PSYCHOMEDIA
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MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA
Modelli e Tecniche in Psichiatria
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Come attrezzarsi per non capire nulla:
un trattamento sanitario obbligatorio e una check list dell’antichità
Franca Pezzoni (1), Giacinto Buscaglia
(2)1
L’ormai raro lettore non studioso specialista di antichità dei Menecmi di Plauto rimane sorpreso nell’incontrare una dettagliata descrizione di un ricovero obbligatorio e di un colloquio psichiatrico. Se si tratta di un lettore psichiatra, resta senz’altro colpito dalle grandi analogie tra la situazione della Roma del III secolo avanti Cristo e quella odierna – naturalmente senza voler fare del presentismo, cioè una lettura del passato attraverso le categorie moderne, come una semplice preparazione o anticipazione di un presunto progresso che solo ai giorni nostri avrebbe visto la sua piena espressione. D’altra parte lo psichiatra non può non sentirsi in qualche modo infastidito, se non altro per identificazione professionale, dalla figura comica e meschina che fa il suo collega latino, messo spietatamente in ridicolo dal commediografo (come succederà più tardi per il medico fautore della vis dormitiva descritto da Molière).
Purtroppo anche una lettura non approfondita del testo rivela che l’antico collega merita pienamente l’irrisione che subisce, dimostrandosi fatuo, arrogante e soprattutto incapace di capire ciò che sta accadendo davanti a lui in quel momento. Gli si deve dare atto di trovarsi in una tipica situazione impossibile (come avviene quasi sempre anche nell’attuale pratica clinica), cioè la vicenda è talmente ingarbugliata da essere di fatto incomprensibile; tuttavia la sua incomprensione è per così dire non casuale ma deliberata, perseguita scientificamente con metodo ed è contro questo atteggiamento mentale che Plauto dirige con grande acume le sue frecciate irriverenti, cogliendo nel segno. Questa ci sembra in realtà la principale somiglianza tra psichiatria antica e moderna e cercheremo di mostrare nei dettagli questa analogia.
La trama
Andato a una fiera a Taranto con i due figli gemelli, un mercante di Siracusa ne smarrisce uno nella folla e poco dopo muore per il dolore della perdita. Il nonno a Siracusa alleva il bambino rimasto col nome di Menecmo, come il fratello scomparso. Intanto Menecmo I, trovato da un mercante di Epidamno, viene cresciuto come suo figlio, sposa una donna bisbetica e cerca di distrarsi con una prostituta di nome Erozio. Il gemello, Menecmo II, non ha mai desistito dal cercare il fratello scomparso e arriva ad Epidamno con un servo. Naturalmente è scambiato per Menecmo I dall’amante, dalla moglie inviperita e dal suocero, dando luogo a una serie di equivoci esilaranti. Crede di essere entrato nelle grazie di Erozio, che lo accoglie molto familiarmente, va a banchetto a casa sua, anche se il servo lo mette in guardia contro queste adescatrici di forestieri. Intanto Menecmo I è accusato di tradimento e di furto dalla moglie, che chiama in sua difesa il proprio padre. Menecmo I si allontana, arriva Menecmo II che si trova di punto in bianco ad essere aggredito dalla moglie di Menecmo I, dicendo il vero giura di non conoscerla e così la aizza ancora di più. “Non ti conosco e se ti fa piacere ti posso dire che non conosco neanche tuo nonno.” Non capendo la situazione e giudicando di essere arrivato tra i folli (nel frattempo è giunto anche il suocero di Menecmo I a dare man forte alla figlia) Menecmo II decide di “fare il pazzo” a sua volta e simula un violento attacco di agitazione, dicendo di essere invasato prima da Bacco e poi da Apollo, allucinando un cocchio che non c’è e soprattutto dichiarando che la divinità che lo possiede gli ingiunge di uccidere le persone che gli stanno davanti. La scena si ispira in modo evidente a grandi esempi della tragedia, come l’episodio profetico di Cassandra nell’Agamennone. Ogni epoca modella la pazzia secondo ben precisi schemi culturali.
Con questo espediente ottiene di allontanare temporaneamente i due e di poter rientrare da Erozio. Sopraggiunge Menecmo I, ignaro di tutto, e viene sottoposto nella seconda scena del quinto atto a uno stringente colloquio psichiatrico da un medico chiamato d’urgenza dal suocero. In un certo senso il sanitario (che pure si è fatto aspettare e desiderare perché aveva altri pazienti prima di lui) dimostra una buona coscienza professionale perché non si limita a recepire pari pari le dichiarazioni dei parenti ma lo esamina direttamente in prima persona, anche se si fa pesantemente condizionare dai loro pareri e giudizi. La moglie, ad esempio, dice: ”Non vede come sta diventando verde? Anche gli occhi diventano verdi.” Non è una notazione surreale, alla quale peraltro Plauto non si sottrarrebbe, ma una ipotesi diagnostica di attacco di malaria, associato a ittero, o meglio ancora un improvviso prevalere della bile nera, responsabile antica della pazzia, che spiegherebbero il delirium e lo stato di coscienza alterato.
C'è da notare un piccolo dettaglio: Menecmo II non è verde, in primo luogo perché come tutti gli altri personaggi della commedia latina porta una maschera (ulteriore elemento di straniamento), e in secondo luogo perché in realtà mantiene il suo colorito naturale. Ma è tanta la forza di convinzione della moglie e degli altri, che a ogni costo devono individuargli un disturbo psichico, da persuadere tutti e forse anche gli spettatori che sia diventato itterico2
Ma vediamo più particolareggiatamente le domande che il medico pone a Menecmo I, insieme a consigli tecnici. “No, non allargare le braccia, non sai quanto ti può danneggiare, con la malattia che ti ha colpito! … Dunque, stammi a sentire: bevi vino bianco o vino rosso? … Ti capita, qualche volta, di sentirti gli occhi come bloccati da una paresi? … Hai dei borborigmi? Dormi senza interruzioni o hai dei disturbi del ritmo sonno-veglia? … Hai delle difficoltà nell’addormentamento?”
