PSYCHOMEDIA Telematic Review
| Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA
Area: Psicodiagnosi e Clinica |
Psicopatologia clinica,
Diagnosi psichiatrica, tipologia delle psicopatie, Teoria della personalità
e giustificazione teoretica della psicoterapia, in un inquadramento dialettico
di G. Giacomo Giacomini * Ripubblicato
on-line da: Psicoterapia Professionale, AA. XII-XIX, 2001 (Fondamenti
metodologici - Psicopatologia clinica, pagg. 53-122) * Direttore dell'Istituto
per la Scienze Psicologiche e la Psicoterapia Sistematica di Genova. Orientamento
epistemologico dell'A: Dialettica Attualistica.
Il presente studio, come parte di un progetto di ricerca sistematica
sulla metodologia della psicopatologia clinica e della psicoterapia, fa seguito
ad altri lavori pubblicati su numeri precedenti della nostra Rassegna, relativi
agli Anni V (n. 1-2, 1988, pp. 35-41); VI (n. 1-2, 1989, pp. 25-46); VII - VIII
(n. 1-2, 1991, pp. 31-78); IX-XI (n. 1-2, 1994, pp. 36-76). In proposito, v. anche
la Presentazione di questo numero della Rassegna. N.B.: Le date tra parentesi,
che compaiono nel testo associate ai nomi degli Autori, si riferiscono all'anno
dell'edizione originale delle opere e rinviano alla bibliografia al termine dell'articolo.
"Dalla capacità d'intendere il contrasto
tra il principio della comprensione rispetto alla spiegazione causale,
dipende, in psicopatologia, la possibilità di uno studio ordinato e
di una chiara ricerca di fonti ultime di conoscenza, profondamente diverse
l'una dall'altra." K.Jaspers, Psicopatologia generale, Introduzione
CONSIDERAZIONI PRELIMINARI E RIFERIMENTI ALLA
TAVOLA EPISTEMOLOGICA UNIVERSALE (TEU) "La
comprensione come tale non porta alla spiegazione causale, ma vi giunge urtando
contro l'incomprensione". K.Jaspers, Psicopatologia generale,
Parte II 1) Il problema della psicopatologia come scienza naturale:
la diagnosi psichiatrica e il concetto di entità nosografica, fondato sul
principio della spiegazione (Erklären) Come risulta
chiaramente dalla nostra ormai più che trentennale ricerca, non è
possibile comprendere il significato della psicopatologia, della psicosomatica,
della psichiatria e della psicoterapia, nel quadro della clinica medica, se non
si tengono presenti due difficoltà preliminari che hanno condizionato,
sin dalle origini, la ricerca teoretica, l'inquadramento nosografico e la pratica
terapeutica di queste discipline. Noi abbiamo verificato, innanzi tutto, come
la psichiatria e la psicopatologia clinica si siano costituite intorno alla seconda
metà del secolo scorso, in funzione dell'ideale, esplicitamente formulato,
di conformare i propri fondamenti teoretici e clinici a quelli operanti nelle
altre discipline mediche. Sotto questa prospettiva, in primo luogo, dovevano
valere, per le discipline psicopatologiche e psichiatriche, i principi del naturalismo,
sia per quanto concerne il significato da attribuirsi ai fatti psichici e psicopatologici,
sia in relazione al concetto medico di malattia. Questa fondazione naturalistica
di tali discipline doveva dunque comportare, in generale, il principio della più
radicale dipendenza dei fatti psicologici dai fatti fisiobiologici: in questo
senso, il fatto psichico, in ogni caso, dovrebbe essere interpretato, secondo
il metodo naturalistico della spiegazione (Erklären) come un
epifenomeno del fatto fisico e/o come una funzione adattiva dell'organismo biologico
all'ambiente naturale. E' ovvio pertanto che, in una simile prospettiva, risulterà
impossibile la costituzione di una psicologia come scienza autonoma, dal momento
che il fondamento reale e razionale dei fatti psichici non sarà inerente
a tali fatti, ma alla dimensione fisiobiologica di cui essi saranno la conseguenza
naturale e in cui il ricercatore, come neurofisiologo, neurochimico, neurobiologo,
neurogenetista, ecc., dovrà, pertanto, cercare la loro causa e la loro
spiegazione. In tal modo, la psicologia, come scienza, dovrà risolversi
nella neurofisiologia, nella neurologia, nella neurogenetica, ecc. In particolare,
sul piano della psicologia medica e della psicopatologia clinica, tale principio
della dipendenza naturalistica della psiche dalla fisi doveva tradursi nella negazione
della malattia mentale come patologia inerente alla stessa dimensione mentale.
Dal momento, infatti, che l'alterazione della psiche, come disfunzione obiettivabile
dell'adattamento biologico e/o come sofferenza individuale, non poteva essere
altro che la conseguenza di un'alterazione strutturale dell'organismo biologico,
risultava ovvio che la disfunzione psichica, in sé, non potesse essere
considerata propriamente come una malattia, ma solo come il sintomo di
una condizione patologica che interessava direttamente le strutture neurobiologiche
dell'organismo fisico e che rappresentava la causa del quadro clinico.
Questa concezione naturalistica della patologia mentale è stata tipicamente
teorizzata da E. Kraepelin, generalmente riconosciuto come il fondatore della
psichiatria clinica moderna,secondo il ben noto modello dell'entità
nosografica. Significativa, al riguardo, è la concezione del Kraepelin,
secondo il quale "non si potrebbe a rigor di termini parlare di malattie della
psiche, sia che si consideri questa come un'entità autonoma, oppure soltanto
come il complesso della nostra esperienza interna. Sono invece le alterazioni
del substrato corporeo della nostra vita mentale quelle sulle quali noi dobbiamo,
dal punto di vista medico, dirigere la nostra attività e i nostri sforzi
terapeutici. Quando saremo riusciti, con le osservazioni cliniche, a formare
gruppi morbosi, con cause, manifestazioni e decorso ben certi e sicuri, allora
sarà nostro compito di approfondire lo studio delle singole forme morbose.
Si è già usata da tempo a questo fine l'anatomia patologica.
Noi dovremo avere da un lato una nozione precisa dei cambiamenti nelle condizioni
anatomo-fisiologiche della corteccia cerebrale, dall'altro delle morbose manifestazioni
psichiche ad essi connesse. Solo allora noi saremo in grado di dedurre dalle alterazioni
della vita psichica i relativi fondamenti anatomo-patologici, e quindi le cause
dell'intero processo morboso e viceversa. Dovremo quindi imparare a conoscere
questi rapporti che dominano il decorso delle manifestazioni psichiche, e studiare
con la massima accuratezza le leggi di dipendenza che esistono tra fatti fisici
e psichici. Non è impossibile sperare di poter giungere ad una vera fisiologia
della psiche, che darà certo una base utile per la psichiatria; essa ci
servirà a scomporre nei loro più semplici elementi le manifestazioni
più complicate, ed in questa scomposizione della vita psichica normale
troveremo gli elementi per poter giudicare e spiegare i diversi disturbi morbosi."(1)
Su queste basi, pertanto, trova la sua giustificazione il noto aforisma del Luxenburger,
secondo il quale "la psiche non può ammalare", anche se, ovviamente,
può segnalarci, attraverso il sintomo, la presenza di una condizione di
malattia (biologica). Tale impostazione teoretica e metodologica, che avrebbe
dovuto conferire alla psichiatria ed alla psicopatologia clinica un chiaro ed
univoco inquadramento sistematico, basato sull'anatomia patologica e sulla diretta
correlazione tra la specificità dei quadri sintomatologici ed i fondamenti
neurobiologici (a loro volta specifici) della malattia, veniva a trovarsi
però, come già si è detto (2), sin dalle origini, di fronte
a due difficoltà preliminari, di ordine clinico e teoretico. Noi sappiamo
anche che tali difficoltà discendono precisamente dalla sostanziale impossibilità
di verificare il postulato naturalistico fondamentale, che intenderebbe stabilire
un diretto rapporto di dipendenza tra un "disturbo" psicopatologico tipico e un
quadro anatomopatologico specifico. In ragione di tale postulato, in effetti,
una volta individuato un reperto neuroanatomopatologico specifico, dovrebbe essere
possibile inferire un corrispondente quadro psicopatologico, a sua volta specifico;
mentre, viceversa, l'individuazione, sul piano dell'osservazione clinica, di un
quadro psicopatologico tipico, dovrebbe consentirci di riconoscere la presenza
di una specifica patologia cerebrale. I seguenti passi del Kraepelin illustrano
in maniera esemplare questo punto di vista: "Se in uno dei tre domini della
pazzia, quelli cioè dell'anatomia patologica, dell'etiologia,
della sintomatologia, noi possedessimo la conoscenza assolutamente completa
di tutti i particolari, non solo ci sarebbe possibile rinvenire in ciascuno di
essi una suddivisione idonea e definita delle psicosi, ma anche ci sarebbe
possibile mettere in relazione tra loro queste tre classificazioni. I casi
morbosi originati da cause realmente simili dovrebbero offrire sempre le stesse
manifestazioni e lo stesso reperto anatomico; le apparenti eccezioni che noi incontriamo
adesso frequentemente, derivano dalla imperfezione delle nostre cognizioni. Da
tale concetto fondamentale si deduce che la classificazione clinica delle alterazioni
psichiche dovrà basarsi sulla suddivisione, contemporaneamente,
su tutti e tre i mezzi di aiuto, ai quali si deve aggiungere ancora l'esperienza
acquistata sul decorso, sull'esito e sulla terapia. Quanto più grande sarà
la somiglianza tra le forme ottenute nelle varie classificazioni, tanto maggiore
sarà la sicurezza che esse rappresentino realmente particolari stati patologici."
(3) La prima delle due difficoltà di ordine teoretico e nosografico,
cui agli inizi si è accennato, si riferisce, precisamente, al fatto che
nessuna di queste due condizioni, necessarie per la costituzione di una nosografia
psicopatologica naturalistica sistematica e per la fondazione di una diagnostica
psicopatologica differenziale, è stata soddisfatta nell'ambito della psichiatria
clinica tradizionale. In effetti, sulla base del confronto tra i reperti neuroanatomopatologici
e le osservazioni della clinica psicopatologica, era possibile verificare come,
a reperti biologici simili, potessero far riscontro quadri psicopatologici corrispondenti
alle più diverse tipologie; mentre, di rimando, non era dato di reperire
alcun quadro psicopatologico tipico, cui non potessero corrispondere i più
svariati reperti dell'anatomia patologica del cervello. Queste osservazioni
mettevano, così, in crisi il postulato portante della psicopatologia naturalistica
delle psicosi e della sua concezione diagnostica, basata sull'idea dell'entità
nosografica. A questo riguardo, K. Jaspers osserva: "La speranza
di trovare, con l'osservazione clinica dei fenomeni psichici, dell'evoluzione
e degli esiti , gruppi caratteristici che, successivamente, possano essere confermati
dai reperti cerebrali, facendo un lavoro preparatorio per l'anatomia
cerebrale, non è stata realizzata. La storia ci insegna i fatti seguenti:
a) i processi cerebrali fisicamente dimostrabili sono stati scoperti sempre ed
esclusivamente mediante esami somatici senza alcun lavoro psicopatologico preliminare;
b) quando si sono trovati processi cerebrali chiaramente delimitati, si è
constatato che in essi possono insorgere di volta in volta tutti i sintomi psicopatologici
e che nel campo psichico non esistono segni caratteristici. Né le forme
psicologiche fondamentali, né la teoria delle cause (etiologia), né
i reperti cerebrali, hanno condotto a raggruppamenti di unità morbose,
nelle quali si potessero classificare tutte le psicosi. L'idea dell'unità
morbosa non può essere mai realizzata nel caso particolare. Perciò
la conoscenza della coincidenza regolare delle stesse cause con gli stessi fenomeni,
evoluzione, esito e reperto cerebrale, presuppone una completa conoscenza di tutte
le singole coincidenze, conoscenza che sta in un futuro straordinariamente lontano.
L'idea dell'unità morbosa è un'idea nel senso kantiano: il concetto
di un compito di cui è impossibile raggiungere la meta, perché sta
nell'infinito; essa però ci indica una direzione di indagine feconda e
significa un vero punto di orientamento per la ricerca empirica
particolare. L'idea dell'unità morbosa non è un compito raggiungibile,
ma il punto di orientamento più utile." (4) 2) Il problema
della psicopatologia come conoscenza dell'esperienza interiore e della sua intrinseca
conflittualità, fondata sul principio della comprensione (Verstehen).
L'altra difficoltà, inerente alla costituzione di una psicopatologia
conforme ai canoni del riduzionismo naturalistico, era rappresentata dal problema
delle psicopatie (o nevrosi), cioè da tutte quelle alterazioni psichiche
(stati di sofferenza interiore, disordini del comportamento, disadattamento sociale,
ecc.), cui non era possibile, in alcun modo, collegare una qualche significativa
alterazione cerebrale. (5) Stati ansiosi e depressivi, comportamenti fobici
e ossessivi, collera e aggressività incontrollabili, tendenze irrefrenabili
verso l'alcool e le droghe, non sono, in moltissimi casi, attribuibili a malattie
del cervello, ma, quando sia stata esclusa, in sede di osservazione clinica, ogni
patologia biologica, sono riferibili all'esperienza interiore del soggetto, sulla
base di analogie che l'osservatore stabilisce con la propria stessa esperienza
e che presuppongono, pertanto, un atto di identificazione psicologica. In
questi casi, la metodica adottata non è più, ovviamente, quella
naturalistica, per la quale noi spieghiamo, in via causale, sul piano dell'esteriorità
naturale, le sofferenze e le disfunzioni delle prestazioni psichiche come la conseguenza
di una malattia cerebrale. In tali circostanze, in effetti, ci rivolgiamo alla
nostra interiorità, per comprendere, attraverso la conoscenza che abbiamo
di noi stessi, dei nostri conflitti, delle nostre contraddizioni e dei contrasti
che viviamo col mondo, con gli altri, con noi stessi, quella interiorità
che, per via analogica, noi attribuiamo all'altro, riconoscendolo, a sua volta,
come soggetto di esperienza interiore e, come tale, accessibile attraverso la
comunicazione espressiva e dialogica (verbale e non verbale). Certamente,
non è casuale il fatto che, prima di affidarci ad una metodica dialogica,
che si ripropone di comprendere le difficoltà psicologiche del paziente,
noi, attraverso un'adeguata diagnosi differenziale, ci riproponiamo di escludere
che tali difficoltà non siano la conseguenza (il sintomo) di una
malattia cerebrale. E' evidente, infatti, che, in quest'ultimo caso, sarebbe
improprio perseguire un'indagine sul piano dell'interiorità soggettiva
(psicologica), quando l'urgenza problematica (la malattia) risiede sul piano somatico,
cui spetta la priorità dell'intervento terapeutico, secondo una metodica
che dovrà esserle conforme. Nell'accertata assenza di ogni malattia
neurobiologica, noi, tuttavia, non dubitiamo della legittimità di una metodica
psicologistica, basata sul dialogo e sull'identificazione analogica, per comprendere
gli stati psicopatici che, in tal caso, consideriamo come varianti esasperate
e drammatizzate di conflitti, sentimenti, sofferenze interiori, di cui noi stessi,
secondo modalità variamente personalizzate, abbiamo, o possiamo avere,
una diretta esperienza. Su tali premesse trova la sua giustificazione l'applicazione
sistematica del metodo della comprensione (Verstehen). I sostenitori
ad oltranza del naturalismo sostengono che, anche i tali casi, tuttavia, non sarebbe
lecito abbandonare il solido terreno della scienza naturale, ma occorrerebbe pur
sempre cercare di spiegare gli stati psichici, non solo psicopatologici e psicopatici,
ma anche normali, come conseguenza di processi cerebrali. Infatti, secondo
tale punto di vista, solo da una simile metodologia naturalistica sarebbe possibile
ricavare conoscenze di ordine scientifico e propriamente razionali. In
realtà, chiunque può rendersi conto che, seguendo una simile metodologia,
anche nei casi non classificabili come neuropatologici, potremo pervenire soltanto
ad una conoscenza neurofisiologica che, eventualmente, potrà anche informarci
sui livelli prestazionali e operativi di molte attività mentali e comportamentali
(intelligenza tecnica, memoria riproduttiva, abilità settoriali specifiche,
ecc.). Su tali basi, tuttavia, non potremo mai entrare in merito ai temi fondamentali
dell'Io riflessivo, della coscienza e della personalità, che caratterizzano
l'autentica conoscenza psicologica, come esperienza dell'interiorità soggettiva.
In effetti, ogni tentativo di ridurre anche l'Io, la coscienza, la personalità,
a schematismi riduttivi ed operazionistici, in base ad artificiose equazioni empirio-naturalistiche
(come ad es. Io = sistema organizzato di controllo della realtà esterna;
coscienza = livello di vigilanza; personalità = automatismi comportamentali
stabilizzati, costituiti da abitudini acquisite, ecc.), eventualmente riconducibili
a localizzazioni cerebrali o a circuiti neuronali, ci porterà ad affrontare
problemi di ordine esclusivamente neurologico e fisiobiologico, ma non certamente
di ordine propriamente psicologico e personologico. Pertanto, di fronte alle
problematiche sollevate dai casi psicopatici (personalità psicopatiche
e reazioni psicopatiche), ci troveremo sempre di fronte ad un dilemma ineludibile:
o rinunciare a comprendere queste condizioni di alterazione psichica, secondo
una metodologia che sia conforme alla loro tipologia; oppure individuare e sviluppare
la specifica metodologia corrispondente alle problematiche tipiche che a tali
condizioni sono pertinenti e che chiamano in causa l'esperienza interiore dell'Io
e della personalità. In effetti, un esame delle diverse dottrine psicopatologiche
ci consente di verificare come alcune di esse abbiano sviluppato teorie riduzionistiche
empirio-naturalistiche delle psicopatie. In questa prospettiva, sono state elaborate,
sotto il profilo neurobiologico, come base di spiegazione delle psicopatie, le
teorie sulle costituzioni biologiche e neuropatiche. Dal punto di vista dell'empirismo
radicale, invece, hanno acquisito credito le varie teorie dello stimolo-risposta
e degli automatismi di adattamento agli stimoli provenienti dall'ambiente esterno,
che costituirebbero un fattore di condizionamento costante, necessario e sufficiente
a spiegare ogni aspetto del comportamento, animale e umano, adattato e disadattato.
L'altro orientamento psicopatologico, che contesta la fecondità delle metodologie
riduzionistiche per lo studio delle psicopatie, trova la sua legittimazione nella
necessità prioritaria di conoscere, in questi casi clinici, la problematica
interiore del soggetto, in funzione di un rapporto dialogico interpersonale che
non si differenzia, fondamentalmente, da quello che ogni uomo, in quanto soggetto
di esperienza interiore, stabilisce con l'altro uomo, cioè con colui cui
attribuisce un'analoga interiorità soggettiva. Perciò, mentre
la psicopatologia empirio-naturalistica, in relazione ai comportamenti umani,
partirà dal principio che la loro spiegazione dovrà essere ricercata
in cause esterne naturali (processi neurobiologici, condizionamenti degli stimoli
ambientali, ecc.), la psicopatologia integrazionistica stabilirà, come
suo punto di riferimento, la dimensione dell'interiorità soggettiva, con
tutte le determinazioni tipiche che le sono pertinenti. In questo modo, la
psicopatologia integrazionistica si trova a percorrere la stessa via di cui ha
diretta esperienza qualsiasi individuo umano che, desiderando conoscere l'identità
di un altro individuo, non lo considera come un semplice sistema di organi e di
funzioni biologiche, nè un complesso spersonalizzato di automatismi adattivi,
ma stabilisce con lui un rapporto dialogico, in funzione del quale gli attribuisce,
innanzi tutto, aprioristicamente, un'interiorità e un'intenzionalità
riflessiva. 3) Metodo esplicativo, metodo comprensivo e loro fondamenti
epistemologici: la Tavola Epistemologica Universale (T.E.U.). Sul
piano epistemologico, pertanto, noi possiamo verificare, in psicopatologia, la
presenza di due differenti impostazioni metodologiche. Di queste, l'una,
di origine naturalistica, fondata sul principio della spiegazione fisiobiologica
(Erklärende Psychopatologie), nega radicalmente ai fenomeni psichici
e psicopatologici qualsiasi autonomia interiore e ne riconosce una valenza scientifica
o clinica solo come conseguenza epifenomenica o come sintomo rivelatore della
realtà somatica (e, in particolare, delle condizioni del substrato neurobiologico).
In questa prospettiva naturalistica, il discorso psicopatologico, a livello scientifico,
può fondarsi solo sul terreno della patologia neurologica. In tal modo,
la psicopatologia (anche prescindendo dalla possibilità di validazione
clinica della teoria dell'entità nosografica) dovrà necessariamente
risolversi nella neuropatologia. In effetti, è evidente che, in presenza
di patologie cerebrali, in relazione alle necessità cliniche di ordine
diagnostico e terapeutico, assumerà un'importanza primaria una classificazione
degli stati morbosi psicopatologici in funzione dell'anatomia patologica e della
eziopatogenesi delle diverse malattie neurologiche (infettive, tossiche, degenerative,
circolatorie, neoplastiche, dismetaboliche, endocrine, anossi-anemiche, ecc.).
