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PSYCHOMEDIA
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GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Infanzia
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L'adultocentrismo nel trattamento istituzionale e terapeutico dell'abuso sessuale
di Giobatta Guasto
Parlare di adultocentrismo in relazione all'abuso sessuale dei minori significa non soltanto parlare del terribile disconoscimento dell'individualità del bambino posto in essere da parte dell'abusante che dispone di esso come di una propria appendice, ma anche, e troppo spesso, di una grave inidoneità delle istituzioni a riconoscere, rispettare ed entrare in contatto con il mondo interno del bambino abusato.
Sul piano delle relazioni interne, l'abuso é, per chi ne é vittima, anzitutto una violenta esperienza di intrusione che ha l'effetto di distruggere o di sovvertire i contenuti del mondo interno nel quale viene a forza immessa.
Al bambino, alla bambina vengono così imposti comportamenti sessuali il cui raggiungimento avrebbe richiesto, in condizioni normali, una ben più lunga maturazione, e che ora non possono essere in alcun modo provvisti di contenimento da parte del bambino, non solo perché essi non sono adatti al suo stato di maturazione mentale e fisica, ma perché non vi é nessun adulto che in tali circostanze, possa partecipare alla condivisione di tali traumatiche esperienze.
Se un bambino subisce un grave lutto, se é magari costretto ad assistere all'omicidio di un proprio congiunto, non necessariamente sarà impossibilitato a disporre di una mente adulta con la quale condividere una pur dilacerante pena emotiva, mentre il bambino abusato é -per definizione- solo, almeno per un certo tratto della sua esperienza. Per questo motivo, non potendo egli tollerare quanto sta sperimentando, non potrà che mettere in atto meccanismi di scissione dell'apparato mentale, per poter sopravvivere.
Al bambino, alla bambina, viene in tal modo impedito il normale svolgersi del conflitto edipico, attraverso l'introduzione forzata di fantasie e di esperienze che ne fanno drammaticamente precipitare il decorso e che ne impediscono la risoluzione, spesso per sempre. Ciò accade soprattutto, ma non soltanto, quando l'abusante é un genitore o un parente stretto.
L'abuso sessuale ha in comune con altre esperienze di maltrattamento, la caratteristica di essere, prima di tutto, un abuso psicologico (1).
Per aiutarmi a comprendere in che cosa consista, ho spesso trovato utile rifarmi al modello bioniano di "funzione alfa".
Come é noto Bion propone di pensare allo sviluppo della mente del neonato come al prodotto dell'interazione con la mente materna che viene ad assumere un ruolo di "contenitore", rispetto ai contenuti mentali che non vengono tollerati dal bambino.
Tali contenuti, che Bion chiama "elementi beta" vengono espulsi attraverso il meccanismo di difesa denominato "identificazione proiettiva" perché intollerabili, e sono intollerabili perché sprovvisti di significato.
Si pensi ad esempio ad un neonato che sperimenti uno stimolo percettivo spiacevole: un dolore che proviene dall'interno del corpo, un rumore troppo forte, un cambiamento di temperatura troppo repentino: ciò che per un adulto va ricondotto immediatamente ad un complesso sistema di significati tale da consentirgli un'altrettanto rapida anche se parziale interpretazione di quanto sta accadendo, necessita per il bambino di una pronta significazione. Uno sguardo tranquillo, un sorriso, un tono di voce adeguato, comunicano al bambino in primo luogo che la madre "sa" (cioè ha preso dentro di lei) quanto sta accadendo, e in secondo luogo che ne tiene sotto controllo gli effetti.
Ciò che prima era dentro il bambino ed era angosciante, ora é dentro la madre ed ha un'"etichetta" di "non pericoloso". Questa percezione da parte del bambino consente una riassunzione dentro di sè dell'esperienza prima espulsa, che ora é diventata tollerabile.
Dall'anamnesi familiare relativa ad una bambina che mi é stata portata in consultazione per problemi di encopresi, ho appreso che la madre (da tempo in cura presso un servizio psichiatrico per patologia marginale) era stata colta da un attacco di panico in conseguenza di un rigurgito che la bambina aveva avuto durante l'allattamento al seno.
