Periodo Perinatale |
Dalla diade alla triade: il triangolo primario
Fino a qualche decennio fa la mente era considerata come “data dalla natura”, dovuta alla maturazione del sistema nervoso, la cui origine era posta con l’acquisizione del linguaggio. Ora invece, partendo dagli studi sullo sviluppo cognitivo e emotivo del neonato e dalle numerose ricerche di neuroimaging che si sono susseguite negli anni, sappiamo che la maturazione è un processo che avviene a seguito dell’esperienza e che è la qualità dell’esperienza stessa a determinare il tipo di sviluppo (Imbasciati, 1998, 2007). La genetica determina la macromorfologia del cervello, ma la sua micromorfologia e la sua fisiologia dipendono dal tipo di esperienza che è stata assimilata. Partendo dagli studi relativi all’apprendimento, è stato messo in evidenza come non solo si apprende quanto è stato prima selezionato e modulato dall’“apparato che apprende” (Bion, 1962), ma anche che è l’ambiente interpersonale a svolgere la funzione primaria per l’apprendimento. Una visione moderna dello sviluppo umano riconosce al neonato competenze cognitive e sociali che gli consentono di elaborare informazioni non solo provenienti dalla realtà esterna (Piaget, 1923, 1936), ma anche di creare o mantenere situazioni di interazione con la figura di accudimento, solitamente intesa la madre (Stern, 1974), o meglio ancora con entrambi i genitori (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999).
Le ricerche che si sono focalizzate sui processi di regolazione tra caregiver e bambino hanno messo in luce, a tal proposito, la precocità della sincronia dei ritmi sia nella comunicazione corporea che nelle vocalizzazioni tra genitori e neonato (Trevarthen, 1997), dove quest’ultimo ha parte attiva nella relazione. Da questi studi sono derivati costrutti teorici quali la promozione dell’attenzione focale, considerata il precursore della costruzione di una teoria della mente da parte del bambino (Fogel, 1977; Camaioni, 2003), la responsività dell’adulto nel cogliere i segnali del bambino (Ainsworth e coll. 1978), la capacità di riparazione da parte dell’adulto di rimediare quando compie un errore durante l’interazione con il bambino (Tronick, 1989) e infine la capacità di espressione di affetti positivi (Emde, 1991), che favorisce il riferimento sociale necessario al bambino per orientarsi verso i suoi obiettivi e essere in grado di condividere l’esperienza anche a livello di significati, attraverso quella che viene chiamata la sintonizzazione affettiva (Stern, 1985, 1995) e l’intersoggettività, primaria e secondaria (Trevarthen, 1978).
Questa nuova visione del neonato ha comportato il progressivo affermarsi di un modello teorico e clinico di tipo relazionale, che considera i disturbi psichici dovuti non tanto ad un conflitto intrapsichico - originato dalla fissazione e dalla successiva regressione ad una fase specifica dello sviluppo, in cui l’intensità pulsionale o la distorsione fantasmatica hanno creato un nucleo patologico -, quanto come espressione sintomatica di modelli relazionali interiorizzati disturbati, patologici (Malagoli Togliatti, Zavattini, 2006). Questo si è tradotto in psicopatologia nella necessità di costruire nuovi strumenti di assessment affidabili, in grado di valutare la qualità delle relazioni precoci tra genitori e bambino e rilevare quei casi che possono essere terreno fertile perché si strutturi un disagio psichico del piccolo (Fava Vizziello, 2003).
Nella storia della psicologia e della psicopatologia clinica, anche se sono stati largamente riconosciuti il ruolo dei fattori affettivi e relazionali nello sviluppo fisico, psichico e psicosomatico del bambino, l’unità di osservazione è sempre stata di tipo diadico. Si pensi al paradigma dell’attaccamento di Bowlby (1988), a quello della Bretherthon (1994) per cui il legame che il bambino instaura con la madre “determina” anche la qualità del legame con il padre, alla situazione sperimentale della Strange Situation della Ainsworth (Ainsworth e coll., 1978), all’ottica dell’Adult Attachment della Main (Main, Goldwin, 1998), al concetto di “costellazione materna” di Stern (1995): da tutti si evince l’idea che il bambino tenda a sintonizzarsi naturalmente con un unico caregiver prima di passare a instaurare relazioni più complesse. Il paradigma stesso dell’Infant Research (Sander, 1987; Cicchetti, Cohen, 1995; Trevarthen, 1997) sottolinea ampiamente come fin dai primi giorni di vita la madre e il suo neonato siano disposti ad agire consensualmente e come questa matrice relazionale sia costitutiva dell’esperienza e dei significati interpersonali e personali del neonato, a meno che una deficienza nella relazione di accudimento intacchi la dimensione relazionale della psiche (Sameroff, Emde, 1989; Imbasciati, 1998; Imbasciati, Dabrassi, Cena 2007).
