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Le origini della mente
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Nascita dellindividuo e della mente
Le origini della mente
di Antonio Imbasciati
Nei secoli passati, nella cultura occidentale, greco-romana e poi cristiana, si è a lungo discusso se il neonato avesse un'anima. Concezioni diverse, relativa al significato delle parole anima, animus, e psiche, si sono alternate in laboriose distinzioni e discussioni tra i filosofi. L'opinione prevalente, soprattutto nel pensiero cristiano del basso medioevo, è che l'essere umano nascesse (neonato) con un'anima, infusagli da Dio durante la gestazione (cfr. cap.3.2). Il neonato, si è ben presto convenuto nella civiltà occidentale, è dunque un essere umano a pieno titolo. La discussione teologica sull'anima, sopitasi col secolo dei lumi, si è riaccesa nelle argomentazioni sull'aborto e la contraccezione, dopo l'opera di Malthus, ed ha assunto nuove vesti, scientifiche, man mano che si sviluppava la neurologia e nasceva la psicologia: non più anima soprannaturale, la cui diatriba a carattere metafisico viene lasciata ai filosofi, bensì anima-psiche-cervello, intelletto, mente, da attribuire o no al neonato. E' il neonato una persona umana dotata di capacità mentali? O piuttosto è una sorta di animaletto, che non pensa, che non sente, forse neanche il dolore (fino a qualche decade addietro in chirurgia infantile si operava senza anestesia), che non ragiona, che, insomma, non ha una mente; e che solo a seguito dello sviluppo del cervello, e del linguaggio, la acquisirà.
Tale è la concezione del neonato fino alla prima metà del Novecento: in essa la comparsa progressiva per cui si potesse parlare di mente era attribuita alla naturale maturazione del sistema nervoso. Di conseguenza in medicina, ostetricia e pediatria in primis, ci si è occupati di assistere il neonato esclusivamente dal punto di vista biologico, lasciando ogni cura, informazione, considerazione di carattere psicologico, pedagogico o sociale, al buon senso e alle opinioni personali di ogni madre, o ai costumi di ogni singola comunità. Di qui modi di allevamento del bimbo che oggi appaiono quanto meno discutibili, si veda ad esempio l'uso di fasce. Anche gli psicologi delle prime decadi del Novecento considerarono il neonato una sorta di tabula rasa, che solo a seguito di una maturazione neurobiologica poteva acquisire esperienze e sviluppare una mente: la sua sensorialità, seppur attivata, non gli avrebbe consentito di orientarsi percettivamente; così come descriveva James (1880). Soltanto negli ultimi cinquant'anni ci si è accorti che il neonato ha capacità che a buon diritto possiamo chiamare mentali: ha alla nascita alcune "competenze", sulle quali si svilupperanno poi funzioni più complesse. La mente non comincia con l'acquisizione del linguaggio, come si è creduto fino a qualche decennio fa.
Dobbiamo alle prime psicoanaliste infantili, che analizzavano bambini dai tre anni in avanti (la prima fu Melanie Klein), l'ipotesi di funzioni mentali operanti anche nei primi due anni di vita. Dobbiamo però aspettare la metodologia dell'infant-observation, messa a punto dalla Bick e dalla Harris, per avere le prime prove di funzioni mentali operanti già nel neonato. Poco dopo si è sviluppata tutta l'infant research, condotta con le metodiche sperimentali e gli strumenti che lo sviluppo delle scienze psicologiche aveva intanto approntato.
La scoperta che il neonato ha una struttura funzionale operativa che appartiene all'ordine del mentale, ha fatto sorgere, in queste ultime decadi, lo studio sulle sue origini. Quando e come si origina quella mente che constatiamo alla nascita? Di qui gli studi di psicologia prenatale, resi possibili dall'osservazione sistematica e prolungata del feto in ecografia, e da altre metodiche e strumentazioni. Lo psichismo fetale, la formazione delle prime operatività mentali, cioè del primo sviluppo cognitivo, a cominciare dalla percezione, l'origine della mente umana, in una sola omnicomprensiva denominazione, costituiscono oggi la frontiera delle attuali ricerche delle scienze psicologiche e delle neuroscienze.
