PSYCHOMEDIA
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MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA
Modelli e Tecniche in Psichiatria
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Normalità, salute e malattia. Concetti generali
di Nicola Lalli e Agostino Manzi
Tratto dal Capitolo 6 del "Manuale di Psichiatria e Psicoterapia"
(Nicola Lalli - Liguori ed., 1999 - L. 115.000)
Provate a chiedere ad un uomo molto ignorante come funzioni la luce elettrica, ed egli troverà che gli avete chiesto una cosa ridicola. Vi risponderà: "Non avete che da girar la chiavetta". L'elettricista pratico vi darebbe una spiegazione alquanto più tecnica , parlandovi di correnti, di resistenze, di conduttività. Ma un fisico, che fosse anche un po' filosofo, vi confesserebbe modestamente la propria ignoranza. "I fenomeni elettrici" direbbe egli "possono essere descritti e classificati: ma quanto a dire cosa l'elettricità sia..." e alzerebbe le braccia al cielo. Quanto meglio comprendiamo una domanda, tanto più è difficile rispondervi
Aldous Huxley
1. considerazioni generali
La salute è una condizione di cui si ha un'esperienza quasi inconsapevole: sembra coincidere con il fluire stesso della vita. La malattia, come agente che interferisce con questo fluire, sembra svelarla come condizione perduta.
Proprio per questa ragione dare una definizione di salute non risulta semplice.
Ci si può accontentare di dire, seguendo il senso comune, che la salute è la condizione di assenza di malattia: malattia che si disvela nel negare la salute.
In campo psichico, allora, la salute mentale dovrebbe corrispondere all'assenza di sofferenza e di comportamenti anomali. Sappiamo però che questo non basta: ad esempio lo psicopatico, il maniacale non grave possono non lamentare alcun malessere, avere un comportamento non dissimile da quello degli altri e non per questo possono essere considerati soggetti normali: la loro anormalità risulterebbe evidente ad un attento esame psicologico o psichiatrico.
Ma introducendo il termine di anormalità e l'idea di confronto stiamo in realtà cambiando la domanda: non più cos'è la salute, ma cos'è la normalità.
Si tratta, a questo punto, di stabilire dei parametri di riferimento e verificarne il rispetto: il criterio di fondo con il quale sceglieremo i parametri stabilirà quale normalità stiamo cercando (vedremo più avanti che possiamo considerare più tipi di normalità o, meglio, di norma). Ma definire cos'è la normalità non coincide con il dire cos'è la salute, proprio perché la necessità di stabilire dei parametri ci allontana dalla possibilità di avere un approccio concettuale.
I criteri di normalità sono utili ai fini operativi della clinica: è inevitabile avere una precisa idea di normalità quando si prospetta un lavoro terapeutico.
Ma c'è anche un aspetto "filosofico" della questione che per sua natura è destinato a non avere una risposta esauriente e data una volta per sempre: non per questo non si deve provare ad affrontarlo ed è quanto faremo più avanti, presentando i punti di vista di alcuni filosofi che si sono interessati al problema.
2. la salute mentale come acquisizione moderna
La medicina moderna orienta sempre più i suoi sforzi verso un'azione che non sia soltanto curativa, ma anche preventiva delle malattie. La disponibilità di sempre più adeguate tecniche diagnostiche e di strumenti di prevenzione e di cura hanno indirizzato l'attenzione verso la salvaguardia del singolo, affinché ci si possa avvicinare a quello "stato di completo benessere fisico, psichico e sociale" che l'OMS ha stabilito come obiettivo da perseguire per ogni individuo.
Ma in campo psichiatrico, molto spesso, la cura e la difesa della salute mentale sono state interpretate come necessità di mantenimento dell'ordine sociale: concetto, quindi, più legato al benessere della società che a quello del singolo individuo.
La psichiatria spesso si è quindi offerta come braccio secolare del potere, condizione che, se (come vedremo) da una parte sembra essere retaggio della sua stessa istituzione, dall'altra si dimostra essere, con la sua riproposizione anche in epoca moderna, in particolari condizioni di coercizione politica e sociale (come nell'ex URSS), un rischio sempre immanente alla psichiatria, soprattutto quando questa non si dà un preciso statuto teorico e scientifico.
In origine il malato di mente, come il malato di colera o di peste, sembra minare la salute complessiva della società e a partire da questo se ne reclama l'allontanamento, l'internamento: la salute è una questione che non riguarda l'individuo ma la comunità nel suo insieme; l'individuo, come parte malata, va allontanato nella salvaguardia del benessere generale.
Il folle ha, però, da sempre suscitato l'interesse di chi si è occupato dell'uomo, sia in veste di medico che di filosofo.
Ippocrate nel V secolo a.C. considerava la follia una malattia del cervello, contrariamente alla comune credenza che il folle non fosse altro che un indemoniato. Già Ippocrate, quindi, poneva le basi del dibattito che si svilupperà nei secoli successivi sull'origine esogena od endogena della malattia mentale. Insieme a medici romani di età posteriori (Asclepiade, prima, e Galeno poi) inaugurava quello spirito di conoscenza e di interesse verso la sfera del mentale che, dopo la lunga eclissi che va dall'inizio del medioevo al XVIII secolo, caratterizzerà la medicina moderna.
Con il diffondersi del Cristianesimo, sanità e malattia mentale torneranno ad essere condizioni di scarso interesse medico e di competenza più strettamente teologica. La follia ritornerà ad essere la manifestazione di entità malefiche che hanno preso possesso dell'individuo: la cura, volta a liberare l'individuo dal demonio, prenderà la forma delle più crudeli torture e delle condanne a morte, possibilmente condotte dopo la confessione salvifica, da parte degli "indemoniati", di colpe e misfatti di cui erano ritenuti artefici. In questo lungo periodo il ruolo del folle sembra coincidere con quello del capro espiatorio: l'impotenza dell'uomo di fronte alla minaccia alla propria sopravvivenza dovuta alle continue epidemie che ciclicamente devastano l'Europa, in un contesto culturale in cui si enfatizzano idee quali quelle di colpa, peccato e punizione divina, facilita questa identificazione.
Solo nel XVI secolo un medico, Johann Weyer, si batte per riconoscere alla follia lo statuto di malattia mentale, proponendo di distinguere i malati dagli indemoniati.
Nel Settecento l'istituzione psichiatrica trova la sua dimensione nell'istituto manicomiale: ai medici non era demandato altro compito se non quello di preservare l'isolamento del malato stesso. Malgrado l'esistenza di ricoveri specializzati nell'assistenza di categorie precise di emarginati, l'assegnazione all'una o all'altra di queste strutture era basata su criteri poco chiari, spesso casuali, per cui l'indigente, il mendicante, il malato mentale erano confusi in un comune destino di segregazione o di assistenza generica che aveva luogo nei dormitori, nelle case dei poveri ecc. Con la creazione dei primi istituti riservati ai malati mentali si inizia a porre il problema, ancora attuale, della distinzione delle malattie dalle situazioni di devianza sociale e, conseguentemente, della demarcazione dei limiti di imputabilità del malato mentale.
È da notare che il poter distinguere un comportamento di semplice devianza sociale (con le difficoltà di delimitare questo ambito) da uno conseguente alla presenza di un disturbo mentale, significa dover decidere per la responsabilità e la punibilità dell'uno e la non responsabilità e non imputabilità dell'altro. In questo senso la scelta dell'internamento demandava alla volontà del medico il prendersi cura o meno di chi veniva ritenuto malato.
Tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento prevale l'idea che il disturbo mentale sia dovuto a una perversione o a un deficit della volontà; anche questo concetto tende, però, a unificare ogni forma di devianza sociale (anche il ladro, il mendicante possono essere interpretati come individui di poca o perversa volontà). Alle terapie mediche tradizionali (purghe, salassi, riposo coercitivo ecc.) si affiancano i trattamenti rieducativi, basati sulla restrizione della libertà attraverso l'imposizione di compiti gravosi da eseguire secondo orari e modalità rigidi. Lo scopo è quello di disciplinare la volontà degli individui per poterne modellare il comportamento; la visione di salute mentale che emerge è quella espressa da un individuo in grado di controllare a pieno la propria volontà per asservirla ai codici di comportamento vigenti.
Le voci più liberali, Chiarugi e Pinel ad esempio, contestano la validità di questo tipo di trattamenti; Pinel, in particolare, pone la sofferenza del malato al centro dell'attenzione e auspica un impegno da parte dei medici perché trovino il modo di restituirgli la ragione. Anche per questi autori, comunque, la salute della società sembra dover essere lo scopo principale da perseguire: se la paura che annichilisce la mente va bandita, Samuel Tuke asserisce che "non ci può essere dubbio sul fatto che il principio della paura nella mente umana, quando sia suscitata moderatamente e giudiziosamente, come avviene mediante l'applicazione di leggi giuste ed egualitarie, ha un effetto salutare sulla società" (Description of the Retreat, 1813).
Con la seconda metà dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si acuisce lo sforzo di andare oltre l'aspetto fenomenico della malattia mentale per tentarne una conoscenza causale. Due le linee di interpretazione:
- quella che riconosce la malattia come conseguente ad un danno neurologico;
- quella che riconosce nella sofferenza psichica il risultato di deficit relazionali, di vissuti traumatici ecc.
Il primo orientamento trova la sua validazione nella scoperta dell'origine infettiva della paralisi generale, entità clinica riconosciuta nel 1798. L'origine sifilitica di un preciso quadro di disturbo psichico ha spinto verso la ricerca di analoghe noxae capaci di spiegare le altre manifestazioni patologiche che oggi, più correttamente, ascriveremmo alla nosografia neurologica.
Emil Kraepelin è l'esponente di spicco di questo approccio; nel suo trattato vi è lo sforzo di classificare i malati di mente all'interno di sintomi organizzati per sindromi il più possibile omogenee; lo scopo è quello di facilitare l'eventuale scoperta degli agenti eziologici all'origine delle varie patologie. È di Kraepelin la unificazione, come dementia praecox, di una serie di quadri clinici che si caratterizzavano per il precoce, progressivo e irreversibile deterioramento delle facoltà mentali.
Un orientamento molto diverso, precorritore di quello psicodinamico, ha radici nell'opera di Anton Mesmer che teorizza la possibiltà di interferire sull'andamento dei disturbi mentali attraverso la relazione interindividuale: l'energia in grado di operare in questo contesto viene individuata nel " magnetismo animale". A partire dal magnetismo e attraverso le esperienze dell'ipnosi si fa strada l'idea dell' esistenza di una dimensione inconscia della malattia mentale la quale, se opportunamente indagata, può aprire la strada a nuove modalità terapeutiche.
Su questa traccia si muovono autori diversi: Charcot, Bernheim, Janet, Freud, Jung. La conseguenza più importante è che, di pari passo alla tendenza sempre più interpretativa della malattia mentale, se ne propone una visione etiologica di per sé psicologica. Ecco allora che il problema salute-malattia assume, nella sfera del mentale, un significato diverso da quello che ha nelle altre specialità mediche, venendo a convergere elementi di natura molto diversa: biologici, sociali, esistenziali.
Al di là delle differenze e delle conseguenze terapeutiche che ne derivano, il dato da rilevare è che finalmente l'individuo viene posto al centro dell'interesse; soprattutto sul versante psicoanalitico il problema viene affrontato in una chiave interpretativa che separa l'idea di malattia da quella di colpa (e quindi quella di terapia da quella di espiazione-reclusione). A partire da questo momento si è andato sempre più affermando il concetto della salute mentale come condizione da salvaguardare e da recuperare: la malattia non come destino da accettare, ma come contingenza da superare.
3. norma, normalità, salute, malattia: problemi metodologici
I concetti di normalità, salute e malattia erano troppo importanti perché rimanessero dominio esclusivo della medicina, da una parte, e della psichiatria, dall'altra.
Naturalmente molti studiosi di discipline diverse, come vedremo, si sono occupati e hanno tentato di risolvere queste problematiche con le loro specifiche metodologie: filosofica, sociologica ecc.
Comunque, mentre la medicina, nell'affrontare il problema salute-malattia, ha potuto usufruire di parametri misurabili e relativamente stabili, la psichiatria si è trovata di fronte a una serie di variabili non solo non misurabili, ma anche non sempre confrontabili tra di loro. A fronte di questo problema sono state scelte tre metodologie diverse:
- la prima estremamente riduttiva: è il metodo clinico che equipara la normalità psichica con quella statistica;
- la seconda di eccessiva apertura ad ogni disciplina (in primis la filosofia) con il risultato di frantumare e rendere ambigui i concetti di malattia e di normalità;
- la terza è quella che noi riteniamo essere la più valida: fermo restando che il concetto di normalità-malattia è finalizzato ad una terapia-prevenzione, è evidente che questa finalità se da una parte delimita l'oggetto del discorso, dall'altra gli conferisce un percorso preciso.
Il concetti di salute, benessere, normalità sono spesso confusi tra di loro creando una confusione semantica. Dobbiamo quindi delimitarli in maniera più precisa.
Il concetto di salute è strettamente legato al concetto di funzionalità-potenzialità: è possibile darne, quindi, una definizione.
Il concetto di benessere è legato ad un vissuto totalmente soggettivo, quindi non definibile in maniera oggettiva.
La normalità attiene invece ad un concetto di valore e di conseguenza esprime la conformità o meno alla struttura culturale e sociale.
Questi tre concetti rimandano a discipline diverse come la medicina (salute), la filosofia (benessere), l'antropologia culturale e la sociologia (normalità).
3.1 L'approccio concettuale.
Vediamo ora come alcuni autori hanno affrontato le questioni di cui stiamo parlando; lo sforzo è quello di arrivare a definire la salute e la malattia in termini concettuali.
Giorgio Prodi affronta il problema salute/malattia in maniera ampia ponendosi, a suo avviso, nel campo dell'oggettività. Il campo dell'oggettività viene definito il "dominio naturale-culturale da indagare con i metodi dell'osservazione scientifica"; restano fuori da questa tipo di indagine gli approcci che negano la necessità, o la possibilità, di parametri e di riferimenti oggettivi.
Dato un dominio di oggetti ed eventi osservabili, la norma è data dall'oggetto ideale che lo rappresenta nei suoi parametri medi; questo oggetto è allo stesso tempo statistico e ideale in quanto non coinciderà con nessuno degli oggetti reali appartenenti al dominio ma ne assumerà le caratteristiche medie. Questa operazione consegue alla possibilità, aprioristica, di saper individuare correttamente il dominio e discriminare gli oggetti dell'insieme. Secondariamente è necessario riconoscere quali sono i valori che i singoli parametri possono assumere per ogni oggetto del dominio.
In quanto esistenti, tutti i valori potrebbero essere giudicati normali: la scelta del range dei valori per i singoli parametri può però essere valutata in funzione delle conseguenze o degli effetti che essi producono. Quindi è necessario:
- stabilire i riferimenti oggettivi per gli oggetti su cui determinare i parametri;
- stabilire i limiti accettabili di variabilità dei parametri in analisi.
