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PSYCHOMEDIA
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Un supporto teorico alla transgenerazionalità: la Teoria del Protomentale

di Antonio Imbasciati



Riassunto

In questi ultimi lustri molti autori, soprattutto di impostazione psicoanalitica, hanno dimostrato come caratteristiche basilari della struttura di personalità si trasmettano tra le generazioni. Si è osservato che quanto si trasmette riguarda modi di funzionamento mentale inconsci, oltre che contenuti. Si è affermato che la struttura dell'inconscio è transgenerazionale. Gli studi attuali si occupano di descrivere come nelle relazioni genitori/figli e soprattutto in quelle tra il care-giver e il neonato si possano trasmettere non solo contenuti ma anche modalità funzionali, cioè strutture mentali. Gli studi attuali descrivono questi eventi in modo clinico: l'autore in questo articolo illustra come la propria Teoria del Protomentale, sulla quale da molti anni ha lavorato e lavora, possa, oltre che descrivere anche spiegare, dal punto di vista psicofisiologico, come e che cosa venga trasmesso dalla madre al feto ed al neonato.



1) La transgenerazionalità

Da secoli è noto che le caratteristiche psicologiche si trasmettono di padre in figlio: nel carattere di ogni individuo da sempre vengono riconosciuti tratti che risultano evidenti anche nei genitori, o negli avi, o in altri familiari. "Il sangue", si diceva. Con l'avvento e lo sviluppo della genetica, la trasmissione delle caratteristiche di personalità è stata ricercata nell'ereditarietà cromosomica, sulla scorta di quanto veniva dimostrato per le caratteristiche fisiche. Seguendo questa impostazione la struttura di personalità è stata studiata con l'intento di classificarla in base a parametri correlabili a fattori ormonali, metabolici, o comunque biologici attribuibili a meccanismi ereditari genetici.
Questo discorso sull'ereditarietà genetico-biologica è stato però intrigato da due fattori. L'uno è costituito dalle difficoltà di individuare in modo scientifico le caratteristiche di personalità e di misurarle (psicometristi e teorici della personalità ben conoscono la storia di questo contrastato e tortuoso cammino), ed ancor più di dimostrarne l'ancoraggio a meccanismi biologici ereditari. L'altro fattore è la più antica e indubitabile osservazione che le condizioni socioeducative sono in effetti determinanti nel modellare i caratteri psichici.
Con lo sviluppo della scienze psicologiche gli studi sui fattori ambientali prima denominati genericamente "educativi" si sono focalizzati sulle modalità -o sui processi- con le quali le caratteristiche psichiche di coloro che si occupano del bambino possono imprimersi nella struttura di personalità che in questi si sviluppa. Accanto all'ereditarietà di tipo biologico si è pertanto imposta alla considerazione la possibilità che i caratteri psichici siano trasmessi per via psichica, cioè siano in qualche modo "appresi". La questione si inserisce nel complesso dibattito innatismo/empirismo.
E' relativamente facile intuire come le caratteristiche psichiche degli adulti che si occupano di un bimbo possano incidere sullo sviluppo della sua personalità qualora si consideri un bimbo al di sopra dei due-tre anni. La ricerca su tale arco di età, psicologica e anche pedagogica, ne ha da tempo indagato i processi: si è così parlato di apprendimenti per imitazione, e la psicoanalisi ha studiato le dinamiche di introiezione, identificazione, formazione dell'identità, e via dicendo. La psicoanalisi ha d'altra parte evidenziato una trasmissione delle medesime strutture inconscie, che governano la personalità e la condotta degli individui. Ciò ha aumentato la complessità del quadro. Inoltre gli studi più recenti hanno messo in evidenza come le caratteristiche più determinanti della futura struttura psichica siano da ricercare nei primi due anni di vita. In quest'epoca lo studio della trasmissione delle caratteristiche di personalità dagli adulti ai bimbi appare ancora più complesso.
Gli studi psicoanalitici hanno preso in considerazione i processi inconsci che intercorrono nella relazione primaria madre-bambino. Le ricerche psicologiche più generali hanno per contro dimostrato come nelle interazioni e nelle comunicazioni che intercorrono in epoca preverbale tra bimbo e adulto avvengano continuate a fondamentali comunicazioni attraverso le quali si struttura la di lui personalità. Anche le funzioni di accudimento del neonato svolgono questo ruolo, come dimostrato dalla vasta messe delle ricerche sulle madri e i neonati (Della Vedova, 2000, 2002). Le modalità di accudimento, o comunque la qualità delle relazioni primarie tra il bimbo e i suoi care-givers, non solo strutturano la base di specifiche modalità del funzionamento mentale che sarà poi specifico di quel bambino, ma anche veicolano modi di funzionamento della mente materna, che vengono così a riprodursi nel funzionamento di base del bimbo e poi a rivelarsi nelle future sue strutture di personalità.
Man mano che la ricerca ha individuato processi (o indici, o parametri) caratteristici del funzionamento mentale precoce, parallelamente si sono osservate le modalità relazionali che le strutturano.Così si è parlato dapprima degli oggetti interni primari (cfr. la nozione kleiniana di "Seno Buono/Cattivo" ma soprattutto i successivi sviluppi - Meltzer, 1980), poi dei processi di simbiosi-separazione-individuazione (a cominciare dalle descrizioni della Malher), poi dei processi di sintonizzazione e trasmodalità (Stern, 1975), della differenziazione Io-non Io, Io-oggetto (Ogden 1986), dell'identificazione adesiva (Bick 1968), della formazione dei confini corporei, dell'"Io-pelle" (Anzieu 1985) e di tanti altri processi, spesso individuati attraverso l'infant-observation. Queste descrizioni sono state raffrontate con l'individuazione, attraverso l'analisi degli adulti (quella degli psicotici è stata fondamentale), del permanere dei processi primitivi e del tipo di funzionamento mentale derivato: sono questi che condizionano le peculiarità di base della personalità del singolo.