Malgrado da alcuni decenni siano stata acquisite le nozioni sopra tratteggiate, permane tutt'oggi nella cultura popolare, ma anche in una certa frangia della cultura medico-scientifica, l'idea che ciò che si può studiare nel neonato e nel feto abbia un rilievo neurobiologico, per spiegare lo sviluppo successivo, ma non un valore psicologico a pieno titolo. Ciò che infatti si può constatare di psicologicamente costituito è stato considerato conseguenza automatica di una maturazione neurobiologica, che si è ritenuto procedere secondo i naturali sviluppi del programma genetico: pertanto non si è presa in considerazione l'indagine sui processi psicologici attraverso i quali queste capacità, neonatali, fossero state acquisite. Esse avrebbero reso possibili i successivi apprendimenti, in primis quello del linguaggio e di qui tutte le successive acquisizioni più propriamente "mentali", ma a lungo non si è considerato come le prime capacità, neonatali, potessero essere esse stesse apprese; e attraverso quali modalità. Di conseguenza si è a lungo evitato di parlare di "mente" riferendosi al neonato e al feto. Si è parlato di "psichismo fetale" (Raskowsky, 1977), con termine più generico.
Eppure i risultati dell'infant research, a cominciare dai primi, clinico-psicoanalitici, dicevano che il feto impara: cioè aprivano la strada a indicare i processi cognitivi attraverso cui la mente viene "imparata". La mente non è data dalla natura affinché l'essere umano impari, ma è essa stessa appresa. Si apre così l'indagine su come e quando la struttura mentale di base sia appresa, cioè la prospettiva di una ricerca propriamente psicologica, oltre che neurobiologica. Ciò malgrado a lungo si è conservata l'idea, anche in ambito scientifico che le capacità rilevate nel neonato fossero conseguenza automatica di una maturazione neurobiologica. Questa "resistenza" ad assimilare i risultati dell'infant research si basa a mio avviso nel perdurare di un radicato stereotipo circa il concetto di maturazione, applicato al sistema nervoso.
Si è ritenuto a lungo, e in parte tuttora alcuni ritengono, che la maturazione del tessuto nervoso, quale si riscontra morfologicamente e fisiologicamente, dipenda esclusivamente dalla realizzazione del programma genetico che riguarda il completamento morfofunzionale di tutti gli organi corporei e che investirebbe pertanto anche il cervello: che verrebbe così "completato", gradualmente, prima e dopo la nascita, nei primi mesi. La mente scaturirebbe così dalla maturazione biologicamente predeterminata del cervello.
Al contrario si è dimostrato che la maturazione è un processo che avviene solo se c'è l'esperienza: non solo, ma che la qualità dell'esperienza determina il tipo di maturazione. Gli studi sugli animali hanno da tempo dimostrato che l'architettura istologica corticale è in relazione al tipo di apprendimento cui l'animale è stato sottoposto. Più moderne tecniche, tra cui i metodi di neuroimaging (PET) mettono in evidenza, anche nell'uomo, come sia l'esperienza che viene acquisita, ossia il tipo di apprendimento conseguito, che condiziona la cosiddetta maturazione neurale.
La genetica determina la macromorfologia del cervello umano, eventualmente il numero dei neuroni, la mielinizzazione delle fibre, ma la micromorfologia e la fisiologia, cioè le connessioni, le proliferazioni sinaptiche, e quindi la capacità funzionale delle varie reti neurali dipendono dal tipo di esperienza che è stata assimilata. La maturazione biologica determinata dalla genetica è necessaria, ma non è condizione sufficiente perché si possa parlare di maturazione in senso completo. Lo sviluppo biologico del cervello dell'homo sapiens è senz'altro indispensabile, ma non è questo che "determina" la mente: questa si struttura, nel cervello stesso, a seguito dell'esperienza che organizza il sistema nervoso. In analogia ai computer possiamo dire che la natura provvede all'hardware della nostra mente, ma questo per funzionare deve imparare i programmi. La mente allora non è la conseguenza della maturazione del cervello, ma è vero semmai il contrario e cioè che lo strutturarsi delle prime funzioni mentali, a seguito dell'esperienza, fa maturare il sistema nervoso.
Nella cultura comune si pensa ancor oggi che la mente si sviluppi automaticamente nella sua normalità perché la natura ha provvisto l'homo sapiens di un particolare cervello. Di conseguenza si pensa che la mente sia più o meno uguale per tutti gli individui: normale, la si dice. Se la si riscontra palesemente anomala, si suppone una qualche causa che abbia alterato il cervello e il suo sviluppo "naturale". Questo modo di pensare è un semplicismo corroborato dal vecchio pregiudizio che la "natura" (id est genetica e biologia) determini l'uomo, ma soprattutto dalla misconoscenza della normalità della mente umana: si ha di questa un concetto che procede da una superficialissima e generica conoscenza delle funzioni mentali, etichettate con le larghissime quanto antiche categorie di cognizione, raziocinio, coerenza logica e via dicendo, nonché da una indebita trasposizione del concetto medico di normalità dal biologico allo psichico (Perno, Turchi 2001; Imbasciati 2005a,b,c). Al contrario le funzioni mentali possono oggi essere studiate in modo molto più analitico, cosicché si constata come la mente di ogni singolo sia diversa da quella di qualunque altro individuo; nella "normalità", di cui si dà oggi una definizione senza riferimenti biologici, come nella "patologia", anch'essa concepita in psicologia in modo diverso rispetto alla medicina. Ed ogni individuo ha una sua particolarissima irripetibile struttura mentale in quanto ogni individuo ha avuto esperienze diverse; questo vale anche per i gemelli omozigoti (Imbasciati 2005a,b).
