da parte del primario può determinare nel tempo un degrado dell'operatività.
Nei servizi di salute mentale si possono determinare cioè importanti conseguenze provenienti dal modo con cui un dirigente svolge i propri compiti, e dai valori di cui è portatore. Sono infatti gli aspetti più personali (o di personalità) del primario che, interagendo interiormente con i compiti che deve svolgere, danno origine alla peculiare modalità con cui egli si mette quotidianamente in rapporto con gli operatori e l'ambiente circostante, creando quello spazio interpersonale che contribuisce alla nascita del clima emotivo e della specifica modalità di lavoro che caratterizzano ciascun gruppo istituzionale, e che altrove abbiamo definito come "cultura del servizio".
Prima ancora che come primari, è come psichiatri che negli ultimi trent'anni siamo stati attraversati da molti dubbi, relativamente al nostro ruolo istituzionale.
In un convegno del 1981 che aveva per tema l'identità dello psichiatra, Petrella (1993) ha ricordato come lo psichiatra abbia posseduto un'identità in cerca di definizione, passando dalla posizione di chi sta un pò fuori dal mondo e sa valutare quali degli affanni umani siano comuni affanni e quali invece siano malattie dell'anima o del corpo, alla posizione di chi si pone il problema di come scendere da questa fittizia elevazione.
Petrella (1993) attribuisce la responsabilità dell'atteggiamento di superiorità al "sapere" psichiatrico, costituito da un sistema di giudizi che individuano cosa guardare e cosa fare, fornendo al contempo, allo psichiatra, la stabilizzazione della propria identità. I libri di psichiatria, per questo autore, vanno letti e studiati, ma non adoperati come scudo o arma contro gli utenti, e lo psichiatra deve badare anche alla propria identità personale e non solo a quella professionale.
Quando lo psichiatra ha cominciato a sperimentare la caduta di tutti quegli ideali illusori che lo collocavano, ipso facto, in un sistema di conoscenze che fornisce sapere e potere nei confronti della follia, e la crisi della propria identità professionale, è cominciata a maturare l'esperienza critica della psichiatria. E non è un segreto che per un certo numero di psichiatri è stata la psicoanalisi -la propria analisi personale- a risolvere con un unico atto il problema della identità personale e di quella professionale (Petrella, 1993).
Il passaggio successivo, il primariato, non è solo uno sviluppo di carriera o una tappa di maggior potere economicamente gratificante, ma rappresenta anche qualcosa che, parafrasando Petrella, può essere descritto come "un ruolo in cerca di identità".
Per uno di noi questo passaggio ha significato, ad es., la rinuncia a gran parte dell'attività clinica che aveva sempre fatto; rinuncia che nasceva dalla confusa idea che fare il primario volesse dire occuparsi principalmente del funzionamento del servizio, dei problemi organizzativi e di quelli clinici affrontati quotidianamente dai vari operatori, assumendo per sè un ruolo di sostegno, ma anche di verifica dei loro interventi. Ovviamente è capitato anche a lui, in seguito, di prendere in carico pazienti gravi; succedeva ad es. quando i colleghi si trasferivano o più semplicemente quando andavano in vacanza, e qualcuno di questi casi l'ha continuato a seguire per anni.
E' nostra opinione che la posizione di primario giochi un ruolo centrale nella determinazione del clima culturale ed emotivo che attraversa un servizio, ed anche quando egli si pone in modo marginale, la sua figura conserva il potere di generare significati emblematici, legati sia alla gestione di un potere decisionale, sia, in parte, a fattori di ordine simbolico.
Per la particolare posizione che occupa, il primario viene facilmente investito dalle proiezioni di aspetti genitoriali provenienti dagli operatori, ed al suo interno si andrà sviluppando una complessa dinamica tra ruolo occupato, fantasmatica genitoriale propria e fantasmatica genitoriale proiettata; dinamica che genera, a sua volta, modalità differenti di intendere lo svolgimento della funzione dirigenziale, da cui traggono origine scelte gestionali, decisioni ed iniziative. Dall'assunzione di queste complesse funzioni connesse col ruolo dirigenziale, dal loro coniugarsi o deflettersi per intolleranza di alcuni dei suoi aspetti, derivano i vari stili di conduzione di un servizio e del rapporto con gli operatori; dai quali traggono appunto origine i differenti climi culturali ed emotivi del servizio.