Si è così cominciato a parlare di "transgenerazionalità". Eminenti e numerosi studi clinici, soprattutto psicoanalitici, hanno dimostrato come le caratteristiche del funzionamento inconscio e i contenuti inconsci profondi specifici di un determinato individuo adulto si trasmettano nelle generazioni successive (Kaes, Fainberg, Enriquez, Baranes, 1993). Questi studi clinici, dimostrando la trangenerazionalità, la descrivono come trasmissione da inconscio a inconscio: da quello dei genitori all'inconscio che si struttura man mano nello sviluppo di un certo bimbo. Una tale spiegazione non è in realtà una vera "spiegazione" (vedi oltre), ma soltanto una interpretazione descrittiva secondo i modelli che la psicoanalisi ci dà circa i processi mentali inconsapevoli. Tentativi di spiegazione ci vengono da altri filoni di ricerca, di tipo sperimentale. I cognitivisti, per esempio si riferiscono alla costruzione delle prime e molteplici rappresentazioni di "sé-con-l'altro". Una effettiva spiegazione dovrebbe essere fornita a mio avviso nella misura in cui si individuino con più esattezza i processi attraverso i quali avviene la suddetta trasmissione: come e che cosa la madre trasmette, e cosa e in che modo il bimbo apprende da ciò che gli viene dalla madre. Questi processi, di emissione, trasmissione, apprendimento dovrebbero essere individuati anche dal punto di vista psicofisiologico, sperimentalmente controllabile, enucleando anche gli eventi fisici che spieghino cosa e come, con le sue sensorialità il bimbo recepisce, percepisce e quindi elabora, per costruire le sue funzioni mentali, lungo la comunicazione che, già prima della nascita e poi soprattutto nei primi mesi di vita, intercorre con i suoi care-givers.
Rimane in altri termini aperta l'indagine costituita dall'individuare, nella maniera più dettagliata possibile, i processi di trasmissione che avvengono nella comunicazione continuata, veicolata per molteplici media fisici captabili dalle varie sensorialità, che intercorre in quella che denominiamo "la relazione", primaria, tra bimbo e care-givers. Occorre spiegare in che termini avviene il passaggio di informazioni sul quale il bimbo costruisce progressivamente la sua struttura mentale (possiamo chiamarla personalità, con termine a mio avviso un po' generico) ed in cui eredita ciò che gli viene trasmesso da una generazione all'altra.
In parole forse riduttive dobbiamo chiederci "Cosa percepisce il bimbo?" "Cosa apprende"? Intendendo il termine secondo la lezione di Bion (1962).Che tipo di comunicazione intercorre e come essa viene elaborata in qualcosa che si stabilizza nella mente? Si può parlare in qualche modo di tracce mnestiche per l'acquisizione di simili modalità funzionali? Ricorrere al concetto di trasmissione di affetti è, si, vero, ma del tutto generico, agli effetti di una vera spiegazione.
Contributi fondamentali a proposito di trasgenerazionalità sono costituiti dalle ricerche sull'attaccamento effettuate dalle scuole che derivano da Bowlby (Bowlby, 1969, 1973, 1977, 1980; Ainsworth & coll., 1978, 1991; Main, Salomon, 1986, 1990; Main, Hesse, 1990; Golderg & C. 1996; Main, 1999). Gli "stili di attaccamento" non regolano soltanto il funzionamento mentale del bimbo, ma esprimono (e trasmettono) modalità di funzionamento della mente materna -i cosiddetti "modelli operativi interni"- e determinano il futuro funzionamento della mente di un individuo. Ed inoltre gli stili di attaccamento-accudimento delle madri esprimono tutto un modo, anzi un mondo, di funzionamento mentale della madre stessa, cioè caratteristiche di personalità, che attraverso l'accudimento si trasmettono a formare le strutture psichiche del bambino. Gli studi più recenti, condotti con gli strumenti approntati dalle scuole che studiano l'attaccamento, hanno confermato la transgenerazionalità anche in via sperimentale, oltre che clinica (Van Ijzendorn, 1994; Van Ijzendorn & coll., 1999; 1995; Liotti, 2001).
Esula dagli scopi del presente lavoro una rassegna della enorme letteratura che si è prodotta al proposito in queste ultime due decadi. Ricorderò qui soltanto e fugacemente due aspetti delle ricerche che riguardano più in generale la genesi delle strutture di base della mente, e che interessano quanto qui voglio presentare. Il primo riguarda il formarsi della "funzione riflessiva" nella struttura mentale dell'individuo. Si tratta delle capacità -maggiori o minori di ogni individuo- di rappresentarsi i propri processi mentali. L'assenza o il cospicuo deficit di queste capacità caratterizza la alessitimia (Nemiah, Sifneos, 1970). Le variazioni qualitative di queste capacità regolano la possibilità del soggetto di esercitare la sua introspezione, sia in modi che si avvicinano alla realtà interiore profonda, sia in modi ingannevoli. La funzione riflessiva (o Reflective Self) è il lavoro inconscio che sottostà all'introspezione cosciente (Bolton, Hill, 1996): se vi sono buone capacità rappresentazionali inconsce, l'introspezione cosciente può comunicare con il proprio mondo interno. Queste capacità condizionano le possibilità dei soggetti di assimilare il lavoro psicoanalitico (l'interpretazione); altrimenti, se difettano, abbiamo resistenze e difese. Gli studi cognitivisti definiscono queste capacità come "metacognizione" (Bara, 1991; Liotti, 1994; Bucci, 1997). In questa ultima decade in ambito psicoanalitico gli studi della scuola di Fonagy (Fonagy, Target, 2001) hanno portato fini e decisivi contributi, in collegamento con gli studi sugli stili di attaccamento e la trasmissione transgenerazionale di caratteristiche funzionali di base (ovvero strutture di personalità) veicolate nelle vicende connesse all'accudimento-attaccamento.
Il secondo aspetto delle ricerche di questi ultimi lustri, che riguarda la transgenerazionalità, è quello relativo agli studi sullo psichismo fetale, quale determinante ancora più arcaico delle future strutture di personalità dell'individuo, e sulla comunicazione gestante feto (Imbasciati, 1997; Della Vedova, Manfredi, Imbasciati, 1997; Della Vedova, Imbasciati, 1998) quale matrice di trasmissione di caratteristiche psichiche dalla madre del bambino.
L'ereditarietà, dunque, delle caratteristiche psichiche sembra oggi sempre più attribuibile, non tanto a meccanismi genetici, quanto ad acquisizioni precoci, neonatali e fetali, dovute alla trasmissione di modi di funzionamento mentale (=strutture di base della personalità) tra le generazioni. Si tratta dunque non di ereditarietà, in senso stretto, ma di apprendimenti precoci, anzi precocissimi.