Ma in questo modo è difficile comprendere l’emergere e il formarsi dell’intersoggettività stessa, di quel “senso di noi” (Klein G., 1976) su cui si basa la vita di ognuno. Alcuni autori (Tambelli e coll., 1995; Camaioni, 1996; Howes, 1999) affermano che il presupposto teorico secondo cui il neonato ha inizialmente una capacità di regolare solo le relazioni diadiche per poi accedere, in un secondo momento, a quelle triadiche e alle triangolazioni dipende da un eccessivo riferimento ad un costrutto “madricentrico”, che finora ha influenzato le procedure di ricerca. È come dire che senza un paradigma teorico che possa presupporre l’esistenza della triangolazione e senza strumenti che possano coglierla, difficilmente gli studiosi del settore possono “vederla” e “documentarla”.
L’innovazione delle ricerche sulle relazioni primarie condotte dal gruppo di Losanna, che a partire dagli Ottanta hanno studiato le possibili configurazioni di quello che viene definito il “triangolo primario”, sta proprio nel fatto di aver introdotto lo studio della nascita della triangolarità stessa, ossia di quella capacità da parte del bambino di formare nella propria mente un’idea del “tessuto di relazioni”, in cui è inserito quello che Zavattini (2000) definisce il “senso interno della relazionalità”.
Il gruppo di Losanna, coordinato da Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1993), parte dal presupposto che per studiare la famiglia non è possibile soffermarsi solo sulle sue componenti diadiche, ma la si deve considerare come un insieme unico, un’unica unità. Il concetto di “triangolo primario”, così come concepito, nasce all’interno di una cornice teorica che associa la teoria dei sistemi con il paradigma etologico-microanalitico, oltre che con gli studi dell’Infant Research (Sander, 1987; Cicchetti, Cohen, 1995; Trevarthen, 1997) e quelli di Stern sulla “sintonizzazione affettiva” e sulla costruzione del “Sé intersoggettivo” (Stern, 1985). Lo scopo principale di questo nuovo modello è quello di superare i limiti teorici e metodologici messi in evidenza da Hinde e Stevenson-Hinde (1998) e da Emde (1991) degli studi che, prima di loro, si sono interessati di studiare la triadificazione. Questi ultimi, infatti, hanno cercato di indagare la triade attraverso lo studio delle diadi che la compongono (madre-bambino, padre-bambino, madre-padre) e si sono focalizzati sulle influenze che ogni membro della famiglia aveva sull’altro. Invece, il concetto di “triangolo primario” parte dalla considerazione sistemica che “tutto è una proprietà emergente” e che, quindi, la triade deve essere osservata come un insieme complessivo, in cui le modalità di partecipazione dei diversi attori possono essere fatte variare sistematicamente. Una particolare attenzione viene rivolta alla prospettiva di comunicazione: le due autrici, Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery (1993), sottolineano come lo scopo dei dialoghi precoci sia quello di condividere gli affetti positivi, espressi in modo predominante dalla comunicazione non verbale. Quest’ultima viene concepita come organizzata gerarchicamente in livelli con differenziazione crescente, dalle modalità più contestuali a quelle più testuali, dalla disponibilità all’interazione (che si esprime a livello della parte inferiore e superiore del corpo) all’attenzione reciproca (che si manifesta a livello della testa e dello sguardo) fino al coinvolgimento espressivo (manifestazioni facciali e dello sguardo). Anche se l’influenzamento procede in entrambi i sensi, l’ordinamento gerarchico implica che gli influenzamenti che procedono dal contesto al testo siano dominanti nel determinare il risultato dell’interazione. In particolare, le interazioni che vanno dal corpo verso lo sguardo sono dominanti rispetto a quelle che vanno dallo sguardo verso il corpo.