Lo stereotipo tuttora imperante, di una mente dipendente esclusivamente da un cervello predeterminato per natura e uguale per tutti, e il concetto di maturazione ancorato anch'esso esclusivamente al biologico, hanno a lungo messo in ombra il problema di come l'esperienza origini la struttura neurale che è responsabile della struttura funzionale che caratterizza la mente di ogni singolo soggetto: la "struttura mentale". Le approssimative concezioni sopratratteggiate restringono infatti il campo di indagine agli studi su come si evolve la struttura neurale; ma se questa è il risultato di apprendimenti dovuti all'esperienza, occorre studiare anche questi ultimi, e dal vertice specifico delle scienze psicologiche.
Gli studi sull'apprendimento mostrano come questo non sia un processo di trasposizione di qualcosa che sta fuori e che vien messo dentro la mente; non si apprende l'esperienza così come essa è in realtà, alla stregua di come viene impressionata una lastra fotografica, bensì si apprende a seguito di quanto l'apparato che apprende seleziona, elabora e acquisisce quello che l'esterno gli offre. Non si apprende l'esperienza, ma dall'esperienza, come pionieristicamente affermò Bion (1962). Questo porta l'attenzione sulla formazione dell'apparato che apprende. E' esso stesso appreso? Evidentemente si: l'esperienza "insegna" all'apparato neurale ad avere certe prime funzioni. Come vengono apprese, allora, le iniziali funzioni che permettono di apprendere? Quali diversi apprendimenti si verificano a seconda di differenti funzioni iniziali che sono state apprese? E, se per apprendere occorre aver appreso una qualche funzione iniziale che lo permetta, qual è il "punto zero" di questo processo? Dove, quando e soprattutto come si inizia a formare, se non ad apprendere, ciò che permetterà di iniziare la catena degli apprendimenti? Ovviamente si apre una prospettiva dell'apprendimento della relativa memoria assai diverse da quella della cultura comune: non si apprendono e non si memorizzano solo "contenuti", ma soprattutto funzioni. La memoria di funzioni è quella più importante per il funzionamento mentale: è una memoria implicita; sganciata dunque da qualunque possibilità di ricordo. Anche qui c'è una distinzione, non ancora assimilata nella cultura generale: un conto è il ricordare, altro conto la memoria, nella sua piena estensione; il primo difficilmente corrisponde al secondo (Imbasciati 2005c).
Gli studi sull'apprendimento dimostrano inoltre quanto questo sia modulato, non solo dall'apparato "apprenditore", ma anche dalla relazionalità che si stabilisce tra chi apprende e l'entourage dal quale si apprende: ed in primis da una relazionalità interpersonale. Soprattutto studiando gli apprendimenti infantili, dei primi tre anni di vita (ma anche dei successivi), si è constatato la basilare funzione delle relazioni interpersonali entro le quali si svolge l'apprendimento. Quanto più il bambino è piccolo, tanto più necessita di una figura che opportunamente gli moduli la conoscenza che egli sta acquisendo: il cosiddetto caregiver ha una funzione essenziale per l'apprendimento nei primi anni di vita. Gli psicoanalisti infantili hanno da tempo illustrato la funzione di rèvérie, che viene svolta dal caregiver nei primi mesi di vita del neonato. In ogni caso, anche successivamente, gli adulti che si occupano dei bimbi "insegnano" (che lo sappiano o no, che lo vogliano o no) al bimbo stesso; non gli insegnano soltanto quello che lui impara, ma soprattutto gli insegnano come imparare, cioè modulano la struttura funzionale di base della cognizione. Nel concetto di cognizione si includono oggi anche tutte quelle funzioni che venivano etichettate come affettive (Imbasciati, 1998, 2005b,c): gli affetti costituiscono la prima forma di conoscenza del mondo acquisita dai bimbi (Money Kyrle, 1968); nonché degli animali. Gli studi sull'attaccamento (cfr. cap.7) mostrano come la relazione coi genitori (caregivers) trasmetta ai bimbi (anche ai neonati) i cosiddetti "Modelli Operativi Interni" (MOI), cioè funzioni elementari che contraddistinguono il differente modo con cui il futuro individuo fronteggia il mondo e le relazioni interpersonali: cioè apprende, conosce.