2) Scopo del presente lavoro

Le osservazioni cliniche depongono chiaramente a favore di una trasmissione transgenerazionale: meno chiaro è però, non semplicemente il descriverle studiando le varie e polimorfe modalità relazionali che la veicolano, ma il poterle "spiegare", individuando gli elementi che vengono trasmessi in termini di sensorialità, percezioni, tracce mnestiche.
L'epistemologia moderna distingue, in ogni scienza, differenti livelli di conoscenza: l'osservazione, la descrizione, l'interpretazione e la spiegazione (Imbasciati, 1993, 1994); i livelli sono tra di loro interdipendenti e variamente connessi col metodo di indagine e con gli strumenti dell'invenzione concettuale. Questi servono a inquadrare e connettere, al meglio, i fatti osservati col metodo. Solitamente si distingue la comprensione -il "come": "how e how well"- dalla spiegazione, che concerne, invece il "perché" ("Why"). Ogni scienza tende alla spiegazione: molti sostengono che una vera "spiegazione", ultima, non la si raggiunga mai, ma che, comunque, ogni scienza vi tende, e vi deve tendere, per progressive approssimazioni. La teoria, in quanto insieme di nessi causali ipotizzati tra i fatti osservati e descritti, viene ad essere "inventata" proprio per tentarne la spiegazione. Ogni teoria pertanto è sempre un'invenzione, e non una scoperta: pertanto qualunque teoria non è mai né vera, né falsa, ma soltanto più o meno utile per la conoscenza, soprattutto all'ultimo livello, quello esplicativo. Questo esige, molto più dei primi due, che la spiegazione che viene proposta sia omologabile, se non identica, a quelle offerte da altre scienze, che, da differenti vertici metodologici, si occupano dello stesso oggetto: nel nostro caso, la mente. Le scienze psicologiche, se da un lato possono essere etichettate come scienze umane, dall'altro possono rientrare nell'ambito delle scienze della natura. Tralasciando qui la complessa distinzione tra i due ambiti, ricorderò come alcune discipline psicologiche -per esempio la psicofisiologia- appartengono chiaramente al secondo ambito. Occorre pertanto che le scienze psicologiche abbiano sviluppi paralleli e non contrastanti rispetto a quanto ci dicono le neuroscienze a proposito del funzionamento neurale che sta alla base delle funzioni psichiche.
In ambito psicoanalitico numerose sono le ricerche sulla transgenerazionalità: manca però un supporto esplicativo alle correlazioni cliniche riscontrate. Ciò è dovuto a mio avviso alla più generale mancanza, in psicoanalisi, di una teoria esplicativa generale del funzionamento della mente (Imbasciati, 2001 a, b, c, 2002 a, b). Per contro le scienze cognitive offrono un supporto teorico esplicativo del funzionamento mentale, anche per ciò che concerne gli affetti e l'inconscio (Bucci, 1997, 2000, 2001; Imbasciati, 2001 c, 2002 b), in termini di processazione delle informazioni e di relative tracce mnestiche. Le scienze cognitive però non mi risulta si siano gran chè occupate di trasmissione transgenerazionale, soprattutto se la si intende riferita a più generazioni e non semplicemente al singolo rapporto caregiver/bimbo.
In questo lavoro vorrei esporre come la mia "Teoria del Protomentale", sulla quale lavoro da vent'anni (Imbasciati, Calorio, 1981; Imbasciati, 1998a) e che altrove ho presentato come possibile teoria esplicativa generale per la psicoanalisi (Imbasciati, 2001 a, b, c) possa offrire una spiegazione anche per la trasgenerazionalità e per quanto in psicoanalisi si è osservato circa le relazioni primarie. La teoria, concepita essenzialmente in un quadro psicoanalitico, utilizza alcuni dati offerti dalle scienze cognitive.
Chiedo scusa agli psicoanalisti se in questo lavoro dovrò parlare in maniera necessariamente sommaria di concetti complessi e per di più appartenenti ad altre scienze: e agli scienziati di queste se le mie conoscenze nei loro campi potranno loro apparire limitate.