Nel nostro caso, per il primo punto si può dire che la discriminante è l'appartenenza alla specie umana (un criterio filogenetico) ed, eventualmente, a particolari tipologie (ad es.: maschi e femmine).
Per il secondo punto, i valori normali dei parametri in esame devono essere considerati quelli per i quali "le strutture e le funzioni possono essere attive nel senso della loro determinazione filogenetica, consentendo la vita".
La normalità è ciò che esiste, sia che lo si individui nella specie che nella singola copia: vita è un'espressione tautologica per norma.
La normalità non è quindi rappresentabile come una curva gaussiana in cui è necessario decidere, con una certa arbitrarietà, la larghezza della base (o la distanza, a destra e sinistra dal valore centrale) ma come un valore soglia che stabilisce la possibilità dell'esistenza. La norma e la normalità coincidono con la determinazione filogenetica.
Se un individuo è un insieme di correlati strutturali e funzionali, la salute è il risultato vitale di questo insieme. Ogni funzione che si altera compromettendo l'esistenza è una deviazione verso la malattia: se la malattia è compatibile con la vita, la norma è elusa in modo compatibile.
La deviazione dalla norma può avvenire a tre livelli:
- filogenetico: ciò sul codice genetico che determina le caratteristiche di strutture e funzioni;
- ontogenetico: cioè sulla formazione delle strutture (sviluppo embrionale e post-embrionale);
- fenotipico-ambientale: cioè sulla funzionalità complessiva delle strutture formate.
La divisione implica una compenetrazione: l'aspetto fenotipico è comune a tutte e tre le condizioni così come la noxa ambientale è quasi sempre alla base di ogni danno.
Anche la condizione di salute/malattia mentale si decide ad uno di questi livelli. Negando la contrapposizione tra struttura e funzione, l'autore riconosce che se è vero che la prima è il substrato necessaria alla seconda, è anche vero che la seconda è in grado di indurre lo sviluppo della prima: è l'attività, cioè la messa in funzione delle strutture a determinare, anche nell'arco dell'intera esistenza, la loro configurazione più funzionale.
L'autore prende in considerazione come esempio di attività complessa la competenza linguistica; perché un individuo sia in grado di acquisirla sono necessari:
- l'integrità del codice genetico atto a codificare lo sviluppo delle strutture preposte al linguaggio;
- il normale sviluppo embrionale e post-embrionale delle strutture stesse;
- il mantenimento nel tempo della loro integrità.
Ma tutto ciò non basta. Soltanto la interazione tra strutture integre (fattore individuale genetico) e un codice linguistico (fattore ambientale-strutturato) rende possibile l'acquisizione della competenza linguistica, che in ultima analisi è una competenza relazionale. Il fattore ambientale-strutturato comprende non solo i codici linguistici, ma anche le modalità di relazione e gli stimoli che sono presenti nell'ambiente. Il linguaggio è competenza nell'uso di un codice ma anche contenuto della comunicazione, fine, motivazione, affettività. Se il codice è prodotto da una specifica cultura in un tempo e in un luogo determinati, la competenza linguistica di ogni individuo si pone proprio come conseguenza di questo codice. L'assenza del codice determinerebbe l'atrofia, cioè il non sviluppo, di questa competenza.
Conseguenza di quanto detto è la negazione di una visione unitaria della malattia in uno schema o tutto organico o tutto funzionale.
Per riassumere, vediamo qual è la definizione dello stato di salute proposto dall'autore:
"La salute è definita come uno stato ottimale corrispondente a funzioni filogeneticamente stabilite che nell'uomo comprendono anche funzioni logiche, affettive, relazionali e implicano sistemi interpersonali e strutture sociali. La condizione piena di questa efficienza filogenetica potrebbe essere chiamata "benessere". In tale definizione non è compreso alcun contenuto positivo, che riguardi cioè quanto venga realizzato attraverso l'efficienza ottimale (ad esempio nel lavoro o nel gioco). Tale contenuto varia col variare delle condizioni e delle fasi della cultura, e certo non può essere tipizzato in modo definitivo, e comunque non dalla medicina. Se però esso è costretto alla sclerosi ed è mantenuto invariato nel tempo, può costituire motivo di patologia, perché la struttura del singolo deve adattarsi continuamente a contenuti superati. Ciò che effettivamente si realizza non deve essere indifferente o, almeno non deve essere contraddittorio con l'efficienza e lo stato di salute che permettono la realizzazione".
Un altro autore, Christopher Boorse, si propone di trovare una definizione di salute che sia in grado di superare quelli che riconosce come i relativismi e i limiti delle accezioni comuni a questa parola. Individua sette condizioni che vengono comunemente utilizzate per descrivere lo stato di salute o, al contrario, di malattia e ne rileva l'inadeguatezza:
- la salute come valore: cioè come condizione desiderabile. Se il benessere esprime questa condizione, molte situazioni di assenza di benessere non rientrano nella lista delle malattie, così come molte malattie sono desiderabili in alcune condizioni (ad es.: la miopia per l'esonero dal servizio militare);
- la malattia come ciò che comporta trattamento medico: è una discriminante né necessaria (molte malattie non si avvalgono del trattamento), né sufficiente;
- la salute come norma statistica: per le considerazioni su questo punto si rimanda al paragrafo "Norma e normalità";
- la malattia come disagio e sofferenza: la salute, di contro, come assenza di queste condizioni. In realtà così come molte malattie anche gravi decorrono a lungo senza sintomi, molte situazioni fisiologiche comportano un certo grado di sofferenza (il parto, le mestruazioni, ecc.);
- malattia come disabilità: è una definizione che non tiene conto delle forti discrepanze presenti tra gli individui rispetto ad alcune "abilità", legate, ad esempio, alla prontezza di riflessi, all'equilibrio, ecc.
- salute come adattamento all'ambiente: presuppone una dipendenza dall'ambiente e la necessità di essere ambiente-specifici cioè di non poter vivere in condizioni diverse;
- salute come omeostasi: nasce dall'idea di C. Bernard dell'equilibrio del "mezzo interno". Molte funzioni non sono però omeostatiche (la percezione, la locomozione, la crescita) ed è quindi, anche questo, un criterio non onnicomprensivo.
L'autore propone una definizione di salute come assenza di malattia. Individuata la classe di riferimento (cioè un gruppo di età, di appartenenza di sesso, di una stessa specie) i cui individui sono accomunati da uno stesso disegno funzionale (cioè attività necessarie alla sopravvivenza del singolo e alla sua riproduzione), la malattia viene definita come un particolare stato interno che rappresenta un indebolimento della normale abilità funzionale, cioè una riduzione di una o più abilità funzionali al di sotto dell'efficienza tipica, o una limitazione della stessa in seguito all'azione di un agente esterno.
Secondo l'autore questo approccio è in grado di risolvere la maggior parte dei limiti che si presentano con altre modalità di impostazione del problema:
- risolve la discrepanza tra giudizio di malattia e salute come condizione desiderabile perché rimanda al disegno della specie: l'emofilia è una malattia mentre non lo è l'incapacità di rigenerare il tessuto nervoso;
- risolve il problema della definizione dei limiti delle variabili continue: posso definire malattia sia l'ipertiroidismo che l'ipotiroidismo ma non l'incapacità di vedere al buio (dovrei includere i gatti nella specie umana!).
