Identità e cambiamento - Lo spazio del soggettoLaura Montani
Adolescenza: nuovi disagi. Corpo accesorio e corpo feticcio 1 Nella contemporaneità, per lo meno per quanto riguarda il mondo occidentale, un apparato culturale, indicato dagli studiosi delle società come “globalizzazione”, richiede che il lavoro dell’analista si disponga a mettere in questione quell’ “impossibilità”che Freud attribuiva al ‘governare’, ‘insegnare’, ‘curare’. Se cogliere il punto decisivo in cui la sofferenza individuale si distacca e prende corpo come tale, unica e assolutamente irripetibile, doloroso ma possibile fecondo campo di trasformazioni, risulta infatti un compito arduo a fronte dei mandati contraddittori e disindividualizzanti che le società dei consumi di massa impongono al singolo alienandolo, proprio la constatazione di tale alienazione ha spinto la ricerca psicoanalitica più recente ad aprirsi a campi che sembrerebbero non appartenergli: i totalitarismi, il terrorismo e la loro mancata elaborazione rispetto al ‘negativo’ che li ha sostenuti e resi possibili. Se, come indica S. de Mijolla Mellor (2005), nella contemporaneità e in modo specifico nella post–modernità, sembra essersi operata “una regressione dal pensabile al visivo, giacchè la vista diventa necessità, malgrado tutto, di afferrare un senso”, ci troviamo di fronte a una svolta epocale che richiede da parte dell’analista uno specifico ascolto (D. Quinodoz, 2002) Alla luce di questa decisiva analisi del modello “scopico” attraverso il quale procede nella attualità il complesso percorso delle identificazioni, il paradosso indicato da Kaes (2007) di “ una società il cui unico organizzatore è l’individualismo”, risulta convalidata dal lavoro che Green e Racamier portano avanti da anni su un aspetto specifico dei “casi limite”: la negazione dell’essere generati “da”, la totipotenza, l’impossibilità di riconoscere e accettare il limite, il primo del quale limite è appunto, essere nati “da”, il lavoro del negativo che si esprime nella forma del diniego e della forclusione. L’ipotesi di un narcisismo di morte dunque (Green ’82), come modalità principe che, dalla fine della seconda guerra modiale, si trasmette tra le generazioni, articolandosi nella regressione dal pensabile al visivo, trova qui una sua cittadinanza teorica e si avvalora se, come vuole Faimberg (2006), un diniego trasmesso di generazione in generazione impedisce di elaborare il lutto delle catastrofi della prima metà del ‘900. La cripta di questo lutto incistato, chiusa quasi irrimediabilmente, dà luogo ad uno spazio intrasoggettivo e intersoggettivo dove ciò che è denegato ritorna nella forma di una mutilazione, in senso stretto e in senso lato. Il modo di percezione unitaria del corpo risale immaginariamente allo stadio dello specchio, dramma in cui il soggetto, per esistere come tale, si precipita; operazione vertiginosa in cui l’infans assume la sua immagine speculare come una gestalt, un’esteriorità , che egli però non può assumere che come propria, paradosso del narcisimo primario, stadio irrinunciabile perché l’essere sia esistente (A..Green, 1982). La forma unitaria del corpo è raggiunta tramite un miraggio ( forse non è un caso che in spagnolo il termine mirada stia ad indicare lo specchio), ma se la relazione con la realtà, l’umwelt, subisce una rottura, se il cerchio fra l’innewelt e l’umwelt si rompe, anche l’ imago perde la sua funzione di coesione immaginaria dell’io. Nel soggetto si produce la fantasia di un tempo precedente in cui il corpo era frammentato, fluido, in mano a forze incontrollate - le pulsioni - che minacciano di mandarlo in pezzi. L’ io si costruisce allora un’armatura ( narcisismo secondario) che lo difende contro il caos che lo minaccia all’interno e all’esterno, difesa che comporta mutilazioni all’integrità corpo-mente. La scena contemporanea, dove il cerchio si è rotto, ci offre questo io armato(V.Valrntini,2006) che ha paura della sessualità, dell’inconscio, dell’alterità. Alla luce di queste trasformazioni che riguardano i mutamenti del processo di soggettivazione visti in stretta relazione con cambiamenti della scena sociale, figure inedite si articolano nella stanza d’analisi e chiedono di essere esplorate soprattutto per quanto riguarda il passaggio cruciale dell’adolescenza, là dove il mandato è: “ciò che hai ereditato dai padri devi riguadagnarlo”. Prima di inoltrarmi, a titolo ancora di ipotesi, in questa esplorazione, forse non è superfluo ricordare che la psicoanalisi inaugura, nell’orizzonte epistemico contemporaneo, un metodo di ricerca che fa di elementi apparentemente accessori, ( il lapsus, l’atto