© PSYCHOMEDIA - Antonio Imbasciati - Origini e costruzione dei processi di simbolizzazione. Inconscio e simbolopoiesi
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Origini e costruzione dei processi di simbolizzazione
Inconscio e simbolopoiesi
Antonio Imbasciati*
Key Words: Unconscious-Infant-Symbolopoiesis-Cognition
Summary
The Author proposes a reflection about some classical psychoanalytic models, chiefly on freudian conception of the unconscious and its links to the energetic and drive-instinct theory, in order to formulate different theorical concepts, in the frame of a personal theory -The Protomental Theory- on which he worked since some decennia, and which he stated in some volumes. The unconscious is considered the essence of psychic structure and this one as a construction by progressive production of symbols. A symbolopoietic process originates a structure that is itself symbolopoietic: the unconscious may be identified in the symbolopoiesis. Mind structure is a symbolopoietic construction that structured itself, symbol by symbol each one connected in contiguity and progression, till from foetal age. The paper is worked through wide reference to cognitive sciences and developmental psychology.
Riassunto
L'Autore propone una riflessione su alcuni modelli psicoanalitici tradizionali, in particolare sulla concezione freudiana dell'inconscio in relazione alla teoria pulsionale, ed una loro riformulazione nel quadro di una teoria personale, la "Teoria del Protomentale", alla quale egli ha lavorato per alcuni decenni, esponendola in diversi volumi. L'inconscio viene considerato l'essenza della struttura psichica e questa come costruzione per progressiva produzione di simboli. Un processo simbolopoletico è all'origine di una struttura essa stessa simbolopoietica: l'inconscio può essere identificato nella simbolopoiesi. La struttura mentale è una costruzione simbolopoletica venutasi a strutturare simbolo su simbolo, in connessioni continue e progressive fin dall'epoca fetale. Il lavoro fruisce di ampi riferimenti con le scienze cognitive e con la psicologia dell'età evolutiva.
Scopo del presente lavoro è offrire una riflessione sull'utilizzazione di alcuni modelli psicoanalitici tradizionali, in particolare sulla concezione freudiana dell'inconscio in relazione alla teoria pulsionale, e proporne una riformulazione teorica. Svolgo queste riflessioni muovendomi nel quadro di una mia personale teoria generale sulle origini e sullo sviluppo della struttura mentale, alla quale ho lavorato per decenni e che è stata esposta in alcuni volumi (lmbasciati, Calorio, 1981; lmbasciati, 1983, 1991, 1994, 1998a, b). La struttura mentale è considerata una costruzione di funzioni attraverso progressive formazioni di simboli, codificabili in memoria: un processo simbolopoietico genera una struttura essa stessa simbolopoietica; l'intera struttura psichica è una costruzione simbolopoietica venutasi a strutturare simbolo su simbolo, in connessioni contigue e progressive fin dall'epoca fetale. Nella teoria il vertice affettivo, tipico delta psicoanalisi, è confrontato con quello cognitivo. Il termine "simbolo" è usato nella sua accezione più vasta.
In questo lavoro sviluppo soprattutto il concetto secondo cui l'inconscio, considerato essenza dell'intera struttura psichica, può essere identificato nel processo simbolopoietico. Chiedo preliminare scusa al lettore di questo articolo se, trattandosi di argomento al quale così tanto ho lavorato, vi saranno molti autoriferimenti. Chiedo altresì scusa se molti passi di questa memoria potranno risultare di non facile comprensione per chi non ha conosciuto la mia opera; ed infine se, dovendo condensare molti concetti in poche pagine, lo spazio per una discussione di confronto con l'opera di altri autori potrà talora apparire esiguo. Cercherò di fare del mio meglio, considerando soltanto alcuni concetti, nell'intento di renderli comprensibili.
1. "Perché l'inconscio?" o "Perché la coscienza?
Freud appare partire dalla domanda "perché l'inconscio?" e, a ritroso, dalla coscienza lo esplora. La psicoanalisi nacque così: "scoprì" l'inconscio, rivoluzionando il postulato, imperante nella psicologia dell'epoca, che la mente dovesse coincidere con la coscienza. Possiamo qui porci un primo interrogativo: quanto il metodo, fondato da Freud, ha condizionato la nostra concezione di inconscio? Un conto è il processo metodologico dell'indagine e altro conto è il processo mentale che viene scoperto con tale metodo: in altri termini, l'esplorazione col metodo freudiano, dalla coscienza a ritroso con ostacoli, si è forse trasformata nel postulare un processo psichico che procede in senso contrario? Un "flusso", come preferiva immaginare Freud, che va dall'inconscio verso la coscienza? E che ci arriverebbe, se non trovasse qualcosa che lo blocca? E se questo "qualcosa" non ci fosse, potremmo supporre che tutto e sempre arriverebbe alla coscienza? Salvo postulare, a rimedio, la rimozione primaria. Credo che tali interrogativi se li siano posti, Freud e i primi psicoanalisti, e vi abbiamo dato risposta, ma forse oggi può essere opportuno riproporceli alla luce delle acquisizioni non solo di un secolo di psicoanalisi, ma anche di un secolo di psicologia.
Credo che un fulcro di una attuale riproblematizzazione possa essere ritrovato nel chiarire meglio quali siano le modalità, nonché eventualmente scoprirne le cause, per cui possiamo concepire una progressione dall'inconscio fino a ciò che è conscio: su questa riconsiderazione potremmo meglio teorizzare il formarsi della struttura psichica globale ed il suo funzionamento. In questo quadro potremmo collocare ii patrimonio di conoscenze che la Psicologia Evolutiva ha accumulato sull'osservazione diretta dello sviluppo infantile, e quelle della stessa psicoanalisi praticata nella prima infanzia, per riconsiderare, di nuovo e in questa luce, se e come ciò che osserviamo nello sviluppo dei bambini venga mantenuto all'interno della struttura mentale adulta, e se giustificata ne possa essere la ricostruzione che siamo soliti fare nell'analisi. Più in dettaglio potremmo proporci alcuni interrogativi.
1) Il fatto che vi sia una via di esplorazione, quale quella tradizionale freudiana, ancor oggi fulcro dell'analisi degli adulti, che incontra degli ostacoli (resistenze, le chiamiamo) significa necessariamente che al percorso esplorativo a ritroso corrisponda una processualità psichica che procedendo dall'inconscio alla coscienza incontra essa stessa degli ostacoli (rimozione, l'abbiamo chiamata)? 2) Sono gli ostacoli nel metodo di indagine altrettanti ostacoli intrinseci della struttura psichica? 3) Se lo sono, la concettualizzazione freudiana di una "forza" che opera la "rimozione" è la concettualizzazione migliore per capire ciò che avviene e per intervenire efficacemente con l'analisi? In altri termini, la resistenza deve essere necessariamente collegata al concetto di rimozione? Se tale collegamento non è necessario, dovremmo rivedere meglio le ragioni (meglio ancora le cause) per cui postuliamo. una dinamica psichica che procede dall'inconscio. Potremmo forse trovare una migliore spiegazione degli ostacoli che postuliamo nel percorso dall'inconscio al conscio e che constatiamo clinicamente facendo il cammino inverso con l'analisi. 4) L'inconscio ricostruito attraverso la via tradizionale di esplorazione è quello che veramente regola la condotta e lo sviluppo dell'individuo? Abbiamo oggi altre vie di esplorazione, oltre quelle dell'analisi degli adulti, che ci permettono di osservare più direttamente, in statu nascendi, l'inconscio: le varie procedure di osservazione del comportamento dei bimbi, in circostanze naturali (p. es. dell'infante con la madre) o sperimentali, i vari setting psicoterapeutici (anche psicoanalitici) del bambino con la madre, l'infant-observation, l'analisi di gruppo, l'osservazione psicoanalitica del rapporto gestante-feto in ecografia. Queste altre vie di esplorazione ci portano alla medesima concezione di inconscio che abbiamo ereditato dalla tradizione? 6) Quanto diamo per scontate come fossero intrinseche della natura "psichica" certe strutture, quali quelle che riscontriamo nei nostri pazienti "tradizionali", non considerando invece se, come, quanto, oppure no, esse siano state strutturate durante il primo sviluppo infantile?
Da quest'ultimo interrogativo si diparte la sopraccennata questione, che sussume gli interrogativi precedenti, e riguarda quanto il percorso del metodo di indagine tradizionale abbia condizionato un nostro teorizzare omologhi percorsi dei processi psichici. Forse abbiamo identificato il metodo con ciò che esso ci rivelava. Intendo qui in altri termini mettere in discussione il concetto di rimozione, o meglio il suo essere stato assunto come concetto basilare ineliminabile della psicoanalisi.
In effetti, nel procedere del nostro metodo di indagine dalla coscienza verso ciò che non è cosciente, quello che abbiamo rilevato come fenomeno clinico ed abbiamo denominato resistenza, lo abbiamo spiegato come dovuto al fatto che la coscienza sostanzialmente non ammetterebbe -rimuove- l'inconscio: abbiamo così implicitamente assunto una sorta di attività della coscienza "contro" l'inconscio. Che la coscienza abbia un'attività, e non sia invece semplicemente il risultato di funzioni inconsapevoli, appare soggettivamente all'introspezione adulta matura: è questa introspezione veritiera di ciò che accade? Accade davvero così anche nei bambini? La concezione classica teorizza in termini energetici (dinamici) il procedere dall'inconscio verso la coscienza e formula il concetto di "conflitto", anch'esso assunto come postulato indiscutibile della psicoanalisi. Io credo che tale formulazione teorica possa essere oggi sostituita da una teorizzazione diversa, riguardante la strutturazione della mente ed il funzionamento di questa struttura. In particolare, anticipando il concetto che svilupperò in prosieguo, possiamo concepire le resistenze come dovute a funzionalità intrinseche alla costruzione della struttura mentale (inconscia).
Freud spiega la "progressione dall'inconscio" con la teoria della libido: il flusso energetico trova l'ostacolo della rimozione, e questa sembra, sia pur con molti distinguo, legata soprattutto alla frustrazione imposta agli istinti dalla realtà. Quest'ultimo aspetto fu più evidente in alcuni epigoni di Freud. La contro-energia della rimozione blocca il flusso, la scarica pulsionale. Gli istinti non raggiungono la coscienza se non attraverso "derivati".