In questo modo è possibile identificare un pattern comunicativo, che nel momento in cui risultasse disfunzionale darebbe la possibilità di progettare un precoce intervento terapeutico che favorisca un’evoluzione familiare migliore.
… come strumento di assessment neonatale
Sulla base delle considerazioni teoriche sopra riportate, le autrici Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery hanno quindi sviluppato uno strumento di assessment per valutare le famiglie nel primo anno di vita del bambino: il Lausanne Trilogue Play (LTP - Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999). Il setting dell’LTP consente l’osservazione sistematica delle interazioni familiari nella relazione triadica tra il padre, la madre e il bambino. L’obiettivo del gioco triadico è quello di permettere ai tre componenti della famiglia di condividere momenti piacevoli e raggiungere momenti di condivisione sul piano intersoggettivo. L’LTP prevede quattro parti: 1) nella prima parte uno dei due genitori gioca con il bambino, mentre l’altro è semplicemente presente (2+1); 2) nella seconda parte è previsto uno scambio di ruoli tra i genitori: il genitore che in precedenza aveva assunto una posizione periferica gioca ora con il bambino, mentre il primo ricopre il ruolo passivo (2+1); 3) nella terza parte i tre membri della famiglia giocano insieme (3-insieme); 4) infine, nella quarta parte i genitori devono interagire tra di loro senza coinvolgere il bambino. Le quattro situazioni sono ordinate secondo una progressione naturale per determinare una scena di gioco triadico che fosse simile ad una situazione di scambio narrativo.
Il setting prevede che i membri della famiglia siano disposti su delle sedie posizionate come se fossero ai vertici di un triangolo equilatero in modo che entrambi i genitori abbiano una posizione “pari” rispetto al bambino. Il bambino è posto su uno speciale seggiolino adattabile per dimensioni e inclinazione, ruotabile in modo da essere orientato di fronte a ciascun genitore, o posizionato al centro in modo da rimanere di fronte ad entrambi i genitori contemporaneamente. La procedura può essere utilizzata con bambini che hanno età diverse: quelli di un anno sono posizionati in un seggiolone e hanno a disposizione giocattoli adatti per il gioco simbolico; quelli più grandini, che stanno seduti su una sedia normale, hanno una serie di bambole con cui devono creare una storia con l’aiuto dei loro genitori. È prevista un’applicazione anche durante il periodo della gravidanza e in questo caso viene richiesto ai genitori di “simulare” la prima interazione al momento della nascita con il loro bambino (personificato da una bambola). La famiglia è lasciata libera di decidere sia la durata complessiva del gioco sia quando passare da una fase all’altra, anche se viene invitata a rimanere entro la durata di 10-15 minuti. Le modalità con cui vengono prese queste decisioni rivela molte cose sulla coordinazione dei genitori.
L’obiettivo del gioco triadico, come abbiamo detto in precedenza, è quello di indagare la capacità di regolazione affettiva, condivisione e responsività empatica. Si parte dal presupposto che le relazioni hanno due versanti che sono tra di loro interconnesse: il versante interattivo che riguarda il comportamento osservabile ed è costituito da pattern di azioni e segnali tra i partner, quello intersoggettivo che riguarda il lato psichico intimo e comprende le intenzioni, i sentimenti e i significati condivisi tra i membri della famiglia. La famiglia viene considerata come un sistema costituito da una sottounità strutturante (co-genitoriale) e da una evolutiva (il bambino). La funzione della componente strutturante è di facilitare e guidare lo sviluppo del bambino, quella della componente evolutiva è di crescere e incrementare la propria autonomia.