mancato, la dimenticanza), uno dei cardini della sua costruzione teorica, come pure lo strumento terapeutico principe per raggiungere, nella cura, ciò che dietro quei lapsus, quegli atti mancati, quelle dimenticanze, si cela la sofferenza segreta di chi a lei si rivolge. Questo metodo che con pazienza e tenacia gli analisti, individuali e di gruppo, continuano a praticare, rappresenta a tutt’oggi uno dei più potenti strumenti contro la perdita di senso, sia soggettiva che gruppale e garantisce alla psicoanalisi la forza della sua specificità. In forza di questo scenario, dove sembra campeggiare una sorta di “fissazione” allo stadio dello specchio, sia nella costituzione del soggetto singolare che gruppale, seguendo le intuizioni di G. Simmel e di R. Barthes che indicano nel “sistema” della moda una possibilità di inoltrare lo sguardo nell’umano nel suo mutevole farsi e trasformarsi, mi soffermerò sull’accessorio, nella sua valenza semantica di elemento che, pur essendo apparentemente inessenziale all’abito, tuttavia lo muta e ne cambia la visibilità, valendomi di quanto dalla psicoanalisi ho appreso come metodo. Incrociando ciò che inevitabilmente si annoda nei sistemi transindividuali di significazione con quanto di più proprio appartiene al singolo, l’ accessorio inteso nella sua qualità psicoanalitica di sintomo, acquista un suo particolare valore euristico, oggi, alla luce di una cultura che sposta sul visibile anche ciò che, a tutta prima, sembrerebbe appartenere all’ordine dell’irrapresentabile (S. Mijolla Mellor, 2005). Legherò dunque qui la questione cruciale dell’adolescenza e dei suoi nuovi disagi, nel tempo della contemporaneità, con quella dell’accessorio e sceglierò tra i tanti incontrati nella stanza d’analisi, un elemento “accessoriale” sintomatico privilegiato: il peircing, consapevole della parzialità della mia ricerca rispetto ad una tematica così complessa. La questione dell’accessorio mi ha permesso di cogliere, proprio per la paradossale condizione di questo elemento microvisibile e macrovisibile insieme ( pensiamo ai piccoli brillanti che ritroviamo sul corpo dei ragazzi e delle ragazze nei luoghi più i segreti o in quelli più esposti), uno specifico stato di sofferenza in cui chi è adolescente oggi si trova gettato:l’impossibilità di prendere un posto proprio nella catena trangenerazionale, dove l’adolescente, pur considerato spesso nell’ambito familiare come un “gioiello”, sente di essere un elemento accessorio. O per lo meno questo è il vissuto comune di quegli adolescenti che ho a lungo ascoltato, negli ultimi anni, uno dei quali, in particolare, ha permesso che io articolassi i pensieri che seguono.
2 Nell’esperienza contemporanea della cura dell’adolescenza, la sofferenza individuale si va disponendo secondo articolazioni che propongono all’ascolto dell’analista un lamento sul corpo e del corpo, continuo e incessante. In questo lamento, essere-avere un corpo compare come un destino tragico e l’analista è confinato, nel suo ascolto, ai bordi di uno spazio-corpo vuoto di un centro, ma contemporaneamente fornito di centri plurimi, dove il rapporto tra centro e periferia si ribalta incessantemente (c. fr Racamier, I990). Se, come dice Foucault, “siamo nell’età del simultaneo, della giustapposizione, del vicino e del lontano, del fianco a fianco e del disperso”, questo non è un caso. Lo scenario contemporaneo porta infatti violentemente alla ribalta un corpo-accessorio (pensiamo solo alla tecnica dei trapianti) in stretto contatto con un lutto impossibile da elaborare, con una cancellazione dell’elemento della mancanza che impedisce l’articolazione della differenza e l’accesso alla finitezza e al tempo espresso dalle forme estreme, che l’accessorio viene assumendo in relazione al corpo e al suo abitare. Il piercing, le più recenti enigmatiche pratiche di scarnificazione, come pure tutta la body art letteralizzano infatti una lacerazione e un’offesa originaria, una separazione costitutiva dell’esistente dall’essere che può essere rappresentata solo come buco, fenditura, lacerazione e hanno a che fare con una sofferenza che riguarda da vicino il non “andare da sè” della sessualità umana, il profondo commercio che essa intrattiene con il negativo e la morte. L’originario e insondabile fondo del dolore, paradigma assoluto che ritroviamo dietro ogni corpo bucato e tatuato, convoca di forza l’analista in una“terra di nessuno”, lo espone a un “bianco” d’identità teorica che potrà forse riempire con la forza della visionarietà del tranfert (T.Ogden,1999). Il piercing che letteralizza la sofferenza di un corpo esistente, che non può percepirsi come