Siamo oggi sicuri di tale modello? Siamo sicuri che così sia? 0 per lo meno siamo sicuri che questo sia il miglior modo di capire come si sviluppa la mente? Se diamo valore esplicativo a questo modello, presupponendo che così davvero avvenga (valore esplicativoi(1) di una teoria scientifica), dobbiamo senz'altro rispondere di no. Le supposte cariche energetiche che Freud si augurava potessero essere in futuro scoperte della biochimica (Freud 1882-95 pp. 347; 1901 pp. 394 sg; 1905 pp. 479 sg; 521 sg, 524 sg; 1906 pp. 223 sg; 1914 pp. 448; 1915 pp. 21; 1915-17 pp. 478) non sono state riscontrate. Se invece, mettendo da parte la veridicità esplicativa, limitiamo il valore della teoria ad un semplice "modello", valido in quanto tale solo a livello descrittivo ed euristico, abbiamo anche qui qualche dubbio. Molti autori hanno esplicitamente rifiutato l'utilità del modello energetico e con esso la teoria strutturale di Freud, la "Strega Metapsicologia" (Fabozzi, Ortu, 1992; lmbasciati, 1998a, b, 1999; Klein G., 1976; Gill, 1976; Eagle, 1984).
Alcuni hanno proposto una psicoanalisi senza psicodinamica (Schaefer, 1975). E del resto gli orientamenti attuali, quelli per esempio ispirati a Bion, ed in genere quelli che hanno attinto all'analisi infantile o a quella delle patologie gravi, sembrano procedere senza che si riveli l'utilità di un riferimento al modello pulsionale.
Non potremmo allora ribaltare la domanda di partenza di Freud? Per quali ragioni dobbiamo chiederci "perché l'inconscio"? Forse che supponiamo che la mente dovrebbe esser tutta cosciente? Questo lo supponevano i contemporanei di Freud e per tal ragione, oggi storica, egli ben fece a porre il problema, partendo da quella domanda. Ma oggi, allo stato attuale delle scienze psicologiche, per cui nessuno più è coscienzialista, non potremmo con maggiore utilità chiederci "perché" mai la coscienza?"
Perché mai il funzionamento della mente, nella specie animale dell'homo sapiens, in qualche caso e non per la generalità dei suoi processi, dà origine a quel fenomeno soggettivo percepito dal soggetto, su cui egli può riferirci qualcosa, e che abbiamo denominato consapevolezza di sé, coscienza, capacità introspettiva? (intro-spicere= guardarsi dentro). Per secoli abbiamo ritenuto che quanto il soggetto poteva riferirci potesse corrispondere ad una sua percezione e, ancor più, abbiamo ritenuto che tale percezione corrispondesse all'effettivo evento psichico cui il soggetto la riferiva. Oggi, con la psicoanalisi, sappiamo che non esistono tali corrispondenze: ciò che può riferirci (meglio "trasmetterci") un soggetto può esser ben lungi da ciò che gli accade. Ma allora, come si formano, a partire dagli eventi psichici (considerati dunque sempre come primariamente inconsci) quei particolarissimi processi che danno origine alla percezione soggettiva che chiamiamo coscienza? Attraverso quali modulazioni, o trasformazioni, essa è vicina, oppure distorta e lontana, dall'effettivo evento psichico?
Dire che la coscienza rimuove e distorce i processi inconsci è a mio avviso un a-priori tautologico: la coscienza, più che un'attività, sembra un riflesso, in alcuni soggetti debole e distorto (si pensi all'intelligenza operatoria, ai soggetti alessitimici, alle patologie cosiddette da deficit) dell'attività psichica, che è sempre, nella sua sostanza, non consapevole.
Allo scopo di meglio illustrare la domanda "perché mai la coscienza?", potremmo considerare lo sviluppo infantile. Quando, in questo, si può cominciare a parlare di coscienza? Solo progressivamente e lentamente. La concezione energetica freudiana dell'inconscio sembra portarci a pensare alla coscienza come a una dimensione categoriale (salvo poi parlare di preconscio) piuttosto che come un continuum. La concezione topica persiste e ci incanta per la sua semplicità, ma forse è fuorviante. Il bimbo diventa cosciente molto lentamente, nel secondo anno di vita, parallelamente al linguaggio. Ma non siamo affatto sicuri che ciò avvenga per il sorgere del linguaggio. Certamente la simbolizzazione verbale sembra aprire la strada ad una prima consapevolezza di sé, ma forse questa la possiamo scorgere anche prima, e dopo indipendentemente dal linguaggio. E non sarebbe meglio usare il termine consapevolezza (lmbasciati, 1989), anziché quello di coscienza, con tutte le sue ambiguità (l'accezione di coscienza morale) e l'alone vetero-psicoanalitico?
Inoltre la consapevolezza di sé che acquisisce progressivamente il bimbo è lontana dalla capacità introspettiva (o coscienza in senso più proprio) dell'adulto, pur essendovi collegata. C'è allora da indagare il percorso che la collega: e da spiegare attraverso quali processi la funzionalità della mente origini i primi esordi della consapevolezza di sé e da questi derivi la capacità di leggere (o distorcere) i propri eventi psichici (gli stati d'animo sono esemplificativi al proposito) che può avere o non avere un adulto; ed ogni singolo individuo con proprie irripetibili caratteristiche.
In questo percorso, dal bambino all'adulto, e comunque nel considerare i vari aspetti, o stadi, della consapevolezza, noi constatiamo che il soggetto opera un sua lettura, di ciò che gli accade dentro, basata su immagini, parole o altro, che servono a dargli una qualche rappresentazione dei suoi eventi psichici. Sappiamo che tale "rappresentazione" non è mai coincidente con l'evento mentale in quanto tale: questo resta sempre comunque inconscio; la situazione psicoanalitica lo inferisce e la tecnica psicoanalitica renderà fruibile l'inferenza per il soggetto. Questi, direttamente, con la sua consapevolezza o coscienza, ne sa soltanto quello che le sue unità di lettura gli permettono di leggere entro di sé. Si paria al proposito di capacità di simbolizzare i propri eventi psichici.
Tornando all'infante, quando si capisce che il bimbo "capisce", cosa si ritiene che abbia acquisito? Ha dei "simboli"? Possiamo chiamarli protosimboli. Quando, per esempio, il bimbo capisce che esiste l'oggetto che gli hanno nascosto, ne ha una rappresentazione. Possiamo pensare che ne sia "cosciente"? E possiamo chiamarla "rappresentazione"? Sicuramente la rappresentazione che il bimbo ha dell'oggetto scomparso (gli psicoanalisti parlano, in termini affettivi e per epoche ancor più precoci, di "oggetto assente") non è uguale a quella che ne ha l'adulto.
Andiamo ancor più indietro. Quando il bimbo ha imparato a richiamare l'attenzione con certe lallazioni, o a capire il richiamo dell'adulto, cosa ha acquisito? Una rappresentazione sonora? Possiamo dirla "cosciente"? Se seguiamo lo sviluppo infantile, la coscienza ci appare come un vero continuum, da una dimensione zero, difficile da stabilire (alla nascita o prima ancora?), per infinitesimi fino a qualcosa che patentemente rivela il carattere cosciente. Non ci appare una qualità dello psichico, quanto piuttosto, una tonalità, un colore, per così dire.
La "qualità" di questo "colore" esiste, non in quanto l'evento sia esso stesso cosciente, bensì perché un individuo "legge", e riferisce, "qualcosa" di ciò che gli accade. Credo che la psicoanalisi debba dirci ancora molto su queste modalità di lettura, individuali, e su come si formino, in ogni singolo, proprie unità di lettura. La psicoanalisi, allora, diventerebbe, paradossalmente, la scienza che, avendo indagato l'inconscio, può ora occuparsi della coscienza.
2. Simbolizzazione e rappresentazione
Le riflessioni e gli interrogativi che ho sopra prospettato, sull'inconscio e sull'intera struttura delle funzioni mentali, comportano una riconsiderazione di alcuni concetti, non sempre univoci: ciò allo scopo di introdurre a una diversa concezione della mente, quale quella da me elaborate, in grado di rendere la psicoanalisi comparabile con le altre scienze psicologiche attuali (lmbasciati, 2000, b).
Il termine "simbolo" è stato usato, con sfumature differenti, sia in psicoanalisi, sia ancor più in psicologia. Il termine è inoltre usato in semiologia, in sociologia, in antropologia, anche qui con aloni semantici differenti. In ambito psicologico il concetto è spesso intersecato con quello di rappresentazione. In effetti il simbolo è una sorta di configurazione (visiva, o sonora, più raramente di altre sensorialità), percepita o comunque presente nella mente, che sta a "rappresentare" ciò che viene usato per pensare, ricordare, comunicare. Freud sviluppò l'accezione del concetto nel quadro in cui il rappresentato non è consapevole. In psicologia il termine simbolo e quello collegato di "processi di simbolizzazione" sono stati usati in larga scala per indicare i simboli linguistici e la loro acquisizione; dunque nell'ambito della coscienza. Gli studi psicoanalitici di quest'ultimo mezzo secolo, soprattutto quelli sui bambini, sembrano aver accettato un'accezione assai vasta, e polimorfa, del termine simbolo; e dei processi di simbolizzazione, indicando nello svilupparsi di questi la matrice del funzionamento della mente.
Anche il termine "rappresentazione" viene usato con sfumature diverse. Di solito attribuiamo al termine il concetto che si riferisce alla rappresentazione che può avere l'adulto: rappresentazione cosciente o comunque richiamabile alla coscienza, adeguata all'oggetto reale, adeguata alla specifica sensorialità (visiva, sonora, motoria, ecc.). Vi sono tuttavia altre accezioni del termine, spesso non chiare nel linguaggio psicoanalitico (Imbasciati, 1991). La prima accezione citata, la più usata, quanto è idonea a farci individuare le simbolizzazioni che acquisisce un neonato o un bimbo? Forse queste a quelle sono omologabili, ma niente affatto eguali. Le rappresentazioni del piccolo non sono coscienti e non sono mai adeguate alla realtà: e molto spesso sono mescolate nelle varie sensorialità tra di loro confuse, risultando più paragonabili alle sinestesie che si ottengono in via sperimentale che alle percezioni in senso proprio. E così pure la percezione: nel bimbo (ma anche nell'adulto, come dagli anni '30 in avanti gli sperimentalisti han dimostrato) essa non è mai adeguata. La percezione non è un processo automatico legato al funzionamento neurosensoriale. Gli studi di percettologia indicano come essa sia un processo "attivo", che presuppone funzioni propriamente mentali, ed acquisite: in particolare l'acquisizione di una struttura funzionale che sia in grado di "leggere" l'input neurale dei recettori in relazione a engrammi di riconoscimento; e questi devono essere, anch'essi, acquisiti. Torneremo più oltre su questo.