Di fronte alla momentanea difficoltà della bambina, la madre aveva deposto la piccola tra le braccia della propria sorella, ed era uscita fuori dall'appartamento, per strada. Per fortuna la zia aveva saputo sostituire con efficacia tempestiva la madre, rimandando alla bambina un atteggiamento di sicurezza, rispetto all'episodio appena trascorso; se ciò non fosse accaduto, la bambina, già attraversata da un'esperienza sgradevole di cui ignorava il grado di gravità, sarebbe stata invasa dall'angoscia della madre, forse con conseguenze pericolose per la respirazione.
La descrizione del notissimo modello proposto da Bion (2) mi serve qui come elemento di paragone per poter parlare della patologia della funzione alfa, entro la quale possono essere collocati anche i comportamenti abusanti.
Il tipo di patologia del legame adulto-bambino che caratterizza le violenze psicologiche che sono la base dei maltrattamenti e degli abusi sessuali, é costituito a mio modo di vedere, da un'inversione del flusso delle proiezioni nelle quali l'adulto (spesso un genitore) usa la mente del bambino come "ricettacolo" delle proprie proiezioni, creando una sorta di scompaginamento che spesso viene malamente arginato da fenomeni di scissione. Tali meccanismi difensivi sono all'origine dei disturbi di personalità (Disturbo da Personalità Multipla secondo il DSM III-R, Disturbo Dissociativo di Identità secondo il più recente DSM IV) unanimemente riconosciuti dai ricercatori come presenti in altissima percentuale sia tra le vittime di abuso sia tra gli abusanti che sono stati spesso a loro volta abusati (3).
I contenuti mentali dell'adulto in tal modo proiettati nella mente del bambino possono avere differenti percorsi evolutivi, ma hanno in comune la caratteristica di non andare incontro a metabolizzazione mentale, non vengono cioè "digeriti" dall'apparato mentale, ma vengono trattenuti come "corpi estranei".
Per un bambino il destino di un'esperienza incestuosa é quello di non essere digerita, assimilata, ma di rimanere incapsulata al suo interno come una spina irritativa che non se ne andrà, fintantoché uno psicoterapeuta non si assumerà il compito di ripercorrere con il bambino un lungo tratto di maturazione emotiva, per far sì che là dove era un genitore interno parassitario e distruttore, possa installarsi in sua vece un oggetto materno comprensivo e rispettoso.
In un paper letto alla T.S.P. Biennial Summer Conference del 1996 presso la Tavistock Clinic di Londra, la dott. Suzanne Blundell (4) racconta gli inizi della psicoterapia psicoanalitica di Melanie, una bambina violentata dal padre per un lungo periodo durante i primi sei anni di vita. Anche la madre e le due sorelle della bambina erano state sottoposte ad abusi sessuali, ma di tutte le vittime di quell'uomo violento e dedito all'alcool, Melanie sembrava la più disturbata: aveva incontrollabili crisi di rabbia a casa e a scuola, sembrava costantemente infelice, spesso piangeva, il suo sonno era difficile e tormentato da incubi. Era isolata, incapace di farsi degli amici, e a scuola non riusciva a concentrarsi, né ad apprendere. Tra le altre cose, Melanie disse alla psicoterapeuta che nella sua mente non c'era posto per numeri e parole perché "era piena del papà".
Giovanna, una ragazza ora diciassettenne che ha subito esperienze di abuso da parte del padre in un'età compresa tra gli otto e i tredici anni, soffre di crisi bulimiche quotidiane, accompagnate da vomito autoprovocato. Tali crisi perdurano anche adesso che la ragazza é stata allontanata da casa, dopo che, avendo confidato le sue passate esperienze ad alcuni coetanei, i fatti sono stati denunciati alla magistratura.