Per raggiungere lo scopo triadico i membri della famiglia devono soddisfare tre funzioni tra loro interrelate: la partecipazione, l’organizzazione e la focalizzazione. A seconda del grado di coordinazione che raggiungono nel lavorare insieme per la realizzazione del compito, le relazioni nella famiglia possono essere descritte in termini di “Alleanza Familiare”. Più le interazioni sono coordinate, più l’alleanza familiare risulta essere funzionale e questo tende a promuovere lo sviluppo socio-emotivo del bambino; nel caso opposto l’alleanza familiare risulta problematica, chiusa in schemi di reciprocità negative, con la conseguenza che il conflitto tra i genitori si esplicita sul bambino stesso e/o con la sua esclusione. In base a queste considerazioni, sono state evidenziate cinque tipi di alleanze familiari:
Alleanza familiare cooperativa: i tre membri sono sintonizzati tra loro, condividono momenti di comunicazione affettiva, generalmente piacevoli o, comunque, i genitori sono in grado di mettere in atto stati riparativi sia nella figurazione tre-insieme sia in ciascuna delle altre configurazioni. Le alleanze di tipo cooperativo sono non facilmente riscontrabili nella normalità statistica della popolazione: si osservano di solito oltre il limite superiore del range normale.
Alleanza familiare in tensione più (+): i membri della famiglia non sono sintonizzati a livello emotivo l’uno con l’altro. A questo livello si valuta se è tuttavia presente una comprensione empatica o se il clima affettivo è troppo negativo perché i genitori riescano ad aiutare adeguatamente il bambino a regolare i propri affetti: tendenzialmente si osserva una iperstimolazione o una ipostimolazione da parte loro.
Alleanza familiare in tensione meno (-): uno dei membri della famiglia sta rivolgendo la propria attenzione altrove e non all’obiettivo del gioco, impedendo così il raggiungimento di un focus condiviso e mantenuto.
Alleanza familiare collusiva: non tutti i membri sono nel proprio ruolo perché uno di essi sta interferendo o si sta astenendo oppure non vi è coordinazione nella terza fase, quella in cui è prevista l’interazione tutti e tre insieme. Spesso si osserva che il bambino ha un’“attenzione monogenitoriale”, cioè si rivolge unicamente ad uno dei due genitori. Di solito una situazione simile è tipica delle famiglie in cui è presente un conflitto non negoziabile tra i genitori e in cui il bambino ha assunto il ruolo di capro espiatorio o di mediatore (McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999).
Alleanza familiare disturbata: i membri della famiglia non sono tutti inclusi nell’interazione e in questo caso non vi è la possibilità di raggiungere l’obiettivo. Ad esempio, i genitori possono sistemare il bambino nel seggiolino in modo inadeguato, impedendogli in questo modo di interagire (holding inappropriato). Spesso accade in questi casi che il malessere espresso dal bambino viene interpretato come risultato del maltrattamento da parte dell’altro genitore o come rifiuto da parte del bambino stesso. Questo tipo di alleanza si osserva spesso nelle famiglie in cui è presente una psicopatologia grave dei genitori, non sempre diagnosticata, in cui si ha un’inversione di ruoli e il bambino assume una posizione “genitorializzata” (Boszormenyi-Nagy, Sparks, 1973).
I risultati delle ricerche condotte con il paradigma dell’LTP hanno evidenziato un numero sufficiente di precursori delle strategie triangolari del bambino tanto da mettere in discussione la visione classica dello sviluppo (Fivaz-Depeursinge e coll., 1999): i bambini non solo discriminano le diverse configurazioni distribuendo in modo differenziato gli sguardi, ma la maggior parte di essi già a tre mesi alterna l’orientamento dello sguardo tra i due genitori diverse volte durante la seduta. Inoltre, nelle alleanze sufficientemente funzionali, pare che queste coordinazioni triangolari dello sguardo si verifichino principalmente nella situazione “tre-insieme” e durante le transizioni tra le diverse situazioni. La continuità di tali capacità interattive triadiche precoci nello sviluppo ha consentito di ipotizzare un percorso evolutivo di queste almeno parallelo e indipendente rispetto al percorso di quelle diadiche. Infine, sembra che il tipo di alleanza familiare che si instaura risulta abbastanza stabile non solo durante il primo anno di vita del bambino, ma anche fino ai 18 mesi di età (Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery, 1999; Favez, Frascarolo, 2002; Weber, 2002).