Come si può facilmente immaginare, Menecmo I risponde molto male alla check list, con violenti insulti e escandescenze, anche perché il suocero comincia a rinfacciargli tutte le malefatte compiute nel frattempo da Menecmo II attribuendogliele ingiustamente. Il suo stato mentale diventa sempre più alterato, l’agitazione psicomotoria peggiora, anche perché il giovane è ormai in uno stato di perplessità (“Ma io non sono mai stato malato neanche per un giorno … Vuoi veder che i pazzi sono loro?”).
A questo punto il suocero chiede al medico quanti schiavi ci vogliono per prendere Menecmo I e ricoverarlo, cioè portarlo a casa dello specialista dove gli saranno somministrate (si immagina con la forza) delle pozioni. Due o quattro? Il medico opta per quattro. A Genova la situazione si presenta oggi identica: quando si tratta di un trattamento in stato di necessità, si chiama una pattuglia di Vigili Urbani e questi ultimi chiedono se ci vogliono due o quattro agenti per intervenire, a seconda della taglia e dello stato di agitazione del paziente. In un caso del genere, essendo giovane, robusto e molto alterato, si opterebbe sicuramente per quattro tutori dell’ordine.
Arriva il suocero con quattro schiavi, ma il ricovero obbligatorio non ha luogo perché interviene il servo di Menecmo II, scambia Menecmo I per il proprio padrone, lo crede aggredito da criminali, lo difende e costringe tutti alla fuga. Menecmo I non capisce più niente: da un lato è contento di essere stato salvato, ma non comprende le motivazioni dello sconosciuto né i suoi discorsi successivi (“Tutto mi sembra accadere proprio come in un sogno” > stato oniroide).
Alla fine compare in persona Menecmo II, i due si riconoscono (in effetti, anche prima avrebbero potuto avere qualche sospetto, ma l’effetto comico ne avrebbe sofferto). Significativamente il lieto fine consiste nel divorzio di Menecmo I dalla moglie, nella liquidazione dei suoi affari e nella partenza insieme a Menecmo II alla volta di Siracusa.
Una cosa salta facilmente all’occhio, una mancanza. Perché il medico non chiede a Menecmo I: “Cosa succede? Che cos’hai? Cosa c’è che non va? Perché ce l’hai con questa gente? Cosa ti hanno fatto?” Forse, considerando il paziente come un interlocutore e non come un oggetto a cui applicare una griglia preconcetta di interrogatorio e di intervento, ne potrebbe ricavare maggiori informazioni, soprattutto rispetto alla vicenda che lo ha portato in questa situazione. Ma dovrebbe abbandonare l’aura di professionalità che si autoconferisce, soprattutto di fronte ai parenti che lo hanno ingaggiato e poi augurabilmente lo pagheranno. Inoltre chiunque, come mette ben evidenza Plauto con una certa malizia, può comprendere l’effetto iatrogeno del comportamento del medico, che con il suo fare saccente e inadeguato sconcerta, irrita e alla fine manda in furore Menecmo I, che finisce così per sua disgrazia per confermare la presunta pazzia di cui sarebbe vittima. Quest’ultimo sviluppo purtroppo è molto frequente non solo nella commedia ma anche nella realtà, come si vede tutti i giorni a casa degli utenti e al Pronto Soccorso, dove comportamenti sbrigativi e acritici dei sanitari, che aderiscono a priori alle comunicazioni dei congiunti e dei vicini, inducono reazioni aggressive o bizzarre in persone già instabili e servono in pratica a convalidare una diagnosi formulata in partenza e spesso a far ricoverare per l’ennesima volta pazienti definiti cronici.
Ai giorni nostri il palcoscenico in cui si svolge un TSO può essere sia un qualsiasi spazio di vita (similmente alla vicenda narrata da Plauto) sia un ambiente sanitario (il pronto soccorso di un ospedale, un reparto ospedaliero, un ambulatorio esterno). In ogni caso si tratta di una rappresentazione che prevede molti attori e spesso anche molti spettatori (il paziente, i familiari, i sanitari, i vigili urbani o altre forze di polizia, semplici curiosi, testimoni...). Parlare di rappresentazione è appropriato, in quanto vicende come queste hanno una valenza teatrale straordinaria, coniugando aspetti che colpiscono l’immaginario collettivo: l’imprevedibilità e l’angoscia della follia, la violenza della coercizione. Lo psichiatra che deve prendere una decisione così delicata è sottoposto a molte pressioni, spesso discordanti ed è insieme al paziente il primo attore, su cui si concentra l’attenzione della platea. Il bagaglio di ogni operatore psichiatrico è pieno di aneddoti sui TSO, che spaziano dalla tragedia alla farsa, dalla commedia al dramma.
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Carlo è chiuso in bagno e non parla, mentre il medico, al di là della porta, cerca con ogni argomentazione possibile di convincerlo ad aprire. Tutto attorno i vigili, gli infermieri e i familiari assistono in religioso silenzio. Dopo mezz’ora abbondante, nella quale il medico usa tutte le sue tecniche di convincimento, finalmente si sente la serratura scattare. Si apre la porta e il medico, un omino piccolo, con grossi occhiali dalle lenti spesse, si trova faccia a faccia con Carlo, una montagna umana, che non dice una parola. I due si guardano qualche secondo muti e immobili, mentre gli astanti trattengono il fiato. Carlo sfila gentilmente gli occhiali al medico, li poggia con cura per terra e li schiaccia sotto la suola della scarpa.