Si potrà andare cioè da un massimo di assunzione di "genitorialità" agita, che trasforma il primario nel garante dei bisogni degli operatori-bambini, ad un massimo di "dirigenzialità" intesa come contrapposizione ai bisogni ed alle istanze degli operatori.
Più correttamente e forse anche più frequentemente, i due codici di accoglienza e normatività (materno e paterno, secondo una denominazione che rieccheggia quella fornariana) si possono mescolare in vario grado e misura, anche in relazione alle situazioni che si vanno determinando nella quotidianità.
Cercheremo pertanto di approfondire la complessa trama di indentificazioni e relazioni oggettuali attraverso cui si realizza questa influenza, a partire dai contributi provenienti dagli studi psicoanalitici.
Kaes (1996) evidenzia come i servizi per la salute mentale costituiscano dei nodi di intersezione e interazione tra realtà eterogenee (sociale, giuridica, economica, politica, culturale); la realtà psichica è una delle realtà presenti ed appare costituita da una mobilitazione di funzioni e processi psichici, come relazioni d'oggetto ed identificazioni, che, se pur canalizzati e domati dall'istituzione, continuano a svolgersi all'interno dei diversi soggetti.
I processi identificatori vengono per la prima volta descritti da Freud (1915) come ciò che conduce l'Io ad assumere dentro di sè gli oggetti offerti come fonte di piacere, ed a mettere fuori di sè ciò che invece al suo interno produce dispiacere. Le identificazioni primitive (1922) sono quindi dirette, immediate e più antiche di qualsiasi investimento oggettuale, dal quale derivano invece le identificazioni secondarie. Se ipotizziamo allora, come molti autori fanno, che il contesto istituzionale sia in grado di riattivare processi mentali primitivi, possiamo pensare che nelle relazioni intersoggettive che si svolgono nell'istituzione si possano mettere in moto dei processi identificatori che conducono il primario ad entrare a far parte della mente del singolo operatore e del gruppo, come una sorta di riferimento interno.
In "Lutto e melanconia" Freud (1915) descrive le identificazioni secondarie che traggono origine dall'introiezione susseguente alla perdita reale o fantasmatica di un oggetto d'amore, e le conseguenze patologiche in senso depressivo che derivano quando queste introiezioni siano associate alla persistenza di un legame oggettuale di tipo narcisistico, sul quale pesi inoltre una forte carica di ambivalenza. Freud (1922) descrive infine il prendere campo delle identificazioni al tramonto dell'edipo diretto e invertito; identificazioni che possono riguardare la costituzione dell'Io o l'Ideale dell'Io, ma che hanno un ruolo determinante soprattutto sulla nascita del Super-io.
Possiamo chiederci adesso quale ruolo abbiano le identificazioni secondarie nei contesti istituzionali.
Per Ciccone (1996) l'identificazione proiettiva è la nozione che può aiutare a studiare il lavoro dei processi identificatori anche in contesti extranalitici; le identificazioni inconsce, afferma questo autore, si trasmettono o si formano nell'infraverbale, nel ritmo delle interazioni e nei modi di dire, molto più che nel dire. Nelle relazioni familiari il genitore indica al figlio il posto che egli occupa nello scenario fantasmatico familiare, e tramite l'identificazione proiettiva impone al figlio un oggetto incorporato che trasforma il soggetto, e che differisce dall'oggetto introiettato, in quanto quest'ultimo è maggiormente integrato nella struttura interna e più legato al gioco relazionale.
Nell'ambito istituzionale, è a partire dalla centralità del ruolo di primario e dalle vicissitudini delle sue relazioni col gruppo degli operatori che prende corpo il differente coniugarsi delle identificazioni, come forma di legame tra le persone. La figura del primario corrisponde alla presenza di un interlocutore esterno dal quale gli operatori dipendono e da cui si attendono risposta ai bisogni interni di valorizzazione e confronto; è possibile pensare cioè che egli possa trasmettere al gruppo degli operatori i suoi valori, le sue esigenze e le sue richieste, attraverso i suoi messaggi infraverbali, i suoi ritmi di comunicazione ed i suoi "modi di dire". Se poi sarà anche in grado di reggere l'impatto con l'insieme delle proiezioni che si appuntano sul suo ruolo, continuando a svolgere le funzioni e i compiti dirigenziali che gli competono, anche una pregiudiziale (o transferale) connotazione negativa potrà nel tempo modificarsi, e ciascun operatore potrà progressivamente confrontarsi con la realtà dei pregi e difetti del suo dirigente e non solo con il proprio fantasma interno proiettato.