Osserva, a tale riguardo, lo Jaspers: "Lo studio del cervello - senza tener
conto della clinica e senza aver imparato nulla dalla psicopatologia - ricerca
i processi morbosi del cervello. I risultati all'incirca sono: ogni anomalia psichica
può presentarsi in qualsiasi processo cerebrale organico (ma solo se viene
considerata oggettivamente ed esteriormente). A misura che questa ricerca progredisce,
le affezioni psichiche diventano sempre di più malattie "sintomatiche"
di processi propriamente neurologici. Il concetto di unità morbosa passa,
secondo questo punto di vista, dal campo della psicopatologia in quello della
neurologia". (6) Sotto questo profilo, anzi, la psicopatologia clinica,
utilizzata come semeiotica psichiatrica, in ragione della sua aspecificità,
dovrà essere sempre considerata di ordine secondario rispetto alla semeiotica
neurosomatica, per quanto concerne il valore dei reperti diagnostici. In tal senso,
lo Schneider così si esprime: "Nel quadro della diagnostica psichiatrica
la psicopatologia si trova in continuo regresso. Se l'idea della psichiatria come
scienza medica fosse ormai compiuta e definita, la psicopatologia non avrebbe
più in essa alcun decisivo peso diagnostico; non avrebbe più alcun
significato pratico. Naturalmente però, ciò ha valore solo per la
psicopatologia delle psicosi, non per le varianti abnormi e, stricto sensu,
psicopatiche della personalità e per le sue reazioni all'avvenimento,
che non solo oggi ma mai potranno essere ricondotte a malattie".(7) L'altra
metodologia psicopatologica, che possiamo definire personologica (e che si giustifica,
in sede clinica, in assenza di reperti somatici significativi, i quali richiederebbero,
invece, l'intervento del metodo esplicativo), stabilisce il suo punto di riferimento
non già sul piano dell'esteriorità naturale, come dimensione dei
fatti fisici e biologici, ma nell'ambito dell'interiorità soggettiva, assunta
come una forma autonoma e reale di esperienza, accessibile unicamente in funzione
di un atto di relazione diretta del soggetto con se stesso, o con un'esperienza
soggettiva aliena (un altro individuo soggettivo) cui si attribuisca un'analoga
possibilità di autorelazione. Questa metodologia personologica, in
quanto fondata sul principio dell'esperienza soggettiva assunta come realtà
originaria e irriducibile, è stata anche definita come psicopatologia
della comprensione (Verstehende Psychopathologie) e delle relazioni
comprensibili, pertinenti al concreto essere individuale. In tal senso, essa
è stata contrapposta all'astrattezza della metodologia naturalistica della
spiegazione (Erklären) che nega all'individuo ogni autentica realtà
interiore, per ridurlo alla dispersività delle strutture e delle funzioni
proprie della corporeità fisio-biologica. Ai nostri giorni, non
è possibile impostare alcun serio discorso nell'ambito dell'epistemologia
della psicopatologia, senza la consapevolezza che queste due differenti impostazioni
metodologiche non corrispondono a due differenti realtà, d'ordine empirico,
o naturalistico, o ontologico-metafisico, bensì a due diverse categorie
mentali, ovvero a due nostre differenti modalità di ordinamento delle nostre
conoscenze. (8) Da tali differenti categorie dipendono le diverse
e contrapposte modalità di concettualizzazione delle antitesi fondamentali
della nostra esperienza, quali il rapporto soggetto-oggetto, io-non io, mente-corpo,
sanità-malattia, interiorità-esteriorità, individuo-specie,
cultura-natura, singolo-società, particolare-universale, immanenza-trascendenza,
ecc. L'esigenza di impostare, in psicopatologia, un discorso epistemologico
differenziato e sistematico, rinvia necessariamente alla Tavola Epistemologica
Universale ed alle sue categorie fondamentali, senza le quali ci è impossibile
comprendere i differenti significati che, in relazione a tali categorie, vengono
assunti dalle antitesi originarie della nostra esperienza (V. Tavola I). (9)
Noi abbiamo già evidenziato come la metodologia del riduzionismo naturalistico
comporti una semplificazione radicale delle problematiche inerenti a tali antinomie:
in effetti, ciò che caratterizza il naturalismo è la negazione della
realtà del soggetto e la sua risoluzione nella dimensione dell'oggettualità,
che il naturalismo riconosce come unica autentica realtà. Il riduzionismo
naturalistico, che nella T.E.U. (Tavola Epistemologica Universale) trova la sua
collocazione nella colonna 1, secondo tre differenti formulazioni categoriali
(1A, 1B, 1C), assume la sua più coerente teorizzazione nello strutturalismo
riduzionistico (formulazione categoriale 1A) che, in psicopatologia, corrisponde
alla nosografia psichiatrica conforme al modello dell'entità nosografica
(W.Griesinger, K.Kahlbaum, K.Kleist, E.Kraepelin, C.Wernicke,T.Meynert, ecc.).
(10) Noi sappiamo come questa impostazione riduzionistica della psicopatologia
psichiatrica tradizionale sia stata messa in crisi dal funzionalismo integrazionistico
(categoria 2B della TEU) che, nella definizione dei quadri nosografici, ha assegnato
alle sindromi funzionali tipiche (secondo K.Bonhöffer, A.Hoche, O.Bumke)
ed ai cosiddetti "tipi di reazione" (A.Meyer) una importanza prioritaria
rispetto al modello della cosiddetta "entità nosografica", considerato
come "mitico" e praticamente inutilizzabile.(11) Poiché, tuttavia,
il modello delle sindromi funzionali e dei tipi di reazione assume
come termine di riferimento il principio dell'adattamento, anzi del disadattamento
ambientale, può accadere, non di rado, che venga misconosciuta l'importanza
dalla problematica clinica relativa al fondamento differenziale (somatico o personologico)
dei quadri psicopatologici e psicopatici. A tale riguardo, la psicopatologia
strutturalistica, nella sua versione integrazionistica (categoria 2A della TEU)
si fa interprete della necessità di una diagnostica differenziale dei quadri
nosografici in relazione al loro differente fondamento patogenetico (somatico
o personologico), da cui dipende l'applicazione delle due diverse metodologie
(della spiegazione o della comprensione) nella ricerca, nella clinica e nella
terapia. (12) 4) I fondamenti epistemologici della diagnostica differenziale
in psicopatologia: strutturalismo integrazionistico, funzionalismo integrazionistico
e giustificazione teoretica della psicoterapia. E' evidente infatti
che, in sede clinica, il compito dello psicopatologo non potrà esaurirsi
nella definizione di un quadro di disadattamento più o meno tipico e nella
valutazione della sua più o meno rilevante gravità, secondo il modello
delle sindromi psicopatologiche funzionali o dei tipi di reazione, perché,
per una seria indagine clinica, dal punto di vista metodologico della diagnosi,
della terapia e della ricerca, si imporrà sempre la necessità di
individuare (esplicitamente o implicitamente) la specifica patogenesi (somatica
o personologica) dei quadri psicopatologici osservabili. In effetti, anche
nell'ambito della psicopatologia funzionalistica di orientamento integrazionistico
viene riconosciuta la necessità di una differenziazione metodologica specifica
ad ogni livello (di ricerca, di diagnosi, di terapia) in relazione a quei fenomeni
che, in un identico quadro psicopatologico, possono essere riferiti ad una patogenesi
somatica (e che, pertanto, risulteranno riducibili alla metodologia della spiegazione
naturalistica come sintomi di una malattia neurobiologica). A tali fenomeni
si contrapporranno pur sempre altre manifestazioni psicopatiche che, viceversa,
sono riferibili ad una patogenesi personologica (e che, come tali, saranno interpretabili
secondo la metodologia della comprensione, in quanto espressione di conflitti
interiori). (13) A sua volta, nell'ambito della psicopatologia strutturalistico-integrazionistica,
viene riconosciuta (con K.Jaspers e K.Schneider) l'impossibilità di una
verifica, sul piano empirico, del concetto di entità nosografica. In tal
senso, la funzionalità del concetto di sindrome psicopatologica e di tipo
di reazione può essere clinicamente legittimato. Il principio dell'entità
nosografica, tuttavia, resta pur sempre validato, sul piano clinico, come ideale
regolativo che, per quanto irrealizzato empiricamente, stabilisce i criteri della
diagnostica differenziale psicopatologica, indispensabile per una nosografia psichiatrica
sistematica. Al giorno d'oggi, pertanto, è possibile asserire che,
attraverso l'integrazione reciproca dei loro contributi, i due grandi orientamenti
della psicopatologia, strutturalistico e funzionalistico, nelle loro versioni
integrazionistiche, siano pervenuti ad una visione sostanzialmente uniforme delle
nosografia psichiatrica, epistemologicamente fondata sulla differenziazione tra
due grandi categorie psicopatologiche: da un lato, la categoria della
psicosi organiche o comunque fondabili su basi somatiche, cui è pertinente
la metodologia della spiegazione; dall'altro lato, la categoria delle psicopatie
(personalità psicopatiche, sviluppi psicopatici, reazioni abnormi agli
avvenimenti), che non sono derivabili da un fondamento somatico significativo
ed alle quali dovrà applicarsi la metodologia della comprensione (V. Tavola
III). (14) Una tale differenziazione, in ragione della sua coerenza epistemologica,
ci consente di individuare due vere e proprie psicopatologie, ognuna
caratterizzata da un proprio metodo specifico: l'una, cui è pertinente
il metodo della spiegazione e che ricerca sul piano neurobiologico l'origine (come
patogenesi) dei fenomeni psicopatologici (in quanto sintomi e sindromi), rappresenta
il fondamento teoretico della psichiatria clinica; l'altra, che si conforma al
metodo della comprensione e che riconosce nell'interiorità soggettiva e
nelle sue intrinseche contraddizioni il fondamento originario dei conflitti psichici
e della sofferenza mentale, dovrà essere invece considerata il fondamento
teoretico della psicoterapia. (15) E' importante sottolineare, in primo
luogo, come questa classificazione sia l'unica in grado di conferire un autentico
significato teoretico e clinico al principio della diagnostica psicopatologica
differenziale, in funzione del quale il fenomeno psicopatologico potrà
assumere una valenza specifica, come sintomo di una malattia neurobiologica,
oppure come espressione di una esperienza conflittuale soggettiva.
Inoltre, in secondo luogo, un simile ordinamento consente di superare l'incertezza
della più generica classificazione che, sulla base di criteri ispirati
ad un semplice funzionalismo adattivo, distingue i quadri psicopatologici secondo
le due categorie delle neurosi e delle psicosi, in relazione all'entità
dei disturbi dell'adattamento comportamentale al mondo esterno ed alle alterazioni
del senso della realtà. (Vedi Tavola V). Poiché il senso della
realtà ed i disturbi dell'adattamento possono presentare diverse variazioni
accidentali non solo nei quadri neurotici, ma anche in quelli psicotici, questi
criteri, sul piano clinico, hanno un valore puramente empirico e, ai fini di una
classificazione sistematica, non sono paragonabili a quelli basati sulla differenziazione
epistemologica tra il metodo della spiegazione e quello della comprensione.
Perciò, malgrado l'apparente semplificazione, la classificazione secondo
la bipolarità neurosi-psicosi lascia inappagata l'esigenza di una classificazione
epistemologicamente fondata, così da rendere necessaria l'introduzione
di categorie supplementari (come le cosiddette "sindromi marginali" o i casi "borderline",
ecc.), che complicano e confondono il prospetto nosografico. Infine, in
terzo luogo, la nosografia sistematica epistemologicamente fondata secondo
la distinzione tra psicosi e psicopatie è l'unica in grado di garantire
una giustificazione teoretica alla psicoterapia come disciplina autonoma.
In effetti, la differenziazione sistematica, di ordine epistemologico, tra psicopatie
e psicosi definisce nel modo più rigoroso la linea di demarcazione tra
il settore disciplinare della psicoterapia e quello della psichiatria, assegnando
al primo la conoscenza dell'esperienza psicopatologica in funzione del metodo
della comprensione, al secondo la conoscenza dei fatti psicopatologici in funzione
del metodo della spiegazione. 5) Metodo esplicativo e metodo comprensivo
in psicopatologia: antitesi, complementarietà, dialettica. Trattandosi
di una differenziazione di ordine metodologico e non contenutistico, è
evidente che, sul piano della clinica psicopatologica, entrambe le metodologie
dovranno essere applicate ai medesimi contenuti di osservazione, dovendosi assegnare
all'osservatore il compito di individuare quale delle due dovrà essere
legittimamente applicata al caso specifico. E' evidente che la legittimazione
dell'applicazione clinica, al caso psicopatologico specifico, della metodologia
della comprensione dovrà comportare l'esclusione del valore significativo,
in relazione allo stesso caso, della metodologia della spiegazione. Viceversa,
quanto più lo psicopatologo si persuaderà della necessità
di impiegare, al caso osservato, il metodo della spiegazione, tanto meno si riterrà
funzionalmente validabile, ai fini della soluzione clinica del caso in questione,
il metodo della comprensione. In questo caso, il valore significativo assegnato,
sul piano clinico, al metodo della spiegazione, comporterà, parallelamente,
una invalidazione del metodo comprensivo e, conseguentemente, condurrà
ad una riduzione della fenomenologia psicopatologica osservata ad una dimensione
neurobiologistica e naturalistica, che escluderà ogni problematica pertinente
all'interiorità soggettiva. In particolare, in una simile prospettiva,
alle componenti "psicogene" (esperienze conflittuali, reazioni agli avvenimenti,
atteggiamenti della personalità, vissuti della storia individuale, ecc.)
presenti nel quadro clinico, non sarà accreditato un significato propriamente
"psicogenetico", ma soltanto "patoplastico", ininfluente dal punto di vista del
determinismo genetico della psicosi. In tal senso, il rapporto tra le due metodiche,
della spiegazione e della comprensione, risulterà definito in termini di
antitesi e di complementarietà. E' evidente che i due
metodi sono tra di loro reciprocamente antitetici perché, quanto più
troverà applicazione l'uno, tanto più si ridurranno le possibilità
di applicazione dell'altro. Essi, tuttavia, sono anche complementari, perché
non è possibile giustificare l'applicazione del metodo della comprensione
se non in funzione di una corrispondente, accertata inapplicabilità del
metodo della spiegazione, e viceversa. Il rapporto tra le due metodologie
può essere definito dialettico per quanto concerne le possibilità
di estendere il metodo della comprensione (riconosciuto come pertinente all'autentica
personalità), riducendo, quanto più è possibile, le condizioni
che ne limitano l'applicabilità e che postulano l'intervento del metodo
della spiegazione. In tal senso, il rapporto dialettico tra le due metodologie
si riconduce alla dialettica tra la positività della personalità,
come Io interiore, cui si contrappone la natura esteriore, vissuta dall'Io come
limite che nega le sue possibilità di autoaffermazione e che deve essere
negato in funzione dell'autoaffermazione del soggetto (A = non-non A) Per
tale ragione, il rapporto tra i due metodi decadrà dalla sua dialetticità
quanto più assumerà rilevanza il metodo della spiegazione, in funzione
del quale ogni spontaneità soggettiva, inerente all'autentica personalità,
risulterà radicalmente annullata. In suo luogo, subentrerà una
serialità naturalistica di ordine causale, conforme alle leggi della natura
fisica (A = A), cui competerà, in esclusiva, l'autentica positività,
mentre qualsiasi forma di intenzionalità interiore dovrà essere
aprioristicamente negata, in quanto priva di qualsiasi significato logico e scientifico.
La legittimazione dell'applicabilità del metodo comprensivo comporta, viceversa,
il riconoscimento non solo della spontaneità soggettiva come autenticazione
positiva della personalità, ma anche la definizione dell'oggettualità
naturale come limite esteriore che nega il soggetto e che il soggetto deve dialetticamente
superare, per realizzare se stesso come personalità. Il contrario, però,
non è vero, perché l'assunzione della natura come incondizionata
positività oggettuale (così come postulato dal metodo della spiegazione)
comporta la perdita di senso e l'annullamento radicale, di ordine ontologico-metafisico,
di qualsiasi forma di spontaneità soggettiva, su cui si fonda l'autentica
personalità. 6) Diagnostica differenziale tra psicopatie genuine
e "pseudopsicopatie" (sintomatiche): la giustificazione clinica della psicoterapia
sistematica e la sua fondazione personologica. Il carattere razionale
e funzionale della nosografia psichiatrica epistemologicamente fondata, non solo
in rapporto alla possibilità di definire le condizioni per un'autentica
diagnostica psicopatologica differenziale, ma anche per delimitare i confini entro
i quali può configurarsi la psicoterapia come disciplina autonoma, è
verificabile, in particolare, in riferimento al problema diagnostico della differenziazione
tra psicopatie genuine e pseudopsicopatie (o psicopatie sintomatiche di una patologia
neurobiologica). Per quanto, come già ha sottolineato K.Schneider,
l'idoneità dei contenuti psicopatologici a valere come sintomi specifici
di una psicosi fondabile su basi somatiche sia sempre problematica (perfino un
delirio confuso non sempre è sufficiente per inferire la presenza di una
patologia neurobiologica, che potrà essere diagnosticabile con certezza
soltanto tramite i reperti somatici), tuttavia l'individuazione di talune insufficienze
prestazionali (quali il disorientamento temporo-spaziale, gli stati amnestici,
il difetto del giudizio critico, ecc.), le loro modalità di insorgenza
ed il loro decorso clinico, vengono riconosciute universalmente come indici significativi
di decadimento mentale conseguente a patologie cerebrali di diversa natura. (Soprattutto
nelle forme a decorso cronico e progressivo, l'individuazione di tali deficit
intellettivi e prestazionali consentirebbe di formulare un giudizio diagnostico
di psicosi fondabile su una neuropatologia da inquadrarsi secondo la metodologia
naturalistica della spiegazione, di competenza psichiatrica). In questa prospettiva,
non vi è alcuna ragione per non considerare come "sintomatici" anche quei
quadri clinici che, pur presentando una tipologia "psicopatica", compaiono nelle
fasi prodomiche delle psicosi organiche croniche. In caso di accertata presenza
di una patologia neurobiologica, non c'è dubbio che debba essere considerato
preminente, in sede clinica, il principio dell'esserci (Dasein)
dello stato psicopatologico o psicopatico, come alterazione formalmente "non comprensibile"
dell'esperienza soggettiva, da correlarsi, in termini di spiegazione naturalistica,
all'insorgenza della malattia neurobiologica. Parallelamente, passerà in
secondo piano il principio dell'"essere così" (Sosein) del quadro
psicopatico, come tipologia dei contenuti di esperienza riferibili comprensibilmente
agli avvenimenti, alla storia del soggetto ed alla sua personalità (i quali
risulteranno accreditabili di una valenza soltanto "patoplastica"). La condizione
opposta si verificherà nel caso che dalle indagini somatologiche si ottenga
un responso negativo o anche scarsamente significativo per una correlazione di
dipendenza somato-psichica della fenomenologia psicopatica. In questo caso
si aprirà una problematica psicopatologica che si richiamerà al
principio della comprensione e che giustificherà l'introduzione del discorso
psicoterapeutico, in quanto diventerà legittimo ricercare nella stessa
interiorità del soggetto e nelle antitesi fondamentali del suo essere e
del suo divenire storico le radici conflittuali della psicopatia. In questo
senso, il discorso psicoterapeutico si giustificherà in funzione di una
teoria della personalità che renda esplicita la tematica dialettica del
soggetto come costitutiva contraddizione e come possibilità di superamento
delle sue problematiche interiori nell'ambito dello sviluppo storico della sua
personalità. 7) La psicopatologia comprensiva e la sua fondazione
dialettica, in un contesto clinico: psicoanalisi e fenomenologia Il
riconoscimento delle psicopatie come categoria psicopatologica autonoma non può
prescindere da una teoria sistematica della personalità e dall'inquadramento
del metodo della comprensione in una prospettiva dialettica. Queste sono anche
le condizioni necessarie per la legittimazione di una psicoterapia sistematica.(16)
In effetti, solo in funzione di una logica dialettica diviene possibile giustificare
razionalmente, secondo il metodo della comprensione, la teoria della personalità
e, conseguentemente, legittimare logicamente anche una teoria sistematica della
psicoterapia. Noi sappiamo come la possibilità di un'autentica fondazione
logica e sistematica sia della teoria della personalità, sia della teoria
della psicoterapia, rappresenti uno dei più controversi problemi della
psicopatologia comprensiva. Queste problematiche hanno trovato, in età
contemporanea, le loro più significative interpretazioni nelle ricerche
psicologiche e psicopatologiche di ispirazione fenomenologico-esistenzialistica
e nelle psicoterapie di orientamento analitico (psicoanalisi freudiana, psicologia
individuale adleriana, psicologia analitica junghiana, analisi del carattere reichiana,
ecc.). In un contesto psicopatologico generale occorrerà innanzi tutto
ribadire, in via preliminare, come tanto il discorso fenomenologico come quello
psicoanalitico, così come ogni altra forma di psicologia comprensiva o
personologica, risulteranno giustificabili, sul piano clinico, soltanto nella
proporzione in cui sarà possibile escludere l'applicabilità del
metodo esplicativo, cioè la prospettiva di una diretta dipendenza dei quadri
psicopatici da patologie neurobiologiche. Una corretta applicazione clinica
della metodologie fenomenologiche e psicoanalitiche ai casi psicopatici, sia per
quanto concerne la teorizzazione della personalità e l'interpretazione
psicopatologica, sia in relazione alla teoria ed alla pratica della psicoterapia
sistematica, non potrà pertanto prescindere da un'adeguata diagnostica
psicopatologica differenziale. E' evidente che l'accertamento diagnostico
di una qualsiasi patologia somatica (di ordine degenerativo, infettivo, tossico,
dismetabolico, endocrino, neoplastico, anossi-anemico, circolatorio, ecc.) porrà
dei limiti ben precisi allo sviluppo ed all'applicazione, in sede clinica, delle
metodologie comprensive e psicoterapeutiche, in quanto tenderà a sopprimere,
per definizione, la dialettica dell'esperienza soggettiva. Ciò premesso,
occorrerà anche verificare in quale misura fenomenologia e psicoanalisi
abbiano contribuito allo sviluppo della dialettica come condizione per la costituzione
di una teoria sistematica della personalità, delle psicopatie e della psicoterapia.
In effetti, non può esservi dubbio che una teoria sistematica delle psicopatie
e della psicoterapia come disciplina autonoma possa costituirsi soltanto sulla
base di una concezione della personalità che abbia nella dialettica il
suo fondamento logico specifico. Solo in tal caso si prospetterà la
possibilità di teorizzare una patologia le cui origini non siano di ordine
naturalistico, le quali, come tali, non si presentino come un limite estrinseco
alla personalità ed al suo processo formativo, ma siano radicate nella
stessa dialettica della personalità interiore, come possibilità,
da parte del dialettismo, di negare se medesimo sino al limite dellannullamento
del proprio stesso sviluppo storico. E' da sottolineare, a tale riguardo,
che solo in una prospettiva dialettica noi saremo in grado di pervenire ad una
teoria comprensiva della patologia psichica, nella sua autenticità, in
quanto contraddizione e conflittualità costitutivamente inerenti all'interiorità
soggettiva. Occorre anzi non dimenticare, in tal senso, che proprio in questa
interiorità del soggetto la contraddizione e il conflitto assumono una
concreta realtà, mentre restano aprioristicamente escluse dalla dimensione
della natura esteriore (fisica, chimica, biologica), dove la formula logica dell'identità
(A=A) si applica, senza eccezioni, ad ogni fatto di osservazione, inclusa anche
la fenomenologia del patologico. In effetti, in una coerente concezione naturalistica,
qual è quella definita dallo strutturalismo riduzionistico (vedi il riquadro
1A della T.E.U.), il fenomeno "patologico" resterà sempre immune da ogni
implicazione di ordine defettivo o contraddittorio. Pertanto, una volta riconosciuta
nella sua obbiettività, come fatto partecipe delle leggi della natura e
conforme alla razionalità universale, qualsiasi "patologia" troverà
la sua validazione in tale razionalità (A=A), da cui resterà esclusa
ogni considerazione particolaristica di disvalore da parte del soggetto individuale.
Occorrerà, a tale proposito, ricordare che ogni posizione soggettivistica
sarà sempre, da un punto di vista naturalistico, identificata col puro
particolarismo e, come tale, sarà considerata fonte di errore e di travisamento
della realtà. Verità e realtà, secondo tale punto di
vista, saranno raggiungibili soltanto attraverso un radicale emendamento da ogni
soggettività, al fine di approssimare, quanto più è possibile,
i nostri giudizi e le nostre conoscenze alla pura oggettualità naturale
e alle sue leggi universali e necessarie. 8) La fondazione metodologica
autonoma della psicopatologia comprensiva: il metodo dialettico come condizione
per la teorizzazione della diagnostica psicopatologica differenziale.