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Il medico e l’infermiere vanno a visitare Irene, una signora di quarant’anni che vive in una casa in collina, adiacente all’abitazione della madre. Quest’ultima li avvisa che la figlia sta molto male, è agitata e aggressiva, si è chiusa in casa e sicuramente non aprirà. Il medico bussa alla porta e la chiama. Irene non risponde, ma i due sentono distintamente dei rumori provenire dall’appartamento. E’ evidente che Irene è “ambivalente”, nel senso che da una parte vorrebbe aprire la porta, dall’altra è tentata di non farlo. Il medico usa una serie di fini interpretazioni psicoanalitiche allo scopo di superare le resistenze di Irene. Ogni tanto i rumori si fanno più vicini e Irene sembra in procinto di aprire. Il medico a quel punto raddoppia i suoi sforzi. Ad un certo punto sente che l’infermiere gli tocca la spalla e gli indica il viottolo che porta alla casa. Il medico resta basito nel vedere Irene che arranca sul sentiero che porta a casa tenendo nelle mani due enormi borse della spesa. Li saluta cordialmente, si accinge ad aprire la porta con le chiavi e invita i due a stare attenti perché teme che il suo adorato cagnolino possa scappare dall’uscio socchiuso.
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Il Pronto Soccorso dell'Ospedale è in subbuglio. Rita, una ragazza di non più di vent'anni cammina avanti e indietro nel corridoio seguita a distanza di sicurezza da operatori sanitari e da vigili urbani, che le bloccano le vie di fuga. Il medico del 118 che l'ha convinta a salire sull'ambulanza resta in un angolo e subisce tutti gli improperi che la ragazza gli vomita addosso. Qualcuno ridacchia divertito, altri per l'imbarazzo, qualcuno pare sinceramente dispiaciuto e colpito dalla sua rabbia e dalla sua angoscia. Tutti aspettano lo psichiatra a cui è delegato il compito di risolvere la penosa situazione. Dopo qualche minuto lo psichiatra arriva, nello stesso momento del padre e della madre di Rita, avvertiti dai sanitari. Rita, in modo concitato e rabbioso, gli dice che è stata portata al pronto soccorso con l'inganno. Ritiene di star bene e esige che i genitori la riportino subito a casa. Allo psichiatra viene subissato da mille richieste. Il personale del P.S. chiede che venga prescritta al più presto una terapia sedativa, i vigili urbani vogliono sapere se la loro presenza è ancora necessaria e se devono predisporre i documenti per un TSO, i genitori litigano tra loro. Il padre pretende che la figlia venga ricoverata, la madre chiede con forza le sue dimissioni. Ben presto la situazione diventa ingestibile, il livello di tensione sale in modo parossistico. L’intervento si conclude nel modo più imprevedibile e paradossale, con il ricovero obbligatorio di tutta la famiglia.
Tornando alla commedia di Plauto, va notato che il “sintomo” principale di entrambi i giovani è essenzialmente non riconoscere le persone che hanno davanti e negare di aver fatto quanto gli interlocutori gli rinfacciano di aver fatto, come donare un prezioso mantello della moglie all’amante. Non si tratta perciò di alterazioni dell’umore o di deliri o allucinazioni. Le negazioni dei due gemelli, che con meccanico e perfetto gioco comico si trovano sempre nel posto sbagliato, vengono prese o per menzogne malevole, in chiave morale, specie dalla moglie, o come semplici scherzi sui quali sorvolare. E’ interessante notare che Menecmo II a un certo punto, non potendo opporsi, decide di adeguarsi alla situazione e in questo modo si gode immeritatamente un’ottima giornata essendo invitato in casa da Erozio e servito di un banchetto (in una specie di vantaggio secondario o di meccanismo di adeguamento alla malattia), mentre Menecmo I, accusato da entrambe le donne, finisce sbattuto fuori in mezzo alla strada. I deliri e le allucinazioni compaiono solo quando Menecmo II, messo alle strette dalla moglie e dal suocero di Menecmo I, decide di simulare la pazzia e dichiara di sentire la voce di Bacco e di Apollo, che lo esortano prima a picchiare e poi a uccidere gli interlocutori e poi lo inducono, facendogli esibire una notevole vena teatrale e istrionica, a fingere di salire su un cocchio tirato da cavalli indomiti e focosi per investire il vecchio e infine a gettarsi scenograficamente a terra, dicendo di essere preso per i capelli da un’altra non ben precisata entità soprannaturale. In pratica l’apparato della pazzia si mette in moto per coprire il vuoto di identità e per contrastare una serie di rimproveri tanto esasperanti quanto infondati, mossi congiuntamente in coro dai due presunti parenti, dopo che invano Menecmo II si è impegnato per lungo tempo a cercare di far valere la sua visione dei fatti.
Vale la pena di esaminare nei dettagli non i comportamenti di Menecmo I e II, che astratti dal loro contesto e dalla loro storia diventano semplici elenchi di sintomi, ma il comportamento del medico, per vedere esattamente cosa fa e cosa non fa e da quali schemi mentali è guidato.