L'istituzione impone quindi ai soggetti presenti un complesso lavoro psichico intersoggettivo, che origina dal lavoro imposto ad ogni psiche dai suoi oggetti, in quanto dotati di vita propria, e dalla congiunzione tra le varie soggettività (Kaes, 1996). Questo lavoro dà origine a processi identificatori di vario ordine e grado, dove le identificazioni vanno intese come sfumature e accenti particolari, provenienti dalle rappresentazioni dell'oggetto ed implicanti una riorganizzazione dei desideri e dei modelli di comportamento.
Per la posizione istituzionale che occupa, il primario ha dunque la possibilità di svolgere un ruolo propositivo e di crescita in questa rimodellizzazione degli operatori; in questi ultimi possono derivare infatti sia processi di introiezione, intesa come accettazione di una dipendenza depressiva, sia processi di incorporazione come oggetto ego-alieno, favoriti invece dal prevalere dell'invidia o di altri sentimenti distruttivi che ostacolano l'introiezione. In questo caso il primario può essere molto presente nella mente dell'operatore, che mantiene però un'illusione di indipendenza.
In quanto dirigente di servizio, egli può svolgere tuttavia anche un ruolo distruttivo e alienante sul gruppo degli operatori, imponendo loro il rispecchiamento degli aspetti più problematici del proprio funzionamento mentale. In questo caso il gruppo degli operatori diventa il depositario degli aspetti di sé che il primario ha bisogno di forzare nell'altro per poterli controllare, dopo essersene in qualche modo liberato.
Se siamo affetti ad es. da forti cariche narcisistiche possiamo cercare di imporre nel nostro servizio un clima carico di idealizzazione nei confronti del nostro operato, che nasce in gran parte dal nostro bisogno di sentirci bravi ed alla guida di un servizio speciale. Quando questa dimensione narcisistica attraversa tutto il servizio e non resta confinata nella mente del primario può, in certa misura, essere utile, perchè aiuta a lavorare quotidianamente con pazienti molto gravi; tuttavia se diventa troppo intensa e prevalente, essendo basata su una specie di accantonamento fusionale dei sentimenti e delle emozioni aggressive, non consente un'autentica attenzione ai pazienti e non regge l'impatto con le frustrazioni reali. Il clima idealizzante può tramutarsi allora in un clima carico di aggressività nei confronti dei pazienti, colpevoli di non accogliere e non essere grati per le cose speciali che stiamo dando loro.
Quando prevale in noi la tendenza ad una sorta di inquieta bramosia, che entra in risonanza con le istanze più avide e incontentabili degli operatori, il nostro ruolo si trasforma in quello di un procacciatore di risorse o incentivazioni per accontare gli operatori-bambini nelle loro fameliche esigenze, che rispecchiano i nostri aspetti più avidi. Nel servizio potrebbe affermarsi allora un clima dominato dall'incontentabilità e dal continuo fiorire di richieste, che se frustrate daranno origine a movimenti di risentita protesta.
Altre volte possiamo trovare in noi stessi un'identità di primario in fuga, teso principalmente ad evitare il coinvolgimento con operatori e pazienti, che vengono così collocati in un ruolo di inseguitori; se poi veniamo raggiunti e costretti al confronto ci consideriamo bravi quando riusciamo a manipolare la situazione trovando nuove vie di fuga. Anche questo stato mentale del dirigente può produrre negli operatori una tendenza al rispecchiamento, determinando nel servizio l'insorgenza di una vera e propria "cultura del rifiuto" basata sulla valorizzazione più o meno incoscia delle strategie di distanziamento dei pazienti, falsamente elaborate e proposte come strategie terapeutiche. Hinshelwood (1988) definisce questo clima col termine di "demoralization", intendendo con questo termine, il prevalere in una équipe del cinismo nei confronti dei pazienti e degli stessi colleghi che non si conformano alla cultura prevalente.