Da tutto ciò deriva che, in conformità a quanto contemplato
dalla T.E.U., il concetto del patologico presenterà sempre un duplice significato,
in ragione della duplice formulazione categoriale che gli sarà stata conferita.
In relazione ad una formulazione categoriale rigorosamente naturalistica (corrispondente
allo strutturalismo riduzionistico: vedi T.E.U., categoria 1A), il concetto del
patologico e della malattia non comporterà, in Sé, alcun giudizio
di disvalore. La malattia, in effetti, rappresenterà un fatto obbiettivo,
al pari di ogni altro fatto della natura, individuabile in funzione delle leggi
necessarie, universali e inviolabili pertinenti alla natura stessa (A=A; Essere=Essere).
Dal punto di vista scientifico, a fronte del fondamento ontologico-strutturale
della malattia come realtà naturale, il deficit funzionale e lo stato di
sofferenza esperita soggettivamente risulteranno affatto trascurabili (fatta salva
la possibilità di una loro utilizzazione pratica, in sede clinico-diagnostica,
come "segni" e come "sintomi" della malattia biologica). In relazione, viceversa,
ad una formulazione categoriale dialettico-attualistica (vedi T.E.U. categoria
2C), il concetto del patologico assumerà una valenza profondamente differente.
In effetti, essa troverà il suo punto di riferimento non già nell'oggettualità
indifferente, in quanto natura (A=A), bensì nel soggetto e nella problematica
della sua autorealizzazione dialettica (A=non-nonA; Essere=non-nonEssere).
E' evidente che, in rapporto all'essere soggettivo, in quanto processo autoformativo
che si caratterizza per la sua costitutiva problematicità, il principio
del non-essere acquisterà una concreta realtà, in quanto limite
negativo per la realizzazione dell'essere soggettivo. E' anche evidente, al
riguardo, che assumerà un differente significato la negatività che
si pone come limite estrinseco rispetto a quella che si pone come limite intrinseco
in rapporto all'autorealizzazione del soggetto. In effetti, il limite estrinseco,
come realtà naturale, comporta, per il soggetto, una problematicità
il cui superamento richiede una metodologia esplicativa (di ordine fisicalistico
e tecnicistico). Il limite intrinseco, come esperienza della contraddizione
immanente all'esperienza interiore ed al suo processo autocostitutivo, comporta,
invece, la possibilità dell'estrema esasperazione delle stesse antitesi
dialettiche della personalità in antinomie inconciliabili, così
che la dialettica si annulla da se stessa. L'autenticazione della dialettica,
come soggetto che lotta per la realizzazione del suo essere, in quanto personalità,
comporta pertanto che le antitesi costitutive dell'interiorità soggettiva,
e lo stesso limite del non-essere, conservino la loro funzionalità storica.
In tal senso, si richiede che le contraddizioni fondamentali dell'interiorità
soggettiva si traducano in rinnovati momenti di integrazione storica della personalità
e che in tale processo di integrazione trovino la loro risoluzione i momenti involutivi
e conflittuali che limitano lo sviluppo del soggetto e la sua individuazione.
(17) Pertanto, in tale prospettiva, la problematica del limite intrinseco,
come condizione interiore del soggetto che si dibatte e si aliena nelle antinomie
della propria esperienza, comporterà l'esigenza di una metodologia comprensiva
che riconosca e mantenga viva la dialettica delle contraddizioni nella loro funzionalità
storica, come condizioni per la realizzazione della personalità. Risulta
evidente, perciò, che, in un contesto clinico, la fondazione epistemologica
di una psicopatologia comprensiva autonoma rappresenti la condizione per la teorizzazione
di una diagnostica psicopatologica differenziale. In effetti, una tale condizione
potrà verificarsi individuando nella dialettica, come logica della personalità,
il fondamento metodologico autonomo della psicopatologia comprensiva, in contrapposizione
col metodo esplicativo (delle cause naturali), che caratterizza invece la psicopatologia
psichiatrica. 9) Psicopatologia comprensiva, psicoanalisi, metapsicologia
e dialettica della personalità E' dunque indubitabile che
una psicopatologia comprensiva, in quanto condizione metodica per la fondazione
di una teoria sistematica della personalità, dovrà trovare nell'interiorità
soggettiva il suo punto di riferimento, in antitesi con una psicopatologia psichiatrica
esplicativa, che individua nell'oggettualità neurobiologica il fondamento
di ogni patologia. Malgrado questa sua imprescindibile caratterizzazione,
una psicopatologia comprensiva può tuttavia smarrire la sua autentica identità
epistemologica quando, indugiando sulle posizioni di una teoresi naturalistica,
non acquisisca la piena consapevolezza del suo intimo fondamento dialettico.
A questo proposito, la psicoanalisi freudiana rappresenta l'esempio tipico di
una simile contraddizione epistemologica. Com'è noto, da un lato, la
psicoanalisi nasce originariamente nell'ambito della prassi psicoterapeutica,
come rapporto dialogico e dialettico medico-paziente. In questo contesto,
ciò che si pone in primo piano è l'esperienza soggettiva, anzi intersogggettiva,
come problematica della personalità interiore e della sua relazione interpersonale,
intrapersonale e oggettuale. E' ben noto come, in questo senso, la psicoanalisi,
come prassi terapeutica, si riproponga di promuovere il dialogo interiore del
soggetto, nella sua massima spontaneità (tecnica delle libere associazioni
e analisi del mondo onirico e fantastico) e, nel contempo, di sviluppare la riflessione
critica del paziente soprattutto in riferimento allo sviluppo storico individuale
nel suo rapporto di alterità (analisi dei conflitti infantili e dei primi
rapporti oggettuati), prendendo come punto di riferimento la stessa relazione
interpersonale attuale con l'analista (analisi del rapporto di transfert).
D'altra parte, noi sappiamo come, sul piano teoretico, S. Freud si sia riproposto
di ridurre tutta la ricca problematica dialettica, che si evidenzia sul piano
del dialogo analitico, ad una dimensione positivistica e naturalistica. Così,
l'antitesi dialettica fondamentale tra esperienza del piacere ed esperienza della
realtà viene ridotta al meccanismo di scarico e/o di contenimento di un'energia
fisiobiologica denominata libido; il rapporto di soggetto e di oggetto è
ricondotto ad un "investimento", ovvero ad un "trasferimento" di cariche libidiche
dal contenitore originario dell'Io ad un altro contenitore esterno,
che in tal modo si arricchisce di energia a spese del suo elargitore (oppure,
in alternativa, viene teorizzato come opportunità, per il sistema di controllo
dell'Io, di scaricare all'esterno le energie eccedenti dell'Es); la
contraddizione tra l'ideale del sentimento per un immediato appagamento e l'ideale
della riflessione verso un costante autosuperamento si riduce all'introiezione,
in uno spazio interiore fisicalizzato, di oggetti originariamente esteriori, sovraccaricati
di libido che, in tal modo, sono idealizzati e introdotti (come Superio) nello
spazio "interno", in contrapposizione con un Io svuotato di libido;
e così via. Com'è noto, il sistema teoretico adottato da Freud
per ricondurre le antitesi dialettiche fondamentali evidenziate dalla sua ricerca
(Conscio-Inconscio, principio del piacere-principio della realtà, Io-Es,
relazione narcisistica-relazione d'oggetto, libido-destrudo, ecc.) ad una dimensione
naturalistica, è rappresentata dalla cosiddetta metapsicologia.
Da questa dipende anche un modello di teoria della personalità che è
tradizionalmente considerata come il prototipo delle personologie nate dall'esperienza
psicoterapeutica analitica e dalla psicopatologia della comprensione ad essa collegata.
(V.Tavola VI). 10) La teoria psicoanalitica della personalità
nel quadro della metapsicologia freudiana e della sua impostazione funzionalistica
La teoria psicoanalitica della personalità può dirsi compiutamente
costituita con l'introduzione, nella metapsicologia freudiana, del punto di vista
strutturale, presentato per la prima volta, nel 1922, nell'opera "L'Io e l'Es"
Il punto di vista strutturale che, con la sua antitesi Io-Es, si sovrappone, senza
abolirlo, al punto di vista topico (rappresentato dall'altra antitesi Conscio-Inconscio),
si integra anche con gli altri due punti di vista, economico e dinamico, del sistema
metapsicologico, dando luogo a quella che, nei paesi di cultura anglosassone,
è stata denominata la "corrente dominante" (mainstream) della dottrina
psicoanalitica. (18) Occorre sottolineare, in proposito, che, in una prospettiva
epistemologica, sia la metapsicologia freudiana, sia la teoria della personalità
che essa comporta, sia lo stesso punto di vista strutturale, non corrispondono
affatto ad una concezione strutturalistica, bensì ad una impostazione metodologica
funzionalistica (che, come tale, si colloca nella fascia B della T.E.U.). (19)
In effetti, sotto un profilo genetico ed evolutivo, la differenziazione tra Es
ed Io, sulla quale si fonda il punto di vista strutturale, non risulta, nel contesto
della metapsicologia e della teoria freudiana della personalità, come un
fatto originario, ma soltanto secondario, conseguente all'esigenza di adattamento
delle pulsioni dell'Es alle pressioni dell'ambiente esterno.(20) In tale prospettiva,
l'Io si presenta come una semplice sovrastruttura, derivata dalle leggi funzionali
dell'adattamento biologico, cioè dalla necessità vitale, da parte
dell'essere biopsichico, di raggiungere una sorta di compromesso tra l'istanza
dell'Es (che segue il principio della scarica immediata delle tensioni libidiche
e distruttive nel mondo degli oggetti esterni) e l'istanza della Realtà
(che pone limiti più o meno minacciosi alla scarica delle pulsioni).
In tal senso, la formazione della struttura dell'Io dovrebbe essere considerata
come la conseguenza della funzione dell'adattamento biologico, che, in un'accezione
funzionalistica integrazionistica, comporterebbe il processo di formazione di
strutture sempre più evolute e differenziate di adattamento. Occorre
tuttavia sottolineare che, nella metapsicologia freudiana, la versione integrazionistica
del funzionalismo non risulta prevalente. Noi sappiamo infatti, come, nella
dottrina freudiana, assuma una posizione dominante la teoria economicistica dell'omeostasi.
Secondo tale teoria, che corrisponde ai canoni del funzionalismo riduzionistico
(T.E.U., 1B) l'organismo biopsichico sarebbe da considerarsi tanto meglio adattato,
quanto più la differenza di tensione tra il suo stato interno e l'ambiente
esterno fosse uguale a zero. In questa prospettiva, la metapsicologia freudiana
tende a considerare le strutture differenziate dell'Io come risultanti non già
di un'intenzionalità adattiva spontaneamente inerente allo stesso Io e
al suo processo evolutivo, bensì come la conseguenza di una indesiderata
rottura dell'equilibrio omeostatico provocata da un eccesso di stimoli da parte
dell'ambiente interno e/o esterno dell'organismo biopsichico. In tal senso,
la costituzione e la differenziazione della struttura dell'Io sarebbero da considerarsi
come eventi antiomeostatici, che contrasterebbero la più profonda tendenza
naturale dell'organismo a ritornare all'indifferenziazione dello stato inorganico.
Questa teorizzazione conduce, tra l'altro, ad attribuire, sul piano della teoria
delle pulsioni, una posizione prioritaria alla pulsione di morte rispetto alla
pulsione libidica, dal momento che la stessa libido tenderebbe all'estinzione
delle proprie cariche energetiche . 11) Il funzionalismo della
metapsicologia freudiana e la sua antitesi metodologica: la teoria riduzionistica
dell'omeostasi e l'integrazionismo della psicologia dell'Io, secondo O.Fenichel.
Da questo punto di vista, il funzionalismo riduzionistico della teoria dell'omeostasi
e della costanza si pone in antitesi con il funzionalismo integrazionistico della
psicologia dell'Io che, viceversa, intende assegnare allo stesso Io una funzione
originale e fondamentale nell'ambito della fenomenologia psichica e del processo
analitico. E' da rilevare, a questo proposito, come tale antinomia epistemologica
tra il funzionalismo riduzionistico all'omeostasi e il funzionalismo integrazionistico
della psicologia dell'Io sia presente, in primo luogo, nello stesso pensiero di
Freud che, da un lato, sembra non perdere occasione per ridurre al minimo il significato
funzionale dell'Io, mentre, da un altro lato, ne sottolinea il carattere primario
e fondamentale per la costituzione della personalità e per il trattamento
psicoanalitico. (21) Non è dubbio, d'altro lato, che una teoria psicoanalitica
della personalità, nell'ambito della metapsicologia freudiana, sia possibile
solo in funzione di un riconoscimento reale, e non fittizio, del principio dell'Io.
Malgrado ciò, noi troviamo questa antinomia epistemologica anche in alcuni
dei più significativi esponenti del cosiddetto "mainstream" psicoanalitico,
cui si deve lo sviluppo della psicologia psicoanalitica dell'Io e della teoria
psicoanalitica della personalità, nel quadro del punto di vista metapsicologico
strutturale. Secondo O.Fenichel, ad esempio, "l'omeostasi è, come
principio, alla radice di ogni comportamento istintivo; il frequente
comportamento «contro-omeostatico» deve venir spiegato come una complicazione,
imposta all'organismo da forze esterne. Gli impulsi desiderosi di scaricarsi
rappresentano una tendenza biologica primaria; quelli contrari vengono portati
all'organismo da influenze esterne" (22) E' evidente che, sulla base di
tali premesse, la costituzione di un'autentica teoria dell'Io e della personalità
si presenti sostanzialmente problematica. In realtà, il cosiddetto
"mainstream" (che può annoverare, tra i suoi esponenti più
significativi, oltre allo stesso O.Fenichel, A.Freud, R.Sterba, R. Waelder, H.Hartmann,
E.Kris, R.M.Loewenstein, D.Rapaport, M.Gill, E.Bibring, L.Rangell e, più
recentemente, C.Brenner, H.Blum, ed altri) viene a trovarsi, dal punto di vista
epistemologico, di fronte alla stessa contraddizione che abbiamo visto presente
nella teoria freudiana dell'Io. In effetti, noi abbiamo qui, da un lato, un'impostazione
metapsicologica che assegna alle pulsioni istintuali un fondamento biologico reale
nella costituzione della fenomenologia psichica (o del cosiddetto "accadere psichico"):
in tale contesto, l'Io può assumere soltanto il significato di una sovrastruttura
più o meno fittizia, destinata ad essere vanificata dalla ben più
importante realtà degli istinti e del mondo esterno. Dall'altro lato,
si pone l'esigenza di un Io detentore di una funzionalità autonoma, come
condizione per la costituzione di un'autentica teoria della personalità
e di una psicopatologia della comprensione fondata sulla teoria del conflitto
psichico, così da rendere possibile anche una teoria sistematica della
psicoterapia. Da ciò nasce l'esigenza di una psicopatologia comprensiva
e di una psicoterapia basate sull'antitesi e sul conflitto tra l'Io e l'Es, così
come sulla possibilità di risolvere tale conflitto. "Il conflitto
nevrotico, per definizione, si svolge tra uno sforzo verso lo scarico ed un altro
ad esso contrario: l'intensità del primo sforzo dipende non solo dalla
natura dello stimolo, ma soprattutto dallo stato fisico-chimico dell'organismo.
In genere si possono equiparare le tendenze che si sforzano verso lo scarico con
istinti («impulsi istintivi»); il vagliare gli impulsi,
vale a dire, la decisione di permettere il loro scarico è stato
definito una funzione dell'Io. Potremmo dare, dunque, questa formulazione generale:
il conflitto nevrotico ha luogo tra l'Es e l'Io." (23) "In ogni sintomo
nevrotico si presenta al paziente qualcosa che egli sente come strano ed inspiegabile.
Possono essere movimenti involontari, irregolarità nelle funzioni corporali
o sensazioni varie come l'isteria: o umori ed emozioni ingiustificate e sconvolgenti
come negli attacchi di angoscia e nelle depressioni; o bizzarri impulsi e pensieri
come nelle coazioni e nelle ossessioni. Tutti i sintomi danno l'impressione
di un qualcosa che sembra irrompere nella personalità da fonte ignota
- un qualcosa che disturba la continuità della personalità e
che è fuori dal reame della volontà conscia. Ma vi sono anche
fenomeni nevrotici di altro genere. Nei «caratteri nevrotici» la personalità
non appare uniforme o disturbata soltanto da questo o da quello evento che ne
interrompe la continuità; ma è così palesemente lacerata
e deformata, spesso così implicata nella malattia, da non potersi dire
dove finisce la «personalità» e cominci il «sintomo».
Però per quanto i sintomi nevrotici ed i caratteri nevrotici sembrino
differenti, ambedue hanno questo in comune: il modo normale e logico di trattare
con le esigenze del mondo esterno e con gli impulsi intimi, è sostituito
da qualche fenomeno irrazionale che sembra strano e che non può venir controllato
dalla volontà. Poiché il funzionamento normale della mente è
governato da un apparato di controllo che organizza, guida e inibisce le forze
più profondamente arcaiche e più istintive - come la corteccia cerebrale
organizza, guida ed inibisce gli impulsi più profondi e più arcaici
del cervello - possiamo affermare che il denominatore comune di tutti i fenomeni
nevrotici è una insufficienza del normale apparato di controllo. Il
modo più semplice di controllare gli stimoli è di scaricare attraverso
reazioni motorie l'eccitazione da essi provocata. In seguito lo scarico immediato
è sostituito da un meccanismo di controllo di contro-forze più complicato.
Questo controllo consiste in una distribuzione di controenergie in un adeguato
equilibrio economico tra lo stimolo e lo scarico." (24) Appare evidente,
in questo contesto, la necessità di chiarire se l'Io debba essere considerato
come un semplice automatismo di controllo (per quanto sofisticato possa essere
dal punto di vista tecnologico), dipendente dal gioco di fattori estrinseci
(rappresentati dalle forze interagenti dell'Es e del Mondo esterno), oppure se
debba essere riconosciuto come una realtà autonoma, cui siano inerenti
attività di giudizio, di mediazione, di deliberazione, essenziali per la
costituzione della personalità, del sentimento di Sé e della propria
autodeterminazione. 12) La teorizzazione neurobiologistica dell'autonomia
dell'Io, secondo H.Hartmann, e il suo carattere fittizio. Noi sappiamo
come, nell'ambito del cosiddetto "mainstream", è stato riconosciuto
soprattutto a H.Hartmann il merito di aver teorizzato una "psicologia psicoanalitica
dell'Io", che rivendica all'Io una sua autonomia. (25) In particolare, al
riguardo, questo autore pensò di poter riconoscere all'Io, almeno in parte,
un carattere primario, sulla base di un suo presunto fondamento neurobiologico
autonomo , indipendente dai fondamenti biologici dell'Es. Sulla base di questa
sua autonomia neurobiologica, l'Io avrebbe la possibilità di adempiere
adeguatamente i suoi compiti di adattamento alla realtà muovendosi in "un'area
libera dai conflitti" cioè al di fuori della dipendenza dalle pulsioni
istintuali. Rivendicare, però, l'autonomia dell'Io sulla base di un
fondamento biologico diverso e indipendente rispetto a quello dell'Es, risulta
illusorio dal punto di vista di una psicopatologia comprensiva e di una teoria
dialettica della personalità. In effetti, qualora l'Io sia identificato
con un apparato biologico di adattamento funzionale riconducibile ad un substrato
neurologico, ogni riferimento alla problematica dell'interiorità riflessiva,
in cui consiste l'autentica soggettività, verrà abolito. In tal
modo però l'Io, nella sua autenticità, risulterà soppresso,
essendo ridotto ad un puro automatismo biologico. Nello stesso senso, si presenta
pure illusoria l'intenzione dello Hartmann di teorizzare un Io non conflittuale,
in quanto attribuibile ad un fondamento biologico cognitivistico, diverso da quello,
conflittuale, pertinente alle pulsioni istintuali. In effetti, quando si voglia
teorizzare l'Io conformemente alla sua intrinseca costituzione dialettica, non
si potrà disconoscerne la fondamentale conflittualità (A = non-nonA)
in riferimento a qualsiasi sua forma di attuazione (cognitiva, affettiva, volitiva,
ecc.). Viceversa, qualora si vogliano trasferire, riduttivamente, le attività
psichiche (non importa se quelle degli istinti, o quelle dell'Io) in una dimensione
biologica, non si potrà più parlare nè di conflittualità
nè di dialettismo, perchè il mondo naturale e i suoi automatismi
biologici e fisico-chimici si realizzano sempre secondo leggi fisse e immutabili,
esenti da qualsiasi contrasto o contraddizione. 13) L'inquadramento
epistemologico dialettico della psicologia psicoanalitica dell'Io, secondo R.Waelder.
Noi dobbiamo considerare R.Waelder come l'unico importante esponente del "mainstream"
psicoanalitico che abbia riconosciuto il carattere epistemologico del contrasto
tra la psicologia dell'Es e la psicologia dell'Io. Già per il passato,
abbiamo sottolineato come nel Waelder la contrapposizione tra Io ed Es non assuma
un significato empirico, bensì metodologico. (26) "A tutti i fenomeni
psichici" egli osserva, " è applicabile un duplice metodo di
osservazione" in funzione del quale "la psicoanalisi, distinguendo
all'interno della personalità un Io e un Es, riconosce la presenza di due
aspetti: la sua tendenza a essere guidata e quella ad agire in modo deliberato".
"Quindi lo schema dei processi che avvengono nell'Es è: pulsione-espressione
della pulsione; e, nell'Io, compito-soluzione del compito o tentativo di soluzione
del compito". (27) In tal modo, pertanto, l'Io e l'Es non vengono più
definiti come due strutture empiriche della psiche, o due spazi mentali in cui
"accadono" i fenomeni psichici, bensì si presentano come due modelli
metodici, tra loro antinomici, secondo i quali noi possiamo inquadrare
la fenomenologia psichica e, in particolare, la personalità umana. Pertanto,
adottando il modello dell'Es, noi interpretiamo tale fenomenologia in funzione
di "tutte le forze che guidano il singolo individuo", di "tutte le tendenze
interiori che lo influenzano", e di "tutte le vis a tergo". Al
contrario, una metodologia conforme al principio dell'Io identificherà
la personalità con "le azioni volontarie del soggetto, la sua direzionalità".
(28) In questo dualismo metodologico noi possiamo così vedere riproposta
la fondamentale distinzione tra psicologia degli elementi e psicologia
degli atti che, già con Wundt, ha segnato gli inizi della psicologia
contemporanea e che, dopo essere stata esplicitamente evidenziata nella psicologia
degli atti di F.Brentano, ha trovato la sua sistemazione metodologica nella contrapposizione
tra la psicologia (e psicopatologia) della comprensione (o psicologia personologica)
e la psicologia (e psicopatologia) della spiegazione (o psicologia prestazionale
o psicofisiologia o neuropsicologia). Definendo i caratteri di un'autentica
psicologia dell'Io, il Waelder viene così a capovolgere la prospettiva
adottata dall'originale pensiero freudiano, che assegna all'Es, all'inconscio
ed alle loro pulsioni elementari il fondamento della realtà psichica ,
relegando l'Io e la soggettività in un ruolo secondario e passivo.