tale se non tagliandosi, forandosi nella carne viva, mette l’analista a confronto con un’esperienza estrema dove, come dice Pontalis : “…l’oggetto cessa di avere la funzione di possibile rispondente; è tutt’al più un sostituto e dietro tale sostituto vi è un altro sostituto:”tranfert infinito”. Irrimediabilmente perso ma sempre mantenuto,l’oggetto non può essere ritrovato attraverso il cammino della rappresentazione, che rende presente un altro, a un tempo lo stesso e diverso. Là dove vi è dolore, l’oggetto assente, perso, diventa presente; l’oggetto presente, attuale, diventa assente. Improvvisamente il dolore della separazione appare come secondario, come dolore nudo, assoluto. La scena psichica può sembrare abitata, ma è abitata da ombre, figuranti e la realtà psichica si trova altrove, non tanto rimossa, quanto incistata” (Pontalis.1995 2° Nel chiuso della sua stanza l’analista pensa al dolore che ha visto. Gi adolescenti che arrivano da lui in cerca di aiuto lo portano inscritto sul corpo. L’analista che ha guardato quel dolore, lo ha sentito sulla sua pelle e per questo deveripensarlo. Guardando certi suoi giovani pazienti diventa egli stesso un Io Pelle (Anzieu 19879)
3 S., il mio giovane, anzi giovanissimo paziente, mi portava in seduta il suo volto bucato, ornato da piccoli gioielli inseriti nei fori, che cambiava spesso, il suo corpo segnato e agghindato da tatuaggi svariati, che aumentavano via via e che mi mostrava e mi ”raccontava”. Con molta insistenza, ascoltandolo, mi venivano alla mente i buchi, i ferri e le bruciature di Burri. Intorno ai buchi e alle bruciature di Burri, il cui gesto mima la condizione dell’esistere rispetto all’essere, troviamo stoffe, materiali, i più svariati, disposti con una grazia pietosa e misericordiosa come a curare e lenire la ferita che il fuoco o il coltello hanno inferto nel corpo dell’opera. Tutto questo mi rimandava ad S, mi spingeva a pensare a una condizione interiore di massima esposizione psichica, traducibile nell’immagine ”essere bucato”, quella che il suo corpo letteralizzava, ma con una grazia che rendeva la crudezza dell’accessorio “perforante” già disposta forse verso una speranza, anche se primitiva e abbozzata, di un’espressione di sé e mi faceva intravvedere forse, o forse solo sperare, una possibile anche se lontana trasformazione. Molti sono oggi gli analisti che lavorano intorno a zona a-rappresentativa, presimbolica, al di là della rappresentazione. Questo “nuovo” accessorio , il piercing, presenta un’ area semantica che si allarga fino a includere quelle zone dove, caduta ogni complementarità tra centro e margine, l’accesso a cui egli enigmaticamente ci conduce, sembrerebbe essere un accesso al nulla. Ma sarà proprio così? O forse il “sintomo della carne bucata”, può per lo psicoanalista essere una traccia da utilizzare per attraversare, insieme al suo paziente adolescente, la terra del nulla e scoprire altri territori più vivibili, dove il corpo e il suo senso possano ricomporsi in un intero? Quando S. mi parlava di suo padre lo chiamava “il padrino”, il “boss”, il “mafioso“. Inizialmente pensavo che fossero appellativi, meri appellativi, usati per esprimere la sua aggressività nei confronti della figura paterna. L’analisi nel suo svolgersi mi disse che non era così. La realtà della mafia, nella sua inquietante letteralità, entrava concreta e viva nella stanza, insieme alla disperazione e alla paura del mio giovane paziente. S. veniva in analisi all’insaputa del padre, spinto da una sorella molto maggiore di lui che gli forniva il denaro per pagarla, a patto che mi desse un falso nome. Una madre, morta quando S. era piccolissimo, riempiva sovente le sedute con l’enigma della sua scomparsa. S. fantasticava che l’avesse uccisa una cosca nemica, come vendetta atroce nei confronti di suo padre. Come che sia, nel racconto familiare, questa morte rimaneva un punto cieco, senza racconto, anzi interdetta al racconto dalla volontà del padre. La sorella stessa, per altri versi aperta e accogliente, seguiva scrupolosamente il mandato paterno e il suo interdetto. La mente del mio giovane paziente era però mutilata da questo buco di senso, da questa domanda senza risposta: “Come è morta”? Il padre veniva vissuto come il capo di un’orda pericoloso per se stesso e per gli altri: S. ne temeva gli accessi d’ira, in cui il padre, se contraddetto, arrivava ad autoschiaffeggiarsi e a praticarsi teatralmente tagli superficiali. Con il peircing S. ripeteva soltanto la modalità autodistruttiva paterna, in cerca di una qualche anche se terribile identificazione, a sua volta garante di una qualche possibile identità?