La procedura viene registrata e la codifica (Grille d’Evaluation Triadique du Centre de la Famille, GETCEF - Fivaz-Depeursinge e coll., 2002) viene fatta attraverso l’analisi dei filmati basata sull’osservazione delle scale “partecipazione”, “organizzazione”, “attenzione focale”, composte a loro volta da variabili graduate su scala Likert a 3 punti (range 0-2). Ognuna delle variabili viene valutata per ogni parte della procedura e i singoli punteggi sommati a formare il punteggio globale di “Alleanza familiare” (range 0-48) (Carneiro e coll., 2006). La codifica viene svolta da almeno due osservatori che devono dare un giudizio sulla base del sistema di codifica. Per questa ragione è importante che gli osservatori siano sottoposti ad un training specifico che li formi a rilevare e giudicare le variabili considerate. È importante inoltre che sia calcolata l’attendibilità dei punteggi attribuiti attraverso il calcolo dell’indice k di Cohen, attraverso il quale è possibile calcolare la probabilità di accordo non imputabile al caso. Nelle ricerche finora condotte la validità del sistema e l’attendibilità delle codifiche sono risultate soddisfacenti.
Infine, l’utilizzo della registrazione permette l’utilizzo clinico del video feedback: i genitori possono rivedere il filmato e in tal modo si promuove ed accresce la loro consapevolezza delle loro modalità di interazione, positive e negative (McDonough, 1993; Bakermans-Kranenburg e coll., 1998; Downing, Ziegenhain, 2001). Il video feedback fornisce una doppia prospettiva sul funzionamento familiare: l’esperienza dell’interazione in tempo reale e quella rivista a distanza di tempo. Lo stesso accade anche per il terapeuta. È previsto anche un intervento diretto sulle interazioni, condotto all’interno del setting della consulenza e/o attraverso prescrizioni o rituali, che devono essere eseguiti a casa nel periodo che intercorre tra le sedute (Imber-Black, Roberts, 1992), con lo scopo di innescare dei cambiamenti nei pattern di interazione problematici. È particolarmente indicato quando i genitori hanno una modalità di funzionamento alessitimica e sono poco inclini alla riflessione o quando la procedura non è stata vissuta come un’esperienza particolarmente positiva per loro.
Una critica che si potrebbe porre è che gli interventi si concentrano sulle modalità di comportamento, di condivisione e il grado di coordinamento della famiglia (“famiglia praticante” – Reiss, 1989) e non si interviene, invece, su quella che è la cosiddetta “memoria delle relazioni” che risiede principalmente nei modelli operativi interni (Bowlby, 1980), ovvero sulla “famiglia rappresentata”. Secondo Reiss (1989) è solo attraverso l’osservazione che si può accedere all’intersoggettività e gli schemi interattivi sono il punto di ingresso obbligatorio per arrivare alle rappresentazioni. Stern (1995) sostiene che l’interazione è “la scena in cui si manifestano le rappresentazioni dei genitori… Analogamente, l’interazione è la scena in cui agiscono le rappresentazioni del bambino che influenzano direttamente i genitori”. In questo senso la descrizione delle interazioni triangolari può essere considerato il primo passo per indagare un campo così complesso come quello delle rappresentazioni (Simonelli e coll., 2009). Per questo motivo Fivaz-Depeursinge, Corboz-Warnery (1999) considerano gli schemi interattivi che si possono osservare attraverso l’LTP come delle pratiche coordinate familiari che, secondo Reiss (1989) “riallineano la rappresentazione individuale con le pratiche di gruppo”. Seguendo le famiglie nel corso del primo anno di vita del bambino, è possibile osservare come queste ritualizzano lo svolgimento della procedura e come i genitori facciano partecipare il bambino alle loro pratiche. In questo modo è possibile misurare la regolazione degli affetti, la capacità responsiva di tipo empatico e il modo in cui questi fattori sono legati alle motivazioni di calore, affettività e intersoggettività.
Come possiamo evincere da queste brevi descrizioni, il Lausanne Trilogue Play (LTP) può essere considerato uno strumento di osservazione, diagnosi e intervento, in grado di valutare e fornire una classificazione della dimensione relazionale che caratterizza il disagio o il disturbo psicopatologico durante lo sviluppo del bambino e dell’adolescente, prendendo in considerazione non solo il rapporto madre-figlio, su cui si focalizzano altri strumenti sopracitati, ma il rapporto con entrambi i genitori. In questo modo i professionisti che lavorano nell’ambito della genitorialità avranno non solo una visione della relazione diadica che ciascun genitore instaura con il proprio figlio ma anche di quella triadica, con la possibilità di valutare quanto il senso di cooperazione e di coinvolgimento influenzi e favorisca lo sviluppo del bambino. Sappiamo dalla letteratura come il livello diadico e quello triadico contribuiscono in modo diverso al funzionamento familiare (si confronti McHale, Cowan, 1996; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999) e, pertanto, è importante avere una valutazione di entrambe le modalità di interazione familiare.