L'autore propone anche una definizione in positivo della salute; tre i livelli possibili:
- il livello individuale-potenziale: è la salute come ideale sviluppo delle potenzialità individuali. Se utilizziamo come esempio la capacità delle performance atletiche, possiamo dire che la salute corrisponderebbe al potenziamento della forza, della coordinazione, della resistenza, senza necessariamente raggiungere il livello dei campioni olimpionici;
- il livello specie-potenziale: è sottintesa l'esistenza di una condizione assoluta di salute; per restare all'esempio delle performance atletiche, possiamo dire che gli atleti olimpionici rappresentano il limite di specie del benessere fisico/atletico;
- il livello illimitato: ogni miglioramento di funzioni, anche oltre i limiti della propria specie, va nella direzione di un miglioramento dello stato di salute.
In nessuno dei tre casi è individuabile un limite di espressione dello stato di salute (la salute come utopia individuale, di specie o assoluta). Inoltre non risulta possibile individuare quale sia la direzione salutare dello sviluppo delle potenzialità; spesso l'incremento di una funzione ne decrementa un'altra: per restare all'esempio, è impensabile che un buon scattista sia contemporaneamente un valido lanciatore di pesi.
Interessante è l'approccio ermeneutico di Gadamer, che ascrive il problema della definizione della salute a un discorso più ampio che riguarda la riflessione dell'uomo sulla propria condizione e sul ruolo e sui limiti della scienza in questa discussione.
La salute rimanda all'idea di unità, a una visione globale dell'uomo: in questo senso la scienza medica, che sul filone della scienza moderna ha disgregato lo scibile in una molteplicità di specializzazioni atte allo studio e alla cura delle malattie, sembra inadeguata ad affrontare la questione della salute.
La salute, quindi, sembra nascondersi: "non è possibile misurare la salute proprio perché essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi, che non può essere superato da nessun altro tipo di controllo".
Ogni tentativo di misura e ogni proposta di standardizzazione di valori atti a quantificare il benessere assumono il significato di un travisamento dell'idea stessa di salute in quanto, essendo il risultato di convenzioni, si allontanano dall'essenza stessa della natura.
Si deve, allora, pensare alla salute in un ottica diversa: la salute come condizione inconsapevole che nell'atto stesso di perderla (come avviene per l'equilibrio) testimonia la sua inscindibile presenza nella nostra condizione (naturale) di uomini. È il "ritmo della vita, un processo incessante in cui l'equilibrio si ristabilisce sempre".
Ma, allora, se non è possibile misurarla, si può provare a descriverla così come la percepiamo:" come una specie di senso di benessere e ancora di più quando, in presenza di tale sensazione, siamo intraprendenti, aperti alla conoscenza, dimentichi di noi e quasi non avvertiamo gli strapazzi e gli sforzi": quindi la salute non come un semplice " sentirsi bene", ma come un "esserci , un essere nel mondo, un essere insieme agli altri uomini ed essere occupati attivamente e gioiosamente dai compiti particolari della vita"
Come abbiamo visto il pensiero dei filosofi, pur interessante e costruttivo, non fornisce circa il problema della salute dati o parametri utilizzabili. Sicuramente il merito dei filosofi è di aver evidenziato il rischio che ogni qualvolta si cerca di delimitare il concetto di salute si rischia di diluirlo o di spegnerne l'intensità di significato.
I filosofi sottolineano come il concetto di salute e i metodi di quantificazione siano difficilmente integrabili.
Comunque è necessario, pur tenendo presenti i limiti sopra esposti, cercare di definire alcuni parametri che ci diano la possibilità, se non di quantificare, per lo meno di delimitare i concetti di salute e malattia.
3.2 Parametri utilizzabili
Quando ci troviamo ad affrontare un problema diagnostico in campo psicopatologico, dobbiamo utilizzare tre parametri: il comportamento, il vissuto soggettivo, il mondo interno.
3.2.1 Il comportamento
È la modalità complessiva sia verbale che non verbale attraverso cui ognuno di noi non solo si manifesta all'altro, ma indica qual è il grado di accettazione-conformismo nei confronti delle regole sociali vigenti.
L'analisi di un comportamento ci dà informazioni poco utili, se non fuorvianti, sulla condizione di normalità o patologia di un individuo. È necessario tener conto del contesto in cui tale comportamento ha luogo. Riportiamo un episodio riferito da K. Lorenz a dimostrazione di quanto sia importante quanto detto.
Racconta Lorenz che, dopo molti sforzi, era riuscito a farsi adottare come madre, da un gruppo di anatroccoli che lo seguivano dappertutto. Un giorno egli girava carponi tra l'erba del suo giardino e, guardandosi indietro, ripeteva frequentemente "qua, qua, qua..." per indurre gli anatroccoli a seguirlo: "...ero molto compiaciuto dei piccoli che obbedienti e precisi seguivano il mio "qua, qua" quando, ad un certo momento, alzai gli occhi e vidi una fila di volti allibiti affacciati sopra la siepe del giardino: un'intera comitiva di turisti mi guardava stupefatto.
L'erba alta nascondeva gli anatroccoli e quello che vedevano i turisti era qualcosa di inspiegabile, un comportamento veramente folle."
Questo episodio testimonia in maniera divertente quali errori di valutazione si possono commettere con un'osservazione di un comportamento, che non tenga conto del contesto.
Più drammatico, ma sicuramente più suggestivo, è il commento di Laing a una descrizione fatta da E. Kraepelin a proposito di una paziente:
"Signori...potete vedere una servetta di ventiquattr'anni nelle cui fattezze e sul cui volto sono chiaramente visibili i segni di un grave deperimento. Nonostante ciò la paziente è in movimento continuo, dato che va sempre avanti ed indietro di pochi passi , si fa la treccia ai capelli per poi scioglierli un minuto dopo. Se cerchiamo di arrestare il suo movimento incontriamo una resistenza inaspettatamente energica: se mi piazzo davanti a lei con le braccia per fermarla, se non riesce a spingermi da una parte, si gira all'improvviso e mi sfugge come per continuare per la sua strada. Se la si afferra saldamente, ella storce i suoi lineamenti per il solito rigidi ed inespressivi, piangendo deplorevolmente....Notiamo che ella tiene spasmodicamente stretto tra le dita della mano sinistra un pezzo di pane sbriciolato che assolutamente non permette che le venga strappato...".
Ascoltiamo il commento di Laing :"Siamo qui in presenza di un uomo e di una ragazza. Se vediamo la situazione unicamente in base al punto di vista di Kraepelin, tutto va subito a posto: lui è sano, lei è malata, lui è razionale, lei è irrazionale. Ciò comporta che si considerino le azioni della paziente come avulse dall'esperienza che ella ha della situazione.
Ma se esaminiamo le azioni di Kraepelin separate dal contesto della situazione quale egli la esperimenta e descrive...lo psichiatra, nelle vesti di quello che è ipso facto sano di mente, dimostra come il paziente non sia in contatto con lui: il fatto che egli non sia in contatto con il paziente può solo dimostrare che c'è qualcosa che non va nel paziente, ma non mai che ci sia qualcosa che non va nello psichiatra..."
3.2.2 Il vissuto soggettivo
Per vissuto soggettivo ci riferiamo a quel metodo di osservazione che non tende a spiegare, ma a comprendere l'altro nella sua diversità e soprattutto a non oggettivarlo in una serie di sintomi e di comportamenti.
In questo senso possiamo affermare che è sicuramente la fenomenologia la disciplina che più si è impegnata in questo problema e che riconosce in K. Jaspers, L. Binswanger, E. Minkowski i principali autori.
Anche R.D. Laing, del quale abbiamo citato la critica a E. Kraepelin, appartiene a questo filone.
In questa visione il concetto normalità-patologia, non è basato sui dati comportamentali, ma sullo studio dei vissuti, delle esperienze e delle modalità di esistere del paziente.