I vari autori, psicoanalisti e non, differentemente definiscono la rappresentazione. Per una rassegna dell'argomento si veda Fraiberg (1969) e Taylor (1987). Agli effetti della presente trattazione(2)2 farò qui qualche brevissimo cenno. Werner e Kaplan (1963) per esempio, parlano di protosimboli, che "presentano" significati, e di simbolizzazioni vere e proprie, che "rappresentano", sia oggetti che significati. Gli psicoanalisti di solito insistono nel sottolineare che gli "oggetti interni" non sono rappresentazioni di alcun oggetto reale. Ma Money Kyrle (1968) giustamente, e pionieristicamente, sottolineò come gli oggetti interni servano al bimbo a rappresentarsi il mondo. Essi dunque hanno un valore rappresentazionale, e pertanto cognitivo. In miei precedenti lavori (1991, 1994, 1998a, 2000a) ho sostenuto che esiste un continuum tra gli oggetti interni e le vere e proprie rappresentazioni. Sempre con qualche stralcio di esempio, Blum (1978) sottolinea come gli oggetti transizionali siano una fase iniziale della simbolizzazione: essi sono presentificazioni di oggetti interni e al contempo percezione -e rappresentazione-di oggetti reali; le rappresentazioni presimboliche diventeranno poi rappresentazioni effettive: l'oggetto transizionale è un oggetto percepito e rappresentato come reale ed al contempo è iscritto nella mente come fosse un oggetto interno. Poiché l'oggetto interno ha un valore rappresentazionale, possiamo considerarlo una protorappresentazione: il passaggio da questa a una effettiva rappresentazione passa attraverso l'oggetto transizionale, come fase, appunto, di transizione. Possiamo perciò considerare un continuum tra oggetti interni, oggetti transizionali (anche quelli meno evidenti e meno studiati) e le rappresentazioni adeguate alla realtà.
La maggior parte degli autori, psicoanalitici, definisce la rappresentazione in base al fatto che il bimbo viva l'oggetto come separato dal Sé. Ma ciò non implica di per sé una rappresentazione sensu strictiori, come nell'adulto, quanto piuttosto si riferisce a qualcosa che più facilmente appare inquadrabile in termini affettivi: come il "vissuto", appunto. Ma il "vertice affettivo" fino a che punto offre un chiarimento utile? Possiamo dire che il vissuto faciliterà, forse successivamente, la rappresentazione? Ma non son forse proprio questi vissuti che servono al bimbo a rappresentarsi il mondo? Ovviamente in modo del tutto distorto -basti pensare alle situazioni persecutorie della posizione schizoparanoidea- da come riesce a rappresentarselo l'adulto. Sono allora, o non sono, rappresentazioni? Si può, parimenti, parlare di rappresentazione quando il bimbo riesce a "rappresentarsi" ciò che chiamiamo l'oggetto assente? Quando si parla di rappresentazioni oggettuali, cosa si intende rispetto alla rappresentazione intesa in senso più tradizionale, di cui parlano gli psicologi? Ovvero, come possiamo confrontare il vertice affettivo con quello cognitivo e i rispettivi termini riferentesi alla rappresentazione e all"'oggetto"? In questa luce, con un altro esempio, la Segal, quando parla (1957, 1978) di equazioni simboliche piuttosto che di equivalenze, che tipo di rappresentazioni diverse sottintende?
Ho appena posto molti interrogativi nell'intento di dare spazio, più che a risposte, a riflessioni. Di fronte a termini come "oggetto", "oggetto mentale", "oggetto interno", "rappresentazione", si ha spesso l'impressione che psicoanalisti e psicologi intendano fenomeni completamente differenti. In realtà si tratta di due vertici diversi, affettivo e cognitivo, per inquadrare gli stessi eventi mentali. Infatti l'oggetto esterno può essere oggetto di affetti ed al contempo puo essere rappresentato, consciamente e inconsciamente. Per contro, a riguardo di ciò che è interno alla mente, mentre gli psicologi parlano di "oggetto mentale" occupandosi della sua rappresentazione (senza però escludere che essa possa essere oggetto di affetti, né che possa essere inconsapevole), gli psicoanalisti parlano di oggetto interno in termini essenzialmente affettivi, trascurandone il valore rappresentazionale; in quanto l'oggetto interno è del tutto difforme da qualunque oggetto reale. Esso però è pur sempre una rappresentazione sui generis, che serve alla mente (si pensi al bimbo, come sottolinea Money Kyrle) per orientarsi nel mondo; e del resto la difformità dell'oggetto mentale degli oggetti reali é pur nota agli psicologi, persino per quell'oggetto mentale che appaia rappresentabile consciamente, come dimostrato in percettologia. Dunque si tratta degli stessi eventi e l'apparente confusione terminologica è dovuta al fatto che lo stesso termine indica concetti che sono diversi solo in quanto il vertice metodologico di osservazione inquadra il medesimo evento in modo differente. Occorre allora, oltre che chiarezza, integrazione tra i diversi vertici di osservazione.
La psicoanalisi non può prescindere dal confrontarsi con le altre attuali scienze psicologiche. Occorre in particolare una traduzione dall"affettivo", tipico della psicoanalisi, al "cognitivo", che oggi caratterizza neuroscienze e scienze cognitive. Accade talora, tra gli psicoanalisti, che il vertice affettivo, dal quale in quanto analisti non possiamo né dobbiamo prescindere, serva a scotomizzare gli aspetti cognitivi. Si introducono in tal modo linguaggi divergenti e talora equivoci, tra gli scienziati che partano dai due diversi vertici. Gli psicoanalisti parlano di "vissuti": ma qualunque vissuto comporta un suo specifico valore cognitivo; basti pensare a come percepisce il mondo un neonato in pieno funzionamento schizoparanoide. Il vissuto, allora, comporta sempre una "qualche" rappresentazione.
Tornando al neonato, più indietro nel suo sviluppo, quando egli "riconosce" un oggetto che gli viene mostrato, mostra di avere una rappresentazione, visiva, che gli permette un riconoscimento. E' una effettiva rappresentazione? Certamente si riferisce a una traccia mnestica: il riconoscimento dice che il bimbo ha una qualche rappresentazione dell'oggetto che sta riconoscendo. Si tratta di una sorta di rappresentazione dell'oggetto, anche se del tutto inadeguata alle forme obbiettive del medesimo; al punto che difficile è per l'adulto immaginarsi quanto ne sia difforme e quanto labile. Ma si tratta pur sempre di una rappresentazione. Qualunque traccia mnestica comporta una qualche rappresentazione. Ed ancora: quando un bimbo mostra che é diventato capace di afferrare (intenzionalmente, non per il riflesso prensorio) e tenere in mano un oggetto, cosa ha acquisito? Uno schema motorio, diciamo. Piaget parlò di intelligenza sensomotoria. Possiamo questo qualcosa, che il bimbo ha acquisito, chiamarlo rappresentazione? Indipendentemente dal fatto che il bimbo abbia una qualche rappresentazione di quell'oggetto, dovremmo convenire che comunque egli ha acquisito una traccia dei movimenti coordinati necessari ad afferrarlo. Questa traccia, di un pattern motorio, può essere anch'essa chiamata rappresentazione? Credo di si, dando al termine un significato estensivo, o meglio, parlando di "protorappresentazioni", ovviamente non coscienti.
Ancora, quando il bimbo impara il controllo sfinterico, cosa sta acquisendo? Quando impara ad andare gattoni, non è forse perché ha stabilizzato in memoria uno schema sequenziale di quelle coordinazioni di vari settori muscolari che prima non poteva dispiegare? E' questa una rappresentazione? Ovviamente non cosciente. Tutto lo sviluppo della motricità procede per apprendimenti. Le vie neurali sono mature tutte già ai primi giorni dopo la nascita, ma non è questa maturazione che determina lo sviluppo: questo avviene per apprendimenti funzionali. Non per nulla si chiama psicomotorio. Dunque è necessario che la mente ne costruisca dentro le corrispondenti tracce: anche queste possono dirsi rappresentazioni? Ed ancora, alle prime settimane di vita, quanto il neonato impara a seguire lo sguardo altrui, cosa ha acquisito?
L'excursus che ho prospettato, sui precursori della rappresentazione intesa sensu strictiori, che cosa ci dice circa il sorgere della consapevolezza e, in un quadro di risistemazione teorica, circa il continuum tra inconscio e coscienza? Le osservazioni condotte sui neonati e i bambini normali non sembrano indicare intoppi, blocchi, concepiti sul modello della rimozione, che cioè si opporrebbero alla vis naturalis di uno sviluppo concepito sulla base di una "natura" (la chiamiamo istinto o pulsione?); quanto, invece, di difficoltà, semmai, a progredire nell'utilizzare l'esperienza (in primis quella relazionale) per la creazione di nuove funzioni. Ogni nuova funzione acquisita, in quanto acquisizione, comporterà una qualche traccia mnestica, e sarà essa stessa un nuovo "simbolo" del processo di simbolizzazione. L'iscrizione nella mente di nuove funzioni ha un valore simbolopoletico in quanto permette l'acquisizione di ulteriori funzioni, a loro volta simbolopoietiche, con le quali cioè saranno possibili ulteriori processi di simbolizzazione, sempre più articolati. Considerando i bambini, gli infanti soprattutto, le difficoltà che osserviamo nello sviluppo appaiono più come difficoltà "nello" svilupparsi, piuttosto che difficoltà "allo" sviluppo.
Vediamo allora che ciò che era inconscio, o meglio indifferenziato, sembra articolarsi progressivamente, assumere maggior chiarezza, potremmo dire, o meglio adeguatezza alla realtà, ovvero alla possibilità di svolgere "operazioni intelligenti". Il tutto in una prospettiva anterograda, per apprendimenti(3), anziché in una retrospettiva sul modello di quella che "scopre" lo sviluppo inconscio partendo dall'introspezione adulta cosciente. Ed allora cos'é la coscienza? Perché e come la si raggiunge? 0 meglio, con quali modalità, e variabilità interindividuale, si raggiunge ciò che l'adulto sperimenta come introspezione cosciente?
Vediamo, ancora, alcuni precursori del pensiero, nel bimbo al di sotto dell'anno. Quando egli impara, a gesti o a mimica, ad esprimere qualcosa, che cosa ha acquisito? Una sorta di rappresentazione, sia del suo stato interno che del modo ex-primerlo in un pattern (motorio, sonoro) che possa essere "letto" dai care-givers? Vi sono al proposito tutti gli studi di Brazelton (1990) e quelli, connessi alla psicoanalisi, di Lichtenberg (1989). Quando il bimbo impara le connessioni tra le cose (oggetti, e poi eventi), sembra acquisire una qualche rappresentazione precorritrice della causalità, qualcosa che precorre l'acquisizione verbale dei verbi: dunque una rappresentazione preverbale, non solo degli oggetti, come per esempio nel riconoscimento di essi, ma dei verbi, ossia delle connessioni tra le cose. L'azione è dapprima concepita come semplice connessione, e questa, quasi sempre è reversibile: mangio e sono mangiato. Solo successivamente si acquisisce il senso della transitività, cioé una capacità di distinguere l'attivo e il passivo. Questo, sappiamo, é correlato con la separazione Sé/oggetti.