3) Valore esplicativo e teorie psicoanalitiche

Freud, oltre che fornire una chiave descrittivo-interpretativa per la comprensione degli eventi psichici (che permettesse cioè di comprendere la soggettività e il suo evolversi), aveva anche l'intento di spiegarli, in un modo che potesse dirsi obbiettivo, o almeno obbiettivizzabile, in linea con le scoperte, o per lo meno con le ipotesi delle altre scienze. Egli andava cercando di unificare il vertice di una comprensione della soggettività per così dire dall'interno (tramite la soggettività dell'analista), con un vertice "dall'esterno", di un osservatore che procedesse con metodi omologabili a quelli delle scienze della natura. Ciò fu ottenuto con la teoria energetico-pulsionale, col riferimento all'istinto, ad una energia psicobiologica e alle leggi di una sua distribuzione e di sue trasformazioni, ovvero della sua dinamica e della sua economia. Ciò era coerente con le scienze dell'epoca: i concetti di libido, pulsione, energia psichica, scarica, istinto, principio omeostatico, e via dicendo, ricalcavano infatti principi scientifici e scoperte della neurofisiologia e della termodinamica di quel tempo.
Freud sosteneva che le pulsioni avessero un'origine organica (la "fonte"): e più e più volte ricorre nella sua opera l'ipotesi, e l'augurio, quasi la certezza, che in un futuro potesse venir scoperto il supporto biochimico delle pulsioni (Freud 1882-95. pag. 347(1), SE 2, 200 f.; 1901 pag. 394 sg, SE 7, 113 f..; 1905, pag. 479 sg., 521 sg., 524 sg. SE 7, 167, 215, 217; 1906, pag. 223 sg., SE 7, 277 f.; 1914 pag. 448, SE 14, 78; 1915, pag. 21, SE 14, 125; 1915-1917, pag. 478, SE 16, 321; 1931, pag. 77, SE 21, 240; 1932, pag. 205, SE 22, 96). Nei passi succitati Freud mostra quanto fosse in lui pregnante un intento esplicativo nella teoria che andava elaborando.
La psicoanalisi poté avere successo, non semplicemente per il suo valore clinico (capire e curare sindromi fino ad allora ritenute inspiegabili e poco curabili), e certamente non per il suo metodo, giudicato, allora, "strano", assai poco scientifico, e criticato come fosse poco professionale e fuori di ogni norma: poté avere successo, nel mondo scientifico a cavallo tra i due secoli, soprattutto perché il suo fondatore la corredò di un impianto teorico -la teoria energetico-pulsionale- che offriva una spiegazione del funzionamento psichico e dei suoi disturbi, scientificamente accettabile dalle scienze dell'epoca. Oggi, un po' paradossalmente, il metodo è stato accettato, la clinica, almeno in parte, riconosciuta, mentre la teoria (e con ciò si intenda l'impianto energetico) è proprio quella più criticata, se non rifiutata. Le critiche, anche all'interno delle associazioni psicoanalitiche, datano da non pochi decenni. A puro titolo esemplificativo possono qui essere ricordati alcuni autori americani (Peterfreund, 1971; Schafer, 1975; Klein, 1976; Gill, 1976; Eagle, 1984). Ciò malgrado la teoria pulsionale sembra "resistere", a tutt'oggi anche in ambienti qualificati: paradossalmente la parte più criticabile, e criticata, dell'opera di Freud sembra avere un potere di autoconservazione. Una ragione di tale persistenza può essere a mio avviso individuata nel fatto la teoria pulsionale non aveva soltanto un'utilità descrittiva come metafora, per capire i fatti clinici (ed in senso metaforico ancor oggi essa può essere utile), ma offriva anche una "spiegazione"; in termini di un'energia ipotizzata nell'organico. Questa ipotesi -supporto biochimico delle pulsioni- è oggi caduta e il tramonto del suo valore esplicativo ha lasciato un vuoto non ancora colmato. In tale vuoto teorico va ricercata, a mio avviso, la ragione (a parte il fascino del Maestro) della persistenza di questa teoria. Nello sviluppo della psicoanalisi sono stati volta a volta proposti modelli diversi, alcuni dei quali configuravano una vera e propria teoria: v'è sempre stata però reticenza a rendere esplicita una teoria generale diversa da quella di Freud (Greenberg, Mitchell, 1983) e soprattutto non è stata delineata un'alternativa al valore esplicativo che per decenni aveva offerto la teoria energetico-pulsionale.
Il valore esplicativo, che Freud sottintendeva alla sua costruzione teorica, ed anche il fascino che essa a lungo ha esercitato, poggiavano sull'accordo, se non sulla sintonia, che essa mostrava con le neuroscienze dell'epoca, proponendo la psicoanalisi come efficace ponte tra le scienze umane e le scienze della natura. Tale accordo non è più attuale: le odierne neuroscienze non concepiscono più il cervello come un organo in cui fluiscano energie di tipo bioelettrico, ma come un sistema informatico, in continua evoluzione e costruzione, capace di automodificarsi, sia nelle sue funzioni che nella stessa sua morfologia. Il sistema neurale non è un recettore passivo delle esperienze, bensì una predisposizione che, a seconda delle interazioni coi primi input, svilupperà certe funzioni piuttosto che altre; e ognuna di queste, progressivamente, condizionerà il tipo di processazione che subiranno i successivi input, venendosi in tal modo a strutturare i successivi tipi di funzioni che ne conseguiranno; e pertanto, progressivamente, tutti i sistemi funzionali che caratterizzeranno quel singolo individuo. Le attuali neuroscienze offrono una visione in cui lo sviluppo neurale, e quindi quello psichico, procedono secondo apprendimenti: in particolare si considera quell'apprendimento di funzioni che si verifica in epoca neonatale (e fetale). L'apprendimento non viene inteso semplicemente per ciò che riguarda i "contenuti", né viene considerato un imprimersi passivo, bensì essenzialmente apprendimento di funzioni. Queste determineranno il tipo di elaborazione attiva che verrà fatto per ogni successiva esperienza. Ogni apprendimento funzionale condizionerà il tipo di processazione che avrà luogo nei successivi apprendimenti e cioè la "qualità" dei successivi apprendimenti; ovvero il modo con cui questi utilizzeranno l'esperienza. Le scienze cognitive indagano appunto l'attività del sistema: processazioni, apprendimenti, tracce mnestiche, costruzione di strutture funzionali.
Abbiamo in psicoanalisi una teorizzazione omologabile a quella che ci offrono oggi neuroscienze e scienze cognitive?
Lo sviluppo della scienza psicoanalitica sembra aver trascurato lo studio della mente in termini di processi cognitivi: quando ciò ha avuto luogo, la cognizione è stata indagata in subordine all'affettività; oggi neuroscienze e scienze cognitive studiano, in ordine inverso, gli affetti come particolari processi di tipo cognitivo (Plutchik, 1980; Imbasciati, 1991; Bucci, 1997, 1998 a, b, 2000, 2001). Il concetto di apprendimento e il termine medesimo sembrano esser stati banditi dalla letteratura psicoanalitica, come se riguardassero processi mentali estranei allo studio psicoanalitico. Eppure l'intero processo che attraversa un analizzando è un apprendimento: in quanto mutamento delle sue modalità di funzionamento psichico, è un'acquisizione, frutto dell'analisi, e dunque è qualcosa che è stato appreso a seguito di tale esperienza. Chiamare processo di apprendimento il processo psicoanalitico può sollevare sospetti di "intellettualismo": ciò può accadere solo se si considera l'apprendimento come viene inteso dal senso comune e riferito all'adulto, o se lo si considera così come lo inquadrava la psicologia sperimentale di cinquant'anni fa. Gli apprendimenti che avvengono con l'analisi non sono omologabili a quelli coscienti dell'adulto: sono, semmai, paragonabili a quanto apprende un neonato col suo caregiver. La distinzione tra gli uni e gli altri viene espressa, nel linguaggio corrente, in termini di affettività: ma le ricerche sperimentali sui bimbi, in epoca preverbale, inquadrano la formazione dello sviluppo affettivo in termini -appunto- di apprendimenti precoci.
Bion ha riportato ai dovuti onori, in psicoanalisi, il termine "apprendimento" col suo famoso "learning from experience" (1962), dove il "from" indica la diversità tra ciò che viene appreso, ritenuto, e la qualità intrinseca dell'esperienza. Sappiamo del resto da tempo, anche dalla psicologia sperimentale, che l'apprendimento non è imprimersi passivo, ma elaborazione attiva. L'opera Bioniana è percorsa da un fondamentale interrogativo: come si passa dall'elemento puramente sensoriale, che quindi è riconducibile a processi biologici, all'elemento più propriamente mentale? Come si passa dal neurologico allo psichico? Come dai sensi al pensiero? Bion dà una risposta in termini di una sua teoria metapsicologica (funzione alfa, griglia, ecc.), che però sembra trascurare un adeguato ancoraggio alle neuroscienze.
Una qualunque acquisizione che segni lo sviluppo, un qualunque "apprendimento" non è concepibile senza il riferimento ad un corrispondente formarsi di una qualche traccia mnestica. La Teoria del Protomentale, ha l'intento di offrire un supporto esplicativo in termini di tracce mnestiche ed in termini omologabili a quelli forniti dalle scienze cognitive. Tale teoria può dare una spiegazione anche al formarsi di tracce mnestiche nella comunicazione gestante/feto e quindi prestarsi ad un supporto esplicativo della transgenerazionalità: questo non solo per ciò che concerne la trasmissione adulto-bimbo, ma anche per quella dalla madre gestante al feto. Ne deriva a mio avviso una prospettiva di notevole interesse sulla vita psichica neonatale e sull'importanza della relazione gestante-feto per il formarsi della base delle future strutture di personalità del bimbo, sulle quali si impianteranno successivamente quelle dell'individuo adulto.