"L'attribuire valore determinante ai vissuti e alle esperienze significative, che sottendono i comportamenti vuol dire non limitarsi ad un semplice esame esterno del paziente, ma cercare di penetrare il suo mondo mediante quello sforzo di rivivere le esperienze del paziente, modalità che prende il nome di "comprensione per immedesimazione" o Einfühlung. Così facendo si giunge ben presto ad un limite in ambito psicopatologico, ad un muro contro il quale si spunta l'arma dell'Einfühlung: si tratta di quel limite che separa i vissuti comprensibili da quelli incomprensibili, tipici delle psicosi endogene" (M. Rossi Monti, pag. 136).
Questa formulazione comprensibile-incomprensibile dovuta a K. Jaspers avrà enormi conseguenze sulla psicopatologia soprattutto in ordine alla genesi della patologia. Se da una parte fornisce un metodo di distinzione tra processi comprensibili (psiconevrosi, reazioni psicogene ecc.) ed incomprensibili (psicosi endogene), dall'altra identificando l'incomprensibilità con un processo organico, rafforzerà la concezione dell'origine biologica delle psicosi.
L. Binswanger invece non sarà interessato nella sua Daseinsanalyse (antropoanalisi o analisi esistenziale) a definire le modalità della patologia, e quindi a formulare giudizi di sanità o di anormalità, ma si preoccuperà di indagare e svelare il mondo, anzi i diversi mondi, del malato mentale.
Ogni mondo umano è una possibilità di esistere e di esprimersi, ed anche la patologia mentale è un modo particolare di esprimersi ed essere al mondo.
Questa posizione ovviamente rinuncia a qualsiasi giudizio di tipo clinico, limitandosi a descrivere, a volte in modo molto minuzioso, la modalità di essere del malato mentale.
Il limite di questa posizione è la rinuncia alla terapia. Comunque non si può rinunciare a dare una serialità, un ordine a questi diversi modi di esistere che possono articolarsi in un ordine decrescente di libertà. Al poter-essere come modalità dell'individuo normale che esprime liberamente le sue potenzialità dell'essere al mondo e dell'essere con gli altri, si contrappongono due modalità ove questa potenzialità è fortemente limitata.
Dall'avere-il-permesso-di-essere a quella molto più limitante e coartante dell'essere-costretto-ad-essere. "Detto altrimenti, possono essere ordinati a seconda: del poter-essere (posso liberamente essere, sottratto al massimo degli altrui condizionamenti); del aver-il-permesso-di-essere (posso essere me stesso, ma solo nel ruolo che mi è concesso), dell'essere-costretto-ad-essere (non posso essere se non nel segno di un'altrui imposizione). (D. Cagnello - Alterità e Alienità pag 30).
Sempre su questa linea E. Minkowski giunge a ritenere che nella patologia mentale grave, c'è una differenza di natura che rivela una particolare forma di vita che si svolge secondo un "essere altrimenti".
L'antropoanalisi accanto ad una ricchezza di dati e di osservazioni sulle particolari modalità di essere delle varie patologie, pone anche un limite che è quello di non proporre, dopo l'accurata descrizione, una qualsiasi forma di cambiamento (terapia) di questo modo di essere.
Affascina sul piano descrittivo, rimane molto deludente su quello operativo.
Molte di queste proposizioni hanno trovato poi una seducente esposizione nelle opere di J.P. Sartre.
Riteniamo che gli autori citati debbano essere letti e conosciuti sia per la ricca descrizione dei vissuti interiori di ogni singolo soggetto, ma anche per il limite preciso di non proporre alcuna terapia.
3.2.3 Il mondo interno
Corrisponde a quello che noi comunemente definiamo struttura o apparato psichico. È evidente che parte di questo mondo psichico si esprime attraverso il comportamento e attraverso la soggettività, ma non totalmente. Postulare l'esistenza di un mondo interno vuol dire postulare una dimensione inconscia dell'uomo che può trovare espressione con diverse modalità, come ad esempio l'attività onirica.
È evidente che parlare di un mondo interno, in assoluto (in maniera isolata) è un'aporia. Il mondo interno si evidenzia solo nell'ambito di un rapporto duale dove lo psicoterapeuta è in grado, sulla base di una sua sensibilità e di una specificità acquisita, di enucleare aspetti patologici altrimenti non coglibili.
In quest'ottica a noi sembra che il modello medico è quello che può darci una metodologia più corretta in ordine all'osservazione globale del paziente. Riteniamo, però che il modello medico va superato ed integrato con le discipline che attengono alla soggettività e al mondo interno.
3.3 La follia della normalità
Molti autori, in modo solo apparentemente provocatorio, hanno proposto che sia proprio l'adattamento alle norme vigenti ad essere segno di follia e non viceversa. Così facendo hanno ovviamente proposto che sia la società ad essere "anormale" nel suo complesso, e pertanto la patologia è da ascriversi ai meccanismi di relazione sociale che sono di per sé patologici e patogeni.
Questa posizione ha origini antiche. Già G.F. Hegel aveva parlato di alienazione nel senso che essa è presente "...ogni volta che io non mi pongo come soggetto del mio agire, come soggetto che genera e prova sentimenti, ma mi alieno nell'oggetto che produco".
Successivamente L. Feuerbach aveva applicato il concetto di alienazione alla religione, constatando che l'uomo "diventa tanto più povero, quanto più si arricchisce Dio". K. Marx porterà ad una estrema chiarificazione questo concetto, attraverso l'analisi dei meccanismi di produzione della società borghese.
Per Marx l'alienazione è insita nel meccanismo produttivo per cui "meno tu sei, meno esprimi la tua vita, e più tu hai, più è espropriata la tua vita, più tesaurizzi la tua essenza alienata" (K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844).
Successivamente W. Reich cercherà, in una sintesi psicologico-sociale, di riproporre questa tematica affermando che l'individuo proprio adattandosi completamente alle regole alienate della società, diventa alienato.
Questa tematica, anche se più sfumata , sarà ripresa nella psichiatria americana da K. Horney, E. Fromm ed altri.
Tematica estremamente affascinante che sposta completamente i termini del problema: dall'uomo alienato in una società fondamentalmente sana (e che impone determinati valori) ad una società strutturalmente patologica, tale che ogni adattamento diventa indice di alienazione e non di sanità.
Abbiamo ritenuto opportuno segnalare questo punto di vista che per quanto ideologico e poco utilizzabile in clinica, segnala sicuramente un problema importante: come l'adattamento e la normalizzazione possono essere aspetti di una patologia sociale diffusa.
A noi sembra che questo punto di vista possa essere integrato in una visione ove la salute mentale (e non quindi la normalità) è correlata con lo sviluppo e la creatività di ogni singolo individuo che riesce però realisticamente a tener conto dell'ambito sociale, storico e culturale nel quale è immerso e vive, senza negarlo o annullarlo.
Quindi può essere patologica sia una ribellione cieca che un conformismo piatto e critico.
La salute mentale non può essere considerata come una invariabile assoluta, ma come una modalità dinamica di rapporto tra un soggetto normalmente evoluto che si incontra (o se necessario si scontra) con i valori, le abitudini, le regole dell'ambiente in cui vive cercando di adattare questo alle sue reali capacità.
L'originalità, la diversità, la non accettazione e la tendenza a cambiare sono peculiarità della persona psichicamente sana.
Gli individui sani psichicamente sono diversi tra di loro ed imprevedibili molto più del nevrotico e dello psicotico che invece sono ripetitivi e prevedibili.
4. norma e normalità
Il termine normalità deriva dalla radice latina norma (che significa squadra), che assume accezioni diverse a seconda di come la qualifichiamo.