Prima ancora che compaia il suocero lo definisce (forse giustamente) odioso, perché gli ha fatto fare una lunga anticamera prima di decidersi a intervenire. E’ chiarissimo a noi come agli antichi spettatori che l’attesa è inflitta per accrescere con l’alterigia il prestigio professionale del sanitario, che dimostrando invece disponibilità e sollecitudine svilirebbe la propria immagine o si staccherebbe dalla propria neutralità. Il medico si fa precedere da una fama di guarigioni ipermiracolose, nel senso che avrebbe ridotto delle fratture agli dèi della medicina, Esculapio e Apollo, le autorità stesse alle quali ci si dovrebbe rivolgere per ottenere la salute (il contrario esatto del detto - visto che siamo in ambiente latino – “medice cura te ipsum”). Quasi ancor prima di arrivare, articola una serie di termini scientifici o pseudoscientifici (al lettore la scelta), cercando di classificare il disturbo del paziente in una categoria diagnostica ancora prima di vederlo. Plauto ovviamente si diverte a enumerare una lista di paroloni. Più che una riproduzione della pratica corrente al suo tempo, è una evocazione caricaturale finalizzata alla messa in ridicolo del personaggio.
Il medico esordisce chiedendo al vecchio quale malattia abbia il genero, mettendolo in difficoltà e dandogli l’impressione di non sapere quello che invece dovrebbe essergli noto. Per sua fortuna l’altro ha la presenza di spirito di ribattere e di fargli notare la contraddizione e il ribaltamento dei ruoli. Ad ogni modo il sanitario esibisce subito la collaudata tecnica di indurre senso di colpa e/o di inadeguatezza o comunque di disagio fin dalle prime battute, come mossa di apertura. Il medico appare attuale anche perché sembra interessato alla classificazione innanzitutto (ogni riferimento al DSM è voluto), alla lettera, cioè innanzi alla visione del paziente; inoltre i suoi termini, come quelli del DSM, risalgono in realtà a tradizioni anteriori, hanno una lunga storia, ma sono ormai stati talmente mescolati e omogeneizzati da perdere il contatto con i loro riferimenti di partenza3.
Quanto ai vocaboli usati, si pongono varie possibilità: il paziente può essere larvatus o cerritus, veternus o aqua intercus tenet. C’è un affastellamento di ipotesi diagnostiche che, anche a mettersi dal punto di vista della medicina dell’epoca, appare disordinato e contraddittorio. I primi due termini si riferiscono alla possessione da parte di Cerere o da parte di spiriti detti larve, mentre i secondi indicano torpore e rallentamento e idropisia (ascite?) con obnubilamento. Si spazia perciò da affezioni di ambito religioso a malattie assolutamente somatiche, saltando da una categoria all’altra. In effetti pare che ai tempi di Plauto, a differenza dei nostri, non esistesse una contrapposizione fanatica tra teorie rivali ma coesistesse una pluralità di soluzioni rispetto all’eziologia dei disturbi mentali.3
E’ interessante notare come di fronte all’aspetto perturbante della follia si senta la necessità, che sembra essere simile in due epoche storiche così lontane tra loro, di prendere le distanze dalla persona sofferente, dalla sua individualità attraverso il ricorso a procedure e schemi di intervento codificati e impersonali. Quello che invece risulta curioso e in fondo deludente è il riduttivismo che sembra prevalere nella psichiatria moderna, espressione di un regresso rispetto alla visione più articolata e complessa della malattia mentale dell’epoca passata.
Al nostro medico plautino non si può tuttavia far credito di larghezza di vedute. Sempre ancora prima di vedere il paziente, si vanta di riuscire a curarlo e mette in evidenza la fatica e la dedizione che dispiegherà nel trattamento, presentandosi quasi come un eroe e un martire. Insieme al suocero si mette non visto a osservare il suo comportamento mentre si lamenta in modo del tutto adeguato delle disavventure della giornata e poi si gli para davanti, cominciando subito a rimproverarlo perché allarga le braccia, cioè fa un gesto normalissimo e abitualissimo, sostenendo che deve subito smettere questo comportamento assolutamente spontaneo, usuale e naturale perché è dannoso. Qui si notano due punti: 1) il medico sbuca improvvisamente dal nulla, non si presenta, non dice il proprio nome e la propria qualifica, non spiega da chi è stato chiamato e perché, mentre apostrofa familiarmente per nome il paziente, stabilendo subito un dislivello di posizioni e di ruoli; 2) l’interazione comincia con un divieto e una critica, se non con una prescrizione, prima ancora che l’altro abbia aperto bocca. Il discorso implicito ed esplicito presuppone che l’interlocutore sia sicuramente malato e che quello che fa sia a) segno della sua malattia b) negativo e nocivo, invece che a) essere un gesto qualsiasi b) avere un qualche effetto di sollievo o di sfogo. Il punto ancora precedente, che Plauto mette bene in evidenza, è che il medico prende una persona per un’altra e che rivolge il suo esame e la sua diagnosi a un individuo che non è quello di prima, perché a Menecmo II si è sostituito Menecmo I. Questo equivoco è possibile non solo e non tanto per il meccanismo teatrale, ma perché il sanitario non si prende la briga di chiedere chi è a chi ha davanti. L'esibizione di termini astrusi e tecnici mette in ridicolo non solo il personaggio ma anche l'arte medica da lui praticata. La diagnosi formulata su un individuo diverso da quello di partenza evidenzia la pochezza del sanitario e della sua professione, al di là della confusione dovuta alla somiglianza tra i due gemelli, che non conta perché al momento di visitarlo il medico non conosce né Menecmo I né Menecmo II che prima aveva simulato un accesso di follia.
In fondo non è importante occuparsi di chi si ha di fronte, perché ciò che conta è la diagnosi e non il malato, la cui identità risulta una prerogativa superflua, ininfluente. La persona è ridotta ad una somma di sintomi e a una casella diagnostica.