… come strumento di assessment anche prenatale
Come abbiamo detto in precedenza, gli studi finora condotti (Favez e coll., 2006a, b) mostrano che il tipo di alleanza familiare che si instaura tra la triade rimane stabile per tutto il primo anno e mezzo del bambino (Weber, 2002): poche ricerche hanno invece cercato di indagare quando queste modalità di funzionamento si caratterizzano, se alla nascita del bambino stesso o, come invece è ipotizzabile, prima, durante il periodo della gravidanza, nella fase di transizione alla genitorialità (Carneiro e coll., 2006). Sebbene la gravidanza rappresenti un evento naturale del ciclo di vita della donna, in particolare la prima gravidanza si configura come una fase critica - una “crisi evolutiva” -, che implica profondi cambiamenti psicologici, somatici e sociali (Deutsch, 1945; Bibring, 1959, 1961; Pines, 1972, 1982; Ammaniti, 1992). Stern (1995) definisce “costellazione materna” questa condizione di riorganizzazione della vita psichica della donna, caratterizzata da profondi cambiamenti delle rappresentazioni di sé come persona, moglie, figlia, madre. L’attesa di un bambino è un periodo di “trasparenza psichica” per la donna incinta (Bydlowski, 1997), ma anche di riadattamento delle relazioni all’interno della famiglia: entrambi i genitori si preparano psicologicamente alla genitorialità e alla relazione con il bambino atteso, attraverso la costruzione progressiva di un’immagine del bambino, il cosiddetto “bambino nella testa”, “bambino nella notte”, “bambino immaginario” (Soulé, 1982; Vegetti Finzi, 1995; Bydlowski, 1997), che poi dovrà fare i conti con il “bambino reale” alla nascita. Nonostante questo, le ricerche si sono principalmente focalizzate su quelle che sono le rappresentazioni materne sul bambino in pancia, mostrando come esse siano predittive della relazione madre-bambino dopo la nascita. Pochi sono invece i lavori che hanno indagato le rappresentazioni paterne e, ancora meno, quelli relativi alle rappresentazioni dei due genitori insieme. Si può citare la ricerca di Bürgin e Von Klitrig (1995) che mostra come le rappresentazioni triangolari dei genitori (padre e madre) durante la gravidanza siano predittive del posto che essi offriranno al bambino nelle interazioni triadiche a quattro mesi dopo la nascita. Altri studi hanno messo in luce l’influenza della relazione coniugale (Gottman, Katz, 1989; Cowan, Cowan, 1992) o l’impatto della coppia genitoriale - per distinguerla dalla coppia coniugale (Katz, Gottman, 1996; McHale, Cowan, 1996; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999) - sullo sviluppo del bambino. Questo concetto, chiamato co-genitorialità, è stato sottolineato anche dalla teoria di Minuchin (1974) e si riferisce alla qualità dell’accordo tra adulti nel loro ruolo di genitori (McHale, Cowan, 1996; Belsky, Kelly, 1994).
Anche se dai risultati delle ricerche emerge come la relazione coniugale abbia un impatto sulla qualità di parenting, in realtà non tutte le coppie con difficoltà coniugali agiscono il conflitto nel contesto della co-genitorialità o anche non tutte le coppie con difficoltà co-genitoriali hanno problemi a livello coniugale. Alcune ricerche hanno però dimostrato che il “calore familiare”, inteso come la manifestazione di affetto e tenerezza tra i genitori e verso il bambino, ha correlazioni forti con lo sviluppo socio-emotivo del bambino e con le successive interazioni con i pari (McHale, Cowan, 1996; McHale e coll., 1997; McHale, Fivaz-Depeursinge, 1999). Ritornando al periodo prenatale, un recente studio di McHale (McHale e coll., 2002) ha mostrato una forte associazione tra le aspettative prenatali dei genitori sul futuro processo familiare e il funzionamento co-genitoriale osservato nelle interazioni triadiche dopo la nascita.
