Agingdi Ileana Taddei(lavoro gia' pubblicato su Rinascita il 25 marzo 1990, con il titolo "Il transfert del patriarca")
"Freud ritiene che un'età troppo avanzata limiti l'efficacia della psicoanalisi" scrive Karl Abraham nel 1920. "In genere questo è esatto. È logico pensare che con l'inizio dell'involuzione fisica e psichica l'individuo continui una nevrosi che lo ha accompagnato per tutta la vita. Ma l'esperienza psicoanalitica ci insegna a non applicare norme troppo rigide. Così abbiamo potuto convincerci delle possibilità terapeutiche della psicoanalisi in alcune malattie mentali di cui l'incurabilità era un dogma in psichiatria. (...) La psicoanalisi deve continuare la sua ricerca per sapere se il suo metodo può dare dei risultati anche a un'età avanzata e in che modo". E nello stesso testo Abraham aggiunge una riflessione che è diventata proverbiale: "Si può dire che l'età della nevrosi conta più dell'età del malato nevrotico".
Se il pregiudizio freudiano si è molto smussato nel tempo, e dagli anni Quaranta in poi diversi modelli psicodinamici sono stati creati per l'anziano, soprattutto negli Stati Uniti, permane però la convinzione che in questo caso la psicoanalisi sia in grado di modificare solo parzialmente la struttura della personalità.. Qualche anno fa, ad esempio, Musatti scriveva addirittura che dopo una certa età è impossibile che si stabilisca quello che è il tramite fondamentale del processo analitico, il transfert, perché il paziente non è più in grado di proiettare la sua libido - vale a dire tutta o gran parte della sua energia affettiva - sulla persona dell'analista. Paziente e analista mettono in gioco tutta una serie di identificazioni e di rimandi che possono fare lievitare ansie e problematiche altrimenti inaccessibili, ma che possono anche distorcere il processo terapeutico. Dal paziente, ad esempio, l'analista può essere visto in alcuni "ruoli" prevalenti: di figlio forte, creativo, onnipotente per la sua giovane età; o anche, all'opposto, di figlio "piccolo", da cui è impossibile dipendere e con cui è legittimo mostrarsi aggressivi e autoritari. L'analista, d'altra parte, rischia di idealizzare il paziente, inteso come "genitore", e di dargli pietà, tristezza, protezione eccessive, ostacolandone l'indipendenza emotiva. Oppure sentimenti di inadeguatezza possono fargli desiderare di apparire più vecchio e più "saggio", rischiando un'inconscia competizione con il paziente, che già magari mal sopporta l'invidia e la nostalgia causate proprio dalla differenza di età. E ancora, la paura dell'analista di invecchiare e di morire può portarlo a sottovalutare la fragilità del paziente e a porgli richieste esose di autonomia e di creatività.. D'altronde, proprio la paura del decadimento e della morte, se l'analista è in grado di riconoscerla in se stesso, e di accettarla, può renderlo capace di aiutare il paziente a valorizzare le sue capacità progettuali e a sviluppare volontà di significato. Ma anche al di là del setting analitico, sulla scena della vita quotidiana, andrebbe percorsa e abitata, senza scarti e senza rimozioni, quella "distanza" che ci rende entrambi inquieti, giovani e anziani. La voce della vecchiaia è una voce forte. Dice Mario G., settant'anni, insegnante in pensione, che da due anni vive in una casa di riposo: "Domani sarò vivo o Morto? Vivo, probabilmente, ma sarò di un giorno più vecchio". Ride, occhi limpidi e spalle dritte. "Se ci pensa, è un buon paradosso: l'unico modo che avrei di non invecchiare è di morire adesso. Allora, me lo dica lei, che è giovane: dobbiamo considerarlo mezzo pieno o mezzo vuoto, questo bicchiere di vino riempito a metà?".. Dunque, desiderio di vivere, paura di invecchiare, ma anche, viceversa, paura di vivere, desiderio di invecchiare: non ci assomigliamo, giovani e vecchi, perlomeno talvolta, perlomeno in alcuni momenti? Anche in questa somiglianza, forse, i vecchi fanno paura. Perché di paura si tratta: è una vera e propria fobia, e una fobia tenace, quella nei confronti della vecchiaia (propria ed altrui), ed essa oggi, tra l'altro, sembra sempre più rumorosa, inquietante e mutevole: ormai una donna su cinque sopravvive al suo primo figlio. È questo il nuovo incubo di fine millennio, che turba il sonno di ecologi, sociologi e demografi. Se negli ultimi vent'anni il grido è stato: siamo troppi!, il grido di allarme degli anni Novanta è: stiamo per diventare una società di vecchi e tra non molto il peso degli "improduttivi" graverà sempre di più sulle spalle di una popolazione di adulti a ranghi via via più ridotti. Più di 200 milioni sono, nel mondo, gli ultrasessantacinquenni. Migliorano le condizioni di vita e i modi di difendere la salute: così, aumenta l'età media ma, con essa, anche