Ad ogni modo alla sua presentazione maleducata e indisponente Menecmo I risponde nel modo più ovvio Quin tu te suspendis? cioè: Perché non ti impicchi?
Il seguito dell'interrogatorio al quale il medico sottopone il paziente sempre più furibondo (furiosus: posseduto dalle Furie) è esemplare, nel senso che esamina con ordine le sue diverse funzioni - portamento, dieta abituale, condizioni degli occhi e dell'intestino - alla ricerca dell'eccesso di bile nera responsabile della pazzia. Le domande che a Menecmo I, agli spettatori e a noi stessi, sembrano del tutto bislacche, seguono in realtà un ben preciso rationale. Il problema è che sono del tutto sfasate rispetto alla situazione e che elicitano nell'interlocutore un crescente parossismo. Gli occhi scintillanti, oltre che strizzati e sporgenti, erano considerati sintomo della melancolia, ma anche la replica di Menecmo I ("mi prendi per una cavalletta") si rifà alla fisiognomia zoologica, anch'essa codificata nei trattati. L'uso del vino bianco o rosso e i disturbi intestinali indagati dal medico hanno pure un significato diagnostico: il vino rosso pare sollecitasse più di quello bianco l'accumulo di bile nera, mentre quest'ultima era ritenuta responsabile oltre che della melancolia di disturbi allo stomaco e all'intestino. L'indagine sulla presenza esagerata della sostanza biologica fa perdere di vista al personaggio la concreta esistenza di chi gli sta davanti, se non per utilizzare tutti i suoi gesti, reazioni e risposte, come conferme della diagnosi.
Il suo scopo è stabilire la dose di farmaco richiesta ( tanto elleboro quanto sta in un iugero) e la durata del trattamento (circa venti giorni) da effettuare presso la casa del medico stesso (nell'antichità non esistevano manicomi).
Quando Menecmo I ribatte "Perché non mi chiedi se ho l'abitudine di mangiare pane scuro, rosso o giallo, o se ho l'abitudine di mangiare uccelli con le squame o pesci con le piume", non si rende conto di affossarsi da solo sempre di più, perché il suo sarcasmo caricaturale è preso alla lettera come un discorso insensato. Anche le sue ingiurie violente nei confronti del suocero, che gli rinfaccia le stravaganze di Menecmo II, sono interpretate come pericolo per sé e per gli altri. Non si tratta di un dialogo tra sordi, perché i due si intendono a livello di percezione uditiva, ma parlano due linguaggi diversi, uno quello della check list e l'altro quello umano normale.
La situazione ricorda in modo inquietante una scena di “Changeling”, un bellissimo film di Clint Eastwood, in cui una paziente dice ad un donna finita in manicomio senza ragione che ogni suo comportamento sarà inutile ai fini di dimostrare di essere sana. “Se ti agiti sarà la prova che sei pazza, se ti disperi e piangi dimostrerai che sei depressa e se accetterai passivamente ciò che ti faranno subire sarai considerata catatonica”.
E’ triste osservare come si stia verificando da qualche tempo a questa parte una sorta di “mutazione genetica” negli psichiatri della nuova generazione. Indubbiamente sono scemati gli aspetti ideologici, cosa di per sè non necessariamente negativa, e si è rafforzata una identità medica, con l’inevitabile conseguenza di una progressiva marginalizzazione della soggettività e una ipervalutazione dei criteri diagnostici, delle linee guida e delle procedure standardizzate. Le riviste accreditate a livello internazionale pubblicano in modo preponderante articoli di psichiatria biologica, mentre i lavori di tipo psico-sociale si riducono di numero e di peso scientifico. Da questo punto di vista il medico di Plauto sarebbe perfettamente compatibile con la tipologia classica dello psichiatra moderno, nell’era “evidence based”.
Viene la tentazione di attribuire in modo anacronistico al medico un atteggiamento sperimentale: egli isola il soggetto e lo sottopone a una serie di stimoli preordinata per saggiarne le risposte, registrarle e impostare una cura evidence-based o almeno aderente ai dettami della scienza più recente dell'epoca. E' un altro paio di maniche stabilire se questa impostazione gli permetta di conoscere veramente il suo oggetto (la persona che ha davanti) o invece gli precluda deliberatamente qualsiasi comunicazione illuminante o significativa. Il medico pone una serie di quesiti, ma evita le domande basilari e soprattutto il contatto reale. Esprimersi in modo comune e corrente vorrebbe dire abdicare dall'atteggiamento o dalla posa tecnici. In effetti da questa impostazione conoscitiva il personaggio non ricava alcuna conoscenza ulteriore, se non la conferma dell'ipotesi formulata ancora prima di vedere il paziente. Inoltre l'adesione cieca al modello di intervento fa comparire tutte le risposte come resistenza alla cura e come manifestazioni sintomatiche, invece che come effetti (negativi) del trattamento stesso. Il cerchio è perfettamente chiuso.
Ancora una volta il comportamento del medico non è così anacronistico o incomprensibile se lo si osserva con un'ottica moderna. Nell'esperienza clinica è abbastanza frequente imbattersi in situazioni analoghe, anche se non così amplificate dalla finzione teatrale. Porsi il problema di cosa sta succedendo a una persona non è la stessa cosa di indagare i suoi sintomi per arrivare ad una diagnosi. Si tratta di due approcci differenti. Nel primo caso ciò che succede a quella persona acquista un senso solo se lo si lega strettamente alla sua identità, mentre nel secondo ciò che conta è l'identificazione di comportamenti che hanno un significato sintomatologico secondo un criterio predefinito e impersonale.
La commedia ha degli straordinari risvolti comici, ma chi la legge avverte un senso di inquietudine che a nostro parere è legato alla vertigine derivata dalla perdita di tutti i riferimenti, compresa l’identità.