In effetti, nella prospettiva del Waelder, l'Io non è più concepito
come un semplice contenitore vuoto, recettore passivo di stimoli (sensoriali o
pulsionali) dai quali "è agito" ineluttabilmente, in quanto dominato
da "forze oscure e incontrollabili" (29), senza potersi dare una ragione
o un perchè; e neppure può essere ridotto ad un semplice automatismo
difensivo, in funzione di un contingente adattamento ambientale. Ciò
che caratterizza l'Io, nella sua intrinseca originalità, è viceversa,
secondo Waelder, la sua capacità di tradurre ogni sua condizione passiva
in termini problematici, ricercando le vie attraverso le quali gli sia possibile
di convertire la sua passività in attività, di ricercare una soluzione
alla sua dipendenza dalle pulsioni e dagli stimoli esterni, di trovare una mediazione
alle sue contraddizioni estrinseche ed intrinseche. "Anche nel caso estremo
di un'azione impulsiva, che a prima vista sembra essere guidata solamente dalla
pulsione, l'Io ha pur sempre svolto la sua parte: il compito che veniva posto
all'Io era in tal caso la perentoria richiesta di soddisfazione di una pulsione
emergente, e l'azione che ne è seguita è stato il modo che l'Io
ha scelto per risolvere quel compito".(30) Pertanto, secondo Waelder,
non è possibile ridurre l'Io ad un ruolo passivo, perchè la sua
originalità consiste proprio nella "sua attività personale
rivolta sia verso il mondo esterno che verso le altre forze il cui insieme
costituisce quello stesso soggetto del quale anche l'Io fa parte. Questa
attività dell'Io consiste nel suo tentativo di far valere
i propri diritti, di aver successo e di assimilare nel suo sviluppo organico sia
il mondo esterno che le altre forze, a lui esterne, dell'individuo. La prima di
queste attività dell'Io che si fu in grado di osservare fu quella diretta
verso il mondo esterno. Ma pare che, sin da principio, l'Io si sforzi di portare
sotto l'ombrello della sua guida centrale anche la componente pulsionale della
vita dell'individuo. Questa affermazione deriva dalla constatazione del fatto
che l'Io sperimenta qualsiasi aumento eccessivo delle pulsioni, anche di quelle
che non portano con Sé alcuna implicazione minacciosa di provenienza esterna,
come un pericolo, il pericolo, cioè, che l'organizzazione dell'Io ne possa
venire sommersa, distrutta. L'Io, evidentemente, assume una posizione attiva
nei confronti della vita pulsionale; esso tende a tenerla sotto controllo, o meglio,
ad assimilarla all'interno della sua organizzazione. (31) Da
ciò deriva la necessità di concepire l'Io come l'attività
personale di un soggetto, che si realizza metodicamente in termini problematico-risolutivi,
così che le sue attività saranno definibili come "tentativi
di soluzione di un compito: l'Io di ogni singolo essere umano si caratterizza
per il numero di metodi specifici in suo possesso atti a ricercare queste soluzioni."
(32) Da questa concezione problematico-decisionale dell'Io come esperienza
soggettiva, deriverà, conseguentemente, la necessità di individuare
nella dialettica la logica inerente a tale esperienza e la metodologia più
idonea per la sua interpretazione. "I compiti che vengono imposti all'Io
sono in contraddizione con quelli che l'Io stesso cerca a sua volta di imporre
dal momento che la richiesta di gratificazione delle pulsioni è in contraddizione
col tentativo di controllo delle pulsioni stesse; obbedire ai comandi del Super-Io
è in contraddizione col tentativo di conquista del Super-Io da parte dell'Io,
mediante assimilazione." Ne consegue che la funzione fondamentale dell'Io,
come atto psichico, dovrà configurarsi in termini di una mediazione
dialettica, che si porrà, come proprio ideale di perfezione, "la ricerca
di una soluzione completa dei suoi compiti contraddittori." (33) Ciò
che dunque contraddistingue l'Io, come atto psichico, è la mediazione dialettica
dei contrasti immanenti al proprio stesso essere, anzi, "la capacità
dell'essere umano di andare al di là di se stesso, di oltrepassare le pulsioni
e gli interessi insiti in ogni data situazione, di andare al di là di questi
con il proprio pensiero, le proprie esperienze, i propri atti, ponendo se stesso
al di là di questi".(34) Caratteristica specifica dell'Io,
in quanto atto riflessivo, è pertanto la funzione dell'autobbiettivazione,
per la quale l'Io, obiettivando se stesso, trascende, nel contempo, se stesso:
"va al di là di se stesso, considera se stesso come un oggetto,
e ciò avviene sia che il Super-Io agisca in modo punitivo e aggressivo,
sia che si comporti in modo affettuoso e amorevole, sia, infine, che si mostri
disinteressatamente obiettivo, come avviene nell'autoosservazione e nella capacità
di staccarsi dai propri personali punti di vista." (35) 14) La
problematica del Sé e del Soggetto riflessivo nella dottrina freudiana:
la teoria del narcisismo e della relazione oggettuale come autobbiettivazione.
Conseguenze sulla teoria della difesa patogena, sul concetto ideale dell'Io e
sulla teoria della libido. L'analisi epistemologica del Waelder
sul carattere dell'Io autentico ci conduce così alla problematica dell'autobbiettivazione,
del Sé e del Soggetto riflessivo. Occorre peraltro sottolineare che
questa problematica (cui hanno dedicato un particolare interesse, negli ultimi
decenni, molti esponenti della speculazione psicoanalitica, quali R.D.Fairbairn,
O.Kernberg, H.Kohut, R.D.Stolorow ed altri) non è affatto estranea al pensiero
di Freud che, del resto, in età giovanile, non era rimasto indifferente
alla lezione di F.Brentano. Per quanto concerne le attività di riflessione
e di autobbiettivazione dell'Io in quanto Sé, cioè come Soggetto
che osserva se stesso e, nel contempo, come Oggetto che è osservato da
se stesso, pur conservando la sua identità, Freud così si esprime:
"L'Io può prendere come oggetto se medesimo, trattarsi come altri oggetti,
osservarsi, criticarsi e fare di se stesso Dio sa quante altre cose ancora. Così
facendo, una parte dell'Io si contrappone alla parte restante. Le parti possono
successivamente riunirsi." (36) In realtà, noi sappiamo come, originariamente,
già nei primi studi sull'isteria, Freud abbia attribuito la genesi della
amnesie e delle difese patogene non (o non soltanto) a semplici meccanismi automatizzati,
bensì, in primo luogo, ad un'intenzionalità fondamentale dell'Io,
che assume un atteggiamento di ripulsa contro tutto ciò che mortifica e
contraddice l'immagine di Sé, il senso di valore e di dignità della
propria personalità. Secondo Freud, ciò che si presenta nel
nevrotico come un "non sapere" è, in realtà, un "non voler
sapere", da parte dell'Io, in relazione ad esperienze e rappresentazioni collegate
a stati emotivi negativi (dell'angoscia, dell'autorimprovero, del dolore psichico,
della menomazione, ecc.) e comunque "tali che si preferirebbe non averle vissute
e che si vorrebbe piuttosto dimenticare." (37) In questa prospettiva,
è evidente che, anche in rapporto alle amnesie ed alle difese patogene,
Freud assume una teoria del conflitto psichico fondata sull'Io riflessivo e,
più precisamente, su quei sentimenti in cui si riflettono i giudizi sul
proprio valore, come autostima e autorimprovero, autoapprovazione e autocritica,
autocompatimento e vergogna, merito e colpa, onore e disonore, legittimità
e illegittimità, dignità e indegnità, ragione e torto, senso
di integrità e senso di menomazione, ecc. Questo carattere riflessivo
della difesa, come atto dell'Io, si trova ancora più evidenziato nel saggio
sul narcisismo, dove il problema dell'Io è concepito esplicitamente come
Sé e come soggettività riflessiva e dove il conflitto psichico è
concepito da Freud in funzione di una contrapposizione di sentimenti che risultano
da una doppia identificazione dell'Io: "La rimozione procede dall'Io.
Potremmo essere più precisi e sostenere che procede dalla considerazione
che l'Io ha di Sé." (38) In effetti, perché le rappresentazioni
etiche pertinenti al contesto sociale in cui il soggetto vive possano avere un'efficacia
repressiva, provocando un conflitto nella sua interiorità, non è
sufficiente che egli ne abbia una nozione puramente intellettuale, ma "occorre
sempre che egli le riconosca come normative" e che si identifichi con esse,
ponendosi in antitesi con un'altra parte della sua personalità. "Le
stesse impressioni, esperienze, impulsi, moti di desiderio nei quali un individuo
indulge, o che quanto meno elabora consapevolmente, sono respinti da un altro
con la massima indignazione o almeno soffocati prima di pervenire alla coscienza".
(39) E' evidente come, in questo caso , Freud ponga le basi di una teoria
della difesa patogena e del conflitto psicopatologico che comporta una doppia
identificazione dell'Io con sentimenti contrapposti e, quindi, una duplice personalità:
da un lato l'Io che si identifica col sentimento del piacere immediato; dall'altro,
l'Io che si identifica con un ideale e con i sentimenti ad esso correlati, che
vanno al di là della semplice esperienza immediata (autostima e colpa,
orgoglio e vergogna, ecc.). "Possiamo dire che un individuo ha costituito
in Sé un ideale rispetto al quale misura il proprio Io attuale, mentre
nell'altro non avviene questa formazione di un ideale. La formazione di un ideale
da parte dell'Io sarebbe la condizione della rimozione". (40) Freud, tuttavia,
non sembra del tutto consapevole che un simile dualismo dell'Io non è concepibile
senza presupporre il principio dialettico della riflessione come costitutivo dell'interiorità
soggettiva. Egli ritiene, infatti, che tale dualismo possa essere inquadrato
nella sua teoria della libido. In tal senso, egli immagina che il dualismo
dell'Io dipenda dal fatto che una personalità, quella che si identifica
con le pulsioni immediate (cioè con la libido) non abbia assunto alcun
ideale, mentre l'altra personalità ne avrebbe adottato uno, come suo termine
di paragone. Freud intenderebbe dare una spiegazione empirica a questo ideale
dell'Io, considerandolo come il risultato di un'introiezione-identificazione con
le figure parentali, che, a loro volta, sarebbero soggette ad una idealizzazione
e ad un investimento libidico. E' evidente, peraltro, che tutti i processi
psichici di cui parla Freud a proposito del narcisismo e dell'ideale dell'Io (contrapposizione
tra l'"Io" e il mondo esterno, rappresentato dalle figure parentali idealizzate;
identificazione tra l'Io e le figure parentali idealizzate e interiorizzate; confronto
nell'interiorità dell'Io tra l'Io "libidico" e tali figure come ideale
dell'Io, ecc.) presuppongono, per la loro concettualizzazione, un Io riflessivo
che non è derivabile empiricamente da fatti naturali. Anche quando
Freud afferma che all'ideale dell'Io si rivolge quell'amore di sé che l'Io
ha realmente sperimentato, in Sé, come amore ricevuto dai genitori (41),
egli dovrebbe comunque presupporre, nell'Io, una coscienza di Sé, cioè
una esperienza riflessiva, senza la quale neppure l'amore dei genitori (e degli
altri, in generale) potrebbe essere vissuto come tale. E' evidente, infatti, che
un amore rivolto verso un oggetto costitutivamente privo di coscienza di Sé
non possa risvegliare, in questo, alcun amore di Sé: solo in un oggetto
che sia a sua volta soggetto (e nel quale, pertanto, noi presupponiamo presente
una riflessività interiore analoga alla nostra) noi possiamo sperare di
risvegliare, col nostro amore, un analogo sentimento (come amore verso l'altro
e/o amore di Sé). La teoria freudiana del narcisismo, dovendo necessariamente
presupporre una concezione dell'Io riflessivo, in quanto Sé, non può,
contrariamente all'opinione del suo autore, costituirsi in funzione di una concezione
fisicalizzata della libido, quale era stata originariamente formulata dallo stesso
Freud. In effetti, qualora venga riconosciuta, sul piano epistemologico, la
funzione primaria dell'Io riflessivo, in quanto Sé, a tale funzione dovrà
essere subordinata qualsiasi altra concettualizzazione psicologica, compresa quella
relativa alla stessa libido, alla relazione di oggetto, all'idealizzazione del
Sé e dell'Oggetto, ecc. In questa prospettiva metodologica, che esplicita
il principio dell'Io come riflessività originaria (cioè come dialettica
dell'obbiettivazione di Sé, della contrapposizione con l'oggetto e dell'identificazione
con l'oggetto) la stessa libido, pertanto, acquisirà un carattere riflessivo.
In effetti, nella sua teoria dell'Io come doppia personalità, Freud presenta
la libido come la forma più immediata di obbiettivazione dell'Io, cioè
come quella personalità che si conforma al principio del piacere e al sentimento
dell'onnipotenza e che, come tale, può essere oggetto di giudizio (di critica
o di approvazione) da parte dell'Io riflessivo. A tale riguardo, è
significativo che Freud, contraddicendo se stesso, neghi, in un primo tempo, che
la personalità "libidica" abbia un ideale (che attribuisce solo alla personalità
normativa) mentre, successivamente, ammette che l'idealizzazione è possibile
sia nella sfera della libido dell'Io, come in quella della libido oggettuale.
(42) In realtà, in una prospettiva riflessiva, conforme al metodo dialettico,
io posso vivere e idealizzare le esperienze impulsive (come quelle della sessualità
e dell'aggressività) in quanto sentimenti originari pertinenti alla mia
più profonda spontaneità, in contrapposizione con i comportamenti
"artificiali" di un Io convenzionale e inautentico. Tuttavia, io posso anche percepirli
come forze oscure e caotiche, in contrasto con la luce del mio Io razionale e
sociale, portatore dei valori dell'etica e della civiltà. 15)
Il dualismo epistemologico della teoresi freudiana: la metodologia esplicativo-naturalistica
della metapsicologia e l'esigenza metodologica comprensiva della teoria del narcisismo,
come Io riflessivo. Noi possiamo comprendere, pertanto, come il
saggio freudiano sul narcisismo (Introduzione al narcisismo,
1914) che, com'è noto, è antecedente ai primi scritti sulla metapsicologia
(1915) e al saggio "L'Io e l'Es" (1922), sia stato subito avvertito, nell'ambiente
psicoanalitico del tempo, come incompatibile rispetto alla tradizionale dottrina
delle pulsioni istintuali. (43) In realtà, è possibile verificare
come, nella metapsicologia tradizionale, basata su una concezione funzionalistica
dell'Io come apparato di adattamento all'ambiente esterno e "interno" (rappresentato
dall'Es), non vi sia una reale incompatibilità tra i diversi punti di vista
(strutturale, topico, economico e dinamico). In una simile prospettiva, infatti,
le strutture e le funzioni dell'Io possono essere pur sempre ridotte ad automatismi
e dinamismi naturali (quali scariche energetiche, apparati di controllo, distribuzione,
antagonismi ed equilibri di forze e controforze fisiche, ecc.) traducibili nei
termini di una obiettivazione puramente quantitativa. Con l'introduzione della
teoria del narcisismo, viceversa, l'Io non può essere più ridotto
ad un puro automatismo di controllo di tensioni energetiche, nè al semplice
derivato di uno scontro tra opposte forze naturali (stimoli e pulsioni). In
ultima analisi, ciò che caratterizza il fenomeno del narcisismo è
l'esperienza di un Io che ha se stesso come oggetto primario e come punto fondamentale
di riferimento, sensoriale e ideale: l'esperienza narcisistica è contrassegnata
dalla sua riflessività, dove l'Io è, al tempo stesso, il soggetto
ed il primo oggetto di se stesso, rispetto al quale ogni altro oggetto è
secondario e subordinato. Nella metapsicologia tradizionale, dunque, l'autentica
realtà è rappresentata dall'oggettualità naturale (pulsioni
e mondo ambientale), mentre l'Io si configura come un semplice epifenomeno, una
sovrastruttura fittizia, destinata a subire passivamente i condizionamenti pulsionali
e sensoriali. (44) Nella teoria del narcisismo, invece, l'Io si propone come
la prima realtà, esperienza riflessiva di una soggettività comprensiva
della stessa oggettualità. A tale riguardo, occorre sottolineare come
la teoria del narcisismo comporti anche un capovolgimento epistemologico della
concezione tradizionale della libido, che in una psicologia dell'Es deve essere
postulata come un'energia naturale, pertinente alle pulsioni istintuali. In una
psicologia dell'Io riflessivo, viceversa, la libido viene a identificarsi con
l'Io medesimo, sia che venga concepita come sentimento del piacere (che rappresenta
un'esperienza fondamentale dell'Io), sia che si intenda come amore primario dell'Io
per se stesso, sentimento riflesso della propria incondizionata positività
e della realtà del proprio essere. (45) Soltanto nella prospettiva
dell'Io riflessivo, pertanto, può acquistare un senso concreto anche la
stessa teoria freudiana della sessualità in funzione del principio del
piacere: il piacere, in effetti, in quanto esperienza vissuta, non può
essere riferito ad una dimensione biologica o comunque fisicalizzata, ma esclusivamente
all'interiorità dell'Io e alla sua riflessività, che postula la
metodologia della comprensione. Perciò, lo stesso Freud parla di due
distinte modalità (e, quindi, di due differenti metodologie tra loro non
compatibili) secondo cui può essere concepita la sessualità: l'una,
integrata con la dimensione dell'Io, in quanto pertinente all'esperienza del piacere
immediato, l'altra alienata dall'Io e pertinente alla dimensione naturale.
" Vi sono due modi paralleli, verosimilmente entrambi legittimi, di concepire
i rapporti tra l'Io e la sessualità. Secondo il primo punto di vista, ciò
che conta è l'individuo; la sessualità è vista come una delle
attività dell'individuo e il soddisfacimento sessuale come uno dei suoi
bisogni. Secondo l'altro punto di vista l'individuo è l'appendice provvisoria
e transeunte del pressoché immortale plasma germinale che gli è
stato affidato dalla generazione". "La sessualità non va posta
sullo stesso piano delle altre funzioni dell'individuo, poiché le sue intenzionalità
travalicano l'individuo singolo e hanno come contenuto la generazione di altri
individui, ovverossia la conservazione della specie. L'organismo singolo,
che considera se stesso la cosa principale e la propria sessualità un mezzo
fra gli altri per il proprio soddisfacimento, dal punto di vista biologico è
solo un episodio di una successione dotata di virtuale immortalità, quasi
il detentore temporaneo di un fidecommesso destinato a sopravvivergli. L'individuo
conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di
una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal
suo volere. Egli considera la sessualità come uno dei propri fini; ma,
da un altro punto di vista, egli stesso non è che un'appendice del suo
plasma germinale a disposizione del quale pone le proprie forze in cambio di un
premio di piacere. Egli è il veicolo mortale di una sostanza virtualmente
immortale, al pari del detentore di un maggiorasco che usufruisce solo temporaneamente
di un istituto che gli sopravvive. La differenziazione tra pulsioni sessuali
e pulsioni dell'Io non farebbe altro che riflettere questa duplice funzione dell'individuo".
(46) E' evidente, peraltro, che, una volta tradotta in termini naturalistici,
la sessualità dovrà inquadrarsi in una metodologia esplicativa,
sia che venga interpretata come un istinto programmato dalla specie per la propria
perpetuazione, sia che venga identificata con un'energia fisica (la libido fisicalizzata)
intenzionata secondo le leggi dell'omeostasi e della costanza.(47) Ogni tentativo,
da parte di Freud, di fondare su basi biologiche una teoria psicologica della
sessualità e della libido, in quanto esperienza del piacere, è pertanto
destinato a fallire, nel momento medesimo in cui egli stesso, con la teoria del
narcisismo, mette in luce l'incompatibilità metodologica tra il metodo
naturalistico, che nega la realtà dell'individuo (in quanto semplice mezzo
di una programmazione naturale estrinseca), e il metodo della comprensione, che
assume come suo punto di riferimento il piacere individuale, come esperienza interiore
e intenzionalità primaria dell'Io. 16) Il dualismo epistemologico
della teoresi freudiana: la teoria della relazione d'oggetto secondo la formulazione
metodologica "omeostatica" e secondo la formulazione riflessiva della teoria del
Sé e del narcisismo. E' dunque possibile individuare in S.Freud,
anche in sede teoretica, quel tipico dualismo epistemologico tra la psicologia
degli elementi (fondata sul metodo della spiegazione) e la psicologia degli
atti (fondata sul metodo della comprensione) che caratterizza tutta la psicologia
contemporanea. Questo dualismo, come per la prima volta ha messo in luce R.Waelder,
non si limita, nel quadro del pensiero freudiano, al tema dell'angoscia, del trauma
psichico, delle difese patogene, del conflitto psichico, del narcisismo, ma è
pertinente a tutte le grandi tematiche della teoria e della clinica psicoanalitica,
soprattutto quelle concernenti la relazione d'oggetto, le emozioni e la vita affettiva,
le motivazioni fondamentali, la personalità, il processo analitico, la
relazione di transfert. Una volta che, con la teoria del narcisismo, sia stata
evidenziata la rilevanza epistemologica dell'Io riflessivo, in quanto Sé,
risulterà chiaramente come queste tematiche fondamentali acquisteranno
significati radicalmente differenti in funzione del loro diverso inquadramento
metodologico, cioè in relazione alla possibilità di un loro riferimento
o all'interiorità soggettiva (e al metodo comprensivo che le è pertinente),
oppure all'esteriorità naturale (conforme al metodo esplicativo). E'
dunque evidente che in una prospettiva epistemologica, qual è quella
illustrata dalla TEU, le tematiche e i concetti psicoanalitici fondamentali, come
l'angoscia, il trauma psichico, le difese patogene, l'Es, l'Io, la relazione d'oggetto,
l'affettività, lo stesso narcisismo, ecc. si troveranno di fronte ad una
duplice alternativa metodologica. Da un lato, noi avremo un'interpretazione
di ordine naturalistico che, rifiutando la funzione epistemologica dell'Io riflessivo,
sarà portata a ridursi nelle posizioni del funzionalismo tradizionale (nella
versione metapsicologico-evoluzionistica del cosiddetto "mainstream" [settore
2B della TEU] oppure nella accezione riduzionistica radicale, conforme alle leggi
dell'"omeostasi" e della "costanza" [settore 1B della TEU]). Dall'altro lato,
si aprirà la prospettiva di un ribaltamento metodologico globale della
teorizzazione psicoanalitica, in funzione del riconoscimento del principio epistemologico
dell'Io riflessivo, cui dovrà essere subordinata ogni concettualizzazione
particolare, la quale, in tal modo, acquisirà una valenza dialettica (settore
2C della TEU). La portata di questo ribaltamento metodologico può essere
valutata, in particolare, quando si consideri il diverso significato che potrà
assumere il tema della relazione di oggetto in funzione delle due differenti metodologie
della spiegazione naturalistica (che si ricollega alla metapsicologia tradizionale)
o della comprensione dialettica (fondata sul principio epistemologico dell'Io
riflessivo). E' noto come, nelle più recenti elaborazioni della psicologia
psicoanalitica dell'Io e del Sé, la relazione di oggetto sia stata prospettata
secondo formule che prescindono dalla metapsicologia freudiana delle pulsioni,
considerata incompatibile con una visione "relazionale" della vita psichica.