Subito dopo aver assunto l'incarico di Ctu in merito a questo caso, mi trovai di fronte ad un problema alquanto spinoso, poiché essendo chiamato a decidere sull'attendibilità della ragazza, constatavo immediatamente che fin dal primo colloquio con i funzionari di polizia, Giovanna aveva parzialmente smentito le confidenze precedentemente rese ai suoi amici, dichiarando preventivamente, nè cambiando mai versione al riguardo, che una parte delle sue rivelazioni era falsa.
Dopo la cessazione degli abusi da parte del padre, Giovanna aveva trascorso alcuni anni senza esprimere alcunché che potesse valicare le mura di casa. Del resto la madre, che trascorreva tutta la giornata nella propria azienda, mentre il padre rientrava sempre dal lavoro nel primo pomeriggio, non solo non si era mai accorta di nulla, ma aveva sempre mantenuto un atteggiamento tale da far pensare a Giovanna che ogni eventuale confessione si sarebbe infranta contro un muro di sordità, e che mai la donna si sarebbe messa contro il marito.
Quando, superando parzialmente gli ostacoli posti in essere dall'asfissiante controllo che il padre esercitava su di lei per impedirle di avere amicizie maschili ("perché i maschi, si sa, pretendono poi certe cose"), Giovanna ebbe le prime esperienze amorose e sessuali (extrafamiliari, bisogna purtroppo aggiungere), si trovò di fronte ad una doppia pressione, interna ed esterna, che le risultò intollerabile. Da un lato sentiva sul collo il fiato del controllo paterno, che di fronte ad atteggiamenti di maggiore autonomia diventava sempre più stringente, mentre dal versante interno sentiva provenire sentimenti di forte angoscia non appena si accingeva a consumare rapporti sessuali con un ragazzo che chiameremo Francesco, di cui era molto innamorata e per il quale provava forte desiderio.
Fu così che, di fronte alle domande insistenti di Francesco che cercava di conoscere sia le ragioni del suo disagio, sia maggiori particolari circa il rapporto oppressivo che Giovanna diceva di avere con il padre, Giovanna rispose in modo ambiguo all'espressione "neanche se ti avesse violentata!" che il ragazzo usò un giorno in cui il comportamento di Giovanna gli risultava particolarmente oscuro.
Da questa discussione nacque successivamente un equivoco che Giovanna non dissipò se non dopo molto tempo, e che venne anzi da lei rinforzato. A seguito di ripetute e difficili conversazioni, in Francesco si formò la convinzione che dopo le esperienze incestuose subite da Giovanna (come poi risultò esser vero) nel periodo compreso tra gli otto e i tredici anni, gli abusi fossero ricominciati a partire dai sedici e perdurassero al momento della loro relazione.
Un giorno, Giovanna telefonò a Francesco in preda ad una fortissima angoscia. Gli disse di venire subito a casa, che il padre era appena uscito dopo averla violentata. Arrivato a casa della ragazza immediatamente, Francesco trovò la camera da letto dei genitori della ragazza in uno stato di confusione e disordine, mentre il letto risultava essere scomposto come se qualcuno lo avesse stropicciato rimanendo sdraiato sopra il copriletto.
Quando molto tempo più tardi Giovanna fu interrogata dalla polizia, dichiarò preliminarmente che tutte le rivelazioni fatte ai suoi amici circa la ripresa degli abusi a partire dai sedici anni erano false, mentre corrispondeva al vero che il padre avesse abusato di lei tra gli otto e i tredici anni. Alla polizia, Giovanna non seppe spiegare il perché di quello strano comportamento.
Occorsero alcuni mesi di colloqui settimanali con il Ctu per ottenere da Giovanna la seguente spiegazione.
Ogni qualvolta il padre aveva abusato di lei, aveva poi lasciato la stanza in quello stesso disordine che lei aveva fedelmente riprodotto, per poterlo mostrare a Francesco. Toccava a lei, ogni volta, rassettare la stanza prima del rientro della madre. Nessuno aveva mai saputo nulla, perché non c'era un orecchio disposto ad ascoltarla.