Supponendo quindi che le co-parentage si fondi già durante la gravidanza, Carneiro e i suoi collaboratori (2006) hanno cercato il modo di predire da questo periodo la qualità dell’alleanza genitoriale una volta che il bambino è nato, utilizzando il paradigma dell’LTP (adattandolo per la situazione prenatale). Se l’alleanza familiare è già in formazione tra i genitori durante la gravidanza, si tratta allora di osservare la cooperazione, definita “alleanza prenatale co-genitoriale”, tra i futuri genitori a proposito del figlio che dovrà nascere. In questo caso ai futuri genitori viene chiesto di immaginare e simulare il loro primo incontro con il proprio bimbo, rappresentato da una bambola che ha il corpo di un neonato, ma senza un volto definito.
L’alleanza prenatale co-genitoriale è stata valutata dagli autori (Carneiro e coll., 2006) utilizzando cinque scale: a) la giocosità co-genitoriale, cioè la capacità da parte della coppia di creare uno spazio giocoso e di co-costruire un gioco; b) la struttura del gioco, cioè la capacità della coppia di strutturare i quattro momenti del gioco in base alla consegna; c) i comportamenti genitoriali intuitivi individuati dalla letteratura (Papousek, Papousek, 1987) nell’holding e orientamento “en face”, nella distanza di dialogo, nel baby-talk e/o nei sorrisi diretti al bambino, nello accarezzare e/o nel cullare, nell’esplorazione del corpo del bambino e, infine, nella preoccupazione per il benessere del bambino; d) la cooperazione di coppia, cioè il grado di cooperazione attiva tra i genitori durante il gioco, a livello comportamentale; e) il calore familiare, cioè il grado di affetto e umorismo condiviso dai partner durante il gioco.
È stato anche valutata la soddisfazione coniugale a livello prenatale utilizzando la Dyadic Adjustment Scale (DAS – Spanier, 1976) e l’alleanza familiare postnatale utilizzando l’LTP postnatale presentato in precedenza.
Dai risultati di questo importante studio è emersa una correlazione significativa tra il grado di coordinazione della coppia a livello prenatale e il livello di coordinazione familiare postnatale. In particolare, le dimensioni che sono risultate significativamente correlate con l’LTP postnatale sono state i “comportamenti intuitivi genitoriali” e il “calore familiare”, cioè quelle importanti nella coordinazione con il bambino reale. Tra l’altro il fatto che entrambi i genitori siano in grado di attivare i “comportamenti intuivi” prima della nascita, fa pensare rispetto all’idea diffusa del cosiddetto istinto materno. È vero che i padri che partecipano a questo tipo di ricerche sono poco rappresentativi dei padri in generale perché più motivati, ma è altrettanto vero che quando i padri si ritrovano nel ruolo di caregiver primario mostrano le competenze genitoriali necessarie (Palmeri, 1989). In linea con questa lettura, alcuni autori (Lamb, Oppenheim, 1989) sostengono l’idea che il motivo per cui le madri risultano più sensibili, in sintonia e capaci di adeguarsi maggiormente ai bisogni del loro bambino solo perché se ne occupano di più rispetto ai padri.
Inoltre, è emersa anche una correlazione significativa tra la soddisfazione coniugale e l’alleanza co-genitoriale prenatale, ma solo per i mariti. Wang e Crane (2001) hanno interpretato queste differenze in termini di ruolo che gli uomini hanno rispetto alle donne nella maggior parte delle culture: mentre le madri sono considerate le principali caretaker dei loro bambini, i padri hanno invece principalmente la responsabilità del sostegno economico della famiglia. Pertanto, secondo questi autori, le madri tendono ad impegnarsi di più nelle relazioni co-genitoriali e genitoriali, a dispetto della soddisfazione coniugale, mentre solo i padri con un’alta soddisfazione coniugale si impegnano di più anche in quella genitoriale. In questo studio (Carneiro e coll., 2006) è emerso che la soddisfazione coniugale misurata a livello prenatale è correlata con l’alleanza co-genitoriale prenatale; non si è però trovata la stessa relazione con l’alleanza familiare postnatale (anche se bisogna dire che non è stata misurata la soddisfazione coniugale a livello postnatale).