Dunque tutti gli studi sull'apprendimento e lo sviluppo cognitivo infantile, cioè sul formarsi della mente, convergono nel dimostrare come gli adulti che si prendono cura dei bimbi (care-givers, appunto) modulino, nel bene ma anche nel male, lo strutturarsi della mente dei futuri individui. Anche le anomalie dello sviluppo psichico (le cosiddette patologie) sono il risultato di una particolare modulazione che i caregivers, nelle diverse e spesso travagliate vicende della vita, hanno potuto offrire allo sviluppo mentale del bimbo. Tutti questi processi, osservati dapprima nei bimbi piccoli, e poi nei neonati, sono stati confermati anche nello studio dello sviluppo psichico fetale. Le "competenze" riscontrate alla nascita sono state acquisite, progressivamente, durante la gestazione, nella relazione della gestante col suo "bimbo-in-pancia", che ha modulato gli apprendimenti fetali.
Il feto impara (Manfredi, Imbasciati, 2004) in relazione a come la gestante (e il suo entourage e il suo stile di vita), modula ciò che gli incipienti organi sensoriali del feto possono recepire: è la modulazione materna che conferisce loro quella organizzazione che li costituisce come funzioni mentali (in primis percettive) passibili di essere memorizzate. Questa modulazione assume il carattere di un'effettiva comunicazione, vuoi ordinata e funzionale, vuoi disorganizzata e disfunzionale. La comunicazione gestante/feto è pertanto la matrice degli apprendimenti fetali e del costruirsi delle prime elementarissime funzioni mentali del feto. E' questa l'attuale frontiera della Psicologia Prenatale. In questo quadro è stato studiato l'attaccamento prenatale (cap.7). Molto ancora dobbiamo indagare e scoprire. In particolare sulla struttura mentale e materna, per quella parte che presiede alla comunicazione, che è inconsapevole, che ella emette; nonché su come questa venga decodificata dalla nascente struttura mentale del feto e pertanto sia da questi assimilata nella prima costruzione delle basi della sua mente. Senz'altro la gestante svolge una basilare funzione di rèvérie. E' in quest'area di studi che potremmo identificare l'iniziale processo (il "punto zero") che origina l'inizio della struttura che può apprendere, e da questa ogni successivo apprendimento di ulteriori funzioni: la progressiva costruzione (Imbasciati, 2006) della mente umana.
Dei problemi inerenti a tale campo di studi, ed in particolare sugli interrogativi inerenti all'inizio della costruzione della mente, mi sono occupato da oltre venticinque anni, mettendo progressivamente a punto una ipotesi teorica a carattere psicofisiologico: la Teoria del Protomentale. Una recente sua esposizione è reperibile nel mio ultimo testo (2005c). Tale teorizzazione, usufruendo dei contributi delle neuroscienze, delle Scienze Cognitive, della Psicoanalisi e in genere dello psicologo sperimentale, illustra la formazione, anzi la costruzione, delle prime funzioni mentali, delle relative tracce mestiche e del loro ruolo nel determinare quel "come", irrepetibilmente individuale, col quale il futuro individuo elaborerà quanto offertogli dall'esperienza (relazionale) e costruirà la sua struttura mentale. Ovviamente anche la micro struttura neurale che vi presiede.
La Teoria attende conferme sperimentali e perfezionamenti. In questa sede, rimando agli appositi miei testi per un'illustrazione dettagliata: essa fare da sfondo ad alcuni dei paragrafi in cui si illustrerà la comunicazione gestante/feto, partoriente/neonato, puerpera/bimbo.
RIFERIMENTI BIBLIOFRAFICI
Bion W.R. (1962), Apprendere dall'esperienza. Roma: Armando, 1972.
Imbasciati A. (1998), Nascita e Costruzione della Mente. Torino: Utet Libreria.
Imbasciati A. (2005a), La sessualità e la teoria energetico-pulsionale: Freud e le conclusioni sbagliate di un percorso geniale. Milano: Franco Angeli.
Imbasciati A. (2005b), Psicoanalisi e Cognitivismo. Roma: Armando.
Imbasciati A. (2005c), Il sistema protomentale. Milano: LED.
James W. (1880), Principi di Psicologia. Milano: Società Editrice Libraria, 1901.
Manfredi P., Imbasciati A. (2004a), Il feto ci ascolta... e impara. Roma: Borla.
Money Kyrle R. (1968), Lo sviluppo cognitivo. In: Scritti, Torino: Loescher, 1984.
Perno A., Turchi G.P. (2002), Modello medico e psicopatologia come interrogativi. Padova: Upsel.
Rascowsky A. (1977), La vita psichica del feto. Milano: Il Formichiere, 1980.
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