Altre volte ancora possiamo essere presi dalla spinta a collocare all'esterno, negli amministratori o nei colleghi, tutte le colpe per le carenze o le insufficenze del servizio. Questa configurazione, basata sulla facile divisione tra la nostra irreprensibilità ed i difetti altrui, oltre ad avere una possibile matrice proiettiva, ci rende inattendibili nelle nostre modalità di presentare le richieste e ci espone a frutrazioni tali che ci confermano nel nostro circuito paranoico. Quello che non funziona in questi casi è proprio il presupposto da cui partiamo, la sicurezza della nostra indiscutibile ragione e superiorità, cui tutto è dovuto.
Analoghe culture scissioniste vengono da noi prodotte quando attiviamo, più o meno consapevolmente, contrapposizioni tra gruppi di operatori, inducendoli a schierarsi a favore o contro di noi; in entrambi i casi, sia quello in cui il nemico è l'amministratore, sia quello in cui i nemici sono interni al gruppo, possiamo determinare nel servizio un clima da campo di battaglia, con il pericolo di usare i pazienti come armi delle nostre piccole guerre. Ci sono ad es. psichiatri conosciuti come veri e propri "trafficanti di familiari", da loro stessi manipolati ed adoperati ai propri scopi, contro amministratori o contro il loro stesso dirigente.
Quando, come primari, abbiamo bisogno di controllare ogni più piccolo particolare del lavoro del nostro servizio, senza poter mai delegare niente a nessuno, non lasciamo sviluppare tra gli operatori uno spazio di crescita della responsabilizzazione. Può derivarne come conseguenza un clima di ansiosa e preoccupata attesa dell'incidente; il servizio diventa allora incapace di esprimere un vero accoglimento della sofferenza mentale dei pazienti, i quali vengono controllati e tenuti sotto sorveglianza, anche al loro domicilio, affinchè la loro (e la nostra) follia, sentita come portatrice di aspetti molto pericolosi, non esploda all'improvviso.
Tutti noi primari attraversiamo fasi della nostra dirigenza dominate dall'uno o dall'altro degli stati mentali descritti, o da altri ancora; di conseguenza i climi emotivi di un servizio possono mutare nel tempo, avvicendandosi quasi come le stagioni. Quando però un clima emotivo diventa prevalente, stereotipato e immutabile, la situazione complessiva si deteriora ed assume caratteristiche patologiche, mentre si accumulano tra gli operatori tensioni emotive inelaborabili, che vanno a discapito dei pazienti e dell'accoglienza che riserviamo loro.
In questi casi, invece di essere accolti per la loro sofferenza, i pazienti corrono il rischio di venire manipolati o incosapevolemente indotti a trasformarsi nel ricettacolo della sofferenza e delle tensioni degli operatori. Possiamo indicare questo stato come la nascita di una "cultura di servizio" di segno negativo, basata sul controllo, o sulla fuga dalla presa in carico, o sull'uso manipolativo dei pazienti.
Le configurazioni qui descritte sono ovviamente delle esemplificazioni, che tuttavia possono aiutarci a capire come stile di lavoro e cultura di un servizio non siano solo il prodotto del mandato sociale o delle risorse presenti, nè solo dell'organizzazione istituzionale o della dinamica di gruppo, ma siano il prodotto di tutti questi fattori collegati tra loro ed alla figura del primario. Il primario va inteso pertanto come un vero e proprio polo organizzatore di tutti questi elementi, dalla cui interazione, filtrata attraverso la sua funzione, prende origine il clima emotivo del servizio.
Vorremmo presentare quindi una situazione clinica attinente al lavoro di uno di noi, affinchè queste riflessioni sul ruolo del primario non perdano il contatto con la realtà clinica.
Consolazione e banda narcisistica: una riunione al Centro diurno
L'episodio che intendo raccontare si è svolto nel contesto della riunione degli operatori che da qualche anno conduco settimanalmente al centro diurno; riunione che verte su quanto si è mosso tra i pazienti durante la settimana, alla ricerca di una comprensione del livello mentale presente nel gruppo. Il modello teorico di riferimento si può trovare descritto in due articoli di Hautmann (1981, 1984) ai quali rimando chi voglia meglio conoscere questo tipo di approccio alla riabilitazione psichiatrica.