Non si sbagliava, Giovanna: davanti a domande esplicitamente formulate dal Ctu, nel corso della lunga perizia, la madre assumeva un atteggiamento di rabbioso rifiuto, per la figlia che aveva osato denunciare il padre, arrivando per tre volte ad affermare, durante lo stesso colloquio: "bisognerebbe picchiarla fino a farla morire".
Oggi Giovanna parla dei suoi sintomi bulimici accompagnati da vomito in maniera piuttosto singolare: non usa mai l'espressione "anche oggi ho mangiato troppo", ma dice invariabilmente "oggi ho vomitato". Anche dal contesto generale dell'osservazione, si può desumere facilmente che il vomitare é l'aspetto principale del disturbo del comportamento alimentare, tanto da potersi ritenere che il vomito non sia il "correttivo" dell'iperassunzione alimentare, ma sia piuttosto il vero scopo di quest'ultima. Giovanna non vomita perché ha mangiato troppo, ma mangia troppo per poter vomitare. La differenza non é di poco conto.
Se si confrontano le parole di Melanie ("sono piena di papà") con il desiderio di vomitare di Giovanna, si capisce facilmente come l'esperienza di abuso (cioè la proiezione di fantasie di provenienza paterna che assumono la funzione di "corpi estranei" venendo ad occupare lo spazio interno e impedendo lo sviluppo fisiologico delle fantasie anche conflittuali appartenenti al bambino), permanga, indigerita e non metabolizzabile, forse per sempre, in assenza di un adeguato trattamento terapeutico. Ciò che Melanie sente come un intasamento, un'occlusione che impedisce l'ingresso a parole e numeri, é la stessa cosa di cui Giovanna tenta, inutilmente, di liberarsi attraverso il vomito.
Gianna Williams Polacco per prima ha usato il termine "corpi estranei" (5) in riferimento alle proiezioni subite da una bambina molto piccola, che la madre usava come ricettacolo delle proprie intense fobie. Durante l'adolescenza la bambina sviluppò una severa forma di anoressia mentale, alla quale l'Autrice, sua terapeuta, dette il nome di "No-entry Syndrome" o "Sindrome <<vietato l'accesso>>", essendo risultato chiaro il significato di difesa dall'intrusione di corpi estranei mentali che si traduceva nel rifiuto di assumere cibo.
Queste osservazioni, non pretendono certo di esaurire la complessa problematica inerente la diagnosi di abuso sessuale sui minori, ma mette in evidenza un punto relativo a ciò che si deve cercare in sede di accertamento peritale: non semplicemente la prova di un crimine, che se non individuata potrà al massimo costituire una delle tante sconfitte della giustizia, ma piuttosto l'individuazione di un elemento patogeno ancora operante e tuttora attivo in senso destruente.
L'abuso sessuale non cessa di avere effetti al momento della neutralizzazione, dell'allontanamento dell'abusante dall'abusato. Per questo quando si intraprende un accertamento peritale bisogna cercare molto di più dell'attendibilità di una testimonianza, bisogna poter entrare a contatto emotivo con il bambino per individuare, al suo interno, la presenza di un'esperienza estranea ed imposta, che continua a produrre effetti nel tempo.
L'esperienza ci insegna che questo accade purtroppo di rado. Ciò si spiega più che come una malignità intrinseca al mondo degli adulti, con la mobilitazione nell'osservatore di potenti angosce controtransferali che inducono un tipo di dolore psichico difficilmente tollerabile da parte di chi (non importa se psicologo, pediatra, psichiatra forense o psicoanalista) abbia una insufficiente esperienza di sé.
Nell'esposizione del caso di Melanie, la dott. Blundell, ci racconta di quante volte sia stata tentata di interrompere il trattamento e come soltanto grazie alla propria analisi ancora in corso e ad un intenso lavoro di supervisione, esso si sia potuto concludere felicemente.
Per anni la bambina ha continuato a trattare la terapeuta come una incarnazione del padre abusante e violento, e a chiederle di lasciarla sola, per non essere invasa da esperienze terrifiche di violenza.