i problemi circa il "dove", il "come" e il "perché" di una vita più lunga. Che è poi quella di vecchi soli e malati, ma anche di vecchi autonomi e attivi. C'è, allora, una zona d'ombra entro la quale l'invecchiamento può diventare disagio? Emarginazione, psicologica in primo luogo, è la risposta, e molto spesso, in secondo luogo, anche fisica, nel senso di una vera e propria segregazione spaziale. L'emarginazione psicologica ruota intorno alla perdita di "ruolo": in famiglia, dove non sei più il patriarca, nel lavoro, dove la tua tecnica è di continuo superata e ignorata, nel gruppo sociale, dove non si ricorre più alla tua "saggezza" e dove muta di continuo la dinamica dei rapporti. Ma dipende anche dagli stereotipi interni (che ciascuno coltiva a proposito della vecchiaia) ed esterni: ti senti vecchio attraverso l'immagine di te che gli altri ti rimandano. Si può reagire con sorpresa, scandalo, incredulità; lasciarsi andare all'inattività oppure mantenere, o anzi incrementare, l'attività fisica e intellettuale; ci si può difendere con la negazione: Goya a settant'anni dipinge un autoritratto con le fattezze di un uomo di cinquanta. O si può scegliere un'ultima strada: nei vecchi il tasso di suicidi è tre volte più alto che nella popolazione generale. Segni anche chiari di malessere vengono però trascurati o del tutto ignorati se è un vecchio a presentarli: l'invecchiamento è già, di per sé, malattia (e di quelle di fronte alle quali non c'è che stringere i denti), e apatia, tristezza, disturbi di memoria sono inevitabili. E invece è un'impostazione che non ha alcuna base scientifica: si sa oggi che l'efficienza mentale non diminuisce necessariamente con l'età (solo i processi di apprendimento sono più lenti) e che tutti i progressi nella comprensione dei processi neurochimici e nelle terapie farmacologiche non sono in grado di sostituire un eventuale trattamento psicologico o riabilitativo. In pratica, qualsiasi intervento psicosociale che limiti il senso di solitudine e di emarginazione può considerarsi terapeutico: il declino del benessere fisico e psicologico può essere arrestato con l'incoraggiamento a prendere decisioni e ad assumere responsabilità in relazione ad eventi controllabili; la depressione (nel vecchio, il segno più comune di disagio psichico) risponde positivamente al supporto emozionale e a un aumento delle stimolazioni sociali. Disagio esistenziale e malessere non dipendono solo da fattori economici o dalla disponibilità di una rete efficiente di servizi: quel disagio e quel malessere sono alti anche in Svezia. Il perno della questione è piuttosto la solitudine, quell' "essere diventato solo" che non è una scelta, ma va dal "sentirsi abbandonato da tutti" al "sentirsi fuori del mondo", al "dover stare solo". Certo però ci sono anche paesi in cui contano anche i buchi neri delle politiche sanitarie e sociali. In Italia, un vecchio che si ammala deve fare i conti con la precarietà dei servizi fondamentali: mancano negli ospedali le divisioni di geriatria, mancano le strutture intermedie (day hospitals, "case protette", servizi di riabilitazione); è pressoché inesistente l'assistenza a domicilio (e nei rari casi in cui funziona la disinformazione è tale da renderla in pratica inaccessibile). E non si tratta di optional: basta pensare all'assistenza domiciliare, che potrebbe evitare la cascata di effetti negativi provocata dal trasferimento, anche transitorio, in un ambiente estraneo; effetti che si moltiplicano con un meccanismo perverso, snodandosi attraverso una serie di eventi (segregazione spaziale, perdita della sfera privata, modifica dello spazio vissuto e del tempo vissuto, distorsione dei rapporti, isolamento, restringimento del campo esistenziale) che nell'insieme realizzano una vera e propria catena di "smontaggio antropologico". Infine, mentre la psicoterapia si libera lentamente dei suoi pregiudizi (e aumenta l'uso delle psicoterapie brevi, di quelle di sostegno e di quelle di gruppo), forsennata rimane la prescrizione di farmaci. Ad esempio: invecchiare (e veder invecchiare) genera ansia? Bene. Negli Stati Uniti gli ansiolitici sono al terzo posto tra i farmaci assunti dagli anziani; in Italia, probabilmente, addirittura al secondo (eppure sono farmaci che possono dare dipendenza, che possono provocare effetti negativi). Vince la pressione del marketing, e anche l'esorcismo rappresentato dal farmaco, il suo potere di far saltare a piè pari i problemi di relazione, la paura, il disorientamento non solo del vecchio ma anche del suo ambiente; e vince, dalla parte dei medici, quel magico "ti guarisco, non temere", che può essere difficile, perlomeno a se stessi, non pronunciare.
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