Il giorno prima della riunione con gli operatori del centro, avevo partecipato ad una riunione del Direttivo del Dipartimento di Salute Mentale, di cui faccio parte, rendendomi conto con un certo stupore che i Centri Diurni degli altri servizi di salute mentale di Firenze hanno un rapporto operatori-pazienti che va da un minimo di un operatore per tre pazienti, ad un massimo un operatore per ogni paziente.
Ne ero rimasto abbastanza turbato, perchè nel Centro Diurno del servizio di cui sono responsabile il rapporto è ancora oggi di un operatore per cinque pazienti, nonostante ci siano, accanto a pazienti cronicizzati, altri pazienti molto gravi, come schizofrenici abbastanza giovani e soggetti con importanti disturbi affettivi e di personalità.
Questa scoperta aveva attivato dentro di me un sentimento di colpa per avere disertato qualcuna delle ultime riunioni settimanali del centro, essendomi lasciato catturare da altri impegni di "alto livello dirigenziale". Mi tornò alla mente che ultimamente dopo ogni mia assenza arrivavano notizie di difficoltà al centro diurno, cosa che aveva provocato in me una certa irritazione; ero arrivato a pensare quanto l'istituzione di un setting di lavoro fosse vincolante e rendesse difficile sottrarsi, fino al punto da chiedermi se proprio questo assetto lavorativo costante non avesse creato una sorta di dipendenza degli operatori del Centro dalla mia presenza.
Nel momento in cui apprendevo quelle notizie sui parametri di personale degli altri centri diurni, mi resi invece conto, come in una sorta di insight, che se così pochi operatori potevano reggere, con risultati di cui potevo essere contento, pazienti così gravi e difficili, era probabilmente in virtù di quella riunione settimanale; e questo non perché io possegga speciali qualità taumaturgiche, bensì per il fatto che, nel mantenere l'impegno di partecipare a quella riunione, oltre a contribuire alla costituzione nel gruppo di una funzione di pensiero, producevo, con la mia presenza di primario, una valorizzazione del lavoro quotidiano e dell'impegno degli operatori, mentre la mia assenza suonava per loro come un essere messi da parte.
Il giorno dopo, alla riunione del centro diurno, il medico che vi lavora inizia parlando del bisogno di una riunione organizzativa urgente, per il fatto che i due infermieri del centro stanno andando in pensione. Ci sono altri interventi su questo argomento e si discute di come affrontarlo con i pazienti, visto che ormai la notizia del pensionamento degli infermieri circola ampiamente anche tra di loro.
Il medico riprende dicendo che si sta rendendo conto di come la sua richiesta di riunione fosse incongrua rispetto al bisogno principale, che è quello di elaborare, sia in questo gruppo sia in quelli con i pazienti, questi cambiamenti.
L'infermiera (una dei due infermieri che andranno in pensione) interviene molto emozionata dicendo che qui si sta replicando il suo sogno di stanotte, e racconta di aver fatto un sogno in cui come adesso lei stava un po' male; nel sogno c'era una situazione di persone sedute attorno ad un tavolo come in questa riunione, ed il primario la voleva consolare. Un po' avvicinava la mano per metterla sulla sua testa e accarezzarla, ed un po' la ritirava. Questo movimento della mano che si avvicinava alla sua testa e si allontanava le era rimasto impresso.
Il medico del centro racconta, subito dopo, che pochi giorni prima, avendo incontrato l'infermiera fuori servizio mentre era a passeggio col cane, sentendosi forse un pò arrabbiato con lei, le si è avvicinato piano piano da dietro per farle uno scherzo e forse per spaventarla; senonchè mentre le si avvicinava di nascosto era sempre meno sicuro di farlo e il cane dell'infermiera ha cominciato a ringhiargli contro. A quel punto lei si è girata e l'ha visto.
Intervengo sul fatto che forse si sta parlando di una indecisione sull'andare a toccare certi argomenti e sentimenti, sia nella riunione di oggi sia con i pazienti, ma nel momento in cui ne parliamo sembra che ci stiamo avvicinando.
L'infermiera racconta ora come il desiderio di essere consolata del sogno corrisponda al fatto che, accanto alla contentezza per il pensionamento vicino, lei prova anche un groppo di dispiacere a lasciare questo lavoro nel centro diurno che le è sempre piaciuto molto.