Come li chiamiamo tutti questi "simboli": schemi acquisiti? Patterns? Rappresentazioni? Funzioni di simbolizzazione?
Occorre riflettere come di solito pensiamo alla simbolizzazione soltanto per gli stadi più evoluti e non per certe funzioni primitive che ci sembrano intrinseche, quasi ontologicamente, alla mente, anziché acquisite. Quando, per esempio, la Bick ci parla (1968, 1975) della necessità di acquisire una elementarissima idea di uno spazio per potersi sentire contenuto e quindi contenere una prima idea di un Sé (e poi di una "mente"), non ci parla forse di una prima acquisizione simbolica? Paradossalmente si tratta di una acquisizione che permetterà una prima simbolizzazione di un Sé. Quando Bleger (1967) parla del "nucleo agglutinato", ci introduce alla descrizione di una esperienza molto primitiva (anteriore alla posizione schizoparanoide) sulla quale stanno laboriosamente costruendosi le basi per le prime simbolizzazioni. L'indifferenziazione, di cui egli ed altri autori, con altri termini e concetti, ci parlano, ci dice che, perché possa nascere un apparato mentale, è necessaria una prima differenziazione di un "dentro" e di un "fuori" (che poi permetterà quella tra un Sé e non-sé e ancor dopo quelle tra Sé e un "oggetto"). Ma questa prima differenziazione, che avviene in uno stato indifferenziato, non è essa stessa un'acquisizione che dovremmo chiamare simbolizzazione?
Così pure le descrizioni di Winnicott circa il trasformarsi della holding materna in uno "spazio" che viene assunto come proprio (prima corporeamente e poi mentalmente) dal bimbo e che servirà a sentirsi contenuto, ad avere dei confini (e dunque poi un Sé) ci parlano di prime acquisizioni che, ancorché le chiamiamo presimboliche, non possono essere escluse da ciò che con più ampio termine chiamiamo simbolopolesi; o per lo meno inizio della simbolopoiesi. In genere tutti gli studi di psicoanalisi infantile (vorrei citare qui i lavori di Ferro -1996- e della Vallino -1990-) ci mostrano, attraverso il rilievo di una mancanza (patologie da deficit) di una qualche elementarissima capacità, come all'inizio della vita mentale non vi siano quelle differenziazioni che sono i presupposti perché su di esse si possano sviluppare processi simbolici. Ma non sono esse stesse, queste differenziazioni primarie, acquisizioni di funzioni dall'esperienza (corporeo-relazionale), ovvero esse stesse processi di simbolizzazione primordiali? Quante volte abbiamo chiamato scissione una non ancora avvenuta differenziazione o integrazione? Questo uso improprio del termine scissione non é forse un uso indebito di un modello adultomorfo?
E, per concludere, quanto abbiamo appreso dalla psicoanalisi infantile, dall'osservazione del neonato, dall'osservazione del feto (Negri 1993), non ci dice qualcosa della rappresentazione in un'epoca anteriore a quella in cui possiamo parlare di oggetti interni? Eppure siamo abituati a considerare che la rappresentazione di oggetti segua, nel processo evolutivo, la formazione dell'oggetto interno. In questo quadro che ne é del concetto tradizionale di inconscio? E che senso ha parlare di pulsioni e di rimozione?
3. Simbolopoiesi: la catena dei significanti
Comunque vogliamo chiamare tutte le differenti simbolizzazioni di cui abbiamo dato sommario tratteggio, si profila un modello di base: un apprendimento (dall'esperienza, intendiamo, e non un imprimersi passivo degli eventi esterni nella mente; ed aggiungiamo: apprendimento relazionale) produce un'acquisizione che rende possibile un ulteriore specifico (dal primo condizionato) apprendimento; una funzione simbolizzatrice permette di generarne una ulteriore. Come chiamiamo queste acquisizioni?
Si tratta in prima istanza di acquisire qualcosa che permette una produzione di simboli, dunque si tratta della capacità simbolopoietica; o meglio si tratta dell'origine di una funzionalità che permette di apprendere dall'esperienza in modo sempre più differenziato ed efficace. Contemporaneamente è proprio questa possibilità progressiva di apprendimenti che costituisce -o meglio con la quale viene a costruirsi- l'intera struttura funzionale della mente. Possiamo allora intendere la simbolopoiesi come il costruirsi della mente.
In questa costruzione avremo il formarsi di progressive funzioni con le loro rispettive tracce mnestiche; queste permetteranno funzioni via via più evolute ed efficaci per ulteriori acquisizioni, cioè per ulteriori strutture di funzionamento. Se consideriamo il continuum di questa costruzione, occorre dare un nome a quanto, grado per grado, si costituisce come traccia per poter meglio apprendere, cioè per poter meglio fruire dell'esperienza reale. Per rappresentare la realtà? E quale, quella esterna o quella interna? Poiché il termine rappresentazione si presenta alquanto evoluto, inidoneo a darci l'idea delle prime letture dell'esperienza, ed inoltre con un alone semantico che ci porterebbe a concepire la rappresentazione come fosse lo specchio fedele della realtà esterna, ho proposto (1983) di chiamare "significanti", o "unità di lettura" questi gradi, discreti, di tracce. Esse comportano l'acquisizione mnestica della funzione che si renderà con esse possibile: dunque dovranno essere concepibili sia in termini psicofisiologici che in termini psicologici. Nel primo vertice si dovranno considerare tracce costituitesi (a seguito di esperienza) nella rete neurale, che permetteranno a questa di svolgere la funzione con esse acquisita; mentre nella seconda prospettiva la traccia dovrà essere concettualizzabile anche in termini psicologici. Le due concettualizzazioni dovranno essere compatibili(4). Nel secondo vertice, psicologico, la traccia è da intendersi come qualcosa di mentale, venutosi a costruire, che serve a leggere (se non rappresentare) il reale e/o che serve a interagirvi. Unità di lettura, dunque, come tali inconscie, per una lettura inconscia dell'esperienza: esperienza riferita all'esterno, prima, e quindi, successivamente nella costruzione più evoluta, riferibile anche all'interno, con il costruirsi di quelle particolarissime unità di lettura che renderanno possibile leggere, in qualche modo, qualcosa anche di ciò che ci accade dentro inconsciamente. A questo punto, in quello che ci accade dentro del tutto inconsciamente, sorgerà quella funzione che abbiamo denominato capacità soggettiva di una qualche introspezione: o coscienza.
Se dunque rinunciamo, nel senso sovraesposto, ad usare il termine rappresentazione, potremmo chiamare "significanti" le unità di lettura che costituiscono i "mattoni" della costruzione della mente. Per sfatare malintesi sospetti circa una nostra supposta posizione eccessivamente cognitivista, sottolineerò qui come tutte le acquisizioni precoci, quelle cioè che maggiormente condizionano le successive, riguardano una realtà relazionale. I primi apprendimenti concernono quelle capacità funzionali che sono state chiamate affettività, e che condizionano la struttura di base, cioè il funzionamento peculiare di ogni singolo.
La costruzione della mente inizia a procedere, dunque, per acquisizione di significanti che permetteranno ulteriori acquisizioni che fungeranno da ulteriori significanti. Si profila dunque una catena, progressivamente articolata e ramificata (forse a rete) di significanti. Li potremmo chiamare vissuti, ma, credo, con tal termine perderemmo di vista il fatto che essi fungono da significatori -significanti, appunto- per significare la realtà; o, meglio direi, fungono da unità di lettura che permettono alla struttura funzionale una vera "lettura", avente cioé un qualche significato, delle molteplicità degli inputs raccolti e veicolati dalle vie sensoriali, nonché di quelli emessi dall'interno del sistema stesso. Una lettura, occorre aggiungere, che é in funzione della qualità delle unità di lettura (significanti) possedute a quel dato momento dalla struttura funzionale; lettura che pertanto non necessariamente corrisponde a ciò che chiamiamo lettura adeguata al reale. D'altra parte, senza una qualche lettura, operata da un qualche significante, gli input rimarrebbero senza significato alcuno; e non potrebbero neppure essere memorizzati. I potenziali innescati nei recettori si perdono nella rete neurale.
Il concetto di significante, o di unità di lettura, ha, come sopra prospettato, un valore psicofisiologico, come iscrizione nella rete neurale di una traccia che permetterà una certa funzione, e un valore psicologico, come significante, appunto, per significare al sistema mentale la realtà in cui sta operando, sia questa realtà quella esterna, sia la realtà interna, cioé concernente lo stesso sistema operante in quel momento. Per esprimere questo duplice valore, psicofisiologico e psicologico, ho introdotto, nei miei lavori, il termine "engramma". Esso è equivalente, con diverso alone semantico, a quello di significante e di unità di lettura. Ragione dell'introduzione di tale termine sta nel fatto che esso si presta ad indicare sia qualcosa di psichico che qualcosa di psicofisiologico. In quest'ultima prospettiva nei miei testi ho descritto il formarsi della traccia in termini di processazione degli input, sia esterni che prodotti internamente dal sistema (1998a)(5). In entrambi i casi engramma" non è da intendersi in senso omomorfo.
Molti autori, soprattutto non psicoanalisti, trattando delle prime acquisizioni di capacità di leggere la realtà, parlano di acquisizione di schemi cognitivi. Io penso che potremmo chiamarli anche protorappresentazioni, per unificare il concetto di acquisizione di schemi funzionali con quello di acquisizione di rappresentazioni che possono servire a rappresentarci, in qualche modo, la realtà. Naturalmente, usando il termine rappresentazione, dobbiamo tener presente che vengono ad essere rappresentate, nella mente, non solo forme di oggetti concreti, ma forme di operazioni; schemi operativi, o cognitivi che dir si voglia; forse, possiamo anche dire, tracce funzionali di "operazioni intelligenti"; salvo il riferimento alle tracce di quelle funzionalità valutate come patologiche. Per tutte queste acquisizioni occorre comunque presupporre corrispondenti tracce mnestiche (cfr. precedente nota 3). Il tutto in una progressione, per cui l'una permette di costituirne un'ulteriore. Costituire o costruire?