Questa angocia è difficile da tollerare e la storia della psichiatria è piena di metodi che hanno lo scopo non dichiarato di allontanarla e di dominarla.
Plauto mette bene in evidenza come l’aspetto inquietante del fenomeno del doppio non riguardi tanto il ritorno del rimosso, come sostenuto da Freud, quanto il fatto che l’esistenza stessa del doppio spinge a interrogarsi angosciosamente sull’essenza dell’identità personale, che appare salda finché non la si esamina da vicino.
Nei Menecmi i due gemelli possiedono una somiglianza perfetta, che induce in errore chi li circonda: la perplessità che provano deriva dal fatto che, anche quando sono trattati bene (come Menecmo I salvato dal servo di Menecmo II o accolto in casa della prostituta Erozio) si rendono conto di non subire tali premure per se stessi, per qualità o comportamenti che dipendono dalla loro persona, ma per uno strano partito preso da parte degli altri, che prescinde dalla loro vera identità e dai loro veri meriti. Un’esperienza di questo tipo forse è vissuta dai pazienti quando si vedono benvoluti a tutti i costi e contro ogni spontaneo impulso dagli operatori, animati da istanze a priori salvifiche4.
In tutta la commedia sono presenti spunti che vanno proprio a toccare il problema dell’identità e della fiducia nel mondo circostante: l’uso di maschere, il travestimento di uomini che interpretano ruoli femminili, la scelta di una città straniera in cui far svolgere l’azione, l’utilizzo di un linguaggio aulico e militare per descrivere vicende di vita quotidiana.
All’inizio Menecmo I, che ha rubato una veste preziosa alla moglie (alla quale peraltro è stato lui a regalarla, seppure con i soldi della dote di lei), si presenta indossando appunto sotto il proprio mantello maschile l’indumento femminile, in un brevissimo episodio di travestitismo con immediati richiami mitologici a Ganimede e simili. “Ho conquistato la preda al nemico (la moglie) nella fossa dei leoni (altro riferimento alla moglie) e ora la dono agli alleati (la prostituta).” D’altra parte Menecmo II appena sbarcato è ammonito dallo schiavo a non fidarsi degli abitanti di Epidamno, luogo straniero, nemico e infido, dove la gente, specie le donne, con trucchi adesca i nuovi venuti fingendo di conoscerli. La previsione si avvera subito, quando Erozio invita Menecmo II in casa sua. Il quale peraltro entra. Qui si evidenzia la nonchalance con la quale in certi momenti i personaggi, messi al cimento dell’angoscia identitaria, affrontano la sfida senza troppi problemi e trovano delle soluzioni provvisorie ma vantaggiose, evitando di impuntarsi su dubbi radicali5.
Insomma, tutte le certezze e i limiti vacillano: legali, sessuali, geografici, sociali, morali, linguistici.
Il gioco identitario si incontra, in forma ancora più massiccia in un’altra famosa commedia di Plauto, Amphitruo, che sembra un altro versante della ricerca dell’autore sulle possibili traversie dell’identità.
Come è noto, Giove prende le sembianze di Anfitrione per passare la notte con la moglie di Anfitrione stesso (Alcmera). Il figlio di Giove, Mercurio, si mette davanti alla porta di casa e prende l’aspetto di Sosia, servo di Anfitrione, per impedire l’accesso a chiunque possa disturbare suo padre.
Mercurio, dio dei ladri, convince Sosia di non essere il vero Sosia, anche a suon di pugni oltre che con elaborati argomenti logici (due metodi, sottilmente interpretativo e brutalmente fisico, entrambi usati in psichiatria). Il dio pretende di essere lo schiavo e che lo schiavo non sia più se stesso, non sia più nulla, gli strappa il nome, l’aspetto esteriore e il posto nel mondo. Dimostra di possedere una conoscenza superiore e quasi di essere capace di leggergli il pensiero, dicendogli cosa ha fatto anche di nascosto il giorno prima (bere forti quantità di vino nella tenda del capo, durante la battaglia) e con un crescendo di violenza lo sottomette completamente, fino a fargli dire di non chiamarsi Sosia e strappandogli il nome, segno principale dell’identità. (Tutte queste tecniche sono state descritte ampiamente in Asylums di Goffman e in “Il prezzo della vita” di Bettelheim, nell’ambito delle istituzioni totali).
Prima di questa resa Sosia cerca in tutti i modi di difendersi dal lavaggio del cervello, aggrappandosi a un lungo elenco di elementi che lo rassicurano sul fatto di essere se stesso: memoria di fatti ed esperienze passati, la consapevolezza del luogo in cui si trova, della continuità delle sue azioni, di essere sveglio e di non stare sognando e anche del dolore alle mascelle per i pugni appena ricevuti.
“Quid igitur ego dubito?” “Sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui.”
(Perché dunque dubito? Per il fatto che penso di certo sono lo stesso che sempre fui.)
La riflessione sull’identità va a finire inevitabilmente in filosofia. Già Vico aveva notato la somiglianza tra l’affermazione dell’incolto schiavo e del celebre Cartesio. Si tratta di un dubbio radicale, che scuote ogni certezza e che richiede, come ultima chance, il ricorso alla coscienza di sé per fondare su una base nuova la futura concatenazione del pensiero. Come fate madrine, i filosofi sembrano affollarsi intorno a questa sorta di culla.