4) La Teoria del Protomentale

Presenterò qui qualche concetto di tale mia teoria, utile agli scopi del presente lavoro, rimandando il lettore, per una esaustiva lettura, ad altri miei lavori (Imbasciati, Calorio, 1981; Imbasciati, 1983, 1989, 1991, 1994, 1997 a, b, 1998 a, b, 2001 a, b, c, d, 2002 a, b, c).
Scopo esplicativo della teoria è la ricostruzione di come si originino e si sviluppino le funzioni mentali, in termini psicoanalitici, cognitivi (apprendimenti precoci) e psicofisiologici, a partire dalla neurofisiologia sensoriale, dal feto e dal neonato fino nell'adulto, in termini di processazione dei primi input. Una tale processazione dà luogo alle prime tracce mnestiche che possono così costituire le prime elementarissime funzioni, con le quali il "sistema-mente" comincerà a elaborare l'esperienza. I molteplici prodotti interni, che la psicoanalisi ha individuato come elementi costitutivi dello psichismo, denominandoli affetti, o individuandoli con altri termini e concetti (pulsioni, oggetti interni, difese, fantasie e, prima ancora, differenziazione Sé-non Sé, "dentro-fuori", e via dicendo) possono essere ridescritti in termini di organizzazione di tracce mnestiche. Queste, ovviamente, saranno strettamente collegate alle interazioni del bimbo con i suoi care-givers. Tutte le teorie relazionali che via via sono state proposte (e che sembrano trovare chiara conferma clinica) implicano processi di apprendimento, e dunque strutturazione di tracce mnestiche. Queste, ovviamente, più che un imprimersi di contenuti, sono costituite dallo stabilizzarsi in memoria di progressive strutture funzionali.
Un fondamentale interrogativo di Bion, il passaggio dalla sensorialità al pensiero, e con esso l'"apprendere dall'esperienza", viene da me ripreso descrivendo, a partire dalla psicofisiologia sensoriale, la costruzione di un sistema informatico sempre più complesso, che processa sia quanto viene recepito dall'esterno (inputs polisensoriali), sia quanto viene prodotto internamente dal sistema funzionale in atto: è questo ciò che gli psicoanalisti riferiscono all'esperienza interiore e che descrivono in termini affettivi. Ciò che viene prodotto internamente dal sistema è un'informazione paragonabile dunque ad un input: così come avviene per gli input esterni, anche gli input interni vengono processati. L'insieme delle processazioni dei due ordini di informazioni, integrato in modo variabile a seconda degli individui e del momento, dà luogo ad una "esperienza", e all'apprendere dall'esperienza.
Per meglio comprendere la suddetta integrazione e concepire l'esperienza in termini esplicativi di processazione delle informazioni, teniamo presente un concetto fondamentale: la distinzione tra "afferenza" e percezione. La prima è elemento esclusivamente neurale, determinato dai dispositivi fisiologici propri della specie; la seconda comporta invece che si sia costruita, entro l'incipiente sistema, una struttura , dunque delle tracce, capace di leggere l'input afferenziale. La percezione non è un processo automatico in senso biologico, bensì una serie di operazioni mentali, che organizzano le afferenze, di molteplici e contemporanee sensorialità, in insiemi che possono essere "letti"; cioè che possono avere un qualche significato, per la struttura stessa che li legge; e che pertanto possano essere trattenuti in memoria. Il concetto di percezione presuppone una qualche "rappresentazione" o, meglio secondo il concetto da me elaborato e descritto, un "engramma", traccia mnestica essenziale per la memoria, significante indispensabile per il riconoscimento di qualunque significato: dunque per una qualche lettura. Preciso che una lettura non comporta necessariamente una percezione adeguata al reale: il significato conferito dalla lettura è congeniale al sistema stesso, ai suoi processi di elaborazione interna, e pertanto non significa che necessariamente si percepisca la realtà in modo adeguato. Basti pensare agli stati percettivi di un neonato, o a quelli degli psicotici(2).
Un tale processo di lettura non si applica soltanto agli input esterni, ma avviene anche nei confronti di significanti che danno significato a prodotti interni, nei confronti cioè di tracce mnestiche di "prodotti interni", prodotti cioè dal sistema. Così come il concetto di percezione presuppone una complessa attività di lettura (=processazione) degli input sensoriali, analogamente ciò che viene prodotto internamente, dal sistema e nel sistema, viene e deve poter essere letto, in una "lettura" omologabile a quella percettiva. Pertanto, così come la lettura dell'esterno abbisogna che il sistema abbia costruito engrammi che permettano il riconoscimento (o misconoscimento) di quella realtà, altrettanto il sistema costruisce engrammi, iscritti nel sistema stesso, per leggere i prodotti interni. Tali ultimi engrammi "interiori", che servono per la lettura dell'interno, dell'interiorità, non possono che essere essi stessi di natura mnestica.
La lettura di questi ultimi engrammi avviene in integrazione con quella operata sugli engrammi coi quali si riconosce la realtà esterna: non è però affatto scontato che nel sistema mente allo stato primario (neonato, bimbo) o comunque funzionante in condizioni particolari (nel sonno, negli stati psicotici), la lettura degli inputs esterni (o comunque fisici: p. es. corporei) e quella dei prodotti (=inputs) interni esiti in due ordini di realtà interne soggettivamente esperiti come separati: ciò avviene soltanto nell'adulto in condizioni "normali", cioè nel soggetto che è in grado di distinguere la propria percezione di una realtà esterna (o comunque fisica, corporea) dalle percezioni dei propri stati interiori, quali pensieri, affetti, fantasie, ecc. La processazione delle informazioni sensoriali (fisiche, esterne) può avvenire con un quantum di sovrapposizione e mescolamento con la processazione dei prodotti interiori: pertanto percezione di realtà esterne e percezione di stati interiori possono essere, in parte maggiore o minore, sovrapposte. Se l'integrazione tra i due ordini di processazioni e di conseguenti esperienze avviene con "sufficiente" distinzione, il soggetto distingue la realtà esterna, anche se colorata affettivamente, da quella interiore, anche se condizionata dalle circostanze esterne. Ma non è detto che ciò sempre avvenga.