Preferisco tale secondo termine (1998a), per sottolineare il processo attivo, di auto-crescita delle funzioni mentali: la mente come costruzione progressiva di simboli sempre più complessi; simbolopoiesi, nel senso che l'acquisizione di un simbolo rende possibile la genesi -la poiesis- dell'ulteriore, e ne condiziona la qualiltà. In tal quadro, come collochiamo l'inconscio? E la coscienza? 0, meglio, come li concepiamo?
Quando si parla di oggetti interni, dove li collochiamo nel quadro suddetto? Si dice che gli oggetti interni non sono rappresentazioni di alcun oggetto reale: eppure essi hanno valore rappresentazionale; servono al bimbo a rappresentarsi "in qualche modo" il mondo; il suo mondo. Penso sia assai poco euristico catalogare come affettivi" gli oggetti interni, separandoli in tal modo da quanto sappiamo delle rappresentazioni come funzioni cognitive. Non possiamo più, allo stato attuale delle scienze psicologiche, separare affetto e cognizione; se non in omaggio ad una reificazione della concezione freudiana di libido e di pulsione considerati come "energia" e quindi quasi visti come "sostanza", affettiva appunto, che distinguerebbe l'affetto dalla cognizione, e che interverrebbe in uno sviluppo, cognitivo, altrimenti preordinato nel biologico. E' forse questa la concezione sottesa al pensiero di Freud? Uno sviluppo cognitivo legato al biologico, modulato dall'energia pulsionale a seconda che l'esperienza del reale frustri o permetta lo scarico istintuale? 0 forse é questa una misconcezione postfreudiana che si é diffusa tra gli psicoanalisti?
Io credo che dovremmo chiarirci meglio le sparpagliate ma numerosissime scoperte che in cento anni di psicoanalisi si sono accumulate: chiarircele in una più organica sistematizzazione; e confrontarle con quelle di altre scienze psicologiche. L'esperienza non è tanto il filtro apposto dalla realtà ad un flusso biologico: l'esperienza è un'occasione che permette un'organizzazione degli input in una "costruzione" di strutture mentali. Apprendere dall'esperienza significa che un insieme di funzioni, acquisite in un certo momento(6)6, permettono un certo tipo di apprendimento, dall'esperienza stessa. La griglia bioniana si accorda con una concezione di progressiva costruzione di funzioni. E probabilmente possiamo assumere che la diacronia dello sviluppo infantile permanga e si ripeta nella sincronia del funzionamento mentale evoluto, in quanto gli engrammi costruitisi ai primi livelli permangono anche se funzionano altri engrammi, più evoluti, di costruzione successiva. La coscienza si prospetta allora come una dimensione che sorge gradatamente, verso il terminale, per così dire, dei processi simbolopoietici.
4. L'affetto come traccia mnestica
Cosa ne è allora dell'Inconscio freudiano? Quali concetti e termini ci sono oggi più utili? A quale inconscio siamo abituati nella professione? A quello concepito per analogia al mondo delle "passioni" dell'adulto, indagate dal vertice retrospettivo della prima psicoanalisi? Archeologia o costruzione é l'analisi? Il problema già se lo pose Freud. Se l'analisi è costruzione dovremmo però considerare, non semplicemente la ri-costruzione che pensiamo di fare nel lavoro analitico, quanto la costruzione con cui si era costruita originariamente quella mente. Forse la teoria energetico-pulsionale ci ha frastornato. L'inconscio che vediamo nei bambini, specialmente, al di sotto dell'anno di vita, non facilmente si accorda con la concezione che abbiamo ereditato dal quadro teorico freudiano.
Parliamo di angosce, più in generale di affetti: quanto usiamo questi termini, presi dalla clinica dell'adulto, in modo improprio? Il concetto di affetto è tratto da una psicologia della coscienza, postulando poi l'affetto inconscio. In un vecchio ma interessante articolo comparso sull'Int. J., Pulver (1971) sottolineava che per Freud "affects must be conscious": l'affetto inconscio è un concetto che Freud ha derivato per necessità logica (indebita analogia dalla teoria alla clinica?) da quello di pulsione, così come l'inconscio è per Freud indissolubilmente legato al concetto di rimozione (rimozione primaria, giunge a postulare) e a quello di energia.
Comunque si voglia vedere Freud, quando noi parliamo di affetti inconsci facciamo un'inferenza: dal cosciente (dell'adulto) a qualcosa che non lo è; e che, semmai, con l'analisi lo diverrà. Con qual diritto postuliamo che ciò che constatiamo apparire cosciente a seguito dell'analisi è proprio quello che era inconscio? E che vi sia qualcosa di inconscio omologo a ciò che constatiamo come cosciente? Si tratta proprio di un "divenire" conscio? 0 piuttosto del fatto che l'analisi permette di "costruire" quelle strutture interiori in base alle quali il paziente acquisisce quella capacità di lettura del proprio interno che gli conferisce ciò che definiamo capacità di sentire affetti. Ciò che contraddistingue l'affetto da altri processi mentali è solamente la diversa tonalità soggettiva, affettiva appunto, con cui l'introspezione di un adulto (sempreché questo adulto ne possegga) vive certi suoi processi mentali rispetto ad altri, che si presentano invece, più asettici e semplici, come "cognitivi". Se questo avviene nella lettura operata da quanto chiamiamo coscienza, ciò che avviene al di sotto della consapevolezza è veramente di una natura distinguibile come affettiva rispetto ad un'altra catalogata come cognitiva? E, se l'inferenza può esser utile nella clinica degli adulti, quanto è opportuno parlare con tali concetti e termini considerando i bambini? Soprattutto se al di sotto dell'anno di vita. Cosa sono, invece, nel bambino piccoli, questi "affetti"? Hanno forse ragione quegli autori (Plutchick, 1980) che li chiamano schemi cognitivi primari. Che ne sappiamo, noi adulti, di quel che prova un bimbo di poche settimane per indicarlo col termine di affetto? E' un'analogia adultomorfa, di cui sappiamo solo per inferenze: meglio allora attenerci esclusivamente a queste e, semmai, perfezionarle. Ed inoltre: perché "prova"? Il termine attiene alla consapevolezza, che il neonato ancora non possiede.
Certamente ciò che chiamiamo affetti sono il modo con cui un bimbo si orienta nel mondo. Si suol dire, d'altra parte, che un infante "ragiona" in termini di affetti. Questi hanno allora a che fare con la rappresentazione; soprattutto se usiamo quest'ultimo termine in senso lato, o se usiamo (come io da tempo faccio nei miei lavori) il termine di protorappresentazione; o se sottolineiamo il valore rappresentazionale degli oggetti interni (1991). Si può allora parlare di affetti, e parimenti di oggetti interni, in termini di tracce mnestiche. Se l'affetto è legame, se l'oggetto interno si genera nella relazione, vuol dire che entrambi hanno a che fare con un apprendere dall'esperienza. Sono dunque apprendimenti: dunque avranno una "traccia". L'affetto appreso!? La traccia dell'affetto!? L'oggetto interno appreso!? Questo può spesso suscitare meraviglia in alcuni analisti: si tratta soltanto del persistere di un vecchio concetto di apprendimento; quello invece di cui ci parlano oggi gli psicologi è del tutto omologabile a quell'apprendere di cui ha parlato Bion e altri autori psicoanalisti.
Ci sono ancora vecchi pregiudizi su che cosa sia una traccia mnestica. Traccia non è un imprimersi di una qualche realtà esterna immessa -quasi fosse un'immagine- in quella interna, bensì qualunque modificazione delle possibilità funzionali che avviene nella struttura mentale a seguito di un'apprendimento. Tale concezione, in linea con gli attuali studi delle scienze cognitive, si accorda col fatto che la memorizzazione avviene secondo un codice biochimico, in continua metabolizzazione. L'affetto dunque, in quanto attitudine funzionale formatasi nelle relazioni (soprattutto quelle primitive) e pertanto modificazione, appresa nelle relazioni, delle possibilità funzionali, ha il suo corrispettivo psicofisiologico in una qualche traccia.
Gli interrogativi appena posti sul modo di concepire gli affetti altrettanto possono essere svolti riguardo alle angosce. E alle "fantasie". Quanto, nel concepire la "phantasy" kleiniana, vi trasponiamo impropriamente l'esperienza consapevole dell'adulto? E' sul modello della "fantasy", fantasticheria, che è stata postulata una "phantasy". Quanto questo concetto è, inoltre, troppo impregnato di teoria? Non sarebbe più utile usare, anche qui, altri termini? Per esempio protorappresentazioni, o schemi cognitivi, schemi operazionali, modi di rappresentare connessioni tra oggetti interni. Ma lo stesso oggetto interno, in tal caso, dovremmo abituarci a concepirlo diversamente: non tanto come oggetto di affetti (i quali essendo affetti inconsci sarebbero poi soltanto derivati logici dalla postulazione teorica delle pulsioni), quanto come rappresentazione sui generis, o protorappresentazione, difforme da qualunque rappresentazione di oggetti reali, eppur avente nella funzionalità della mente un importante ruolo rappresentazionale.
Sono portato a pensare che la focalizzazione posta dagli psicoanalisti sull'inquadramento affettivo degli oggetti interni, a scapito di una dovuta attenzione al loro valore rappresentazionale, possa essere dovuta al fatto che a lungo -forse troppo- il nostro ancoraggio alla teoria pulsionale sia stato parallelo al persistere (inconscio?) di un'idea dell'affettività come "qualcosa" di sostanzialmente diverso dai processi mentali che conducono alla percezione, alla rappresentazione, all'apprendimento, alla memoria, in una parola alla cognizione. Questo persistere non è forse dovuto ad una semplicistica quanto indebita analogia con l'esperienza consapevole dell'adulto?(7) Che l'essenza dell'oggetto interno consista nell'esser esso oggetto d'amore mi pare una trasposizione adultomorfa, che si è indotti a fare attraverso l'analisi. Credo piuttosto che l'oggetto interno diventi oggetto d'amore: che esso sia "oggetto di amore" (o comunque, di affetti) non è causa, ma conseguenza del fatto che esso sia così importante nella elaborazione dei processi mentali; ovvero nella simbolopoiesi intesa come qui descritta.
E' per una simbolopoiesi che si crea la capacità di amare, non per una qualche supposta forza naturale o per una conseguenza che appare logica solo nell'adulto: si tratta di una simbolopoiesi molto più complessa di quanto siamo abituati a concepire, che fa si che una protorappresentazione d'oggetto diventi oggetto d'amore, o meglio, fulcro di ciò che si sta costruendo come affetto d'amore. In certi misconoscimenti, cui siamo abituati, giuoca a mio avviso un eccessivo ancoraggio a una tradizione storica che ha colluso con pregiudizi della psicologia dei secoli scorsi.