Sulla base di questa esigenza di una concezione "relazionale" della psiche come
rapporto tra l'Io e l'oggetto, autori come M.Mahler, W.R.D.Fairbairn, O.Kernberg,
H.Kohüt, propongono una teoria della personalità che tende a rifiutare
la metapsicologia tradizionale. La verità è che anche la teoria
metapsicopatologica tradizionale non ignora affatto il problema della relazione
dell'Io con gli oggetti, ma gli conferisce una soluzione metodologica naturalistica.
In tale prospettiva, la relazione dell'Io con gli oggetti esterni, riconosciuti
come reali in ragione della loro pertinenza al mondo naturale, avviene, in ultima
analisi, in funzione della loro idoneità a consentire lo scarico della
libido in quanto carica energetica dell'Es. L'oggetto così fisicalizzato
diviene, in tal modo, il termine di una relazione con un'entità a sua volta
oggettualizzata e fisicalizzata (la libido) in funzione delle leggi naturali dell'"omeostasi"
e della "costanza". E' evidente che una definizione della relazione di oggetto
in una simile prospettiva omeostatica non consente l'autenticazione del principio
dell'Io riflessivo nè di una teoria della personalità. In effetti,
nè l'Io riflessivo, nè la personalità individuale possono
assumere alcun significato reale in una visione naturalistica, dove non sussiste
una vera relazione dialettica di soggetto-oggetto, Io-mondo, interiorità-esteriorità,
ecc. Qui, in ultima analisi, tutte le autentiche relazioni si svolgono su un piano
interoggettuale tra corpi fisici ed energie fisiche. In una simile concezione,
lo stesso Io si presenta come un apparato obiettivamente determinabile sul piano
naturale, con funzioni di regolazione automatica dei flussi di energia tra l'organismo
corporeo e gli altri corpi fisici (biologici e non biologici), secondo le leggi
dell'omeostasi e della costanza. In ogni caso, sia che un simile "Io" svolga
funzioni di "allarme", per segnalare un pericoloso aumento delle tensioni "antiomeostatiche"
all'interno del sistema organico, sia che compia un "esame di realtà" obbiettivo
e "libero da conflitti" - al fine, soprattutto, di verificare le condizioni più
idonee per lo "scarico" delle tensioni e recuperare l'equilibrio omeostatico del
sistema, - risulta pur sempre evidente che esso stesso è parte di tale
sistema, alle cui leggi naturali integralmente appartiene. Con l'esclusione
di un Io riflessivo viene però anche meno la possibilità di concepire
un'autentica realtà psichica come esperienza interiore del soggetto che
aspira a realizzare se stesso al di là della propria costitutiva conflittualità;
anzi, risulterà impossibile perfino concepire una reale conflittualità
psicologica, perché sul piano naturale non può costituirsi una teoria
dei contrasti, ma soltanto dell'uniformità e della costanza delle leggi
fisiche, chimiche e biologiche. * * * Perciò, l'autentica
fondazione di una teoria psicologica della relazione di oggetto (e dei conflitti
ad essa collegati) si presenta per la prima volta, nel pensiero freudiano, proprio
con la teoria del narcisismo. In questa teoria, non può dubitarsi che
la realtà dell'Io e del proprio essere costitutivo sia rappresentata dalla
sua stessa riflessività, per la quale egli si pone, ad un tempo, come soggetto
e come il primo oggetto della propria intenzionalità esperenziale, emotiva,
conoscitiva, volitiva, rispetto alla quale ogni altra forma di obiettivazione
risulterà secondaria. Risulta evidente, pertanto, che, in una formulazione
naturalistica (secondo la metapsicologia delle pulsioni) il rapporto dell'Io con
l'oggetto risulterà radicalmente condizionato dall'oggetto e dell'oggettualità.
In questa prospettiva, in effetti, l'Io risulterà a sua volta oggettualizzato,
perché sarà identificato con le pulsioni libidiche, in quanto Es,
ovvero sarà ridotto ad un'agenzia dell'Es, specificamente deputata alla
regolazione dello scarico delle tensioni pulsionali. In una formulazione
conforme alla teoria del narcisismo, viceversa, il primato della relazione Io-oggetto
non sarà più da assegnarsi all'oggetto (in quanto fatto naturale)
ma all'Io in quanto soggetto riflessivo, che è anche l'oggetto primario
di Sé stesso e dal quale dipenderà il significato della relazione
oggettuale, in quanto problematica dell'alienazione e dell'integrazione. E'
noto che nell'esperienza narcisistica originaria il sentimento fondamentale dell'essere
si identifica col sentimento della propria soggettività, come incondizionata
autonomia, assoluto piacere e illimitata onnipotenza. Il modello del narcisismo
primario corrisponde ad una esperienza senza obiettivazioni nè di Sé,
nè degli oggetti esterni, dove, per l'Io, non esiste defettività,
né bisogno di alcunché, né dipendenza da nulla fuori di Sé.
In tale modello, il principio dell'essere si identifica col sentimento del proprio
essere. Il soggetto che non sperimenta alcuna dipendenza dall'oggetto non
conosce alcuna realtà oggettuale, nè può riconoscere altra
realtà al di fuori di Sé. Freud definì questa condizione
ideale del soggetto primordiale come "narcisismo primario" ("primärer
Narzissmus"), dove l'appagamento aprioristico di qualsiasi bisogno e l'estinzione
immediata di qualunque defettività escluderebbe le stesse condizioni per
il costituirsi della percezione di una realtà esteriore. (48) Il delinearsi,
nell'esperienza soggettiva, di una relazione di oggetto, deve pertanto coincidere
con una radicale problematizzazione del narcisismo primario, come soggetto assoluto.
In tal senso, l'oggetto è, in primo luogo, la negazione della realtà
assoluta del soggetto, l'esperienza del trauma e della costitutiva defettività
dell'Io che vive se stesso come bisogno, angoscia, minaccia del proprio annichilimento
e del proprio non essere. (49) Inoltre, l'oggetto è, in secondo luogo,
l'esperienza negativa dello stimolo doloroso, l'alienazione del soggetto che,
negandosi come detentore dell'essere, ricerca l'essere fuori di Sé, in
funzione del bisogno di integrazione del proprio essere. Il rapporto tra soggetto
ed oggetto si presenta pertanto radicalmente problematico, perché si configura
in una forma di esperienza interiore, per la quale i due termini risultano antitetici
e complementari. E' evidente, infatti, che la realtà originaria del
soggetto, in quanto esperienza narcisistica, nega la realtà dell'oggetto:
in effetti, riconoscere la realtà oggettuale significherà, per il
soggetto, negare il principio della propria incondizionata autonomia ed accettare
la dipendenza del proprio essere dall'essere oggettuale, come condizione estrinseca
di integrazione del proprio Sé. D'altro lato, è altrettanto
evidente che questa contrapposizione dell'oggetto e della sua realtà rispetto
all'esperienza soggettiva originaria è anche la condizione per la differenziazione
del soggetto e del suo sviluppo storico. In ultima analisi, il soggetto si
sviluppa storicamente nella sua concreta, e non fittizia realtà, soltanto
attraverso la verifica progressiva delle sue condizioni di dipendenza dall'oggettualità
ed in funzione delle metodiche che è in grado di costituire al fine di
superare l'antitesi oggettuale, affrancarsi dalla dipendenza, pervenire all'integrazione
dell'oggetto e conseguire una rinnovata sintesi della propria esperienza.
La progressiva differenziazione dell'esperienza soggettiva presuppone necessariamente
il costituirsi della realtà oggettuale, che è antitetica alla realtà
dell'Io primordiale "narcisistico", ma è anche complementare per la formazione
della realtà dialettica dell'Io, come individuazione della personalità
e come sviluppo storico. (50) Lo sviluppo della personalità oscilla
tra la posizione "narcisistica" di chi afferma il principio della propria incondizionata
realtà e quella di chi costituisce la propria autonomia reale e il proprio
sviluppo storico attraverso la verifica delle proprie condizioni di dipendenza
e l'elaborazione delle metodiche che gli consentono di neutralizzare, via via,
tali condizioni di dipendenza. In questo senso, l'oggetto è il limite
problematico e la negazione del soggetto, ma è anche la condizione necessaria
per la sua concreta e non illusoria realizzazione storica, in quanto personalità
individuata e differenziata. 17) Narcisismo e teoria delle relazioni
di oggetto in funzione del principio epistemologico del Sé: la concezione
di R.D.Fairbairn, M.Mahler, H.Kohut. Noi possiamo pertanto comprendere
come quegli esponenti della speculazione psicoanalitica, i quali si sono riproposti
di approfondire la problematica delle relazioni di oggetto dal punto di vista
dell'esperienza del Sé, quale già si era venuta delineando nella
teoria freudiana del narcisismo, abbiano implicitamente o esplicitamente riconosciuto
l'incongruenza della teoria naturalistica delle pulsioni istintuali. Una concettualizzazione
della relazione di oggetto in funzione del principio epistemologico del Sé,
come Io riflessivo, comporta necessariamente l'introduzione di una teoria dell'esperienza
psichica in funzione delle antitesi di differenziazione e indifferenziazione,
di autonomia e di dipendenza, di mediazione e di immediatezza, di interiorità
e di esteriorità, di integrazione e di alienazione, di Io = essere e di
oggetto = non essere (e viceversa), di immanenza e di trascendenza, di individuazione
e di spersonalizzazione, di identità e di alterità, ecc. E'
evidente che il riconoscimento di una simile problematica dell'antitesi e della
contraddizione, nell'ambito dell'esperienza psichica, in quanto Io riflessivo,
non consente la validazione della teoria naturalistica delle pulsioni, fondata
sulle leggi dell'omeostasi e della costanza. In effetti, una concezione della
psiche come Io riflessivo e teoria del Sé comporta un'impostazione antiomeostatica:
l'oggetto col quale il soggetto si pone in relazione non è una semplice
occasione di scarico (o di non -scarico) di tensioni energetiche, in funzione
del mantenimento di un equilibrio omeostatico; al contrario, l'oggetto è
il termine, bensì problematico, ma anche assolutamente necessario per lo
sviluppo del Soggetto, in quanto Sé riflessivo, differenziazione metodica
dell'esperienza interiore, promozione dell'autonomia dell'Io e superamento delle
sue condizioni di dipendenza, autoaffermazione ed autocreazione storica della
personalità. Il concetto che il momento dell'antitesi, del contrasto
e della contraddizione, in quanto contrapposizione dell'oggetto, sia essenziale
per l'autoformazione del soggetto, - il quale, pertanto, si realizza concretamente,
nella sua autoaffermazione, attraverso il superamento metodico del limite posto
dall'oggetto -, comporta necessariamente l'assunzione di una prospettiva epistemologica
di ordine dialettico, incompatibile con la metodologia del naturalismo.
Solo in una prospettiva dialettica può, ad esempio, rendersi comprensibile
la tesi di R.D.Fairbairn, secondo il quale l'Io si caratterizza per la sua costitutiva
ricerca degli oggetti come condizione per lo sviluppo formativo della personalità,
mentre l'uso dell'oggetto come semplice mezzo per lo scarico delle proprie tensioni
è considerata non una modalità tipica della realtà psichica,
ma una condizione deteriore che denuncia il fallimento dell'Io nella propria relazione
oggettuale. (51) Solo in una prospettiva dialettica può giustificarsi
anche il concetto di oggetto-Sé, cioè di oggetto che il soggetto
identifica con se medesimo, come esperienza integrativa del proprio essere.
Allo stesso modo, i concetti fondamentali usati da M.Mahler per la sua teoria
della personalità e del rapporto oggettuale, quali differenziazione e individuazione,
sperimentazione e angoscia di separazione, ecc. possono assumere un reale significato
psicologico solo in una prospettiva dialettica, che presupponga, nel soggetto
interiore, un'intenzionalità di differenziazione, di individuazione, di
autonomia e, nel contempo, di integrazione e di identificazione, rispetto all'oggettualità
e all'alterità. (52) Analoghe considerazioni valgono per la teoria
della personalità elaborata da H.Kohut in funzione di una psicologia del
narcisismo imperniata sui concetti di "Sé grandioso" e del "sano narcisismo".
(53) E' evidente che, anche nella concezione del Kohut, viene assegnata una
priorità epistemologica al principio dell'Io riflessivo, che esclude la
possibilità di assumere, come punto di riferimento metodico, il principio
naturalistico dell'omeostasi su cui si fonda la teoria delle pulsioni. Il
fatto che lo sviluppo della personalità venga teorizzato come un passaggio
da una fase più immatura e indeterminata del sentimento di Sé (il
"Sé grandioso") ad una fase più matura e differenziata (il "sano
narcisismo") comporta che non solo la relazione di oggetto venga ad essere teorizzata
in funzione del soggetto riflessivo (per il quale l'oggetto si determina come
oggetto-Sé), ma anche che lo sviluppo del Sé, come personalità
interiore, si realizzi in funzione di un processo di autobbiettivazione e di autodeterminazione
che conduce ad una relativazione del sentimento di onnipotenza ed alla sua dialettizzazione
nel quadro del processo di maturazione storica della personalità, dove
peraltro il principio del Sé dovrà sempre assumere un ruolo epistemologico
prioritario. (Si veda, in merito, il concetto del "Sé coesivo"). Proprio
il fatto che il Kohut imposti la sua teoria della personalità in funzione
del principio del narcisismo, viene a rendere più esplicite quelle problematiche
dialettiche che già erano state evidenziate da S.Freud nel suo celebre
saggio di introduzione al narcisismo e che avevano messo in luce, al riguardo,
l'inadeguatezza della teoria delle pulsioni e della metodologia naturalistica.
18) "Soggettivismo" e "intersoggettivismo" nella concezione di R.D.Stolorow.
In tempi più recenti, la tesi della priorità epistemologica
del Sé e della soggettività in contrapposizione al naturalismo della
metapsicologia tradizionale è stata sostenuta, in termini ancor più
espliciti, da R.D.Stolorow e dai suoi collaboratori. In questo autore il tema
della soggettività è infatti definito come incompatibile rispetto
alle formule ontologizzanti del naturalismo metapsicologico. A tale proposito,
lo Stolorow critica quegli autori che, pur presentandosi come teorici della psicologia
del Sé e della Soggettività, traducono poi questi concetti in termini
naturalistici, fisicalistici, neurologistici, cibernetici, informatici, ecc.
Riferendosi ad uno di questi teorici, lo Stolorow così si esprime:
"Basch è nello stesso tempo un eminente sostenitore della psicologia
del Sé e il rappresentante dichiarato di quella tendenza della psicoanalisi
contemporanea che cerca di fondare la teoria psicoanalitica nelle neuroscienze.
Basch propone un modello concettuale che mira a colmare «l'antico e controproducente
divario tra la psicologia e la biologia», e che intende essere «una
teoria della psicoterapia unificante, unificata e costruita su basi scientifiche».
Questo tentativo di unificazione di psicologia e biologia si rifà allo
spirito dello sfortunato " Progetto di una psicologia" del 1895, in cui
Freud prospettava la riduzione del funzionamento psichico a processi meccanicistici
localizzati nel sistema nervoso. Basch, basandosi su immagini e metafore tratte
dalla cibernetica e dall'informatica, descrive l'attività psicologica essenzialmente
come una serie di cicli di feedback che si svolgono all'interno del cervello."
"Si consideri ora il costrutto centrale della metapsicologia di Basch, il cosiddetto
sistema del Sé. Tale sistema è definito come un'entità
biologica consistente in un'organizzazione gerarchica di cicli di feedback. Sebbene
Basch dichiari che non è corretto ridurre la complessa attività
solitamente designata con il termine «mente» all'attività neurologica,
il suo concetto di sistema del Sé fa precisamente questo. Si tratta infatti
di un'entità creata dal cervello, situata nel cervello, e che controlla
e guida il cervello nella sua relazione col mondo. Inoltre, il sistema del Sé
ha la funzione di permettere al cervello di operare «come un computer che
si autoprogramma» servendosi di configurazioni di software che svolgono la
funzione di «custodi dell'ordine, assicurando la competenza e, in ultima
analisi, l'autostima». In questa immagine, che raffigura il cervello come
un computer che si autoprogramma ponendosi esclusivamente in relazione con le
proprie costruzioni interne, noi scorgiamo un esempio lampante di materializzazione,
mediante il quale la mente isolata viene equiparata a un organo fisiologico dotato
di attributi propri della persona." (54) Al fine di superare gli enigmi
dell'ontologismo naturalistico che intenderebbero proporre un'immagine fisicalizzata
della soggettività, lo Stolorow propone un modello teorico secondo il quale
"l'esperienza personale si sviluppa sempre all'interno di un sistema intersoggettivo
in evoluzione". (55) Secondo le intenzioni di questo autore, il modello
"relazionale" dell'"intersoggettività" dovrebbe essere considerato sufficiente
per superare sia i limiti della "reificazione" naturalistica del Sé, sia
il mito della "mente isolata", tipica della metapsicologia tradizionale. In
tal senso, il modello "intersoggettivo" dovrebbe rappresentare la forma più
autentica della concezione relazionale, che si ripropone di sostituire il modello
metapsicologico, considerato insufficiente ad interpretare la complessità
dell'esperienza psicoanalitica, tanto in sede teoretica, quanto sul piano clinico.
Tuttavia, noi sappiamo (e lo stesso Stolorow sembra esserne consapevole, con la
sua critica alla teoria del Basch) che l'uso di una terminologia "soggettivistica"
o "relazionale" non è sufficiente a garantire il discorso psicologico e
psicopatologico dagli equivoci del naturalismo ontologizzante. In effetti,
come già abbiamo segnalato, una concezione naturalistica (sia essa rappresentata
dalla metapsicologia freudiana o da un modello neurofisiologico e cibernetico)
non esclude affatto una prospettiva "relazionale" della mente, nè si fonda
sul presupposto mitico di una "mente isolata": vero è, piuttosto, che la
sua concezione del rapporto mente-corpo, soggetto-oggetto, ecc., è di ordine
naturalistico e, pertanto, concerne sempre entità oggettuali, anche quando
venga usata una terminologia soggettivistica. Questa anomalia (segnalata appunto
dallo stesso Stolorow) non esclude affatto che si possano concepire i sistemi
"mentali", teorizzati in termini fisicalistici e impropriamente definiti come
"Sé" o come "Soggetto", quali parti di un supersistema a sua volta fisicalizzato,
che garantisce una interrelazione organizzata e permanente tra le parti componenti.
Tutto ciò, al contrario, deve considerarsi presupposto in una visione naturalistica,
in quanto nel sistema generale del mondo fisico tutti i fenomeni particolari sono
soggetti a leggi universali e necessarie (di ordine matematico) dalle quali sono
definite a priori le loro reciproche relazioni. 19) Ghestaltismo, empatia
e teoria degli affetti nell'"intersoggettivismo" di R.D.Stolorow. Definire
i fenomeni mentali come "relazionali" e "intersoggettivi" non è pertanto
sufficiente a garantirne l'autenticità "soggettiva": occorre anche definire
metodicamente la natura della loro interrelazione, che, qualora fosse concepita
in termini fisicalizzati, si collocherebbe in una dimensione oggettualistica dove
verrebbe annullata ogni forma di soggettività e di intersoggettività.
Proprio questo effettivamente accade alla psicologia dello stesso Stolorow, che
sembrerebbe incline a concepire la sua "intersoggettività" nei termini
di una sorta di "teoria del campo" o di psicologia della Gestalt : in questo
caso, però, come già da parte nostra è stato osservato, si
correrebbe il rischio di costituire una nuova entità naturalistica "intersoggettiva"
dove il processo di differenziazione dell'individuo rispetto all'Alterità
non avrebbe più un'autenticità reale, nè una legittimazione
logica, perché la realtà originaria sarebbe rappresentata da una
indifferenziazione immediata "intersoggettiva", dove qualsiasi tentativo di introdurre
una differenziazione dovrebbe essere considerato come un'arbitraria astrazione.
(56) In simili condizioni epistemologiche peraltro, risulterebbe impossibile
costituire una vera teoria della personalità, per la quale il principio
della differenziazione e della individuazione del soggetto rispetto all'altro
soggetto è da considerarsi indefettibile, perché rappresenta il
principio problematico da cui scaturisce lo sviluppo storico dell'Io riflessivo
(Sé), sia come alienità e contrapposizione dialettica, sia come
identità e identificazione dialettica con l'alterità. La natura
dialettica delle relazioni intra ed inter soggettive rende improponibile qualsiasi
elaborazione epistemologica di tipo ghestaltico, che riporterebbe la problematica
della soggettività su posizioni oggettualistiche e naturalistiche, senza
poterne definire l'intrinseco fondamento logico, nè sul piano teoretico,
nè sul piano clinico. In effetti, tanto nella teoria, come nella clinica,
lo Stolorow sembra proporsi come sostenitore di un soggettivismo o (secondo la
sua terminologia) di un "intersoggettivismo" empatico, dove le correnti emozionali
si costituiscono nell'ambito di un "campo" bipolare (o pluripolare) cui tutti
i poli dell'"intersoggettività" ugualmente partecipano. E' evidente
come la teoria dell'"intersoggettivismo" empatico di Stolorow rappresenti un radicale
sovvertimento dei fondamenti della psicoanalisi freudiana, sia nella teoria come
nella pratica terapeutica. Sul piano teorico, una delle conseguenze più
importanti di tale sovvertimento è verificabile nella teoria degli affetti
e del rapporto di alterità, mentre sul piano clinico e terapeutico viene
messa in crisi la teoria freudiana del transfert. Il carattere più
singolare di questa teoria della soggettività dello Stolorow è che
essa, pur giustamente criticando il riduttivismo della teoria freudiana degli
affetti e la logica del naturalismo su cui essa si fonda, tuttavia non perviene
all'individuazione dell'autentico fondamento logico dell'affettività, limitandosi
a riproporre una concezione basata sull'empatia e sull'esperienza immediata (Erlebnis)
L'interrogativo epistemologico di una teoria "empatica" degli affetti qual è
quella proposta dallo Stolorow, è che se essi scaturiscono da un "campo"
"intersoggettivo", occorrerà pur sempre precisare se tale "campo" sia conseguente
alla interrelazione delle diverse individualità soggettive, presupposte
come realtà primaria dell'affettività, oppure se il "campo emozionale"
debba concepirsi come una realtà primaria, nell'ambito della quale si costituiscono
o vengono condizionati i diversi soggetti individuali. In quest'ultimo caso,
il "campo emozionale" potrebbe essere teorizzato secondo una formula fisicalistica,
come un campo energetico che, in ultima analisi, non risulterebbe incompatibile
con una teoria della libido transpersonale (come quella junghiana); oppure potrebbe
rinviare ad un mondo di intenzionalità trascendenti dalle quali dipenderebbe
la configurazione del "campo" ed i destini dei soggetti individuali che in esso
trovano la loro collocazione (così come accade nella dottrina junghiana
degli archetipi o nella concezione fenomenologica-esistenzialistica della trascendenza).