Vediamo alcuni esempi di differenti integrazioni di vari ordini di processazioni. Quando un neonato che ha atteso troppo a lungo la poppata (input enterocettivo di fame) o che soffre per una qualche irritazione cutanea (input esterocettivo), sputa il capezzolo, ciò significa che egli ha fuso insieme gli input che avrebbero dovuto condurre al riconoscimento percettivo (tattile gustativo-olfattivo visivo) del capezzolo, o del biberon, con i precedenti input: ne ha ottenuto un'unica gestalt, che gli fa misconoscere, anziché riconoscere, l'intervento del "seno", come fosse qualcosa di cattivo (oggettivo cattivo). Pertanto non percepisce capezzolo o biberon, ma un'altra "cosa": quel fantasma che in psicoanalisi si chiama oggetto cattivo-seno. In altri termini il suo sistema-mente "legge" la realtà della situazione di poppata in un modo molto diverso da come la leggerebbe un adulto, in quanto mescola in un'unica gestalt input diversi che un sistema adulto leggerebbe differenziatamente. Ma può accadere che, anche in assenza di fame o di stimoli nocicettivi, un neonato in stato di agitazione (pianto) rifiuti il seno. In questo caso la gestalt che funge per la percezione di quel momento (misconoscimento del seno come oggetto realisticamente già riconosciuto come buono) è ottenuta fondendo gli input esterni con un prodotto interno dell'incipiente sistema mente: quello che viene definito come stato affettivo, di rabbia, di angoscia o altro. La lettura che effettua in quel momento quel neonato è tutta diversa da quella che si verificherebbe qualora egli non fosse "arrabbiato", cioè non fosse in quella condizione per cui viene prodotto dall'interno un input pregnante, e pertanto fuso con quelli provenienti dall'esterno. Ancora, quando un adulto vive paranoicamente un incontro con un'altra persona, ciò significa che in quel momento egli fonde la processazione della codifica della percezione interpersonale con "prodotti interiori", prodotti cioè internamente dalla sua mente, usualmente denominati in termini di affettività (per esempio "vissuti persecutori"). Pertanto la sua lettura della realtà esterna è impregnata da quella della sua realtà interiore (=affettività) e le due non sono ben distinguibili dal soggetto. In altri stati funzionali, la distinzione può del tutto scomparire dalla soggettività dell'individuo: abbiamo stati allucinatori e confusionali.
In altri termini l'integrazione tra i due ordini di processazioni (informazioni sensoriali e informazioni prodotte dallo stesso interno del sistema) può risultare piò o meno separata nella coscienza del soggetto: abbiamo un continuum, che va dal funzionamento "normale" a quello proiettivo e allucinatorio. Quanto alla lettura effettuata sui prodotti interni, si esplica qui la "funzione riflessiva", descritta da Fonagy (Fonagy, Target, 2001). Quando questa lettura si svolge in regime di distinzione esterno/interno, la capacità riflessiva può essere meglio osservata, e se ne possono meglio vedere i deficit: le tendenze alessitimiche, i difetti di autorappresentazione, o di metacognizione. I processi di lettura verso l'interno (funzione riflessiva) possono esitare nella coscienza del soggetto, ed abbiamo in questo caso buone capacità introspettive, ma comunque esse presuppongono letture del tutto inconsce. Non si pensi pertanto che il termine "lettura" si riferisca a un processo cosciente; quest'ultimo può esserci o non esserci, ma essenziale è sempre la lettura che avviene al di sotto di ogni livello di consapevolezza. In questo senso si intende la funzione riflessiva, distinguendola dalla introspezione, che può esserne o non esserne corollario. Anche i cognitivisti, quando parlano di metacognizione sottintendono processi inconsapevoli. Del resto anche per la lettura dell'esterno, prima di arrivare alla percezione cosciente di un qualcosa di esterno, abbiamo tutta una serie di precedenti processazioni e letture inconsapevoli. La percezione cosciente è solo un epifenomeno (Imbasciati, 1998, cap. 3), che avviene solo in alcuni casi.
In sostanza il sistema-mente produce, ad ogni istante delle sua incessante attività, da prima della nascita fino all'epoca adulta, "prodotti" che vengono processati insieme agli input sensoriali come se anche questi prodotti interni fungessero da input, per "comporre" in un'unica gestalt il riconoscimento-misconoscimento della realtà, esterna e interna.
Ovviamente a questo tipo di processazioni (di "input" o di assimilati-tali) corrispondono tracce mnestiche, sia per ciò che concerne la "lettura" della realtà esterna, sia per una qualche lettura riferita più specificamente alla realtà interiore. Ricordo qui ancora come "traccia" non significhi affatto "immagine": basti pensare alla memoria procedurale.
Una tale processazione, complessa e complessiva, corrisponde e produce quell'"apprendere dall'esperienza" (di bioniana appellazione), che pertanto può essere ridescritto in termini di rielaborazione di quanto viene acquisito dall'esterno (relazionale, si intende, e non semplice recezione), modulato però dalla processazione interiore. Quanto descritto dal vertice clinico-bioniano, può pertanto essere spiegato in termini di tracce mnestiche: delle procedure con cui la mente legge i due ordini di esperienze e li distingue piuttosto che li confonde. Si tratta di una memoria procedurale estesa, applicata a tutte le progressive procedure che il sistema mentale sta acquisendo.
Il termine engramma viene da me usato per evitare l'equivoco del senso comune, che riferisce il termine "traccia" a un qualche raffigurazione di cose reali. Esso serve inoltre a indicare come il concetto di traccia debba essere implicato non solo per ciò che concerne "oggetti" (reali o immaginari, concepibili piuttosto che assurdi, consci o inconsci) ma anche per qualunque "funzione" della mente, per qualunque processo (o procedura che dir si voglia): il quale, per poter accadere, necessita che ne sia iscritta una qualche memoria. Per ciò che concerne l'esperienza esterna, le tracce afferenziali possono essere ritenute solo se organizzate, ma tali organizzazioni, soprattutto quelle primarie, comportano rappresentazioni molto difformi da qualunque oggetto reale. Il neonato percepisce il mondo (esterno, corporeo, poi interiore) in modo del tutto diverso, non paragonabile e assurdo rispetto alla percezione adulta. Sono questi i "fantasmi", che la psicoanalisi è andata indagando, in termini di affetti, e che possono essere ridescritti in termini protorappresentazionali. Le rappresentazioni e le percezioni di un adulto sembrano semplici, ma sono in realtà estremamente complesse: possono essere scomposte (in una analisi sperimentale) in una lunga ed estesa sequenza di engrammi progressivi, di tracce afferenziali variamente assemblate. Gli elementi di queste serie trovano esemplificazioni nelle percezioni fetali e neonatali. Per esempio, il feto, o il neonato, possono riunire in un unico insieme afferenze enterocettive e input auditivi, o efferenze motorie, con un risultato più simile alle sinestesie della psicologia sperimentale che alle percezioni in senso proprio. Il tal modo la cognizione del bimbo non è adeguata, anzi può essere molto difforme, dalla realtà e dalla cognizione dell'adulto, ma ha tuttavia una basilare funzione nel regolare l'intero funzionamento, in quel momento, del sistema-mente, e il suo futuro sviluppo: un tale tipo di cognizione è un modo di ridescrivere gli affetti in termini di "effetti" dei processi protocognitivi.
Avviene infatti un complesso processo di elaborazione interna, paragonabile a quello che vediamo scomponendo il processo percettivo adulto o analizzando la formazione delle percezioni feto-neonatali, che entra in continua integrazione (processazione) con ciò che viene derivato dall'esterno. Le processazioni che "mescolano" la lettura di input esterni con quella di prodotti interni (come negli esempi in precedenza descritti) può essere la chiave per comprendere gli affetti (e il loro formarsi e organizzarsi in strutture regolatrici) in termini di apprendimenti, che si costituiscono come strutture (=modi) per i successivi apprendimenti dall'esperienza. Questa "costruzione" di progressive strutture funzionali operative può essere descritta come progressione di "operazioni protomentali" e di capacità operative del sistema.