I risultati di questo studio hanno dimostrato la necessità quindi di sviluppare strumenti di assessment che indagano la famiglia anche a livello prenatale, in moda da poter essere in grado di rilevare le risorse e le vulnerabilità della famiglia prima dell’arrivo del primo figlio e, quindi, di poter intervenire in un’ottica di prevenzione. Lo strumento può essere utilizzato sia come procedura di valutazione clinica, sia come vero e proprio intervento terapeutico (Corboz-Warnery, Fivaz-Depeursinge, 2001; Fivaz-Depeursinge e coll., 2004).
Conclusioni
Come abbiamo visto, il progressivo affermarsi di un modello teorico e clinico di tipo relazionale ha posto la necessità di individuare nuovi strumenti di valutazione delle relazioni precoci tra genitori e bambino. Da un’analisi critica delle ricerche finora condotte sembra che il Lausanne Trilogue Play (LTP) risponda a questa esigenza in quanto è in grado di fornire una visione globale delle dinamiche familiari, mettendo in luce quali sono i limiti e le risorse del funzionamento relazionale. A partire da quello strumento è stato possibile costruire una metodologia di osservazione standardizzata del gioco a tre applicabile in vari contesti di intercento clinico (LTPc – Lausanne Trilogue Play clinico; Malagoli Togliatti, Mazzoni, 2006). Attraverso l’LTPc è possibile valutare sia la corrispondenza tra l’emergenza soggettiva psicopatologica del figlio e la disfunzionalità familiare, sia la corrispondenza tra la gravità della disfunzionalità familiare e i diversi tipi di intervento terapeutico (Mazzoni e coll., 2006). L’LTPc è stato utilizzato anche nell’ambito della tutela del minore, nelle separazioni conflittuali, come strumento in grado di rilevare i diversi livelli di problematicità della famiglia e, pertanto, poter individuare gli interventi più efficaci (Malagoli Togliatti, Lubrano Lavadera, 2006). Per una rassegna di tutte queste applicazioni si veda Malagoli Togliatti, Mazzoni (2006).
Dalla rassegna di studi presentata in questa occasione, siamo convinti che il Lausanne Trilogue Play possa essere considerato un valido strumento di assessment perinatale in grado di individuare già nel periodo della gravidanza, e quindi intervenire a livello preventivo, quelle famiglie più a rischio, che possono risultare non adeguate, se non addirittura dannose, per lo sviluppo fisico, psichico e psicosomatico del bambino. Inoltre, la possibilità di poter applicare lo strumento anche nel periodo postnatale permette agli operatori dell’area perinatale di seguire i cambiamenti all’interno del sistema familiare stesso, valutare quale tipo di interventi a sostegno della genitorialità è il più adatto e verificarne l’efficacia.
Riferimenti bibliografici
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L’intersoggettività primaria, riconosciuta solo da alcuni autori (Meltzoff, Moore, 1995), caratterizzerebbe già le prime interazioni precoci e consisterebbe in una capacità (innata) a condividere le sensazioni e gli stati mentali altrui. Gli autori basano i loro presupposti su quegli esperimenti da cui si evince la capacità dei neonati di imitare e usare manifestazioni non verbali in una sorta di “proto-conversazioni”, dimostrando la capacità di variare tempi e intensità della comunicazione insieme ai loro partner e una sensibilità alle capacità materne di rispecchiare i loro affetti. L’intersoggettività secondaria emergerebbe, invece, tra i 9 mesi e la fine del primo anno di vita del neonato e implicherebbe la capacità di condividere con altri attenzione e intenzioni, e quindi la capacità di istituire una comunicazione referenziale (Bretherton, 1992; Tomasello, 1995).
Il concetto di triangolazione viene utilizzato sia nella teoria psicodinamica che nella teoria dei sistemi familiari: nella prima il termine fa riferimento all’esperienza edipica soggettiva del bambino di esclusione dalla relazione dei genitori; nella seconda fa riferimento al processo problematico in cui un bambino viene preso nella relazione conflittuale dei suoi genitori al fine di deviarne la tensione.
Termine con cui veniva indicata la triangolazione sul piano comportamentale.
La funzione di holding (Winnicott, 1989) viene definita come quella capacità del genitore di sostenere e contenere mentalmente e fisicamente i bisogni del bambino, dando loro un’interpretazione e una risposta adeguata.