E' evidente però che, in una simile impostazione epistemologica, si otterrebbe
proprio quella ontologizzazione (o reificazione) delle esperienze emozionali dalla
quale lo Strolorow aspirerebbe ad emendarsi, dopo averne denunciato la presenza
nella dottrina freudiana delle pulsioni. Se infatti il mondo delle emozioni
e degli affetti non appartiene originariamente al Soggetto, come Io riflessivo,
ma è concepito come dipendente da una realtà fisicalizzata (come
un "campo" fisico, una "energia" libidica, ecc.) oppure da una realtà trascendente
(strutture archetipiche, mondo del valori, ecc.), allora la realtà del
mondo affettivo sarà teorizzabile solo in una dimensione oggettuale di
contenuti fisicalizzati oppure trascendenti, mentre il soggetto individuale sarà
ridotto ad una contenitore vuoto che sarà a sua volta oggettualizzato e
la cui sorte dipenderà dai contenuti che in esso troveranno la loro collocazione.
E' evidente che, in tali condizioni, parlare di "soggettività" e di "intersoggettività"
risulterà del tutto illusorio perché il soggetto risulterà
completamente alienato e determinato da una realtà obbiettiva che lo trascende,
negandogli ogni reale autonomia. Allo stesso modo, in una simile prospettiva,
risulterà illusorio ogni tentativo di elaborare una vera teoria della personalità,
fondata sull'autonomia dell'Io riflessivo. 20) La teoria naturalistica
degli "affetti" e la dialettica del sentimento in una prospettiva dialogica.
L'altra alternativa per una concezione degli affetti secondo una teoria del
"soggetto" e dell'"intersoggettività" consiste nel riconoscere nel soggetto
stesso, come interiorità riflessiva, l'origine primaria di ogni forma d'affettività.
In questo caso, però, la relazione "intersoggettiva", dalla quale si originano
gli affetti, non potrà essere collocata sul piano esteriorizzato di contenuti
emozionali o di sentimenti trascendenti, che i vari "soggetti" coinvolti recepiranno
passivamente. Al contrario, il punto di riferimento della relazione "intersoggettiva"
dovrà essere situato all'interno della stessa esperienza soggettiva, come
sentimento di Sé, in contrapposizione al sentimento dell'Alterità
e dell'oggettualità. In una prospettiva fondata sul principio dell'Io
riflessivo (che, in psicoanalisi, viene introdotto esplicitamente da Freud, col
suo saggio sul narcisismo), il problema della vita emotiva non può più
trovare il suo punto di riferimento sul piano dell'esteriorità oggettuale
e della passività degli "affetti". Il soggetto che sia "posseduto" e condizionato
dagli "affetti" come rappresentanza delle "pulsioni", o di "campi emozionali"
o di "valori" trascendenti, non è più un autentico soggetto, perché
vive il sentimento del Sé come costitutivamente alienato da se stesso ed
ontologicamente non integrabile nel proprio Io. La costituzione di una
vera teoria della personalità diviene possibile soltanto adottando una
metodologia dialettica e capovolgendo così la prospettiva naturalistica
che presuppone i sentimenti come costitutivamente alienati dal soggetto e dall'Io
riflessivo. In effetti, mentre in una concezione naturalistica l'alienazione
del sentimento, in quanto "affetto" passivamente "subito" dal soggetto, è
ontologicamente irriducibile, in una visione dialettica, viceversa, tale alienazione
è fondamentalmente funzionale, in quanto comporta la differenziazione e
lo sviluppo del sentimento di Sé, attraverso le antitesi di Identità-Alterità,
Soggettività-Oggettualità, Integrazione-Alienazione, Indifferenziazione-Differenziazione,
Soggetto-Oggetto, Dipendenza-Autonomia, Immediatezza-Mediazione, Particolarismo-Universalità,
ecc. In tal modo, dal primitivo sentimento di Sé, come narcisismo originario,
il soggetto trapassa, nel momento dell'alienazione, al sentimento dell'Alterità
e dell'Oggetto, percepito a sua volta, nel momento dell'integrazione, come Oggetto-Sé,
costitutivo del proprio essere e del proprio divenire. (57) In tal senso,
il processo di autobbiettivazione come alienazione del soggetto è dialetticamente
complementare al processo di individuazione dell'Io come integrazione e sviluppo
della personalità. In una prospettiva dialettica, tali antitesi non
possono essere ricavate empiricamente dall'esperienza esterna, perché sono
categorie fondamentali, cioè il presupposto aprioristico per la concettualizzazione
di qualsiasi esperienza psichica e di ogni soggettività. Questo
carattere categoriale delle antitesi fondamentali della soggettività, come
esperienza interiore, ci obbliga ad attribuire un valore categoriale anche ai
sentimenti che sono correlati con tali antitesi. Il fatto che attribuiamo
un significato categoriale, inseparabile dal nostro essere, come concreta esistenza,
a sentimenti quali l'angoscia e la gioia, l'amore e l'odio, la depressione e l'esaltazione,
l'insicurezza e la sicurezza ecc., non è altro che la traduzione, sul piano
dell'esperienza interiore, di quella vicenda di integrazione e di alienazione
attraverso la quale il soggetto si differenzia e si sviluppa storicamente come
personalità. Questo sviluppo storico del soggetto come personalità
comporta pertanto l'obiettivazione dialettica dell'interiorità nell'esteriorità,
come espressione e come linguaggio, attraverso il quale l'Io si realizza come
Alterità. Perciò, in una prospettiva dialettica, la teoria dello
sviluppo del sentimento è inseparabile da una teoria del linguaggio come
relazione dialogica con l'oggettualità e l'Alterità. (58) Poiché,
tuttavia, tanto il sentimento, quanto l'oggetto e l'altro, assumono un significato
riflesso, la loro formulazione fondamentale si pone nei termini del sentimento
di Sé e di autobiettivazione (in quanto Sé che osserva e che è
osservato; sente se stesso ed è sentito da se stesso; vuole se stesso ed
è voluto da se stesso, ecc.; o, viceversa, nega e rifiuta l'autosservazione,
l'accettazione di Sé, la percezione di Sé, ecc.). Risulterà
essenziale perciò stabilire, ai fini di una valutazione del rapporto dell'Io
col mondo, se, nella fase originaria della sua costituzione, il sentimento di
Sé sarà orientato secondo l'amore, l'accettazione e la valorizzazione
di Sé, oppure secondo l'odio, il rifiuto, il deprezzamento di Sé,
perché la formula fondamentale del sentimento che il soggetto applica verso
se stesso sarà anche quella che il soggetto applicherà verso gli
altri soggetti, in universale. Con l'esplicita introduzione dei temi dell'Io
riflessivo, del Sé, del Soggetto e dell'Intersoggettività, la speculazione
psicoanalitica approfondisce dunque la propria problematica epistemologica, mettendo
in luce il dissidio metodologico, già presente nel pensiero freudiano,
tra il metodo riduzionistico dominante nella metapsicologia e l'esigenza di un
metodo integrazionistico e dialettico, evidenziata dalla teoria del narcisismo.
21) Il problema psicoanalitico delle motivazioni e dell'intenzionalità
nella prospettiva epistemologica dell'Io riflessivo e della psicopatologia comprensiva:
biologismo, trascendenza, dialettica. L'esigenza di una metodologia
dialettica in psicoanalisi si rende tanto più evidente quanto più,
nella ricerca e nella clinica, assumono rilevanza i temi dell'Io riflessivo, del
Sé, della Soggettività, in rapporto ai quali il metodo riduzionistico
si dimostra inadeguato. Questa necessità di un rinnovamento metodologico
della psicoanalisi sul piano della psicopatologia della comprensione e della teoria
della personalità, è stata messa in luce, per il passato, soprattutto
dalla ricerca di R.Waelder e, in tempi più recenti, dalla teoria del Sé
e del narcisismo di H.Kohut e dalla teoria della soggettività e dell'intersoggettività,
di R.D.Stolorow. E' evidente che una simile riforma del metodo psicoanalitico
mette in crisi l'ideale freudiano della psicoanalisi come psicopatologia e teoria
della personalità che avrebbero dovuto conformarsi alla teoria biologica
delle pulsioni istintuali ed alle leggi economiche dell'omeostasi e della costanza
e che, appunto in ragione di tale conformità, avrebbero dovuto fondarsi
sulla metodologia della spiegazione, tipica delle scienze naturali. Con l'introduzione
del principio epistemologico dell'Io riflessivo come Sé e come Soggettività,
viene posto in crisi non solo il programma freudiano di una biologizzazione della
fenomenologia psichica in funzione della teoria delle pulsioni, ma anche il programma
di H.Hartmann di una biologizzazione dell'Io come apparato di adattamento dotato
di circuiti neuronali specifici. In effetti, se la teoria hartmaniana di un'autonomia
dell'Io basata su una specificità dei suoi fondamenti biologici deve dimostrarsi
affatto illusoria (dal momento che un automatismo di adattamento biologico può
essere definito come "Io" e come "autonomo" soltanto in funzione di un abuso terminologico),
nessun artificio concettuale o terminologico è sufficiente per mascherare
l'inadeguatezza della metodologia naturalistica della spiegazione di fronte alla
problematica dell'Io riflessivo e della sua motivazionalità autonoma, come
Sé e come Soggettività. Lo spostamento, in psicoanalisi, dalla
dimensione epistemologica della metodologia della spiegazione, tipica della metapsicologia
delle pulsioni istintuali, a quella della metodologia della comprensione, introdotta
dal principio del Sé, della Soggettività e dell'Io riflessivo, comporta
necessariamente una debiologizzazione della metodologia psicoanalitica,
soprattutto in relazione alla teoria delle motivazioni, che non sono più
riducibili al modello omeostatico. In effetti, in una teoria della personalità
e della psicopatologia fondata sul principio epistemologico dell'Io riflessivo,
la motivazione fondamentale non può che essere, a sua volta, riflessiva:
l'oggetto dell'Io, in quanto soggetto, non può essere che l'Io stesso,
in quanto Sé. La natura riflessiva dell'Io comporta pertanto che la
motivazione fondamentale ed ogni altra motivazione dell'esperienza psichica siano
rivolte, in ultima analisi, alla realizzazione dello stesso Io, cioè della
personalità, come individualità autonoma e come risoluzione delle
condizioni defettive che limitano o minacciano la sua autonomia. Da un punto
di vista riflessivo e propriamente personologico, l'oggetto di qualsiasi motivazione
particolare sarà sempre in funzione dell'intenzionalità fondamentale
del Soggetto, che aspirerà alla realizzazione di se stesso come Io ideale
e integrazione della personalità. In questo senso, il tema delle motivazioni
e della loro integrazione nell'intenzionalità fondamentale dell'Io si ricollega
alla problematica della trascendenza, in quanto comporta la necessità,
da parte del Soggetto, di problematizzare dialetticamente la sua realtà
immediata, in funzione del conseguimento di un modello ideale dell'Io che non
è immediatamente presente, ma che costituisce la condizione normativa della
personalità e di ogni suo comportamento. Pertanto, anche in rapporto
al tema della motivazionalità e dell'intenzionalità, la teoria psicoanalitica
della psicopatologia e della personalità si troverà di fronte alla
necessità di operare un'opzione tra la metodologia naturalistica della
spiegazione e quella personologica della comprensione. Il rifiuto, da parte
della psicoanalisi della soggettività, di legittimare ontologicamente la
metapsicologia, come teoria motivazionale delle pulsioni, fondata sul principio
omeostatico, comporta dunque la necessità di riformulare la teoria delle
motivazioni in funzione antiomeostatica, secondo il modello dell'Io riflessivo
e della sua intenzionalità trascendente. * * * Il
fatto che la trascendenza, come motivazione fondamentale, caratterizzi l'intenzionalità
dell'Io riflessivo in quanto Sé, spiega l'accostamento della psicoanalisi
della soggettività alle posizioni della personologia e della psicopatologia
fenomenologiche e alla loro motivazionalità di ordine "superiore".
In tal senso, l'aspirazione della psicoanalisi a costituirsi come anello di congiunzione
tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito
(Geisteswissenchaften), già formulata da Freud in funzione del modello
naturalistico delle pulsioni, viene ad essere riformulata, dai teorici della soggettività,
su posizioni capovolte, in funzione del modello ermeneutico dei significati trascendenti
e della loro intenzionalità. E' evidente che, in questo mutamento di
prospettive (come, del resto, nella opposta prospettiva naturalistica) in relazione
al problema motivazionale, ciò che risulta di primaria importanza non
può essere l'individuazione empirica di un certo numero di motivazioni
"superiori" (trascendenti) in opposizione ad un catalogo di motivazioni "inferiori"
(biologico-pulsionali), bensì la possibilità di costituire una valida
e coerente metodologia della Soggettività e della sua intenzionalità,
in opposizione alla riconosciuta inadeguatezza della metodologia naturalistica
e del suo modello delle motivazioni pulsionali. A questo proposito, occorrerà
tenere presente che, in entrambe le prospettive, biologico-pulsionale o soggettivistico-intenzionale,
le motivazioni, sul piano della fenomenologia empirica, potranno apparire innumerevoli
(sia che si attribuiscano agli istinti o alle forme di esistenza corrispondenti),
ma, in ogni caso, per ciascuna delle due prospettive, il principio motivazionale
fondamentale sarà sempre unitario. In effetti, da un lato, il
motivazionismo pulsionale si caratterizza per il suo riduzionismo radicale,
che porterà ad assegnare un significato fittizio alle motivazioni "superiori",
per ricondurle alla più "autentica" realtà delle motivazioni biologiche
che, a loro volta, troveranno il loro fondamento motivazionale unitario nel principio
dell'omeostasi. In una prospettiva soggettivistica, viceversa, l'autentica
realtà dell'Io, in quanto personalità, comporterà la necessità
di una subordinazione delle motivazioni "inferiori" biologiche (pulsioni, istinti,
ecc.) alle motivazioni "superiori", il cui fondamento universale unitario
sarà costituito dal Sé ideale, come trascendenza dell'Io. Il
problema della motivazione, nel quadro della psicopatologia della comprensione
e della teoria della personalità, ci pone così, ancora una volta,
di fronte al problema della fondazione teoretica della psicologia degli atti
(già patrocinata da F.Brentano) in contrapposizione con la psicologia
degli elementi (che ha il suo più celebre antesignano in W.Wundt) e
della psicofisica (rappresentata soprattutto da T.Fechner). Non possiamo
stupirci, pertanto, di ritrovare, nella più recente letteratura psicoanalitica,
una polemica epistemologica che si ricollega direttamente all'antitesi metodologica
che abbiamo riconosciuto presente, sin dalle origini, nella psicologia contemporanea.
Abbiamo così, da un lato, la posizione di chi, appellandosi alla necessità
di conferire alla psicoanalisi delle motivazioni uno statuto razionale
e scientifico, identifica tale razionalità con le metodiche
quantificatrici e fisicalizzanti delle scienze naturali e, pertanto, giudica insostituibile
la metapsicologia freudiana, soprattutto in relazione al punto di vista economico,
che dovrebbe consentire di ridurre in termini puramente quantitativi la fenomenologia
personologica e psicopatologica, abolendo ogni fattore qualitativo (O.Fenichel,
H.P.Blum, L.Rangell, C.Brenner, ecc.). Dall'altro lato, noi troviamo un'impostazione
che, ispirandosi alla psicologia degli atti ed alla intenzionalità del
soggetto interiore, ritiene che il problema della motivazione umana non sia riducibile
alla pulsionalità biologica, ma debba trovare il suo punto di riferimento
e la sua più tipica caratterizzazione nell'Io riflessivo e nell'autotrascendimento
del Sé (M.N.Eagle, R.P.Stolorow, G.E.Atwood, ecc.). Vediamo così
riproporsi nella psicoanalisi dei nostri giorni quell'antitesi metodologica che
tipicamente caratterizza l'epistemologia della psicologia moderna . Da un lato,
l'ideale di fondare le conoscenze psicologiche e psicopatologiche secondo le basi
scientifiche del naturalismo, conduce la psicoanalisi freudiana alla soppressione
del soggetto e della sua tipica motivazionalità riflessiva, annullando,
così, l'originale problematica psicologica e la possibilità di costituire
un'autentica psicopatologia della comprensione. Dall'altro lato, la rivendicazione
dell'originalità del soggetto e della sua intenzionalità porta l'odierna
psicoanalisi ad interrogarsi su quale possa essere il principio di razionalità
dell'interiorità soggettiva e se sia possibile costituire una teoria della
motivazione del Sé, da cui possa anche derivare una teoria della personalità
ed una psicopatologia sistematica della comprensione. Il tema dell'Io riflessivo
conduce pertanto la psicoanalisi della soggettività a confrontarsi con
problematiche quali l'intenzionalità, la trascendenza, l'empatia, gli
Erlebnisse dell'esistenza e dell'"essere nel mondo" (Dasein) come Alterità
e Alienità, ecc., che caratterizzano la ricerca fenomenologica. E'
senza dubbio significativo che tutte queste problematiche, sia dal punto di vista
teoretico, sia in sede clinica, portino in primo piano, oltre al tema dell'Io,
anche quello del sentimento, che diviene fondamentale, non solo in psicoanalisi,
ma anche nella fenomenologia, per la costituzione di una teoria comprensiva della
personalità e della psicopatologia. 22) La psicologia dei sentimenti
(patopsicologia) e la necessità della sua fondazione dialettica in quanto
psicologia dell'Io, nella psicoanalisi dell'intersoggettività e nella fenomenologia:
la posizione di K.Schneider. L'aspetto più significativo
della psicoanalisi della soggettività (Stolorow e collaboratori) è
dunque l'esigenza di emendamento del riduzionismo tipico della metapsicologia
freudiana, che risolve i sentimenti umani in semplici "affetti" riconducibili
alle pulsioni istintuali ed alla legge dell'omeostasi, rendendosi così
responsabile di una concezione a sua volta fisicalizzata dello stesso Io (ridotto
ad un puro automatismo di adattamento) In effetti, richiamandosi al tema dell'empatia
come esperienza intersoggettiva, la psicoanalisi della soggettività mette
in evidenza l'esigenza di integrazione del sentimento con la dialettica dell'Io
riflessivo, in funzione dell'autenticazione della teoria della personalità
e della psicopatologia comprensiva. Sotto questo profilo, la psicoanalisi
dell'intersoggettività ci ripropone una tematica che caratterizza la psicopatologia
fenomenologica di K.Schneider. Nella psicopatologia fenomenologica di K.Schneider,
i sentimenti, esplicitamente definiti come "stati dell'Io", occupano una posizione
di primo piano in relazione alla teoria della personalità, in generale,
e delle personalità psicopatiche, in particolare. (59) Non è
dubbio che, per la costituzione di una psicologia sistematica della comprensione,
non solo interpersonale, ma anche intrapersonale, si renda necessaria una teoria
dei sentimenti, del loro fondamento logico e delle loro reciproche contraddizioni,
in relazione all'esperienza dell'Io. In effetti, non è possibile concepire
alcuna forma di comunicazione e di comprensione sia interpersonale che intrapersonale,
se non in funzione di un fondamento, al tempo stesso logico ed empatico, che conferisca
unità e continuità a tutte le diverse forme del sentimento, individuali
e interpersonali, al di là delle antitesi e contraddizioni secondo cui
sono vissute nell'interiorità soggettiva. Il fatto che la metodologia
della comprensione includa il principio del sentimento, è esplicitamente
riconosciuto da Jaspers. "Quando comprendiamo i contenuti delle idee come
scaturiti da stati d'animo, desideri e timori di chi pensa, allora comprendiamo
veramente in modo psicologico o partecipando attivamente". "La partecipazione
affettiva ci introduce nelle stesse relazioni psichiche. Mentre la comprensione
razionale è solo un ausilio della psicologia, la comprensione affettiva
ci introduce nella psicologia stessa".(60) Sotto il profilo epistemologico,
peraltro, occorrerà precisare se la metodologia comprensiva dovrà
ridursi alla pura empatia dell'Einfühlung e dell'Erlebnis (come
esperienza immediata) o se ad essa dovrà essere riconosciuta immanente
una forma logica idonea a interpretare la problematicità del sentimento
e la sua costitutiva contradditorietà, in rapporto al principio dell'Io.
Il fatto che i sentimenti si presentino in termini contraddittori, è cosa
ben nota anche alle psicologie positivistiche (come quella di Wundt) che di regola
li descrivono secondo coppie antitetiche (piacere-dolore, tensione-distensione,
amore-odio, egocentrismo-socialità, ecc.). Tali psicologie, tuttavia, perseguono
l'ideale di ridurre le stesse antitesi a fattori quantitativi, come tipicamente
si ripromise anche Freud, a proposito dell'antitesi piacere-dolore, con la sua
teoria economica delle pulsioni. E' evidente, peraltro, che la contraddittorietà,
così come l'articolazione logica dei sentimenti, potrà essere adeguatamente
teorizzata solo nell'ambito della dialettica dell'Io, mentre verrà del
tutto obliterata con l'introduzione di una metodologia naturalistica della spiegazione,
che si riproporrà, in ogni caso, di ridurre l'esperienza interiore della
vita emotiva ad una dimensione estensiva, di ordine puramente quantitativo. In
tal modo, i sentimenti saranno ricondotti a reazioni neurovegetative, ovvero a
pulsioni biologiche, sostenute da energie fisico-chimiche quantificabili e misurabili.
Nell'impostazione metodologica adottata da K.Schneider, i sentimenti sono riconosciuti
nella loro originalità e nella loro differenziazione qualitativa, secondo
un inquadramento già adottato da N.Hartmann e M.Scheler. (Vedi Tavole IV
e IV A). Conformemente a tale inquadramento, i sentimenti, nella loro "stratificazione"
elementare, si risolverebbero nella sensorialità e nella pulsionalità
(sentimenti "somatici", "sensoriali", "pulsionali", "vitali", ecc., collegati
col sentimento della corporeità, dei suoi bisogni e della sua vitalità,
della sua integrità e della sua defettività). Nelle loro "stratificazioni"
più "elevate", viceversa, i sentimenti assumerebbero significati di valutazione
(in senso positivo o negativo) che li renderebbero inscindibili dall'attività
giudicativa e volitiva in quanto comporterebbero atteggiamenti, inclinazioni o
tendenze, in senso positivo o negativo, da parte del soggetto, verso l'oggettualità
e l'alterità (che può essere rappresentata anche dal soggetto stesso).