In questo riferimento occorre sottolineare come la lettura degli input esterni si sia originariamente costruita sulla base delle interazioni con altri esseri umani, ossia dall'esperienza relazionale primaria. La percezione degli oggetti inanimati è modulata, essa stessa, dalla più complessa percezione che avviene nei dialoghi interpersonali non verbali: è quest'ultima che determina quegli apprendimenti che condizionano lo strutturarsi in memoria di quella funzionalità che caratterizzerà la mente di quel singolo individuo; ovvero della struttura di base già denominata affettività.
Il funzionamento protomentale è modulato dalle interazioni del nascente sistema informatico con gli input offerti dal care-giver e ciò vale anche per la vita fetale. Le funzioni della relazione primaria, studiate dalla psicoanalisi, possono essere descritte come funzioni di decodifica, da parte del sistema-mente materno, dei significanti emanati dal bimbo, di comprensione dei relativi loro significati (protosimboli) e di restituzione di risposte adeguate; "adeguate" non vuol dire realistiche, ma soltanto che esse possono risultare "leggibili" (comprensibili, assimilabili) dal sistema-mente del bimbo, e quindi "apprese" come nuovi significanti. Questi saranno ritenuti in memoria per significare nuovi significati, più complessi, o, come direbbe Bion, "pensabili". La funzione alfa, descritta da Bion, può essere vista come la capacità di leggere (anch'essa appresa) insiemi sensoriali disparati organizzandoli e riunendoli in significati sempre più "pensabili", che vengono legati ad altrettanti significanti (engrammi in memoria), usabili sia per le operazioni interne sia per un ulteriore trasmissione nella relazione; dunque in un progressivo apprendere da l'esperienza. Il concetto di engramma sussume quindi il processo di acquisizione mnestica modulato nella relazione: progressione di engrammi; e soprattutto di engrammi di progressivi modi di funzionamento.
La relazione primaria esiste e funziona anche per la vita fetale. Nella relazione col neonato i significanti, che intercorrono nella reciproca comunicazione, coi conseguenti apprendimenti, vengono veicolati da mediuum sensoriali visivi, sonori, vestibolari, tattili propriocettivi, gustativi, olfattivi, coi quali si costituiscono altrettanti linguaggi, attraverso cui il caregiver comunica col bimbo e viceversa. Tali linguaggi si strutturano anche in epoca fetale: ovviamente in modo più rudimentale, cioè con unità di significazione meno discriminanti, ed escludendo il medium visivo. Tali comunicazioni, nei relativi linguaggi, producono apprendimenti, già nel feto, e quindi fondano strutture mentali (meglio protomentali) che moduleranno ogni successivo apprendimento da successive esperienze.
Le funzioni acquisite progressivamente, o meglio costruite dal sistema nel sistema-mente stesso, costituiscono lo sviluppo psichico: esse possono essere considerate come una catena di significanti sempre più articolati, coi loro rispettivi e progressivi significati. I relativi engrammi possono essere considerati protosimboli, e poi simboli. Il termine simbolo va inteso in senso esteso, come acquisizione di qualunque engramma. Ogni engramma permette una lettura, dell'esterno e dell'interno, separati o mescolati, e dunque una processazione che dà origine a progressive e sempre più complesse costruzioni di funzioni, a loro volta coi relativi engrammi, che il sistema diventa via via in grado di elaborare: costruire appunto, fino ad essere in grado di svolgere quella che è definita cognizione adulta, includendo in tal concetto la base costituita dal funzionamento affettivo. Il concetto di "catena" sta a indicare che la costruzione di un qualunque significante dipende dagli engrammi costruiti in precedenza: in termini psicoanalitici le modalità con cui un singolo individuo è in grado di apprendere dalla sua esperienza dipendono dalla qualità di ciò che si è strutturato in precedenti suoi apprendere dall'esperienza. Possiamo pertanto concepire l'intero sviluppo della mente come costruzione di simboli in cui ognuno ha progressive qualità simbolopoietiche. La costruzione della mente è dunque una progressiva simbolopoiesi (Imbasciati, 2001 a, b, c 2002 a, b), che, a seconda di ogni individuo, avrà certe direzioni, e ramificazioni, piuttosto che altre e il funzionamento adulto (inconscio) è dato dalla qualità della struttura simbolopoietica che si è venuta a costruitre nel singolo.
Il funzionamento schizoparanoide, e poi depressivo, e il lavoro di rèvérie svolto dalla madre, possono essere ridescritti come particolari decodifiche (letture) del linguaggio del bebè e di ricostituzione e ricostruzione, in dialogo non verbale e non consapevole, di simboli più complessi e di funzioni più sviluppate, coi relativi engrammi. Tra le funzioni più sviluppate, vengono acquisite dal bimbo quelle depressive, che presiedono al pensiero. Simboli e funzioni simbolopoietiche possono essere costruite nella misura in cui si procede a elaborare in progressione gli insiemi di tracce immagazzinate in memoria: dagli insieme afferenziali più semplici, agli engrammi funzionali più complessi, in modo che ogni traccia continuamente si modifichi, si riorganizzi, si elabori in tracce più evolute, ovvero più "funzionali""; più adeguate al reale, sia esso inteso in senso strettamente cognitivo, che col più vasto concetto (anch'esso, in fondo cognitivo) dell'affettività; in quest'ultimo caso l'adeguatezza è il grado con cui un individuo può entrare in contatto coi propri affetti.
In questo quadro l'oggetto interno è una rappresentazione sui generis, un engramma non facile da descrivere, perché composto di tracce afferenziali diverse e tra di loro frammischiate, processate insieme ai "prodotti interni", nelle interazioni primarie, nelle codifiche, decodifiche e ricodifiche, o in una parola negli apprendimenti, lungo i processi comunicazionali (soprattutto non verbali) che segnano lo sviluppo. Gli affetti sono schemi cognitivi primari, acquisiti in apprendimenti nella relazione.
Questo modo di concepire il lavoro di apprendimento in termini di progressiva costruzione di tracce mnestiche, di tipo procedurale, però di una proceduralità estesa alle medesime capacità funzionali elementari acquisite, comprese quelle rivolte al suo stesso interno, permette di riprendere quanto descrivono alcuni cognitivisti in termini di processazioni in parallelo, caratteristiche precipue del lavoro mentale non consapevole (Bucci 1997, 2000, 2001, Liotti, 1996); di quel lavoro che gli psicoanalisti hanno da sempre denominato inconscio; con termine che in questa luce può ora apparire generico. Nel considerare una tale equivalenza, spetta agli psicoanalisti sviluppare gli studi e le ricerche che dovrebbero indagare come accanto alle processazioni in parallelo degli input esterni, avvengano quelle processazioni delle informazioni provenienti dal funzionamento interno con le quali viene a costruirsi la cosiddetta struttura affettiva: quella matrice funzionale che modulerà ogni successivo apprendere dall'esperienza.