Pensare che l'oggetto interno sia di per sé oggetto d'amore (comunque di affetti), significa concepirlo proiettandovi la realtà dell'oggetto esterno (la madre adulta che ama il suo bimbo) che di solito è al centro dell'esperienza che lo origina. Ma l'amore, nel neonato, o altro affetto, sono vissuti che noi gli attribuiamo adultomorficamente. E' discutibile chiamare affetti gli eventi mentali che accadono nel neonato. Invece, la pregnanza dell'oggetto interno è data dal fatto che esso è una prima costruzione mentale (endopsichica, seppur generata dall'esperienza) di fondamentale importanza per tutti i successivi processi simbolopoietici: ne é la "causa". Per questo é importante che l'analista possa farsene un'idea. Attribuirgli l'etichetta di "affettivo" comporta, a parte l'adultomorfismo, il rischio di metterne in ombra il ruolo cognitivo di modulatore per la costruzione delle successive strutture mentali; inconsce, ovviamente. Che poi l'oggetto interno del bimbo diventi la base su cui il soggetto costruirà successivamente la sua capacità d'amare (o di odiare) è evento che fa parte della progressiva simbolopoiesi, ma non è attributo intrinseco dell'oggetto interno; e che esso diventi la base per ogni altro evento affettivo dell'adulto obbedisce al principio generale che ogni funzione adulta poggia sulla base di operazioni protomentali, quelle stesse che si fanno "sentire" quando l'adulto "sente" affetti.
Ogni concetto, ed ogni termine, che la scienza via via va formulando, è necessariamente connesso, se non impregnato, di una qualche teoria: un tal grado di "parentela" deve tuttavia essere sufficientemente elastico da permettere agli scienziati di intravedere nuove e più utili teorie, abbandonando quelle vecchie. In ogni scienza le teorie cambiano. Sono le scoperte che restano, e così pure il metodo, che però si trasforma e si affina. La distinzione tra scoperte, metodo, e teoria, che qui sarebbe fuori luogo riprendere (rimando a miei lavori: 1993, 1994, 1998 a, b), è di basilare importanza per il progresso di una scienza. Sono dell'opinione che in psicoanalisi, per il fascino della grandiosa opera del Maestro, gli psicoanalisti siano rimasti eccessivamente legati alla sua teoria e in conseguenza ostacolati a svilupparne il metodo e incrementare le scoperte, nonché a formulare nuove teorie, che in circolarità favorissero sia il metodo che le scoperte. Una teoria non è né vera né falsa: è solo utile, in una certa epoca di ogni scienza. Un eccessivo attaccamento alle teorie già formulate impedisce la ricerca. Quanto gli psicoanalisti sono rimasti prigionieri della teoria energetico-pulsionale? Lo stesso discorso potrebbe essere rivolto anche ad altre successive teorizzazioni, come per esempio certe formulazioni kleiniane.
Se ci chiariamo alcune ambiguità di concetti, certe differenze nell'uso degli stessi termini, e il loro riferimento teorico, potremo meglio cogliere clinicamente certi fenomeni, o eventi, mentali, che potrebbero essere stati oscurati dall'uso non chiaro dei concetti e dei termini. Per esempio potremmo meglio capire, formulando concetti nuovi e abbandonando (decisamente!) i vecchi, l'essenza di certi vissuti infantili, neonatali, che restano, nascosti, anche nell'adulto. Per esempio, Bollas (1987, 1992) ha introdotto il concetto del "conosciuto non pensato" e di "stato dell'essere", per farci meglio capire certe situazioni cliniche, degli adulti, spesso sottese a patologie, se non gravi per lo meno poco accessibili all'analisi: patologie basate su una struttura psichica assai poco strutturata, ossia con livelli di simbolizzazione del tutto rudimentali, di fronte a cui l'analista si trova con un equipaggiamento non ancora pienamente collaudato dalla ricerca clinica. In questa ricerca una chiarificazione teorica potrà essere di ausilio. Nella mia concettualizzazione, gli stati clinici di cui parla Bollas, trovano spiegazione in un deficit di quelle prime catene di engrammi, o protosimboli, che stanno alla base del poter pensare il proprio pensiero; di quelle elementari unità di lettura che danno l'avvio alla capacità di leggere i prodotti interni del sistema mentale.
Molti autori hanno sottolineato come si possa individuare una patologia da deficit, da contrapporre a quella classica, da conflitto (ci sarebbe da chiedersi se, in una nuova visione quale quella che sto ricercando, il concetto di conflitto conservi ancora l'importanza che gli abbiamo dato) ed hanno descritto stati mentali "asimbolici" (o poco simbolizzati) e pertanto ineffabili, dunque non esprimibili con le parole, né con gli altri mezzi che negli adulti indicano il sentire gli affetti: difficili pertanto da cogliere, anche da parte dell'analista, se non affinando le sue capacita di vivere e fronteggiare particolari stati di controtransfert. Forse eventi mentali quali quelli dei pochi esempi suddetti meglio potrebbero essere colti, se avessimo a disposizione un vocabolario tecnico meno equivoco, con un rimando più chiaro ai concetti e alle teorie, così da permettere una maggior flessibilità rispetto agli schemi teorici finora seguiti. Ho citato Bollas, ma molti altri autori potrebbero essere chiamati in causa a questo proposito: per esempio Bleger (1967) e lo stesso Bion.
In questo quadro, quanto la teoria tradizionale dell'inconsclo ci é di impaccio? I citati concetti di Bollas, per esempio, possono essere inquadrati nella visione tradizionale dell'inconscio e della rimozione? A mio avviso no, mentre invece meglio sono coglibili nel quadro dello sviluppo simbolopoietico quale sto qui cercando di descrivere. Noto qui del resto come Bollas affermi (1992 p. 72 ed. it.) che abbiamo bisogno di una "teoria della ricezione", invece che di una teoria della rimozione, ovvero come occorra conoscere le modalita con cui le esperienze vengono recepite, per essere elaborate a strutturare l'inconscio; e come, a proposito del "conosciuto non pensato", dobbiamo abituarci a considerare, nelle analisi, piuttosto che blocchi e rimozioni, la necessità, intrinseca dei processi inconsci, di "eludere una coscienza prematura" (p. 97). Intrinseca, a mio avviso, in quanto, se il paziente non dispone di certi livelli inconsci di simbolizzazione, la coscienza che ne può avere con l'interpretazione è del tutto scollata dal Sé e fuorviante.
Forse siamo prigionieri delle teorie: e di concetti non solo non più utili, ma paralizzanti rispetto ad un nostro accoglimento dei progressi compiuti dalla psicoanalisi negli ultimi cinquant'anni. Concetti, inoltre, che oggi si presentano superati rispetto al progresso delle altre scienze psicologiche. Non esiste solo la psicoanalisi, ma una trentina, almeno, di discipline psicologiche diverse, che, insieme a quelle neurologiche, hanno fatto progressi enormi. Già ho accennato ai pregiudizi intorno al concetto di traccia mnestica, ed ho fatto un fugace accenno a quello di percezione, che qui mi pare utile riprendere.
Si é conservata (negli psicoanalisti, forse?) l'abitudine a considerare la percezione come un processo automatico, dipendente dagli organi sensoriali e comunque dalla maturazione neurobiologica(8)8. Tale abitudine si traduce oggi in un vero pregiudizio antiscientifico. La percezione appare automatica nella coscienza dell'adulto. In realtà essa é una lettura di configurazioni afferenziali (input sensoriali), operata solo in quanto esistono nell'apparato mentale del percipiente certe funzioni, che tale lettura rendono, appunto, possibile; ed è in relazione al tipo di tali funzioni elaborative che risulta un certo tipo di percezione. Perché tali funzioni operino è indispensabile che nel "sistema-mente" siano disponibili corrispondenti unità di lettura: ovvero certe "rappresentazioni". Se, come nell'infante, esse sono difformi da quelle che permettono le cosiddette percezioni del reale (in realtà una percezione completamente e fedelmente realistica non esiste mai, neppure negli adulti, come dimostrato dai classici studi di percettologia a partire da quelli sulle illusione ottico-geometriche), abbiamo una lettura difforme; dunque una percezione totalmente diversa; che però non possiamo chiamare abnorme, in quanto fisiologica, sia in età evolutiva che nella processualità interna adulta.
La percezione è un processo attivo, di assemblaggio degli inputs secondo certe configurazioni "costruite" da corrispondenti funzioni progressivamente apprese. Ognuna di queste funzioni è dipendente dalle precedenti e connessa alle successive, in una modalità funzionale di progressiva "costruzione". Ogni funzione è data dall'esistenza di una traccia: tracce di funzioni, non di oggetti; tracce di programmi funzionali, che operano in rapida successione in ogni atto percettivo. In relazione a quelle funzioni che siano state apprese e a quelle unità di lettura che siano state immagazzinate a disposizione della funzione, avremo una diversa lettura degli input e dunque una differente percezione. Se abbiamo presente questo quadro, abbiamo un'idea migliore di come gli oggetti interni descritti dalla psicoanalisi siano unità di lettura per la percezione del mondo: ovvio è che questa percezione è del tutto "inadeguata al reale", cioè del tutto difforme da quella dell'adulto; così come è ovvio che queste unità di lettura non siano rappresentazioni del reale: la lettura che ne risulta è dei tutto sui generis. Dobbiamo dunque spogliarci del pregiudizio che percepire significhi percepire il reale; e che, quando ciò non avviene, qualcosa ha guastato, o interferito, in meccanismi biologici generando l'allucinazione. Ciò che chiamiamo allucinazione del neonato è il suo abituale modo di percepire. Ciò che dovremmo chiederci non è il perché dell'allucinazione, ma come il bimbo più grande possa arrivare a percepire in modo adeguato al reale.
In termini di simbolizzazione, o meglio di simbolopoiesi, la capacità percettiva è una acquisizione progressiva di simboli e di modalità di processarli in modo da ottenere quella processazione finale degli input che chiamiamo percezione: viene cioè acquisita, progressivamente, una capacità di compiere certi assemblaggi, cioè di leggere in corrispondenti modi (con corrispondenti rappresentazioni che fungono da significanti di altrettanti significati), la miriade di input delle più svariate sensorialità. Una più dettagliata "analisi della percezione" (si vedano altri miei lavori: 1994, pp. 384-387; 1998, pp. 47-52 e 86-89) può essere utile, non solo quale integrazione teorica tra psicoanalisi e altre scienze psicologiche, ma anche, a mio avviso, per la clinica psicoanalitica stessa. Soprattutto per la comprensione di molte patologie infantili, dei deficit intellettivi non organici, e in genere per tutte le patologie cosiddette da deficit, anche degli adulti. Si dice che le patologie da conflitto stanno sparendo, nella popolazione attuale dei pazienti, a vantaggio delle patologie da deficit, o che, comunque, la patologia dei pazienti sta cambiando. Ma siamo sicuri che è cambiata la patologia o invece il nostro modo di capire il funzionamento mentale di chi soffre? E siamo sicuri di poter parlare di "chi soffre", piuttosto che di "chi non riesce"?