Generalmente vengono proposte tre modalità della norma:
- norma ideale: è la norma del dover essere cioè indica a quale comportamento deve mirare l'individuo per manifestarsi nel suo stato di benessere; pone l'individuo in una condizione di aspirazione: misurato lo scarto tra quello che si è e quello che si dovrebbe essere non resta che spingersi verso un limite in realtà irraggiungibile;
- norma funzionale: definisce una condizione di coerenza interna all'individuo tra aspirazioni e scopi, da una parte, ed efficienza e adeguatezza nel perseguirli, dall'altra; si avvicina alle necessità della clinica;
- norma statistica: identifica il normale con il più frequente. È normale ciò che è condiviso: se il range del possibile è descritto dalla campana di Gauss, il normale è rappresentato dall'intervallo intorno alla media
L'utilizzazione di uno di questi criteri per definire lo stato di benessere psichico risulta difficile:
a) la norma ideale è una norma limite verso cui tendere, ma in realtà irraggiungibile; ne consegue che, pur potendosi verificare diversi gradi di avvicinamento, si resterà comunque in una condizione di non normalità: paradossalmente lo stato di malattia diviene la condizione comune. L'ideale, inoltre, lungi dall'essere assoluto, risente dell'arbitrarietà della popolazione che lo esprime: normale è essere "secondo il desiderio degli altri", con la possibilità di non condividere questo desiderio e che la norma ideale divenga ideologia;
b) la norma statistica, proponendo il normale come il più frequente, postula nell' "essere come gli altri" il conseguimento del benessere psichico. Oltre alla evidente acriticità, è un criterio difficilmente sostenibile per almeno due ordini di ragioni:
b1) la prima è che nell'eventualità di una patologia molto frequente il francamente patologico si annulla nell'idea di norma: se si utilizzasse questo criterio in campo medico, la presenza di carie nella popolazione occidentale del XX secolo o il gozzo nelle regioni alpine fino a qualche decennio fa rappresenterebbero due esempi di normalità in chiaro contrasto con il buon senso e la fisiopatologia. Nell'ambito del comportamento si potrebbe arrivare a conclusioni parimenti paradossali; potremmo dire che nella Germania degli anni '30 e '40 erano indice di normalità il sentimento antisemita e il culto della "razza ariana". In ambito medico, proprio per queste ragioni, si tende ad abbandonare il concetto di norma statistica; ad esempio il range di pressione arteriosa da considerare nella norma non è quella mediamente espressa dalla popolazione, ma quella per cui il rischio di malattie vascolare risulta essere basso. Si è passati da un criterio statistico ad uno probabilistico in virtù della proposizione di validi modelli fisiopatologici che dimostrano la correlazione tra i due eventi, iniziale e finale; un approccio del genere, in ambito psicologico, presuppone la definizione di modelli di sviluppo in cui correlare il ruolo di variabili con gli esiti finali;
2b) la seconda riguarda l'impossibilità per l'individuo di introdurre regole nuove, comportamenti e una visione del mondo diversa da quella condivisa senza porsi in un ambito di anormalità; sappiamo però che la storia dell'umanità è segnata dall'emergenza di individui di intelligenza e capacità fuori dalla norma che hanno imposto nuove conoscenze proprio in opposizione a quelle della loro epoca. Un tentativo di superamento del concetto di norma statistica è la proposizione del concetto di normatività; per normatività si intende la capacità dell'individuo di introdurre nuove norme: è una "marcia verso la libertà" (Ey,H.) che solo lo stato di malattia può ostacolare: in questo senso è la malattia a mantenere l'individuo nella norma, la malattia intesa come ridimensionamento delle potenzialità dell'individuo stesso.
c) la norma funzionale è quella di più facile utilizzazione in ambito clinico e può essere intesa in due modi: il primo presuppone un giudizio sulla "naturalità" (alcuni autori parlano infatti di norma naturale) o legittimità delle aspirazioni dell'individuo prima ancora che sulla capacità dell'individuo di perseguirli: è implicito un giudizio di valore che esclude un approccio oggettivo. L'altro modo è proponibile nella misura in cui siamo in grado di descrivere un modello di sviluppo psichico "funzionale", ovvero adatto ad un rapporto corretto e creativo con la realtà.
Al pari della crescita somatica, anche lo sviluppo psichico va pensato come un armonico dispiegarsi nel tempo dell'individuo verso la costituzione di una precisa identità.
Lo sviluppo può immaginarsi come un processo continuo, indistinto in cui i momenti trasformativi, discreti, si susseguono quasi impercettibilmente l'uno nell'altro ma anche, ed è il modo in cui viene normalmente rappresentato dagli studiosi dell'età evolutiva, come un processo a tappe il cui superamento è indispensabile per la qualità dell'esito finale.
In questa seconda ottica, se è possibile pensare ad un analisi in itinere della crescita psichica come verifica del superamento delle specifiche tappe evolutive in relazione all'età anagrafica, è nell'individuo adulto che si potrà verificare l'esito complessivo di tale processo.
Il primo problema che si pone è quello che riguarda l'elaborazione di un modello teorico valido e universale (la cui validità, cioè, non sia limitata alla cultura che lo produce: cultura sia storica e geografica che psicologica). Mentre per lo sviluppo somatico è più facile sia identificare dei parametri e stabilire il ruolo delle variabili che definire le caratteristiche finali dello sviluppo "normale", per lo sviluppo psichico, anche per la difficoltà di definire il risultato ottimale, risulta più difficile definire gli aspetti intermedi. Una condizione intermedia di crescita è normale o patologica dipendentemente dalle conseguenze funzionali: la displasia congenita dell'anca manifesterà con evidenza, nella successiva lussazione e nella conseguente zoppia, la sua anormalità.
Stabilire dei correlati specifici tra anomalie funzionali dell'apparato psichico e particolari momenti patogenici dello sviluppo presuppone la conoscenza di numerosi parametri di valutazione: i modelli più noti dello sviluppo psichico prendono in considerazione soprattutto gli aspetti motori e cognitivi della vita del bambino, aspetti strettamente correlati con lo sviluppo neurologico, più che con quello psicologico.
Un altro aspetto è quello che riguarda le variabili: possiamo distinguere variabili naturali, in realtà abbastanza stabili nel tempo, e variabili culturali/relazionali. Le seconde comprendono sostanzialmente le modalità e i contenuti del rapporto con gli adulti significativi sia nella specificità di quella particolare relazione, sia nella generalità del contesto culturale in cui il nucleo stesso vive e di cui ripropone le istanze. In questo senso se lo sviluppo psichico è il complesso risultato di un rapporto dinamico che si instaura tra l'individuo in crescita e l'esterno in relazione ai suoi bisogni, è innegabile che la direzione di questo sviluppo verrà data dall'adulto in funzione del concetto di crescita/educazione di cui è portatore.
È necessario considerare il fatto che esiste un range assoluto di variabilità che ha il suo limite superiore nella più piena espressione, in un individuo ideale, dello stadio evolutivo attuale dell'uomo. All'interno di questo limite le potenzialità di ogni singolo individuo, in virtù di condizioni costituzionali e relazionali più o meno favorevoli, potranno trovare un diverso grado di attuazione o, nei casi sfavorevoli, un grado insufficiente che rappresenterà la condizione di anormalità.
Per meglio chiarire questo concetto possiamo utilizzare un esempio medico: lo sviluppo staturale.