Per quanto, da parte dello Schneider, si manifesti il proposito di ricondurre
la fenomenologia dei sentimenti alla formula dell'esperienza immediata (Erlebnis),
non sembra che questa formula trovi un'effettiva validazione nella sua "patopsicologia". In effetti, ciò che risulta fondamentale, nella teoria schneideriana
dei sentimenti, è il loro costitutivo riferimento all'Io riflessivo, sia
nella loro forma più elementare (che presuppone comunque la coscienza della
"mia" corporeità), sia nelle loro "stratificazioni" più elevate
(che postulano l'attività giudicativa dell'Io ed il suo riferimento ad
un mondo dei valori). Questo specifico riferimento dei sentimenti all'Io è
esplicitamente riconosciuto dallo Schneider, che però non ne trae tutte
le dovute conseguenze sul piano metodologico. In effetti, lo Schneider, per
quanto concerne la teoria dei sentimenti (la sua "patopsicologia") viene a trovarsi
di fronte ad una duplice possibilità. Da un lato, vi è la possibilità
di interpretare la psicologia dei sentimenti (la "patopsicologia") secondo una
duplice metodologia (della comprensione e della spiegazione), secondo quanto proposto
dalle dottrine di N.Hartmann e di M.Scheler, che assegnano a tale dualismo metodologico
un fondamento ontologico. Questi autori, infatti, adottano, per la psicologia
dei sentimenti "elementari" e "inferiori", una metodologia naturalistica esplicativa,
in quanto sarebbero pertinenti all'"essere" fisiologico. Attribuiscono invece
alla psicologia dei sentimenti "complessi" e "superiori" una metodologia comprensiva,
in quanto ad essi sarebbe pertinente un riferimento ad un mondo di valori fondato
sull'essere trascendente. (Vedi Tavola IV A). In tal modo, secondo una simile
prospettiva, l'Io non potrebbe essere altro che lo spettatore passivo di una fenomenologia
dei sentimenti il cui fondamento reale non risiederebbe nel proprio Sé
interiore, ma nella stratificazione somato-organica (per i sentimenti "inferiori")
oppure nell'Essere trascendente (per i sentimenti "superiori"). L'altra alternativa,
invece, consiste nella possibilità di riconoscere tanto ai sentimenti "inferiori",
come a quelli "superiori", un comune riferimento riflessivo, rappresentato dall'Io
interiore e dal suo processo dialettico di autobbiettivazione. E' evidente
che, in una prospettiva dialettica, tanto i sentimenti cosiddetti "inferiori",
come quelli cosiddetti "superiori" vengono radicalmente problematizzati, perché
se, da un lato, essi definiscono altrettante condizioni di integrazione dell'Io,
dall'altro lato, all'opposto, si configurano come altrettante condizioni di crisi
e di alienazione, cioè stati di problematizzazione dell'interiorità
soggettiva, che l'Io dovrà risolvere e superare per conseguire l'integrità
del proprio essere. Piacere e dolore, ansia e sicurezza, tristezza e gioia,
autodeprezzamento e autostima, amore e odio, speranza e disperazione, merito e
colpa, ecc., rappresentano altrettante antitetiche determinazioni, secondo le
quali, in condizioni differenti, si manifesterà la dialettica del sentimento.
Occorre però tenere presente che tale dialettica può acquistare
un reale significato in quanto sia derivata non da "stratificazioni" "inferiori"
o "superiori" dell'Essere (naturale o trascendente), ma dall'interiorità
dell'Io e dalla sua costitutiva riflessività. Piacere e dolore, ansia
e sicurezza, speranza e disperazione, amore e odio, ecc., possono avere un autentico
significato epistemologico solo in quanto si presupponga la presenza di un Io
riflessivo, come soggetto interiore che, rapportandosi all'esteriorità
oggettuale, gode e soffre, si angoscia e si rassicura, spera e dispera, ama e
odia, ecc., in funzione del valore, positivo o negativo, che assume la propria
obiettivazione. 23) L'integrazione dialettica dell'Io riflessivo con
il principio del sentimento, come condizione per l'autenticazione della teoria
della personalità e della psicopatologia comprensiva. E'
necessario sottolineare che qualsiasi altra "patopsicologia" che non riconoscesse
nell'Io riflessivo il principio fondante e la forma dialettica costitutiva di
tutti i sentimenti, non ci consentirebbe di pervenire ad un'autentica teoria della
personalità nè ad una psicopatologia comprensiva. In base alle
precedenti considerazioni, risulta evidente che il principio della comprensione
empatica, che noi troviamo alla base della psicoanalisi intersoggettiva (Stolorow
e collaboratori) e della psicopatologia fenomenologica (K.Jaspers, K Schneider)
potrà considerarsi idoneo per la costituzione di una teoria della personalità
e di una psicopatologia personologica soltanto in funzione della sua integrazione
col principio della dialettica, come forma logica dell'Io riflessivo. In
effetti, una psicologia dei sentimenti che si riducesse alla pura registrazione
di una serie di dati emozionali di esperienza immediata (Erlebnisse), ovvero
che concepisse la comprensione empatica come un'identificazione immediata con
l'affettività dell'altro (Einfühlung), senza individuare il
fondamento logico che la collega alla dialettica dell'Io riflessivo, si troverebbe
costretta a rinunciare alla possibilità di un'autentica teorizzazione sistematica,
nè potrebbe contribuire alla costituzione di una teoria della personalità.
Al di fuori della dialettica dell'Io riflessivo, una psicologia dell'affettività
potrà trovare soltanto una teorizzazione spuria. In effetti, seguendo il
principio della spiegazione naturalistica, gli affetti si ridurranno ad un fatto
fisiologico (come accade nella metapsicologia freudiana). In base al principio
della trascendenza, d'altra parte, le origini dei sentimenti (soprattutto di quelli
"superiori") saranno ricercate in una realtà onnicomprensiva, non intelligibile
da parte dell'Io. In tali condizioni, peraltro, si assisterà al paradosso
di un Io costitutivamente alienato dai propri sentimenti. In effetti, in una teorizzazione
di tipo naturalistico (come quella metapsicologica freudiana) l'Io verrà
a percepire gli stati affettivi unicamente come una sgradevole tensione interna,
nei confronti della quale si troverà a vivere una condizione traumatica
o uno stato penoso di arginatura. (61) Anche in una teorizzazione di tipo
trascendente, peraltro, l'Io recepirà i sentimenti e gli affetti (soprattutto
quelli "superiori") non come espressione della propria spontaneità, ma
come "rivelazione" di una realtà trascendente di valori, dalla quale sarà
"afferrato" e "vissuto", senza potersi dare una ragione logica o una spiegazione
naturale. Nella concezione di K. Jaspers, ad esempio, "i valori prendono forma
di un fatto oggettivo, di un regno particolare come qualcosa che ha vigore per
se stesso, e vuol essere realizzato e promosso". (62) Anche secondo N.
Hartmann, "i valori sussistono indipendentemente dalla coscienza di valore
. . . In ogni caso è la coscienza di valore a dipendere dall'esistenza
del valore, non il valore dalla coscienza. . . . Se i valori esistono indipendentemente
dal loro sentimento, se, anzi, è questo che dipende da quelli; allora l'adesione
ai valori è il contatto con una diversa sfera che esiste accanto o al di
sopra del reale e comunque non ne dipende . . . L'adesione dello spirito al mondo
dei valori è come un legame con un altro mondo, quasi la sua disposizione
ad ascoltare il richiamo che ne scende nel mondo reale, ad interpretare l'esigenza
dettata dai valori. Il sentimento dei valori ha la forma di un interiore Vernehmen
(coglimento), e si accosta quindi al senso primario della parola Vernunft
(ragione). Risulta del tutto sensato concepire la ragione pratica come coglimento
di valori . . . Il "coglimento" dei valori - anche in se stessi, nella loro idealità
e indipendentemente da ogni realizzazione - è, in generale, più
un esser colti e soggiogati da essi, che un vero e proprio cogliere. . . .
Il sentimento umano del valore è il protrarsi dello spirito vivente dentro
l'altro mondo; o, piuttosto, al contrario, il protrarsi di questo mondo altro,
in Sé ideale e indifferente alla realtà, nel mondo reale. L'essere
umano vivente, lo spirito personale, è il punto in cui il mondo reale si
apre all'esigenza ideale che proviene dai valori". (63) L'ontologizzazione
trascendente degli universali del sentimento, elaborata da L.Binswanger nella
sua fenomenologia antropoanalitica ed applicata da questo autore anche nella discussione
dei suoi celebri casi clinici, rappresenta, a questo proposito, un esempio tipico.
(64) In un tale contesto, però, paradossalmente, l'alienazione dei
sentimenti rispetto all'Io non sarà più prospettabile come uno stato
"negativo" ("abnorme" o "psicopatico") della personalità, nè la
reintegrazione dei sentimenti nell'Io sarà da considerarsi come corrispondente
alla normalità originaria dell'essere personologico. Al contrario,
le configurazioni universali del sentimento definiranno condizioni dell'esistenza
originariamente precostituite nell'Essere trascendente ed alle quali il soggetto
individuale potrà essere chiamato a partecipare, senza peraltro esserne
l'autore, e senza che gli sia possibile formulare legittimamente in merito un
giudizio di valore o di disvalore. In tal senso, gli universali dell'immaginario,
gli atteggiamenti emotivi e le visioni del mondo che (in senso "normale" o "psicopatico")
caratterizzano la personalità umana non potranno essere considerati come
pertinenti alla spontaneità dell'Io, ma apparterranno alla stessa trascendenza,
cui dovrà attribuirsi il processo costitutivo del Sé e della personalità,
rispetto al quale l'Io risulterà in ogni caso alienato. Questo paradosso
dell'alienazione dell'Io rispetto al Sé ed alla personalità autentica,
in quanto sentimento, è verificabile, in modo tipico, nelle teorie fenomenologico
esistenzialistiche di quegli autori che ontologizzano la dialettica dei sentimenti
sul piano della trascendenza (come N.Hartmann, M.Heidegger,L.Binswanger, M.Boss
, C.G.Jung).(65) Una simile impostazione epistemologica trova la sua collocazione
nel quadro 2A della TEU (Tavola Epistemologica Universale). 24) L'essere
personologico come dialettica del Sentimento di Sé e della sua problematizzazione:
il sentimento dell'angoscia. Ai nostri giorni, il problema dell'integrazione
del sentimento nella forma dell'Io riflessivo si presenta dunque come la condizione
fondamentale per la costituzione di una psicopatologia comprensiva e di una teoria
della personalità. Noi abbiamo potuto verificare come, nell'ambito
della cultura psicoanalitica, l'alienazione del sentimento dall'Io sia da imputarsi
al riduzionismo naturalistico della metapsicologia freudiana. Questa metapsicologia,
da un lato, intenderebbe risolvere la differenziazione qualitativa e la dialettica
dei sentimenti nella pulsionalità biologica e nelle sue costituenti energetiche,
economicamente quantificabili e sottoposte alle leggi dell'omeostasi e della costanza.
Dall'altro lato, la stessa struttura dell'Io, cui sono attribuite funzioni automatiche
per l'adattamento delle pulsioni alle condizioni imposte dall'ambiente esterno,
sarebbe a sua volta riconducibile ad un fondamento neurobiologico. In un simile
contesto, strettamente naturalistico e riduzionistico, l'esperienza dell'Io riflessivo,
come sentimento interiore del Sé, viene a trovarsi in una condizione di
alienazione radicale, che ne rende impossibile una coerente teorizzazione.
Questa alienazione radicale si traduce, nella metapsicologia, non solo nello scacco
dell'Io di fronte alla triplice limitazione sia del sentimento biologizzato come
Es; sia del Mondo esterno come ordine precostituito di significati convenzionali,
minacciosi e inquietanti; sia del Superio come rappresentante interiorizzato e
automatizzato di contenuti remoti e inattuali, pertinenti a tale ordine simbolico
(66); - ma anche, e soprattutto, nel dramma dell'Io, come autenticità riflessiva,
di fronte a se stesso, in quanto percezione del limite rappresentato dalla propria
obiettivazione empirica ed esigenza del suo autotrascendimento in funzione dell'integrazione
con l'ideale del proprio Sé. A tale proposito, non è difficile
verificare come la visione psicoanalitica del sentimento debba trovare il suo
esito logico nella teoria dell'angoscia come costitutiva fatiscenza dell'Io di
fronte alle ben più consistenti realtà, biologiche e sociali, degli
istinti e della normatività estrinseca (sia esteriorizzata che interiorizzata).
In ultima analisi, dunque, l'angoscia, in tale visione, dovrà prospettarsi
come il sentimento fondamentale dell'Io riflessivo, nell'atto in cui percepisce
il proprio radicale non-essere, di fronte alla realtà ineluttabile della
Natura e del Mondo Esteriore, come Essere assoluto. In assenza di una teoria
dell'Io riflessivo, è evidente che ogni altra determinazione o differenziazione
qualitativa del sentimento dovrà apparire illusoria, dal momento che la
negatività assoluta risulterà come l'unica connotazione adeguata
del sentire umano. Non può perciò meravigliare che, dovendo
prendere in considerazione la problematica dell'Io riflessivo, in quanto Soggettività
interiore, la psicoanalisi della soggettività debba ricondurre le angosce
particolari (dell'Es, del mondo sociale, del Super-io) al problema fondamentale
dell'integrazione del Sé, cioè alla possibilità dell'Io riflessivo
di percepire la propria interiorità come essere reale ed autentica individualità.
Nell'ambito della psicologia della soggettività, come Io riflessivo, la
problematica del sentimento dovrà prospettarsi non estrinsecamente, ma
intrinsecamente all'esperienza che l'Io ha di se stesso, come sentimento del proprio
essere e sicurezza della realtà del proprio essere, in quanto prima realtà.
Questa esperienza dell'essere come realtà della propria interiorità,
comporta, per il soggetto, in quanto Io riflessivo, la percezione dell'oggetto
(in quanto essere esteriore) come non-Io e come negazione della realtà
dell'essere soggettivo. La percezione dell'oggetto come essere autonomo che
nega l'autonomia del soggetto e confina il soggetto nella condizione della dipendenza,
del bisogno, del non-essere, della spersonalizzazione, dell'alienazione dell'Io,
è pertanto il limite problematico che il soggetto deve negare e superare,
per riaffermare il proprio essere, ricostituire l'integrità del proprio
Io e, nel contempo, pervenire ad un rinnovato sentimento di Sé. Il
superamento dell'oggetto, peraltro, non comporta che, dal punto di vista dialettico,
l'oggetto sia immediatamente soppresso, ma che sia integrato nel soggetto dal
soggetto stesso, il quale, in funzione di tale integrazione, ritroverà
se stesso in una rinnovata forma di strutturazione, corrispondente ad un'ulteriore
fase del proprio sviluppo storico. Pertanto, in una psicologia della soggettività,
in quanto Io riflessivo, le antitesi del sentimento, come affermazione e come
negazione di Sé, scaturiranno necessariamente dalla forma riflessiva secondo
cui l'Io si costituisce problematicamente, nel suo processo di autobiettivazione.
Poiché, in una prospettiva soggettivistica, l'essere del soggetto, come
esperienza interiore, può costituirsi soltanto dialetticamente, nei termini
antitetici e problematici della individuazione e della differenziazione, dell'alienazione
e dell'integrazione, dell'obbiettivazione e della subbiettivazione, dell'esteriorizzazione
e dell'interiorizzazione, ecc., sarà evidente che il sentimento dell'angoscia
corrisponderà al momento della problematizzazione radicale dell'essere
del soggetto che, sul limite antitetico dell'oggettualità assoluta, percepirà
se medesimo come assoluta defettività ma, nel contempo, percepirà
anche il suo rifiuto disperato ad accettare il proprio annichilimento.
25) Il sentimento di Sé come prima realtà e sviluppo dialettico
della personalità. L'esigenza di un'integrazione dialettica della teoria
psicoanalitica. Il postulato della psicologia soggettivistica, che
il sentimento di Sé rappresenti sia il fondamento dell'essere del Soggetto,
sia la prima realtà dell'Io, come assoluto piacere e incondizionata onnipotenza,
comporta che il soggetto non rinunci mai al principio del proprio essere ed all'autoaffermazione
del proprio essere, in funzione dell'ideale della propria assoluta autonomia.
Perciò, di fronte ai sentimenti dell'angoscia, della dipendenza, del bisogno,
della propria defettività, corrispondenti alla negazione dell'essere del
soggetto, il soggetto riaffermerà il principio del proprio essere come
sentimento di contrapposizione e di reintegrazione con l'essere alieno dell'oggettualità.
Nell'ambito di tale contrapposizione tra il soggetto e l'oggetto, tra l'Io
e il non-Io, dalla cui problematica dipende la possibilità dell'essere
e del non-essere del soggetto, sarà possibile individuare lo sviluppo dialettico
dei sentimenti, corrispondenti ad altrettanti atteggiamenti del soggetto di fronte
all'oggetto e ad altrettante metodiche di reintegrazione dell'essere del soggetto.
Onnipotenza e annichilimento, piacere e dolore, angoscia e gioia, odio e amore,
aggressività e conciliazione, superbia e umiltà, esaltazione e tristezza,
ribellione e sottomissione, minaccia e preghiera, rivendicazione e rassegnazione,
attività e passività, fede e disperazione, conquista e rinuncia,
ecc. si presenteranno come altrettante concrete possibilità pratiche di
rapporto con l'oggetto, in cui si attuerà l'essere del soggetto, come modalità
di attuazione della personalità. E' evidente, dunque, che in una prospettiva
soggettivistica non sarà più possibile concepire l'essere dell'Io,
del Sé, della Soggettività, dell'interiorità, del sentimento,
ecc., secondo formule naturalistiche ed oggettualistiche. In effetti, una
volta accertato che l'essere originario dell'Io riflessivo sia rappresentato dal
sentimento di Sé e che questo sentimento di Sé si sviluppi dialetticamente
come alienazione e come reintegrazione del soggetto interiore, la problematica
di questa esperienza non sarà più riducibile alle categorie logiche
ed epistemologiche del naturalismo, ma sarà necessario introdurre una metodologia
di ordine dialettico (categoria 2 C della TEU), che riferisca la differenziazione
e lo sviluppo dei sentimenti all'Io riflessivo, riconducendone lo specifico significato
nell'ambito del rapporto soggetto-oggetto. La necessità di un'integrazione
dialettica del pensiero psicoanalitico si presenta perciò incontrovertibile
nel momento in cui, nella stessa psicoanalisi, viene a presentarsi l'esigenza
di una teorizzazione dell'esperienza soggettiva, nella sua originalità.
In effetti, poiché, sul piano epistemologico, l'originalità dell'esperienza
soggettiva (in quanto Sé e intersoggettività) non può esaurirsi
in una forma immediata di empatia (Einfühlung), ma si pone nei termini
di una dialettica dei sentimenti che si svolge nella relazione di soggetto-oggetto,
diviene evidente come nè la logica naturalistica dell'identità (A=A),
nè il principio della pura identificazione (intuitiva o empatica), potranno
bastare a comprendere l'interiorità soggettiva nella sua specificità,
ma sarà necessario introdurre, in merito, una metodologia dialettica.
A tale proposito, pertanto, sarà anche necessario acquisire una chiara
coscienza metodologica che ci consenta di individuare i differenti significati
epistemologici che la stessa soggettività verrà ad assumere in funzione
delle diverse formule categoriali ( naturalistiche o dialettiche, riduzionistiche
o integrazionistiche) che potranno essere usate nella teorizzazione e nella ricerca,
soprattutto in relazione alla teoria della personalità ed alla psicopatologia
comprensiva. 26) L'esigenza di un'integrazione dialettica della teoria
del sentimento nella visione fenomenologico-esistenzialistica. Questa
esigenza di integrazione dialettica della teoria dei sentimenti si presenta non
solo nella psicoanalisi della soggettività (come esperienza empatica che
intende superare il riduzionismo biologico-pulsionale della metapsicologia), ma
anche nella psicopatologia fenomenologico-esistenzialistica. In effetti, nella
prospettiva fenomenologica, le esperienze empatiche, in funzione delle quali si
costituisce la personalità nell'articolata differenziazione dei suoi sentimenti,
sono riconosciute nella loro specificità qualitativa, come Erlebnisse
originari, non riconducibili alla dimensione naturalistica e quantitativa delle
pulsioni biologiche. Dal punto di vista epistemologico, tuttavia, si porrà
pur sempre l'interrogativo del loro fondamento unitario e della loro ultima intenzionalità,
da cui dipenderà anche la possibilità di costituire una teoria sistematica
della personalità e della psicopatologia comprensiva. In tal senso,
le forme empatiche fondamentali e le determinazioni universali del sentimento,
da cui dipende la strutturazione della personalità, presenteranno due diverse
possibilità di teorizzazione: in effetti, il principio originario del loro
essere e della dialettica della loro reciproca correlazione potrà essere
riconosciuto nello stesso Io riflessivo, oppure potrà essere attribuito
ad una realtà che trascende infinitamente l'esperienza dell'Io e che, attraverso
le forme del sentimento, potrà rivelarsi e imporsi all'Io, il quale, di
fronte ad esse, assumerà il ruolo passivo di semplice strumento o di alienato
spettatore. In quest'ultimo caso, però, anche ciò che più
specificamente viene considerato pertinente al soggetto, cioè le determinazioni
del sentimento più universali e più intimamente collegate alle antinomie
dell'esistenza, quali l'Essere-nel-mondo (Dasein), la Trascendenza, la
Temporalità, la Cura, l'Angoscia, ecc., verranno ad essere integralmente
sottratte alla dialettica dell'interiorità soggettiva ed alla forma riflessiva
del Sentimento, per essere riferite ad una realtà trascendente, di rango
ontologico-metafisico. Una tale realtà, per quanto di ordine "qualitativo",
sarà non meno alienante di quella, di ordine "quantitativo", del riduzionismo
obbiettivante fisiologico, tipico della psicologia naturalistica. Con una
simile ontologizzazione trascendente, le determinazioni universali del sentimento,
dalla dialettica dell'interiorità soggettiva, vengono trasferite nella
dimensione dell'Essere assoluto, rendendo così problematica una teorizzazione
metodica e differenziata della personalità umana. Tutto ciò viene
così criticato da K.Jaspers, soprattutto in relazione alla metafisica dell'esistenza
di M.Heidegger e della Daseinanalyse di L.Binswanger: "La psicologia
fa dello psichico un oggetto, una cosa presente, ma anche l'ontologia lo ha fatto,
ed è tanto più confusionaria in quanto essa stessa ha stabilito
come principio la non-oggettività. Heidegger ha cercato di creare un
campo definito del sapere, che indica come "ontologia fondamentale" e che lascia
sviluppare nelle ramificazioni delle "esistenzialie" ("Existentialien") in analogia
alle "categorie" delle oggettività immediate. Tali "esistenzialie", come
essere-nel-mondo, stato d'animo, ansia, preoccupazione, dovrebbero cogliere l'elemento
ontologico, che è il presupposto per cui noi viviamo e ci comportiamo in
un certo modo, sia esso vicino alle origini e autentico, sia invece nel modo coperto,
diluito, sviato, dell'inautentico "uomo" medio. L'impiego in psicologia di
tale ontologia dell'esistenza può avere tutt'al più il valore di
una teoria oppure di una costruzione per singole relazioni comprensibili, ma non
il valore di una teoria della struttura psicologica dell'uomo. Questa costruzione
teoretica diventa, a sua volta, di nuovo un mezzo per nascondere, che diventa
tanto più funesto, in quanto, con frasi che sono molto vicine all'esistenza,
si può fallire la vera esistenza e renderla poco seria. Se Kunz ritiene
che "la psicologia esistenziale sia anche capace di una teorizzazione e di una
oggettivazione", io lo contraddirei: l'esistenziale direttamente non diventa oggettivo
o, se è diventato oggettivo, è falsato. Quello che io non trovo
qui è una decisa reazione a pensieri e metodi, che coprono perfino sotto
i veli della filosofia l'essere umano, lo distruggono e lo escludono". "Quando
L. Binswanger vuole esaminare l'uomo da un punto di vista di una certa idea, e
respinge per lui il "concetto di conglomerato" come unità corporea-psichico-spirituale,
che consiste nella sintesi di diversi metodi (p. es. di quello scientifico-naturalistico,
di quello psicologico, e di quello delle scienze dello spirito), e richiede invece
una "idea preordinata", che chiama "l'idea fondamentale-ontologica della esistenzialità",
commette un errore filosofico e scientifico" (67) Nella concezione di
K.Jaspers viene pertanto esclusa la possibilità di una riduzione della
problematica del sentimento e della sua intrinseca contradditorietà a qualsiasi
formula ontologica, ma, nel contempo, le contraddizioni radicali costitutivamente
inerenti al sentimento dell'Io e dell'interiorità riflessiva tendono ad
essere considerate, dallo stesso Jaspers, alla stregua di antinomie irriducibili
che rinviano ad un mondo di valori trascendenti, il cui ultimo significato sfugge
ai limitati poteri dell'intelletto umano. Nella prospettiva della trascendenza,
le antinomie irriducibili e inconciliabili si traducono in enigmi metafisici di
fronte ai quali fallisce l'intelletto, come contro un limite insormontabile del
conoscere. Perciò l'esperienza delle antinomie non è rapportabile
alla conoscenza o alla scienza, bensì proprio allo stesso sentimento in
cui le situazioni limite del rapporto soggetto-oggetto, immanenza-trascendenza,
si rivelano allusivamente, attraverso il linguaggio cifrato in cui si annuncia
l'intenzionalità arcana dell'Essere onnicomprensivo. "L'uomo
attuale - pensante, senziente, agente -, sta quasi tra due mondi: davanti
a lui l'oggetto, dietro di lui il soggetto, l'uno e l'altro infiniti, inattingibili,
impenetrabili. Nell'una e nell'altra parte sono insite antinomie decisive".