Ma Sosia ha più risorse di quante non sospetti il suo avversario e non tarda a vedere i vantaggi della perdita di se stesso, con un escamotage che ricorda analoghi espedienti messi in atto all’interno delle istituzioni spoliatrici sistematiche di identità da parte dei reclusi per sopravvivere alla degenza. “Se non sono più io, il padrone non mi riconoscerà e non sarò più schiavo.” Intravede così il beneficio secondario di questa malattia, la liberazione da responsabilità e vincoli. Ricorre poi alle categorie esplicative della propria epoca, pensando di aver subito un incantesimo: a sua insaputa qualcuno dotato di poteri magici lo ha trasformato, impadronendosi della sua identità, togliendogli il possesso di se stesso.
Questa spiegazione ricorda moltissimo le descrizioni che gli psicotici fanno delle proprie esperienze, ma non salva dall’angoscia, perché l’idea di vivere in un mondo trasformato magicamente fa sì che nulla nell’ambiente circostante, essere vivente o oggetto, possa essere considerato certo o non piuttosto un simulacro ingannevole6.
La memoria è la garante dell’identità, quando si perde va perduta anche la continuità del sé.
Tornando all’applicazione dogmatica di criteri diagnostici, può essere utile ricordare alcuni aspetti della storia della medicina.
Nell'antichità la psichiatria non esisteva come disciplina distinta dalla medicina generale, nonostante esistessero già specializzazioni. I commentatori dei Menecmi, scritti da Plauto in una data imprecisata dal 219 al 184 a.C., ipotizzano che nella scena del medico sia preso in giro Arcagato, un Greco che in un primo tempo aveva avuto successo a Roma, tanto da avere assegnata una taberna o ambulatorio a spese dello Stato, ma che poi era stato considerato un carnefice per la crudeltà e l'esito infausto dei suoi trattamenti. Catone era stato violentemente contrario all'ingresso a Roma della medicina greca, accusata di voler sterminare per giuramento i barbari (in questo caso, dal punto di vista greco, i Romani) ed era stato un fermo fautore della medicina tradizionale, esercitata in ambito domestico dal pater familias.
Le polemiche sulle terapie, sia prima che dopo Plauto, andavano di pari passo con quelle sull'eziologia delle malattie, sia internistiche che psichiatriche. Come si è detto, l'opposizione tra un modello naturalistico e un modello magico-religioso era piuttosto sfumata. Un magnifico esempio di questa visione pluralistica è dato da Erodoto, quando discute i casi clinici di Cambise e di Cleomene, entrambi impazziti improvvisamente, dopo aver già dato qualche segno di squilibrio. La pazzia di Cambise poteva essere dovuta al dio Api o al 'morbo sacro', cioè all'epilessia, considerata dalla scuola ippocratica come una malattia somatica, somatica come tutte le altre (o sacra, nel senso di mandata in ultima analisi dagli dèi), come tutte le altre. Anche nel caso di Cleomene, autore di gesti crudeli e violenti, Erodoto manifesta un analogo atteggiamento interlocutorio, riportando le ipotesi degli Argivi, che attribuivano la sua follia a un demone, degli Spartiati, che l'attribuivano all'assunzione di vino puro, imparata dagli Sciti, e l'ipotesi propria, che riteneva la sua pazzia dovuta a una punizione per il comportamento tenuto nei confronti di Demarato. Si può in effetti sostenere un'interazione tra le tre ipotesi: demone→ cattive azioni→ senso di colpa → alcolismo; oppure alcolismo→ cattive azioni → demone → senso di colpa → punizione, solo per esemplificarne qualcuna. L'aspetto che colpisce di più, nel discorso di Erodoto, e che il lettore moderno accoglie con vero sollievo, è l'atmosfera di libertà e l'assenza di dogmatismo che caratterizzano la sua trattazione7.
Nell’antichità c’era la tendenza a prendere in considerazione, apparentemente senza preclusioni, differenti spiegazioni della follia; l’interpretazione medico-naturalistica coesisteva con l’interpretazione magico-religiosa (antropologico-culturale) e la medicina popolare continuava a essere praticata e valutata positivamente anche in ambienti colti accanto a quella di importazione greca. Non c'era ancora la credenza che una teoria dovesse essere mutualmente esclusiva rispetto a un'altra e che dovesse essere difesa e imposta a spada tratta, secondo modalità probabilmente mutuate dai sistemi di affermazione delle religioni monoteiste. Nell'ambito della pratica clinica, come del culto, vigeva un certo politeismo8.
Come ultima notazione, si ricorda una diatriba (successiva all'epoca di Plauto) tra Celso, grande sistematizzatore della nosologia psichiatrica antica, e Asclepiade, sul trattamento ambientale della phrenitis, malattia acuta, caratterizzata da febbre, agitazione, allucinazioni, a volte o spesso di esito infausto. La diatriba, come si vedrà, non è ricordata per dare ragione o torto a uno dei contendenti, ma per trarne alcune considerazioni relative al presente.
Celso ( 14 a.C. - 37 d.C.) ha inquadrato in un'unica categoria, l'insania, le tre forme morbose individuate dai suoi predecessori, phrenitis, mania e melancholia considerate quali genera di un'unica malattia, rifiutando la classificazione precedente delle malattie in acute e croniche e introducendo la classificazione in base alla parte del corpo colpita. Celso individua tre assi diagnostici: 1) in base al comportamento nei termini agitazione/tranquillità, 2) in base all'umore, a seconda della presenza di tristezza o euforia; 3) in base alla presenza o meno di allucinazioni. Coerentemente con tale classificazione, Celso propone un trattamento coercitivo (contenzione e percosse) nel caso dell’agitazione, e un trattamento persuasivo (musicoterapia nel caso della tristezza nei disturbi dell’umore) e trattamento ambientale nel caso di phrenitis con allucinazioni. In quest’ultimo caso Celso raccomanda di tenere il paziente al buio, in ambienti non decorati con affreschi che ne favoriscano le allucinazioni, e isolato dagli estranei: le paure e l’agitazione vengono contrastati con un atteggiamento contrario, il riposo. Invece Asclepiade che aderisce a una teoria atomistica e sensualistica secondo la quale la phrenitis dipende da un’ostruzione di corpuscoli nelle membrane cerebrali, che bloccano le vie della percezione: per lui la pazzia dipende da un disturbo della percezione e l’anima non è che il risultato del concorso dei sensi. Coerentemente con questa teoria, Asclepiade consiglia di tenere il malato alla luce, per ristabilire un corretto rapporto tra le cose e gli organi di senso, cioè per fargli vedere la realtà così com’è. Due trattamenti opposti derivano perciò dall’applicazione di due spiegazioni opposte e per l’epoca perfettamente fondate scientificamente9.