Sappiamo che l'altezza media della popolazione occidentale è andata incrementandosi negli ultimi decenni di parecchi centimetri. Questo ci induce a pensare che il miglioramento delle condizioni ambientali, e quindi alimentari, igieniche etc., è stato in grado di far esprimere potenzialità di crescita che le precedenti condizioni, complessivamente sfavorevoli, mantenevano espresse in maniera ridotta: non riconosciamo quindi nella statura mediamente più bassa delle generazioni precedenti un'anomalia, ma una diversità di sviluppo di potenzialità primarie (genetiche) rimaste invariate. Quindi fattori o variabili esterne sono in grado di modulare l'attuazione di queste possibilità. Di fronte ad un individuo di bassa statura che si pone ai limiti della curva di Gauss per la distribuzione di frequenza dell'altezza in una determinata popolazione dovremmo chiederci se è la conseguenza di uno sviluppo francamente patologico (ad esempio, come esito di una precoce attivazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-gonadi e precoce ossificazione delle cartilagini di accrescimento), se è la conseguenza di una crescita comunque sana ma avvenuta in condizioni sfavorevoli o se l'assetto genico di partenza (es: genitori molto bassi) esprimeva una potenzialità limitata.
Possiamo provare a ragionare per analogia sul piano psicologico e definire tre possibilità di sviluppo:
- uno sviluppo complessivamente soddisfacente in cui le potenzialità primitive vengono portate ad un livello di attuazione qualitativamente e quantitativamente valido;
- uno sviluppo parzialmente inibito per delle potenzialità che non trovano una loro piena attuazione. La possibilità di cogliere il momento in cui la condizione sfavorevole è iniziata comporta sia la possibilità, a patologia conclamata, di risalire al periodo di sviluppo maggiormente inibito, sia ad attuare una prevenzione cercando di modificare l'ambiente se questo si evidenzia come particolarmente patogeno. Per rimanere nell'ambito delle analogie con disturbi somatici questa prevenzione corrisponde ad una terapia che blocchi l'asse ipotalamo-ipofisi-gonadi nel caso si accerti la patologica tendenza ad una ossificazione precoce delle cartilagini.
- la terza evenienza è quella in cui vi è un deficit delle potenzialità: l'universo relazionale dell'individuo in crescita si dimostra gravemente insufficiente e favorisce l'anchilosi delle potenzialità stesse. In questo caso le possibilità di recupero tardivo sono scarse. Per tornare all'esempio è come se si lasciassero ossificare completamente, alla pubertà, le cartilagini di accrescimento, precludendo ogni possibilità di crescita e di intervento terapeutico. Le psicosi rappresentano il paradigma di questo sviluppo che definiamo difettuale; resta da definire quanto l'annullamento delle potenzialità non si correli ad un deficit iniziale. È importante sottolineare che non soltanto lo sviluppo psichico va favorito e non ostacolato, ma soprattutto che qualora cause traumatiche agiscono a lungo nei primi anni di vita, si hanno deficit irreversibili. Emblematici gli esempi noti in letteratura (ma anche le cronache ci riferiscono spesso di questi casi) di bambini abbandonati o vissuti in condizioni di segregazione o allevati da animali selvatici, ad es.: le due bambine Amala e Kamala, trovate in India che erano state allevate da un branco di lupi, Vittorio, il bambino selvaggio dell'Areyron, catturato nella foresta di Tornnel 1799 e seguito dal dottor Itard. In questi casi si è dimostrato che, malgrado gli sforzi terapeutici, il deficit di sviluppo rimane irrecuperabile proprio per l'atrofizzazione di quel nucleo di potenzialità non espresse nei tempi fisiologici dello sviluppo.
Per riassumere quanto detto fino a questo punto, possiamo individuare tre coppie concettuali per le tre situazioni esposte:
Potenzialità espresse-benessere psichico= salute mentale
potenzialità inibite-sviluppo conflittuale= patologia mentale
potenzialità non attivate-sviluppo difettuale= patologia mentale
Per esprimere un giudizio di salute o di patologia dobbiamo tenere presente un modello di sviluppo psichico che possa essere esplicativo delle varie patologie.
In altro capitolo (vedi XXX) è stata proposta una serie di modelli che spesso sono molto diversi o addirittura incompatibili tra di loro. È necessario pertanto proporre un modello che, tenendo conto delle più recenti acquisizioni, sia soprattutto coerente ed esplicativo delle varie sindromi psichiatriche.
Brevemente riportiamo alcuni elementi del modello complementare di sviluppo elaborato da Nicola Lalli nel 1991 e che verrà esposto nel capitolo successivo.
Questo modello sarà il punto di riferimento per la spiegazione e la comprensione delle varie sindromi psichiatriche (vedi la voce psicodinamica delle varie patologie)
5. per un modello complementare dello sviluppo psichico
Un modello che ha l'intento di superare i limiti di quelli già proposti e che nel contempo prende in considerazione le acquisizioni ottenute da autori diversi, spesso messe in opposizione le une alle altre, è quello che verrà proposto di seguito.
Questo modello può essere definito complementare, nel senso che tiene conto sia degli aspetti pulsionali che quelli delle relazioni oggettuali, in una visione che integra le componenti esogene ed endogene all'individuo.
È necessario però ridefinire alcuni aspetti delle pulsioni poiché così come vengono proposte nella teoria freudiana risulta difficile valorizzare gli aspetti relazionali dello sviluppo: l'avvicinamento e il successivo allontanamento dall'oggetto risultano infatti processi automatici, condizionati esclusivamente dalla dinamica pulsione-scarica.
Dobbiamo postulare l'esistenza di una dimensione istintuale-pulsionale che permette all'individuo sia l'avvicinamento all'oggetto sia il successivo allontanamento. Questa dimensione istintuale deve essere intesa come la possibilità stessa alla relazione: deve avere caratteri di plasticità perché deve permettere all'individuo di adattarsi alla enorme variabilità dell'ambiente umano, inteso come universo delle relazioni possibili (N. Lalli, 1991)
Alla nascita le valenze istintuali sono predominanti proprio perché il bambino non ha ancora imparato a confrontarsi con una realtà esterna complessa; d'altra parte la scarsa specificità degli istinti della nostra specie favorisce processi di apprendimento molto articolati che non trovano riscontro negli altri animali.
Si può immaginare che il bambino inizialmente si relazioni con l'altro da sé, in virtù di due istinti : quello libidico, che permette l'attaccamento, e quello di morte come sparizione dell'oggetto frustrante. Durante la vita intrauterina il feto è in uno stato di simbiosi con la madre determinato dalla contiguità pelle-utero; non esiste la sensazione del sé come altro dal non sé proprio perché lo sviluppo avviene in una dimensione omogenea e costante.
La nascita rappresenta il primo momento di separazione e con essa compare il vissuto della propria individualità e, allo stesso tempo, del mondo esterno. Il prendersi cura del bambino da parte della madre o di un altro adulto segna allo stesso tempo un momento di continuità (il contatto somatico attraverso gli stimoli tattili e termici ad esso correlati) ma anche di novità, proprio perché il bambino percepisce la discontinuità di questo rapporto e la possibilità che non sia soddisfacente. Il vissuto sull'oggetto può quindi essere anche di desiderio di sparizione a vantaggio di un recupero, nel ricordo, della dimensione precedente. Queste dinamiche rafforzano comunque la percezione del proprio sé e offrono all'apparato psichico la possibilità di strutturare vissuti complessi, emozioni, memoria: di essere qualcosa di piu di un nucleo pulsionale. Si comincia a prefigurare la sensazione di un contenitore: è l'apparato psichico che prendendo coscienza di sé, comincia a strutturarsi per arrivare, nel tempo, alla complessità dell'individuo adulto.
Se il polo pulsionale ha queste caratteristiche di dualità, intese come possibilità di investimento sessuale di un oggetto e di separazione da quest'ultimo, possiamo immaginare la crescita come un continuo superamento delle modalità relazionali già acquisite, nella direzione di un loro arricchimento (N. Lalli, 1991).