5) Protomentale e spiegazione della transgenerazionalità

La teoria del protomentale, tramite concetti del tipo di quelli sopra accennati, col loro riferimento a elaborazioni di tipo neurologico-mnestico, può a mio avviso essere la base esplicativa della transgenerazionalità. La madre, e in genere l'adulto che si occupa del bimbo, gli modula fino dai primi giorni di vita un linguaggio che permette al neonato di costruire determinate strutture funzionali primarie: quelle sulle quali si costruirà poi la sua singola modalità di strutturarsi e di funzionare. Si tratta di un linguaggio (o meglio linguaggi) non verbali, veicolati dai media fisici recepibili dalle sensorialità del neonato: udito, olfatto, tatto, propriocezione e in genere motricità, poco più tardi vista. La modulazione materna è in grado di produrre un apprendimento del neonato: questo avverrà nella misura in cui le unità comunicazionali emanate dalla madre avranno una loro coerenza (univocità dei significanti di quello specifico linguaggio) e nella misura in cui esse potranno essere recepite dal neonato nei momenti in cui la sua mente è in grado di dar loro significato. Le sue suddette condizioni si verificano secondo la capacità di reverie del care-giver: quanto in termini psicoanalitici tradizionali è stato definito come capacità di accoglimento delle proiezioni e degli oggetti cattivi e di restituzione di oggetti pensabili, o di funzione contenitore/contenuto, può essere ridescritto come capacità di decodifica da parte della madre dei segnali emanati dal bimbo e di ricodifica opportuna e tempestiva rispetto al momento in cui si possono ritrasmettere al bimbo in modo che egli li possa accogliere. Solo in queste condizioni la modulazione in emissione dalla madre potrà essere "letta" e immagazzinata nel bimbo come insieme di unità significative: significanti coi corrispettivi significati, che vengono acquisiti dalla mente del bimbo; suscettibili cioé di essere "pensati".
La modulazione materna avviene secondo il tipo di funzioni che costituiscono la singolarità di "quella" madre (o di "quegli" adulti). Possiamo dunque ragionevolmente ipotizzare che le spiegazioni dei fenomeni transgenerazionali risieda nello stabilirsi di particolari linguaggi non verbali, con particolari unità comunicazionali e di lettura, mediante i quali sono veicolate e trasmesse peculiari acquisizioni, con le relative tracce mnestiche, che costituiscono le modalità funzionali elementari di quel singolo individuo. Su queste e in base a queste egli costruirà ogni successiva struttura funzionale, con i contenuti mentali che essa poi sarà in grado di strutturare. Possiamo dunque affermare che la madre insegna al suo neonato come costruire le proprie peculiari modalità di funzionare: le strutture di base della sua futura personalità; e che glie le "insegna" secondo la propria misura. E possiamo in tal modo sottoscrivere in chiave esplicativa quanto molti psiconalisti hanno descritto: la madre insegna al bimbo a "pensare". Il termine "pensare" è inteso in senso bioniano. Possiamo aggiungere che gli insegna a "pensare" come lei "pensa". Altrettanto potremmo spiegare in questi termini quanto viene descritto dagli studiosi dell'attaccamento come trasmissione di modelli operativi interni.
La strutturazione delle funzioni suddescritte non è soltanto mentale: è anche neurologica, in quanto ogni acquisizione poggerà su corrispondenti strutture neurobiologiche, che vengono anch'esse a costruirsi nel sistema nervoso centrale (per le proliferazioni sinaptiche) ad ogni apprendimento. Gli studi attuali, sperimentali, effettuati sia sugli animali che sull'uomo, dimostrano infatti che la struttura morfologica neurale è conseguente al tipo di apprendimento. La cosiddetta maturazione neurologica non è tanto determinata dal codice genetico quanto, assai più, conseguente alla particolare elaborazione dell'esperienza.
La teoria del Protomentale permette inoltre di inquadrare lo strutturarsi di una "mente" anche in epoca fetale. Occorrerà considerare gli input recepibili dal feto: dapprima essi saranno di tipo biochimico (dal metabolismo della madre, via placentare, al feto), poi di tipo vestibolare e auditivo (formazione precoce dei corrispondenti apparati nel feto), quindi di tipo olfattorio-gustativo, indi ancora propriocettivo muscolare, tattile, e via dicendo. Tali input subiranno una iniziale processazione per cui possiamo ipotizzare una primitiva costruzione di engrammi, che serviranno dapprima a riconoscere gli stimoli stessi, e successivamente il loro valore comunicazionale. In tal modo "significanti" modulati dalla madre (dal suo corpo, dai suoi movimenti, dalla sua voce, dai suoi umori metabolici) costituiranno significati e si stabilirà una comunicazione tramite un "linguaggio", con cui la madre trasmetterà al figlio dispositivi funzionali facenti parte della sua mente, o in altri termini, della sua personalità. Su questi il bimbo costruirà la propria.
Le acquisizioni fetali e neonatali, tramite apprendimenti per linguaggi non verbali di funzionalità elementari, ci rendono conto di un particolare aspetto della transgenerazionalità: la trasmissione di caratteri che spesso compare a generazioni alterne, o con uno iato di qualche generazione, con modalità che sembrano misteriose. Tale "salto generazionale", o tale alternanza, sono apparenti: appaiono in quanto la rilevazione di dinamiche, tratti di personalità, condotte o vicende esistenziali, vengono di solito rilevate in età adulta, o per lo meno in epoche posteriori a quelle perinatali, quando ciò che si viene ad evidenziare è stato ampiamente "trasformato" rispetto alle strutture protomentali che lo hanno generato. Ovvero è possibile che in una generazione queste strutture protomentali rimangano ad uno stato totalmente primigenio (come quello di funzioni di base acquisite in epoca fetale), senza trasformazioni e manifestazioni in comportamenti, ma che tuttavia vengano trasmesse ai figli e che in questi, trasformate e sviluppate per altre circostanze, si evidenzino. In tal modo la transgenerazionalità è sempre diretta, da una generazione a quella immediatamente successiva, ma la sua manifestazione può rimanere latente, in una o forse più generazioni. In altri termini le generazioni intermedie sarebbero portatori occulti di un patrimonio di acquisizioni elementari (fetali e neonatali) che si manifestano poi con un salto generazionale.
La Teoria del Protomentale che qui viene ridescritta come esplicativa della transgenerazionalità, è stata elaborata originariamente (Imbasciati, Calorio 1981) sulla base delle conoscenze della vita neonatale. La sua successiva estensione alla vita fetale, come altrove ho elaborato e qui citato per spiegare la transgenerazionalità, necessiterà indubbiamente di ulteriori ricerche. Queste saranno rese possibili man mano che si potranno sviluppare tecniche che permettano l'osservazione degli apprendimenti fetali, da un lato, e delle relazioni gestante-feto dall'altra. Comunque esse ci potranno indirizzare, si apre una prospettiva di grande interesse circa la transgenerazionalità. Così come oggi sappiamo che il feto ha una "mente", possiamo affermare che questa viene modulata dalla "mente" materna. La transgenerazionalità inizia nella gravidanza: quando di preciso, ancora non lo sappiamo, ma possiamo ipotizzare che tali eventi possano essere ulteriormente chiariti e contribuire ad illuminarci sulla genesi ancora oscura di alcune patologie. La vita caratteristica dell'homo sapiens è vita mentale e questa comincia nella relazione gestante-feto.


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Note:

1 ) Le pagine qui riportate, sono riferite all'edizione italiana (Boringhieri, Torino, 1976) tradotta dal tedesco e, di seguito, a quelle della Standard Edition inglese.

2 ) Tali stati vengono talora definiti "alterati": a questa definizione è sottesa l'idea che la percezione sia un processo automaticamente biologico. In realtà i suddetti stati sono semplicemente "diversi" da quelli di un adulto standard e lo sono in quanto non sono automatismi biologici, ma processi mentali, per i quali occorre che si sia costruita prima una struttura funzionale. Nel neonato questa non si è ancora costruita e con tutta probabilità nello psicotico non si tratta di un danno, o alterazioni, ma di un deficit della costruzione di quelle funzioni.


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