"L'uomo vive, di sua natura, entro la scissione di soggetto ed oggetto e non è
mai, in questo ambito, in uno stato di tranquillità e di quiete, bensì
aspira e tende di continuo verso un fine, uno scopo, un valore, un bene qualsiasi.
Con ciò non si vogliono intendere soltanto gli scopi che uno pensa in forma
razionalmente chiara, bensì ogni atteggiamento nei confronti di un bene,
ogni direzione del tendere, tutte le cose che possono anche non prendere per nulla,
in chi vive, una forma cosciente razionale e chiara. La situazione pur così
mutevole, e così diversa a seconda degli uomini cui si rivolge, ha questo,
tuttavia, di tipico: essa è per tutti a due tagli, incita e ostacola e
inevitabilmente limita, distrugge, è infida e insicura. Quanto più
in fondo giungono la coscienza e la vocazione, e tanto più si fa chiara
la coscienza della struttura antinomica del mondo: ad ogni cosa si collega
(nel mondo oggettivo), a dispetto dell'effettiva realizzazione, una cosa non voluta;
ad ogni volizione si collega (nel mondo soggettivo) una non volizione, una controvolizione:
noi stessi e il mondo siamo scissi antinomicamente . . . L'uomo non può,
in quanto lo muovono le forze di una visione del mondo, starsene fermo al concreto
finito, in quanto tutto il concreto ha ad un tempo carattere finito e infinito
. . .Se resta entro la scissione di soggetto ed oggetto, ogni infinitudine
lo conduce a quegli abissi di contraddizione che sono le antinomie. Ma se egli
si sforza sia nel pensare, sia nell'autoesperienza e nell'autoformazione, sia
nell'agire e nel creare, di trovare una soluzione al di là delle contraddizioni,
non ottiene altro che l'eliminazione delle contraddizioni, a guardar bene, superficiali
(che non erano, in fondo, contraddizioni). Egli allora approfondisce, per contro,
proprio di fronte alle infinitudini, proprio ai limiti da lui in quel momento
raggiungibili, le antitesi in antinomie, vale a dire in elementi tra loro
inconciliabili, che non possono non apparirgli componenti definitivi ed essenziali
dell'esistenza, all'interno della scissione di soggetto ed oggetto. Gli elementi
fra loro inconciliabili del pensiero, i conflitti che accompagnano l'azione non
trovano già, all'interno della scissione tra soggetto ed oggetto e di fronte
all'infinitudine, una soluzione, bensì s'intensificano paurosamente; la
colpa diviene inevitabile per i conflitti di doveri che nascono, costellati da
un atto in un primo momento casuale; e una razionalità intensissimamente
sviluppata dà luogo al pathos di un pensiero che si distrugge da se stesso.
. . Le antitesi reali sono antinomie quando le si concepisce come qualcosa di
supremo, che appare, nel rispetto del valore, come essenziale e problematico,
quando si concepisce l'esistenza come scissa in antitesi nella sua essenza più
profonda, in modo che ogni esistenza concreta particolare si costituisce solo
allorché quelle forze o manifestazioni antitetiche si trovano insieme.
. . .L'essenziale, innanzi tutto, è la "struttura antinomica" dell'esistenza;
e, se questa è un limite proprio dell'immagine del mondo e della sua natura
oggettiva, le corrisponde per altro, in sede soggettiva, la sofferenza che accompagna
ogni vita. Non sono altro che casi particolari di quel fatto generale e, nella
loro particolarità, più concreti e quanto mai efficaci in sede reale,
le situazioni limite della lotta, della morte, del caso, della colpa".(68)
Perciò, anche nella concezione jaspersiana, noi assistiamo ad una radicalizzazione
ontologica delle contraddizioni del sentimento ed alla loro traduzione in antinomie
trascendenti, che potranno anche trovare nello stesso sentimento, attraverso il
linguaggio cifrato della trascendenza, una loro trascrizione. Tuttavia, il
sentimento dell'Io riflessivo non sarà mai in grado di dialettizzare tali
antinomie in funzione della realizzazione unitaria della personalità, perché
il loro ultimo significato rinvierà all'intenzionalità dell'Essere
onnicomprensivo, che la mente umana non è in grado di penetrare. "La
coscienza, l'autocoscienza e la personalità sono l'unità che noi
possiamo essere, ma che non possiamo oggettivare e pensare in maniera logicamente
adeguata". (69) "Per il fatto che l'uomo è onnicomprensivo nelle
sue possibilità non è determinabile nella sua natura . . I modi
dell'onnicomprensivo non si possono conoscere, ma solo illuminare. L'onnicomprensivo
è l'essere in Sé (mondo e trascendenza) oppure l'onnicomprensivo
che siamo noi. Rendere l'onnicomprensivo oggetto e trattarlo come qualche cosa
di conoscibile, è un errore radicale del nostro pensiero".(70)
"Esistenza è l'Essere per Sé che si rapporta a se medesimo, e
quindi alla trascendenza, per mezzo della quale esso si sa originato e sulla quale
si fonda . . . Quanto più decisamente noi siamo noi stessi, tanto più
decisamente sperimentiamo che anche noi non lo siamo per opera di noi soli, ma
che noi riceviamo, come in dono, il nostro vero Essere. Anche la nostra propria
realtà dell'esistenza non è "Realtà".(71) "La
Trascendenza è la potenza mediante la quale io divengo me stesso . . .
Quindi la Trascendenza è per noi nulla, in quanto tutto ciò che
per noi è ha la forma dell'essere determinato. E quindi la Trascendenza
è per noi tutto, in quanto tutto ciò che nel mondo dell'Essere determinato
è vero essere per noi, lo è soltanto in rapporto alla Trascendenza
o come simbolo della Trascendenza" (72). Pertanto, anche nella concezione
di K.Jaspers, le determinazioni fondamentali del sentimento dell'Io, su cui deve
costituirsi la personalità ed il suo sviluppo storico, restano pur sempre
condizionate ontologicamente dalla trascendenza, dalla quale dipende il loro significato
ed il destino dell'individuo, come essere determinato. "Nell'essere determinato
vi è il giubilo della vita che si compie, ed il dolore di ciò che
in essa si perde. Di fronte ad entrambi però risulta l'insufficienza del
mero essere determinato, risulta la noia della ripetizione, lo spavento nella
situazione estrema del naufragio; ogni essere determinato già porta in
Sé la rovina . . . Nello spirito la profonda soddisfazione è
nella totalità, ed il tormento nell'irriducibile incompiutezza. Di fronte
ad entrambi cresce la disarmonia e la perplessità innanzi allo sfacelo
di ogni totalità. Nell'esistenza vi è la fede e la disperazione
.(73) "Non possiamo cogliere la Realtà su nessuna altra via
che attraverso la percezione della credenza, dell'esperienza di fede. Alla
fede non importa la rappresentazione, ma la realtà di quanto è creduto.
Come la realtà nel mondo è accessibile attraverso la fede, sia questa
filosofica o religiosa . . . Il linguaggio della realtà trascendente
è un'obiettività di origine incomparabile e indeducibile . . .
Esso è il linguaggio dei simboli per la filosofia, esso è la presenza
della trascendenza reale nel mito, è la rivelazione per la religione. La
Realtà viene semplicemente e naturalmente assunta come incomprensibile."
(74) E' evidente, pertanto che, anche nell'ambito della cultura fenomenologica,
un'autentica teoria della personalità e della psicopatologia comprensiva
risulterà possibile solo in funzione di un'integrazione metodologica dialettica,
che consenta di emendare le Weltanschauungen antitetiche del sentimento
da ogni riduzione ontologica e di restituirle alla mediazione dell'Io riflessivo
ed alla sua intenzionalità. NOTE (1) Kraepelin E. (1901),
p. 1; (1904), Vol. I, p. 4; (1904), Vol. II, p. 1; (1904), Vol I p. 5. (2)
Giacomini G.G. (1983), (1989/a), (1991/b), (1991/c). (3) Kraepelin E. (1904),
Vol. II, p. 5. (4) Jaspers K. (1959), pp. 610, 608, 612 passim (corsivi
aggiunti). (5) Giacomini G.G. (1991/a). (6) Jaspers K. (1959),
p. 613. (7) Schneider K. (1950), p. 96. (8) Giacomini G.G. (1969), (1980),
(1986), (1987/a), (1987/b). (9) Giacomini G.G. (1994/e). (10) Giacomini
G.G. (1988), (1989/a). (11) Giacomini G.G. (1994/b). (12) Giacomini G.G.
(1989/a), (1991/a). (13) Giacomini G.G. (1991/a). (14) Giacomini G.G.
(1988), (1989/a), (1991/a), (1991/b), (1994/b), (1994/d). (15) Giacomini G.G.
(1991/b), (1991/c), (1991/d). (16) Giacomini G.G. (1984/a), (1991/a), (1991/b),
(1991/d). (17) Giacomini G.G. (1980), (1984/a), (1987/a), (1991/a), (2000/a).
(18) Rangell L. (1995). (19) Giacomini G.G. (1994/c). Si veda in proposito
anche la Tav. VI e relativa didascalia. (20) "La concezione secondo cui
l'Io è quella parte dell'Es che è stata modificata dalla vicinanza
e dall'influsso del mondo esterno, non ha quasi bisogno di essere giustificata:
è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per la protezione
dagli stessi, .paragonabile allo strato corticale di cui si circonda il
grumo di materia vivente. " "L'Io, in fin dei conti, è soltanto
una parte dell'Es , una parte opportunamente modificata dalla vicinanza del minaccioso
mondo esterno " "L'Io deve eseguire le intenzioni dell'Es, e assolve il
suo compito andando alla ricerca delle circostanze che gli permettono di meglio
eseguire tali intenzioni". Freud S. (1932), pp. 186-188, passim. (21)
E' ben noto che Freud, il quale ne "L'Io e l'Es" definisce la condizione dell'Io
come una servitù passiva da tre padroni (Es, Super-Io, realtà esterna),
concepisca tuttavia il processo analitico come una progressiva conquista, da parte
dell'Io, di territori sempre più estesi dell'Es. "L'Io, in fin dei
conti, è soltanto una parte dell'Es, una parte opportunamente modificata
dalla vicinanza del minaccioso mondo esterno. Sotto l'aspetto dinamico è
debole, avendo preso a prestito le sue energie dall'Es, e non ci sfuggono i metodi
- i "trucchi", si potrebbe dire - con i quali l'Io sottrae all'Es ulteriori
importi di energia. L'Io deve eseguire le intenzioni dell'Es, e assolve
il suo compito andando alla ricerca delle circostanze che gli permettono di meglio
eseguire tali intenzioni. Il rapporto dell'Io con l'Es potrebbe essere paragonato
a quello del cavaliere con il suo cavallo. Il cavallo dà l'energia per
la locomozione, il cavaliere ha il privilegio di determinare la meta, di dirigere
il movimento del poderoso animale. Ma tra l'Io e l'Es si verifica troppo spesso
il caso, per nulla ideale, che il cavaliere si limiti a guidare il destriero là
dove quello ha scelto di andare. Un proverbio ammonisce di non servire contemporaneamente
due padroni. Il povero Io ha la vita ancora più dura: è costretto
a servire tre severissimi padroni, deve sforzarsi di mettere d'accordo le loro
esigenze e le loro pretese. Queste sono sempre fra loro discordanti e appaiono
spesso del tutto incompatibili; nessuna meraviglia se l'Io fallisce così
frequentemente nel suo compito. I tre tiranni sono: il mondo esterno, il Super-Io
e l'Es. Il poveretto si sente stretto da tre parti, minacciato da
tre specie di pericoli, ai quali reagisce, in caso estremo, sviluppando l'angoscia.
Aizzato così dall'Es, limitato dal Super-Io, respinto dalla
realtà, l'Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire
l'armonia tra le forze e gli influssi che agiscono in lui e su di lui. Se
è costretto ad ammettere le sue debolezze, l'Io prorompe in angoscia:
angoscia reale dinanzi al mondo esterno, angoscia morale dinanzi al Super-Io,
angoscia nevrotica dinanzi alla forza delle passioni dell'Es". Freud S.
(1932), pp. 188-189, passim. "La coscienza è soltanto una qualità
(o attributo) dello psichico, incostante per giunta. Con tutto ciò, non
è detto che la qualità della consapevolezza abbia perduto per noi
il suo significato. Resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci
illumina e ci guida. A causa della particolare natura della nostra conoscenza,
il nostro lavoro scientifico nell'ambito della psicologia consisterà nel
tradurre i processi inconsci in processi consci, così da colmare le
lacune della percezione cosciente". Freud S. (1938), p. 644. "Gli
sforzi terapeutici della psicoanalisi seguono una linea analoga. La loro intenzione
è in definitiva di rafforzare l'Io, di renderlo più indipendente
dal Super-Io, di ampliare il suo campo percettivo e perfezionare la sua organizzazione,
così che possa annettersi nuove zone dell'Es. Dove era l'Es deve subentrare
l'Io." Freud S.: (1932), p. 190 (corsivi aggiunti). Vedi anche Freud S.
(1922), pp. 486-487; pp. 517-518. (22) Fenichel O. (1945/a), p. 23. (23)
Fenichel O. (1945/a), p. 148 (24) Fenichel O. (1945/a), p. 29. (25) Blum
H.P. (1998); Rangell L. (1995). (26) Giacomini G.G. (1989/b). (27) Waelder
R. (1936), pp. 108-109. (28) Waelder R. (1936) ivi. (29) Freud S. (1922),
p.486. (30) Waelder R. (1936), p. 108-109. (31) Waelder R. (1936), p.
110. (32) Waelder R. (1936), p. 111 (corsivi aggiunti). (33) Waelder R.
(1936), p. 112. (34) Waelder R. (1936), p. 123 (corsivi aggiunti). (35)
Waelder R. (1936), ivi. (36) Freud S. (1932), p. 171. (37) Freud S. (1892-'95),
pp. 1179-182; pp. 406-409, passim. (38) Freud S. (1914), p. 463.
(39) Freud S. (1914), ivi. (40) Freud S. (1914), pp. 463-464. (41) Freud
S. (1914), p. 464. (42) Freud S. (1914), pp. 463-464. (43) Jones E. (1953),
II, pp. 368-370. (44) "Noi veniamo "vissuti" da forze ignote e incontrollabili."
"Un individuo è dunque per noi un Es psichico, ignoto e inconscio, sul
quale poggia, nello strato superiore, l'Io, sviluppatosi dal sistema P come da
un nucleo." Freud S. (1922), pp. 486-487. "La concezione secondo cui
l'Io è quella parte di Es che è stata modificata dalla vicinanza
e dell'influsso del mondo esterno, non ha quasi bisogno di essere giustificata:
è questa la parte predisposta per la ricezione degli stimoli e per
la protezione dagli stessi, paragonabile allo stato corticale di cui si circonda
il grumo di materia vivente". Freud S., (1932), pp. 186-187 (corsivi aggiunti).
(45) Giacomini G.G. (1961). (46) Freud S. (1915), pp. 20-21;
Freud S. (1917), pp. 564-565; Freud S. (1914), p. 448.
(47) "In relazione al nostro materiale empirico non solo ci avvaliamo di determinate
convenzioni sotto forma di concetti fondamentali, ma ci serviamo altresì
di alcuni complicati postulati da cui ci lasciamo guidare nella nostra
elaborazione dei fenomeni psicologici. Il più importante di tali postulati
è di natura biologica, ha a che fare con il concetto di intenzionalità
(ed eventualmente di opportunità), e può essere così
formulato: il sistema nervoso è un apparato a cui è conferita la
funzione di eliminare gli stimoli che gli pervengono, o di ridurli al minimo livello;
oppure è un apparato che vorrebbe, sol che ciò fosse possibile serbare
uno stato del tutto esente da stimoli". "Il dispiacere in generale è
l'espressione di una tensione particolarmente elevata e dunque in questo, come
in altri casi, ciò che si converte nella qualità psichica del
dispiacere è una certa quantità di un evento materiale". "Il
principio del piacere si pone, come una bussola, al servizio dell'Es nella lotta
contro la libido che introduce dei turbamenti nel corso della vita. Se il
principio di costanza, così come è stato inteso da Fechner, domina
la vita, la quale dovrebbe dunque essere un lento scivolamento verso la morte,
sono le richieste dell'Eros, le pulsioni sessuali, quelle che come bisogni pulsionali
impediscono l'abbassamento di livello, e introducono nuove pulsioni.Freud
S. (1915), p. 16; Freud S. (1914), p. 455; Freud S. (1922), pp. 508-509. (48)
"Se si potesse soddisfare immediatamente ogni bisogno, con tutta probabilità
non sorgerebbe mai una concezione di realtà" :Fenichel O.(1945/a),
p. 46 (49) Giacomini G.G. (1980), pp. 302-348; (1987/a). (50) "L'origine
dell'Io e l'origine del senso di realtà non sono altro che due aspetti
di uno stesso grado di sviluppo. Questo è inerente nella definizione dell'Io
come quella parte della mente che tratta con la realtà. Il concetto di
realtà crea anche il concetto dell'Io. Noi siamo individuali al momento
in cui ci sentiamo separati e distinti dagli altri". Fenichel O. (1945/a),
p. 47. (51) Fairbairn W.R.D. (1952), Cfr. Eagle M.N. (1984). (52) Mahler
M. e coll. (1975). (53) Kohut H. (1971, 1977). (54) Stolorow R.D. e Atwood
G. (1992), pp. 29-30; p. 31. (55) Stolorow R.D. e Atwood G. (1992), p. 33.
(56) Giacomini G.G. (1969), pp. 376-451. (57) Giacomini G.G. (1980), pp. 263-519;
(1987/a). (58) Giacomini G.G. (1980), pp. 353-434; pp. 468-571. (59) Schneider
K. (1967), pp. 174-194. (60) Jaspers K. (1959), p. 330. (61) Fenichel
O. (1945/a), pp. 26-32; pp. 182-189. (62) Jaspers K. (1925), p. 275. (63)
Hartmann N. (1933), pp. 206-220, passim (corsivo aggiunto). (64) Binswanger
L. (1955), (1957/a), (1957/b). (65) Giacomini G.G. (1980), pp. 55-121; Giacomini
G.G. (1991/a), pp. 31-78. (66) Freud S. (1922), p. 517. (67) Jaspers K.
(1959), pp. 826-827; p. 798. (68) Jaspers K. (1925), pp. 270-271; pp. 267-270.
(69) Jaspers K. (1932/c), p. 231. (70) Jaspers K. (1959), pp. 805-810, passim.
(71) Jaspers K. (1938), pp. 40-93, passim. (72) Jaspers K. (1938), pp. 109-110,
passim. (73) Jaspers K. (1938), p. 62. (74) Jaspers K. (1938), pp. 112-114,
passim.
SUMMARY
Clinical Psychopathology, Psychiatric
Diagnosis, Typology of Psychopathies, Theory of the Personality and
Theoretical Foundation of Psychotherapy in a Dialectical Framework.
Preliminary Remarks and References to the Universal Epistemological Table
(UET) K.Jaspers' epistemological distinction between an explicative
and a comprehensive method, is to be considered fundamental both in theory and
in clinics for a coherent systematization and a further development of psychopathological,
psychoanalytic, psychotherapeutical, psychiatric disciplines and the theory of
personality as well. In particular this epistemological distinction is essential,
in psychiatry, for a differential diagnosis between the psychotic and psychopathic
nosological forms. It should be considered however that the theoretical meaning
of this methodical dualism is to be set in a dialectical perspective, including
a dialectical theory of Ego, Self, Subjectivity, Personality, in contrast to a
naturalistic conception of the mind. Nowadays, in psychoanalysis, a dialectical
integration is requested in relation to the crisis of the Freudian metapsychology
and the most recent comprehensive conceptions of Self and Subjectivity, both in
theory and in therapy. K. Jaspers' existential conception of the antinomies
of the human intimate experience also requires a dialectical epistemological integration
for a systematic theory of the personality. A reference to the Universal Epistemological
Table (UET) is considered indispensable for a critical discussion of these issues.
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