A questo punto il gruppo può tornare a pensare ai pazienti ed emerge il racconto di un paziente, Paolo, che da qualche tempo ha intensificato la tendenza a fare scherzi: prima li faceva agli altri pazienti, ma adesso tende a farli anche agli operatori.
L'altro giorno ad es., racconta un'educatrice, ha comunicato all'infermiera che, avendola incontrata alla sede del servizio psichiatrico aveva ricevuto da lei il compito di riferire all'infermiera che quel giorno lei, l'educatrice, non sarebbe venuta la centro. Questo ha creato dei momenti di panico nell'infermiera che si è vista rimanere da sola con tutti e quindici i pazienti; per qualche minuto si è determinata davvero una situazione esplosiva, superata poco dopo per l'arrivo dell'educatrice, che ovviamente non aveva detto nulla di quanto riferito da Paolo anzi, incontrandolo nella sede del servizio l'aveva salutato ma non gli aveva proprio rivolto parola.
Viene raccontato subito dopo che Paolo sta facendo anche una strana operazione: all'ora del pasto va ad aiutare ad apparecchiare e così facendo utilizza i cartoni del vino rimasti aperti dal giorno prima per attirare a sè un gruppo di pazienti, che si allontanano dalle attività che stanno facendo con l'educatrice e si dispongo attorno a lui per bere.
Il racconto suggerisce il presentificarsi nella realtà mentale del gruppo di una configurazione che ricorda l'organizzazione narcisistica distruttiva descritta da Rosenfeld (1987); una configurazione interna in cui una parte idealizzata e perversa assume il dominio del mondo interno, opponendosi alle parti più bisognose e dipendenti. Configurazione che viene esternalizzata e messa in scena nel gruppo (Paolo ha avuto problemi con la giustizia per comportamenti attinenti l'area delle perversioni).
L'infermiera racconta a questo punto che un'altra paziente del gruppo le ha detto di recente che appena se ne andrà in pensione sarà lei a sostituirla nel ruolo di infermiera; poi all'educatrice viene in mente che Paolo si sta interessando molto alle leggi sulla sanità, e che tutto il gruppo dei pazienti è apparso interessato dalla lettura delle notizie sulla chiusura dei manicomi.
Mi sembra allora di poter collegare la configurazione della banda narcisistica, messa in scena nel centro, con i sentimenti di perdita e di vuoto sperimentati dal gruppo dei pazienti in occasione dei vicini pensionamenti, che sembrano lasciare un "vuoto di potere" che potrebbe consentire la nascita di una leadership perversa e distruttiva.
Il resoconto di questa riunione rende conto dell'intrecciarsi di differenti livelli emotivi connessi con le problematiche istituzionali (rapporto operatori-pazienti, pensionamenti, presenza-assenza del primario dalla riunione).
Il sogno dell'infermiera, come possibile espressione di un funzionamento mentale comune, sembra presentare un vissuto del gruppo relativo a questa fase di presenza/assenza del primario; l'immagine della mano consolatoria che si avvicina e si allontana dalla testa dell'infermiera potrebbe corrispondere infatti all'oscillante atteggiamento del primario in merito alla riunione del centro, presente in quel periodo.
C'è da considerare inoltre la coincidenza degli scherzi: il racconto dello scherzo del medico precede il racconto dello scherzo del paziente, ed entrambi sembrano configurare la presenza nel gruppo di modalità difensive ipomaniacali per avvicinare e fronteggiare i sentimenti penosi connessi con la separazione; l'altra e più pericolosa modalita difensiva sembra esprimersi attraverso la possibile nascita di una banda distruttiva che sabota e si contrappone al lavoro riabilitativo.
Si potrebbe anche pensare che nella narrazione della banda, fatta dagli operatori, sia contenuto un altro livello di comunicazione, connesso con l'idea che se il primario toglie la sua presenza (mano) dalla testa del gruppo e non rispetta l'assetto settimanale di lavoro comune, gli operatori non saranno più in grado di contenere le istanze distruttive dei pazienti e diverrano essi stessi preda di una banda distruttiva interna.
Infine quello che più conta, al di là di tutte le possibili letture e intepretazioni, è il fatto che gli operatori abbiano potuto pensare, verbalizzare ed elaborare nel gruppo molti dei contenuti esposti, a partire dai sentimenti più vicini alla coscienza connessi con il prossimo pensionamento della collega.
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