Terapie opposte sono propugnate in base a schemi esplicativi ora non più vigenti: forse luce e buio erano efficaci o dannosi per motivi diversi da quelli sostenuti dagli illustri clinici. Si ha una specie di accoppiamento temporaneo tra cura e teoria, destinato col tempo a cambiare: l’efficacia di una terapia constatata clinicamente è inserita (né può essere diversamente) nel quadro di riferimento sanitario del tempo. Anche l’elleboro, efficace per l’azione anticolinergica, era dato invece perché depurava dall’eccesso di bile nera. Questo non vuol essere un invito al relativismo, quanto all’abbandono del fanatismo in materia curativa. A ben pensare, luce e buio sono tutto sommato abbastanza innocui rispetto a farmaci con pesantissimi e spesso irreversibili effetti collaterali.
Un episodio avvenuto in Pronto Soccorso dimostra come l’applicazione di categorie predefinite, quand’anche raffinate e psicoanalitiche, possa riuscire fuorviante.
Una ragazza molto giovane è portata all’osservazione dei sanitari in ospedale perché sembra aver perduto la memoria. Si apprende dalla madre che l’accompagna che è prenotata per il giorno dopo per un’interruzione di gravidanza. La paziente è coniugata e ha già un bambino di un anno. Sembra perplessa e smarrita e chiede: “Ma io ho davvero Luca (il figlio)?” “Non mi ricordo niente.” Lo psichiatra pensa subito a un meccanismo di difesa, negazione o diniego, rispetto alla prossima IVG, a uno stato crepuscolare di tipo isterico, chissà forse indotto da sensi di colpa o simili. Tuttavia cerca di approfondire la situazione e parla (parla) con la madre della ragazza, nonostante la forte pressione (sempre presente in Pronto Soccorso) a risolvere rapidamente il caso per passare al successivo. Va premesso che tutto il nucleo appartiene all’ambiente dell’angiporto di Genova, denotato da un alto tasso di criminalità e di devianza, e che l’aspetto e i modi di entrambe le signore sono tutt’altro che accattivanti. Nondimeno l’ascolto della madre offre qualche informazione supplementare. Forse la figlia è preoccupata perché il marito è appena uscito di prigione, anche se deve farvi rientro tra breve. E come mai è preoccupata? In effetti il genero è sempre stato molto aggressivo, litiga di frequente con la moglie e adesso è scontento della gravidanza, ma anche contraddittoriamente della decisione di interromperla. Queste notizie sono date in momenti successivi, in modo allusivo e a malincuore. Intanto il tempo passa e a quanto pare inutilmente. Alla fine la madre, dopo varie esitazioni (comprensibili) rivela che il genero ha appena picchiato la figlia e le ha fatto sbattere la testa contro il muro. La diagnosi cambia subito: da fuga isterica a trauma cranico. Viene chiamato il neurologo, che deve rinunciare a far eseguire una radiografia per lo stato di gravidanza e che ricovera la paziente in osservazione nel proprio reparto.
Questo breve resoconto insegna l’importanza fondamentale del dialogo e della raccolta della storia, anche in condizioni di urgenza, anche quando gli interlocutori appaiono poco attendibili o poco gradevoli, e soprattutto quando tutte le circostanze sembrano orientare facilmente verso una diagnosi e un trattamento di routine.
Conclusioni
A costo di essere ripetitivi, si nota come la totale aderenza del medico sia alla teoria che al metodo (potremmo dire al setting), non soltanto lo ridicolizza ma lo induce a un atteggiamento inutile e dannoso, ancor di più crea un artefatto (l’agitazione psicomotoria e le risposte di traverso di Menecmo I) che serve a confermare l’atteggiamento di partenza. Il medico non percepisce il paziente e quello che dice ma un prodotto del proprio intervento. Il rifiuto a priori dell’atteggiamento naturale (considerato in modo implicito e forse nemmeno consapevole come sicuramente fuorviante, poco scientifico e poco tecnico, e anche poco prestigioso) fa sì che qualsiasi comunicazione che non rientri nello schema venga ignorata, scotomizzata o tradotta nei termini di ostacolo alla cura. Ad esempio, i comportamenti e i discorsi di Menecmo I potrebbero essere presi per espressione di difese, resistenze, acting out o di squilibri neurotrasmettitoriali, a scelta. Plauto, con la libertà che caratterizza la creazione artistica e in particolare quella comica, non deve tributare alcun omaggio a visioni preconcette e perciò coglie il vero, descrivendo con estrema esattezza sia le azioni dei parenti che portano al TSO, sia i dubbi e i gesti sempre più angosciati di chi si trova davanti alla disconferma in tutte le componenti che costituiscono l’identità: aspetto fisico, percezioni, emozioni, significato delle proprie azioni, ricordi, passato.
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Note:
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