Il bambino che é stato abusato molto spesso non ha alcuna aspettativa di trovare un adulto comprensivo e accogliente, perché l'esperienza subita é tale da mettere in ombra tutto il resto, e per questo ci chiede di lasciarlo solo, e ce lo chiede con disperazione perché sa che la solitudine é comunque uno spazio vuoto che può essere riempito solo dalla persecuzione di un genitore intrusivo che, in realtà, non se n'é mai andato.
In tali condizioni, noi psicoterapeuti, noi (a vario titolo) psicodiagnosti, non siamo soltanto destinati ad essere presto identificati con "quel" genitore intrusivo, ma anche saremo, come la dott. Blundell, più volte sopraffatti da un sentimento di impotenza derivante dalla contemporanea percezione che quel bambino ha estremo bisogno di non essere lasciato solo.
Soltanto per queste ragioni, così spesso, nelle nostre perizie non vediamo nulla. Un bambino non é tanto facilmente disposto a confidarsi con un estraneo, e tantomeno un bambino con "quella" esperienza.
Quando un osservatore si pone in ascolto superficiale e distaccato nei confronti del bambino spesso ripropone quella stessa esperienza di sordità che é stata tanto dolorosamente sperimentata da Giovanna nei confronti della propria madre.
Nel corso delle mie esperienze peritali mi sono tante volte imbattuto in cartelle cliniche che contenevano "cecità" di valutazione non altrimenti spiegabili che con il desiderio di non vedere, di non sapere, di essere estranei, che sarebbe forse ingeneroso ripercorrere ora, perché ad altro non rimandano che al dolore di noi operatori.
E' capitato spesso, in questi tempi, di sentire porre sul banco degli accusati un errore di segno opposto, caratterizzato da una diagnosi falsamente positiva di abuso. Errore grave, questo, quando si verifichi realmente: esso produce effetti di intrusione nel mondo interno del bambino egualmente connotabili come violenza psicologica nel senso prima descritto, anche se certamente meno severi sul piano prognostico rispetto a quelli precedentemente trattati, in cui l'abuso c'é effettivamente stato.
Tale situazione altro non é che la riproposizione in un differente contesto di una prospettiva mirante ancora una volta a prendere le distanze dal bambino e a riformularlo ad immagine e somiglianza delle esigenze di un mondo adulto irrimediabilmente separato dalla proprio patrimonio affettivo.
Dr . G. Guasto
medico chirurgo, specialista in psichiatria, psicoterapeuta
aiuto presso la usl no 3 "genovese"
d.a.r. 1 - nucleo operativo assistenza consultoriale - ambito 4
studio: via del commercio 124 genova, telefono 010/321185
indirizzo postale: 16031 bogliasco (genova)
casella postale 28 telefax 010/3460184
e-mail address: g.guasto@pn.itnet.it
testo pubblicitario autorizzato dall'Ordine Provinciale dei Medici di Genova, ai sensi della Legge 5/2/1992, no 175
NOTE
(1) Guasto, G., (1996) "Sull'abuso mentale infantile. Appunti per uno studio sulla violenza psicologica sui bambini", pubblicato sulla rivista telematica "Psychatry on-line Italia", Vol.2 Issue 4, Aprile 1996, URL address: <http://www.publinet.it/pol/abuso1.htm>
(2) Bion, W.R., (1967), Una teoria del pensiero, in: "Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico", Armando, Roma.
- (1962b), "Apprendere dall'Esperienza", Armando, Roma.
(3) Montecchi, F. , (1994) "Gli abusi all'infanzia. Dalla ricerca all'intervento clinico", La Nuova Italia Scientifica, Roma.
(4) Blundell, S. "Lasciami sola per favore!" Esperienze di intrusione nella terapia di una bambina che aveva subito violenza sessuale, letto alla 1996 T.S.P. Biennial Summer Conference, Tavistock Clinic, Londra (in corso di pubblicazione).
(5) Williams Polacco G., (1994) "La sindrome <<vietato l'accesso>>. Valutazione di adolescenti con disturbi dell'alimentazione" in "Un buon incontro. La valutazione secondo il modello Tavistock", pag. 140, a cura di Emanuela Quagliata, Astrolabio, Roma.
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