Ovvero parlare di chi non è riuscito a costruire un funzionamento mentale sufficientemente paragonabile a quanto in altri si riscontra, o comunque a quanto sarebbe desiderabile o ottimale. Sono dell'opinione che una visione costruttivistica della mente possa, non semplicemente essere integrate da altre scienze psicologiche, ma anche fondata in modo specificamente psicoanalitico.
5. L'inconscio come simbolopoiesi
Dalla prospettiva che ho cercato di delineare, simbolopoiesi appare l'intero sviluppo mentale: il costruirsi progressivo di una struttura funzionale capace di elaborare, in modo specifico per ogni singolo, l'esperienza. Una tale costruzione appare con maggior evidenza considerando i primi due anni di vita, ma comunque sussiste anche negli anni successivi, per tutta la vita dell'uomo, finché l'esercizio del pensiero generi ulteriori capacità di pensare. Potremmo dire che simbolopoiesi è lo sviluppo dell'intelletto, essendo cio che finora abbiamo chiamato sviluppo affettivo la base di quanto chiamiamo intelligenza: base condizionante, dalla cui struttura dipenderà la qualità della costruzione di tutte le successive. Ciò, non in quanto gli affetti modulerebbero un processo altrimenti organicamente predeterminato, come in fondo sembra indurre a pensare la formulazione energetico-pulsionale, bensì perché gli affetti sono le prime costruzioni di funzioni mentali, le prime ad essere apprese e a fungere da struttura funzionale per acquisire le successive: da esse dipende che cosa, dall'esperienza, sarà utilizzato per la costruzione dell'intero sistema-mente.
Credo che possa essere utile agli psicoanalisti parlare di intelligenza -e meglio sarebbe forse reintrodurre il vecchio termine intelletto(9)9 - sotto un nuovo vertice, diverso da quello veteropsicologico, dal quale inevitabilmente parlava Freud. Non c'è ragione di separare affetto e cognizione: la distinzione è rilevante solo nella coscienza, più o meno lucida, di un adulto; e spesso occorre che questo adulto sia culturizzato per avvertirla. Essa dunque appare come distinzione, forse spuria, di due epifenomeni, distinguibili solo in certe condizioni; forse a seconda di quali catene di significanti stiano prevalentemente operando, se quelli più "basali" (diremmo funzioni più primitive o indifferenziate?), piuttosto che quelli più sofisticati.
Non c'è pensiero cosciente senza pensiero inconscio, ci ha detto Bion, neppure per il calcolo, algebrico, come ci suggerisce la sua griglia. Applichiamo fino in fondo per questa intuizione! L'inconscio allora è lo stesso pensiero umano, per lo meno nella sua essenza, e l'intero pensiero è simbolopoiesi, dunque tale l'intero inconscio. A qualche "terminale" di qualche catena simbolopoietica emerge in qualche caso l'esperienza di coscienza: forse con essa cessa la simbolopoiesi?! Gli studi sulla creatività sembrano indicarlo. In ogni caso, quanto più avremo in mente che il nostro pensiero, la mente stessa, sono inconsci, tanto meno avremo bisogno di usare l'aggettivo "inconscio". Quanto a ciò che chiamiamo coscienza, se saremo consapevoli di quanto funzioniamo inconsapevolmente, tanto meno avremo bisogno di nominarla. Tuttavia la coscienza ha un senso, e non trascurabile: essa serve a vedere, o meglio a intravedere retrospettivamente qualche squarcio della simbolopolesi che abbiamo percorso: è questo a mio avviso l'utilizzo della coscienza che viene incrementato con I'analisi. Più spesso essa serve a darci un'immagine, anche lontana e diversa rispetto al processo interiore, ma comunque utilizzabile, in qualche modo, dal soggetto. Potremmo allora di nuovo chiederci come e perché la consapevolezza emerga: essa è lo strumento che permette all'essere umano di riflettere su sé stesso; di "guardarsi". La domanda sul come essa sorga, a mio avviso, potrà portare la psicoanalisi a meglio indagare, proprio l'inconscio: nel quadro che ho prospettato a indagare la progressione simbolopoietica.
La concezione della mente come simbolopoiesi, come struttura che si autocostruisce producendo catene e ramificazioni di progressivi significanti, può offrire una spiegazione di quanto clinicamente riscontriamo come resistenze su una base diversa da quella offerta dal tradizionale postulato della rimozione, e fornire una soluzione al problema, delineato nel par. 1, circa il rapporto tra l'evento clinico rilevato e l'interpretazione-spiegazione del suo verificarsi. Ci sono soggetti abbastanza capaci di guardarsi dentro, altri che ci si rivelano quasi del tutto incapaci. Già ho rammentato il concetto di alexitimia. Parliamo di soggetti molto "difesi": meglio ci potremo interrogare sulla natura delle difese se, abbandonando gli schemi teorici consueti, le potessimo inquadrare nella prospettiva delle catene simbolopoietiche. Per alcuni individui la capacità di guardarsi è settoriale: una persona può avere ricche capacità introspettive, ma esser cieco e sordo per alcune sue aree. Le definiamo scisse: cosa è successo nello sviluppo simbolopoietico? Può questo interrogativo portarci a formulare differentemente il concetto di scissione e più in generale quello di difesa?
Quest'ultimo è infatti legato ad una concezione dinamica degli affetti. Ci si difende, con una "forza", da un'altra forza che ci minaccia: siamo di fronte all'assunzione del concetto di forza come basilare; siamo in psicodinamica, dunque, e pertanto nel modello pulsionale. Da decenni illustri autori, dopo aver criticato la teoria pulsionale, hanno proposto una "psicoanalisi senza psicodinamica". Si veda al proposito la bella rassegna curata da Fabozzi e Ortu (1996).
Proviamo invece a considerare ciò che finora abbiamo inquadrato come conflitto, difesa, rimozione(10), e anche scissione, in un quadro diverso: in quello della simbolopoiesi, così come qui descritta. Nelle catene e nelle reti dei significanti in cui ognuno di essi ne genera (poiesis) ulteriori, possono verificarsi trasformazioni che aumentano il potere significativo -dunque in un certo modo il "senso" del sistema-, la sua efficienza, la sua continuità, la sua capacità di produrre simboli ulteriori, ed altre invece, che ne sminuiscono il senso, che lo confondono, che pervertono i significati con significanti in apparenza continui, che creano fratture, iati, contraddizioni, rallentamenti, arresti; e ciò in tutto il sistema della significazione interna. I ratti impazziscono se immessi un sistema contraddittorio: perché non dovrebbero impazzire gli uomini? La contraddittorietà schizofrenogena della comunicazione interpersonale, su cui molto hanno scritto gli autori della Scuola Sistemica, e talora anche alcuni psicoanalisti, il contrasto tra opposti messaggi (messaggio e metamessaggio) di cui parla la Pragmatica della Comunicazione Umana, sono altamente patogeni: in quanto, a mio avviso, coltivano e virulentano una potenziale contraddittorietà interiore, insita nello sviluppo delle catene e dell'articolazione della progressiva simbolizzazione; essi introducono "bugie" nella simbolopoiesi, zone isolate in quella che dovrebbe essere (e tale restare) una rete comunicazionale intrapsichica. Questi "difetti", queste mancanze, questi "buchi" nella costruzione simbolopoietica, ovvero della struttura mentale, possono far si che intere parti del sistema si oscurino, restino isolate, o scompaiano, come in un computer si distruggono interi programmi; che avvengano eventi definibili come implosione, autocannibalismo (termine usato da Bollas) o, secondo la dizione da me introdotta (1981) e che ho continuato a usare, di autotomia (auto-tomos= tagliare, escindere).
La coscienza dunque non è quella struttura che può funzionare se togliamo i blocchi che abbiamo immaginato con la teoria della rimozione. E' invece una funzione che potrà essere costruita nella misura in cui si potranno colmare le inevitabili "fratture" del sistema simbolopoietico. Con l'analisi ricostruiamo una costruzione simbolopoietica difettosa: possiamo quindi far emergere una nuova e diversa coscienza. Diventa allora evidente come in un tale lavoro occorra una processualità graduale, a cominciare dalla costruzione delle strutture piu elementari. Di qui la particolare cautela nella tecnica psicoanalitica su cui insiste Greenspan (1997): non si possono proporre al paziente le connessioni che è capace di operare la mente dell'analista. Occorre prima ricostruire la capacità di "connettere" del paziente, ovvero la possibilità che la sua rete comunicazionale intrapsichica -una rete di significanti che dovrebbero tra di loro esser connessi- sia, se non ristrutturata, per lo meno sanata delle sue smagliature, dei suoi "buchi", delle discontinuità che hanno separato (scissione) zone della sua capacità significazionale da altre zone del suo sistema. E' impossibile avere consapevolezza (oppure essa è falsa!) se i vari passaggi a monte di essa sono discontinui o mistificanti; non si può arrivare ad avvertire il conosciuto non pensato, se prima non si è costruito, attraverso la ri-sperimentazione di stati dell'essere, uno spazio interno per pensare. E questo stesso spazio ha poco senso classificarlo come inconscio. La necessità di eludere una coscienza prematura, di cui parla Bollas, indica a mio avviso il fatto, intrinseco della progressione simbolopoietica, che ogni significante costruito deve essere in continuità così precedenti e coi successivi. Altrimenti potremmo avere quelle analisi in cui il paziente sembra aver imparato tutti gli insight possibili, a parole, ma, sfortunatamente, non cambia: non cambia perché ciò che sembra aver appreso non è in connessione coi precedenti e più effettivi apprendimenti; ovvero i simboli verbali, con cui egli sembra poter pensare, non sono in connessione coi precedenti significanti; né la rete comunicazionale è stata sanata dai suoi iati e dalle sue fratture, ancorché il paziente sembri in grado di connettere.