4 Attraverso il suo corpo forato da piccoli buchi, così stranamente ingioiellato, S si metteva di fatto in grado di unirsi ai suoi coetanei di cui, prima di dare corso a questa pratica, aveva temuto lo sguardo e il confronto, come caricandosi dell’infamia paterna. I piccoli buchi nel corpo – mi diceva- lo facevano sentire protetto e soprattutto non diverso, uguale, facevano soprattutto cessare il suo lacerante interrogativo sul suo “chi essere” e placavano, gli sembrava, la sua fame di identità. Questo tacitarsi della domanda sulla propria identità è quello che per Freud (1921) sembra contraddistinguere, per un verso, le dinamiche della psicologia delle masse. A sua volta Kaes, rilanciando le riflessioni freudiane per quello che riguarda il disagio psichico nella post -modernità, individua una sofferenza in cui neppure il gruppo è più in grado di garantire, con la ripetizione imitativa e rassicurante di rituali consci e incosci, l’acquietamento dell’essere nel suo abitare. Una società costruita sul paradosso dell’individualismo come unico garante metasociale e metapsichico (Kaes, 2007) che va a costituire il modello segreto della globalizzazione, è produttrice di un tessuto sintomatico in cui per prima cosa il corpo, il sentimento basico del senso di appartenenza a un sé proprio, sono le mete più difficili da raggiungere nel lavoro di individuazione che è proprio della adolescenza. Si costruisce così un corpo feticcio, dove l’impossibilità di elaborare il limite e la mancanza, ormai è diventato un ‘fatto’ transgenerazionale, tramandato e trasmesso insieme alla fallita elaborazione dei lutti feroci inferti all’umanità dalle guerre e dai genocidi del secolo scorso. Il lutto non elaborato, la perdita denegata attraverso il benessere e l’american style way , o la sua imitazione, viene incistato. Il continuo rilancio verso una esteriorità rimanda alla fallacia di un corpo infinitamente trasformabile, totipotente, illusoriamente immortale ma paradossalmente ferito a morte. Il piercing, aggiungo qui, non guarda in faccia il genere né strettamente lo riguarda. E’ “portato” da ragazzi e ragazze, e l’analista “ lo” ascolta come il sintomo di una difficoltà a sentirsi vivi , che spinge a incidersi il corpo,quel luogo di incarnazione originario con cui S. sembrava avere perso ogni contatto. Risposta provocatoria e disperata a chi ha denegato la funzione genitoriale, trasmettendo,, dalla seconda metà del ‘900 fino ad oggi,lo scontro tribale tra fratrie che governa lo scenario contemporaneo, nel politico, nel privato, e sembra coinvolgere con la sua forza distruttiva, anche la psicoanalisi?
Bibliografia S. Freud, Il disagio della civiltà, OSF vol.X A.Green, Narcisismo di vita,narcisismo di morte, Borla, 1982 R.Barthes Il sistema della moda,Einaudi, 1968. H. Faimberg ,Siamo in grado di ascoltare alcune conseguenze psichiche del nazismo? Conferenza SPI, 2006 R. Kaes, Un singolarePlurale, Borla, 2007 R.Kaes, La trasmissione delle alleanze inconsce, organizzatori metapsichici e metasociali , Conferenza diRoma, SPI dic. 2007 Sophie de Mijolla–Mellor Le besoin de savoir, Paris, Dunod, 2002 Terrorismo, barbarie e disordine, Quaderni di psicoterapia infantile, Borla, 2005 T.Ogden,Reverie e interpretazione,Astrolabio,1999 J.B: Pontalis, Tra il sogno e il dolore, Borla, 1995 D.Quinodoz, Le parole che toccano, Borla, 2002 P.C.Racamier, Il genio delle origini, Cortina, 1990 G: Simmel, La legge individuale, a cura di F.Andolfi, Pratiche,1995 V:Valentini,L’Io armato, Donzelli,2006 |