Ogni crisi che viene superata segna un salto qualitativo (maturativo) nel processo di apprendimento delle capacità relazionali, ogni tappa d'arresto rafforza le modalità già acquisite, rappresentando un momento di regressione. È proprio nei momenti di crisi che il ruolo esterno di chi si prende cura del bambino assume un'importanza fondamentale: facilitare la maturazione significa spingere il bambino verso l'autonomia, ostacolarla significa mantenerlo in uno stato ormai inadeguato di dipendenza.
Lo sviluppo ha, quindi, due caratteristiche fondamentali:
- di circolarità in quanto gli istinti, naturalmente portati ad investire nel mondo esterno, vengono attivati dagli oggetti che ne svelano (cioè attuano) le potenzialità: è il concetto di epigenesi. A loro volta gli oggetti, investiti di significato, sono in grado di modulare le forze pulsionali e condizionare lo sviluppo, sia normale che patologico;
- di linearità in quanto, immaginando un ideale vettore che rappresenti la vita di un individuo, sulla direttrice dello sviluppo si può procedere in avanti verso la crescita o tornare indietro, in senso regressivo. Linearità non significa continuità: si procede comunque per crisi, intese come momenti nodali in cui condizioni oramai inadeguate (sia per quel che riguarda la modalità dell'investimento pulsionale che l'oggetto di relazione) possono essere superate o rappresentare una tappa d'arresto.
Riassumendo quanto è già stato proposto, si può dire che, in linea teorica, perché lo sviluppo abbia luogo in maniera adeguata, è necessario si realizzino una serie di condizioni:
1) che le potenzialità istintuali siano presenti;
2) che il mondo esterno, rappresentato dalle figure che si prendono cura del bambino, sappia interagire in maniera ottimale al fine di attivare queste potenzialità;
3) che ogni crisi, conseguentemente ad una dialettica corretta tra pulsioni e relazioni oggettuali, venga superata nella direzione della crescita.
L'individuo psicologicamente sano è quello che, al termine di tale processo, pur strutturato in un carattere particolare ed influenzato dalla specificità dell'ambiente nel quale ha vissuto, manifesta una capacità critica, un costante senso della realtà e una dimensione creativa continua.
Sono quasi sempre le situazioni traumatiche a mettere in evidenza la "sanità" della struttura psichica (risposta coerente e superamento della crisi) o la sua inadeguatezza (emergenza di sintomi nevrotici: rituali ossessivi, fobie, ritiro depressivo ecc.). Resta da stabilire quali sono i limiti di tolleranza al trauma oltre i quali, anche l'individuo normale, perde la sua integrità psichica: poter stabilire questa soglia significa comprendere in quale punto di quella continuità normalità-patologia si può segnare il territorio di confine tra queste due condizioni.
Anche se le procedure sperimentali non possono riprodurre condizioni di trauma che siano sovrapponibili a quelle "naturali" (per ovvie ragioni, sia pratiche che etiche), è possibile trarre qualche conclusione prendendo in considerazione la letteratura prodotta da persone, spesso da specialisti, che hanno esperito quelle che Bettelheim ha definito situazioni estreme.
L'esperienza terribile dei lager nazisti ha messo in evidenza una serie di elementi di cui il più importante sembra essere il seguente: che nella condivisa situazione di totale deprivazione affettiva e di completo disconoscimento della stessa dimensione umana, individui diversi reagiscono in maniera diversa. Nello spettro dei vissuti psichici e dei comportamenti, due sembrano essere paradigmatici nella loro diversità proprio per le contrapposte dinamiche che sottendono: l'adattamento e l'adeguamento.
Possiamo definire con il termine adeguamento la situazione in cui l'individuo, pur non accettando le costrizioni ambientali in cui vive, ma non potendo neanche rifiutarle perché imposte in maniera coercitiva, ripone nel futuro la possibilità di un cambiamento e si piega formalmente alle regole senza condividerle. Presupposti dell'adeguamento sono quindi: il senso della realtà (impossibilità attuale a modificare l'ambiente), la speranza (come possibilità di differire il momento trasformativo) e, soprattutto, l'esistenza di una identità ben strutturata che l'individuo difende mantenendo vive le istanze ideali.
L'adattamento è il risultato, invece, di un profondo lavoro di trasformazione operato dall'ambiente sull'individuo che finisce nell'identificarsi con le regole e le figure autoritarie che le impongono; è evidente che i presupposti di cui abbiamo parlato sopra, in special modo l'esistenza di una identità ben strutturata, sono deficitari.
Non è un caso che nei campi di concentramento quelli che "reggono meglio", per usare una espressione di Bettelheim, sono gli individui che già nel periodo precedente della loro vita hanno manifestato, aderendo a movimenti politici progressisti o alla Resistenza (ma anche ai gruppi scout), una forte carica ideale e un anelito a trasformare la realtà.
Emblematica di un processo di adattamento totale è la figura del Kapò: è la vittima che diviene aguzzino del proprio compagno di prigionia, in un processo di identificazione con l'aggressore.
Al di là di queste due particolari modalità di risposta, l'esperienza dei campi di concentramento ha evidenziato che in eccezionali condizioni di violenza psichica e fisica quello che avviene con più facilità è l'annichilimento della personalità dell'individuo, costretto a morire, prima che di stenti e di privazioni materiali, con l'annullamento della speranza di poter essere di nuovo riconosciuto nella propria dimensione umana.
Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda al capitolo "Psicopatologia da situazioni estreme"
6. conclusioni
In un rapido excursus abbiamo cercato di delineare i principali nodi attinenti al problema della normalità e della patologia in generale e in particolare in psichiatria.
Sembra evidente che, per quanto questi concetti possano essere complessi e difficili, è necessario darne una definizione, soprattutto quando ci troviamo in ambito clinico ovvero in un campo ove è necessario porre non solo una diagnosi, ma anche una terapia.
Non è un caso che tutti gli autori che hanno ritenuto possibile sfuggire a questo problema, si sono ritrovati poi con l'impossibilità di poter definire qualsiasi modalità d'intervento: al massimo ci si poteva limitare ad una discussione più o meno brillante, più o meno articolata sul caso clinico.
È evidente d'altro canto la pericolosità del concetto di normalità e di come questa normalità massificata, possa essere di per se stessa segno di patologia.
Per questo motivo ci è sembrato necessario, per evitare la duplice trappola o del nichilismo terapeutico o della ideologia dominante come segno di normalità, riproporre il concetto di salute mentale. Per salute mentale intendiamo lo sviluppo normale delle potenzialità dell'individuo che può essere evidenziato dal comportamento, dal vissuto soggettivo e dall'assetto intrapsichico del soggetto.
Il range della salute mentale può essere abbastanza ampio fino ad un limite oltre il quale si può evidenziare la patologia: patologia psichica che può essere acuta o cronica, conflittuale o difettuale.
Un altro problema importante, a lungo dibattuto e non certamente risolto, è se la patologia psichica debba essere considerata come un continuum che va dalla normalità alla psicosi, o se invece le varie situazioni sono non solo distinguibili dalla normalità, ma anche diverse tra di loro.
Nel primo caso viene proposta una psicopatologia definita modale, nel secondo caso categoriale. Per esempio mentre il modello psicoanalitico è modale, quello del DSM IV è categoriale.
Come dicevamo è un problema aperto: comunque riteniamo che se da una parte è concepibile pensare che non ci sia un taglio netto tra normalità e patologie conflittuali, non altrettanto può dirsi per le psicopatologie più gravi.
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