Le discontinuità e le contraddizioni costituiscono e spiegano la patologia, così come falsi passaggi, veri salti nella progressione simbolopoietica, stanno alla base di certe patologie, perverse, o di falso Sé, o iatrogene da analisi. Forse la nozione di contraddittorietà entro il sistema di significazione, o quella di interruzione, di "buco", di vuoto, ci sembrano insufficienti, a capire certi eventi patologici, perché le confrontiamo col mito affascinante delle forze inferne(11) personificate dalle pulsioni. Credo tale sottovalutazione sia dovuta al fatto che la mente adulta (relativamente "sana") è abituata a intellettualizzare la contraddittorietà, a sterilizzarla distaccandola dal vissuto. Chi la vive, invece, è proprio colui che sta psichicamente male: l'individuo patologico; che spesso è anche logopatico, ovvero -stando all'etimo- patisce perché non capisce quanto soffre. Di conseguenza noi facciamo fatica a capirlo; tanto più se non abbiamo un certo equipaggiamento.
Ciò che dalla clinica concettualizziamo come conflitto è forse il nostro modo più facile e tradizionale di dar forma comprensibile alla contraddittorietà entro il sistema protomentale. Non è facile concepire la contraddizione inconscia: è più facile limitarsi ad avvertire in noi stessi tendenze contradditorie e pensare che anche i pazienti le possano sentire. Ma in questo caso il nostro "sentire" controtansferale procede dalla nostra introspezione di adulti maturi e non dalla comprensione, che come analisti dovremmo avere, degli stati patologici, deficitari, della mente. Considerare lo sviluppo mentale come simbolopoiesi e il funzionamento mentale come attività del sistema di significazione con la simbolopoiesi costruito, vuoi dire a mio avviso mettersi nella disposizione di ascoltare, capire, inferire, seguire le articolazioni dei significanti, di quelli protomentali, soprattutto, e di intravederne i passaggi di "cattiva costruzione". Vuol dire a mio avviso inquadrare perché la capacità di un individuo di guardarsi dentro può essere cosi varia, difforme, discontinua: a tal ultimo proposito credo che proprio la discontinuità (i "buchi") nelle ramificazioni delle catene simbolopoietiche stia alla base delle resistenze.
Allo scopo di inquadrare tali discontinuità nella prospettiva teorica che ho delineato, ho introdotto il termine "permeabilità intrapsichica" (1983). In un individuo che abbia avuto uno sviluppo simbolopoletico ottimale possiamo presuppore che ogni significante, avendo generato il successivo e da un precedente essendo stato prodotto, sia al primo che al secondo resti in qualche modo legato; e che da ciò derivi una maggiore possibilità che i significanti "terminali", quelli cioè coi quali il soggetto esercita la sua capacità introspettiva [coscienza], possano, coi dovuti ausili, essere collegati ai precedenti. Esemplificativo a questo proposito è l'ausilio dato dalla situazione psicoanalitica: ci sono soggetti per i quali è più difficile, ed altri per i quali è invece più facile, risalire con l'introspezione, aiutata dall'interpretazione, ai propri processi psichici inconsci. Alcuni soggetti sembrano cioè avere una maggiore permeabilità intrapsichica; ed altri invece averne una minore; o addirittura essere incapaci di qualunque collegamento coi processi più profondi. Possiamo ragionevolmente supporre che la catena dei significanti, nello sviluppo di questi individui, si sia, per così dire, rotta, abbia passaggi mancanti; particolarmente lungo i significanti dei processi più profondi; vi sia cioè un deficit di simbolizzazioni primarie ed essenziali.
"Permeabilità intrapsichica" è dunque un modo di riformulare il diverso grado di resistenza: questa verrebbe spiegata come difficoltà, maggiore o minore degli individui, ad essere impermeabili a che i significanti più indifferenziati siano messi in contatto con quelli successivi(12). Il tipo di progressione simbolopoietica può dare origine a costruzioni di sistemi in cui ogni significante è in continuità, quasi in contatto, con l'ulteriore, ed altri invece in cui vi sono fratture, discontinuità, segregazioni, capovolgimenti di significato. Credo che fra queste due polarità si collochi il grado con cui qualunque individuo può essere piu o meno, o settorialmente, permeabile; ovvero capace di guardarsi dentro: e, per contro, il grado con cui l'analista può esserlo egli stesso, ed in questa misura aiutare il paziente a diventare anch'egli più permeabile; a patto però che sappia oculatamente ricostruire nel paziente i passaggi mancanti, e non semplicemente proporgli connessioni che il paziente non è in grado di percorrere. Ciò avviene nella misura in cui l'analista ha a disposizione un equipaggiamento idoneo a capire, meglio del paziente, l'impermeabilità, vale a dire a cogliere i passaggi della simbolopoiesi nei quali il pazlente "non è riuscito", nei quali egli ha "sofferto", e per i quali è diventato "logopatico"(13)13.
Dal punto di vista del paziente, per capacità di guardarsi dentro (guardarsi, dico, non vedersi) intendo, non tanto il divenire consapevole di significati di cui prima non lo era (questo è, semmai, una "costruzione" posteriore, che peraltro rischia sempre di essere condiscendenza verbale alle "parole" dell'analista), quanto un aumento della sua comunicazione intrapsichica inconsapevole. Si tratta di qualcosa che mi sento di accostare a ciò che Bollas (1992) chiama "elaborazione dell'idioma", riferendolo allo "stato dell'essere", coglibile dall'analista ben equipaggiato (controtransfert) ed in tal modo capace di rendere il paziente stesso in grado di elaborarlo. Forse, nella misura in cui un'analista è in grado di lavorare sulla permeabilità intrapsichica, propria e del paziente, potrà essere capace di diminuire i rischi di una prematura ed eccessiva consapevolezza verbale (cui sopra accennavo), ed arrivare ai momenti generativi ("genere", descrive Bollas, come negativo del trauma) dell'analisi; quei momenti in cui, al di là delle parole, delle interpretazioni, e della consapevolezza, il paziente si trasforma, e si avvia a generare un movimento, ed un mutamento, analitico fondamentale; forse, potrei azzardare, a rigenerare un nuovo generatore simbolopoietico.
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Note
1 Gli epistemologi sono abbastanza concordi (lmbasciati, 1993) nel distinguere, in ogni scienza, un primo livello "osservativo", un secondo "descrittivo", un terzo "interpretativo" e un quarto "esplicativo": quest'ultimo riguarda il "perché" (why), mentre i due precedenti concernono il "come" (how e how well).
2 Si da qui per scontata la conoscenza della trattazione freudiana dell'argomento (rappresentazione di parola, rappresentazione di cose), e relativa letteratura.
3 Permane nella nostra cultura, anche scientifica, l'errata ed obsoleta concezione dell'apprendimento inteso come imprimersi dell'esperienza su una struttura biologica, concepita come una lastra fotografica. Parimenti permane l'idea che la traccia mnestica sia, anch'essa, una sorta di riproduzione dell'evento o degli oggetti percepiti, e che tale rimanga, quasi staticamente. Tale concezione (cfr. principio della costanza Katz, 1946; cfr. anche Imbasciati, 1994, 1998a) vede la mente come una sorta di apparato fonofotoriproduttore. Al contrario I'apprendimento è un processo attivo operato dalle funzioni mentali in quel momento costituite: tale riscontro psicofisiologico rende ragione dell'apprendere "da" l'esperienza, di bioniana memoria: non si apprende l'esperienza in quanto tale, ma da essa, per quel tanto che le funzioni mentali in quel momento attive -ovvero le funzioni a loro volta apprese- permettono. Le affermazioni bioniane sono ampiamente convalidate dagli studi della psicologia sperimentale. Così pure la traccia mnestica è il risultato, continuamente in rimaneggiamento (magazzino mnestico funzionale, dinamico, non come un luogo di stoccaggio), degli apprendimenti. Le funzioni mentali stesse, dunque le funzioni di simbolizzazione, sono apprese: traccia, allora, significa, soprattutto, traccia di funzioni mentali.
4 La stessa compatibilità esisteva ai tempi di Freud per il concetto di pulsione: la neurofisiologia dell'epoca interpretava il funzionamento neurale in termini energetici; il concetto di pulsione si presentava compatibile, anzi congruente, con ciò che allora si credeva avvenisse negli eventi neurali, e al contempo si prestava ad una interpretazione psicologica, che dalla congruenza assumeva sapore esplicativo. Per questo a mio avviso tanto Freud insisté sul concetto di pulsione (lmbasciati, 2000a, b).
5 In termini di engrammi si prospetta pertanto una memoria, che potremmo definire procedurale, intendendo però questo aggettivo in senso più ampio che nella accezione classica. Questa infatti è di solito riferita alla memorizzazione di procedure motorie e comportamentali, mentre nel nostro caso si tratta di una acquisizione (memoria) che riguarda le procedure con cui opera la mente, non semplicemente a riguardo dell'esterno, ma soprattutto per ciò che concerne la lettura e l'elaborazione dei prodotti interni (prodotti dalle funzioni già acquisite) con cui si confronta e si integra l'esperienza esterna con quella interiore.
6 Resta aperto il problema di come avvenga la prima acquisizione di una qualche funzione, che permetta poi di usufruire dell'esperienza per costruire successive funzioni (lmbasciati, 1994, 1998a). Quanto al "quando", siamo certamente in epoca fetale.
7 Nonché, ovviamente, alla scarsa, conoscenza dei processi cognitivi primari, attribuiti semplicisticamente a proprietà intrinseche della struttura biologica. La cosiddetta maturazione neurologica è frutto dell'esperienza: l'apprendimento incide non solo sulla struttura funzionale, ma anche su quella anatomica; la struttura istologica del cervello dipende dagli apprendimenti.
8 Forse è opportuno notare come, a lato dell'accezione scientifica di percezione, nel linguaggio psicoanalitico si continui ad usare il termine percezione anche in quell'accezione della lingua italiana che la riferisce a introspezione e intuizione: tale ultima accezione non è oggi usata nel linguaggio delle scienze psicologiche.
9 "Intelletto" ha, in italiano, un alone semantico diverso da "intelligenza". Può essere comunque qui utile ricordare l'etimo: intelligere, inter-legere, che rimanda alla capacita di lettura di cui sto parlando.
10 George Klein definì (1976) la rimozione come "struttura cognitivo-affettiva scissa che esercita una influenza selettiva sul comportamento": dunque non in termini dinamici, bensì di struttura funzionale.
11 "Inferne" richiama, in italiano, sia l'Inferno, diabolico, sia gli "inferi", misteriosi e oscuri, dei miti ctonici.
12 Questo mettere in contatto i significanti viene descritto dalla Bucci come "processo referenziale" del lavoro analitico (Bucci, 2000).
13 L'accostamento è comprensibile ricordando alcuni etimi: "paziente" è il participio presente (patiens) del verbo latino "patior"= soffrire; "patologia" significa "logia" (logos= pensiero, parola) del "patire" (patior); "logopatia" vuol dire sofferenza ("patia") della parola-pensiero ("logo"), ovvero della capacità di esprimersi e comunicare.
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