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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Considerazioni sulla prospettiva della psicopatologia generale
nella psichiatria di oggi

(Prospects of general psychopathology in today's psichiatry)

di Arnaldo Ballerini


Introduzione (a cura di Mario Rossi Monti)

Questo lavoro di Arnaldo Ballerini (Presidente della Società Italiana per la Psicopatologia) è stato pubblicato nel 1981 sulla "Rivista di Patologia Nervosa e Mentale" (101,pp.211-225). L'articolo ha il pregio di costituire una chiara ed utile introduzione alla psicopatologia generale, con un approfondimento dei concetti cardine della disciplina ed una grande attenzione alle sue possibili declinazioni nella prassi psichiatrica.
Un ringraziamento al prof. Ballerini che ha dato il suo assenso alla riproduzione dell'articolo ed alla dr.ssa Antonella Di Ceglie (Istituto di Psicologia, Università di Urbino) che ne ha curato la riedizione.



Summary

The Author describes the interest and the meaning of General Psychopathology in today's Psychiatry. The author defines the methodological aspects necessary in psychopathology as well as their gnoseological and formative value. The "structural constants" defined in psychopathology appear irreplaceable in the basic aspects of psychotic mind models, and other dimensions of contemporary psychiatry cannot disregard them. The Author emphasises the risk of an inaccurate and irresponsibly exhaustive use of psychopathological methods can avoid confusion about investigatory psychiatric research, and may help recognizing basic structures of psychotic experience. These structures are not only necessary in a diagnostic field, but also for a correct pharmacotherapeutical approach.


Riassunto

L'Autore puntualizza l'interesse ed il significato che la Psicopatologia Generale riveste nella Psichiatria di oggi. L'Autore sottolinea gli aspetti metodologici indispensabili alla psicopatologia, il loro valore gnoseologico e formativo. Le " costanti strutturali" definite dalla psicopatologia sembrano tuttora insostituibili e toccano nuclei fondamentali dei modelli di mente psicotica, sicché anche altre dimensioni della psichiatria contemporanea sembra non possano non tenerne conto.
L'Autore richiama l'attenzione sul rischio di un uso approssimativo, non consapevolmente approfondito, di categorie psicopatologiche nella prassi psichiatrica. Sembra invece che un esercizio consapevole della metodica psicopatologica possa evitare confusione circa i piani d'indagine della ricerca psichiatrica ed aiutare a riconoscere strutture fondanti dell'esperienza psicosica necessarie non solo sul piano diagnostico, ma probabilmente anche per un corretto approccio farmacoterapeutico.



Queste considerazioni vogliono contribuire a puntualizzare la discussione su argomenti che tempi recenti di "apsicopatologia", per citare H. Ey, ci hanno indotti a trascurare. Anche se è una domanda ovvia, io penso si possa cominciare col chiederci che tipo di "oggetto" sia la Psicopatologia Generale (o Teoretica, come si amava un tempo chiamarla), per poi domandarci quale senso e ruolo anche formativo possa avere oggi in psichiatria e quali rapporti intrattenga, o non intrattenga, con le altre dimensioni della conoscenza psichiatrica attuale. Nelle pagine che seguono io parlerò di psicopatologia, psicopatologo, etc., riferendomi ovviamente sempre alla Psicopatologia Generale. Sappiamo che interpretazioni della vita psichica abnorme che si muovono su un terreno diverso da quello della Psicopatologia Generale sono state operate utilizzando modelli teorici particolari: la psicanalisi o la Daseinsanalyse, per esempio.


La psicopatologia: un "metodo" di conoscenza

E' noto come la Psicopatologia Generale rappresenti storicamente il passaggio dalla descrizione clinica psichiatrica, o anche dall'interpretazione psichiatrica, alla attenzione, analisi e sistematico studio delle "esperienze interne" quali esse si danno alla coscienza umana, quali sono sperimentate, vissute dall'individuo. Il fuoco dell'attenzione si sposta dalle manifestazioni morbose ai vissuti che le sottendono, dei quali le prime sono una sorta di iceberg, una epifania. Allo psicopatologo, in quanto tale naturalmente, non interessa tanto ciò che gli uomini dicono o che cosa fanno, ma che cosa gli uomini provano, vivono e soprattutto come lo vivono: i "modi" con i quali il dato di coscienza si manifesta, si articola, si sussegue ad altri.
Vi è in ciò uno sforzo costante di apprendere, definire, individuare dei "modi di esperire" che si confermino come fondamentali e fondanti per la vita psichica abnorme, e che perciò acquistino un valore di conoscenza intersoggettiva e siano trascrivibili e comunicabili; trasmissibili come conoscenza frutto di uno studio, insegnando ad osservare e pensare dal punto di vista psicopatologico.
Tutto ciò rinvia alla tensione metodologica che sottende la ricerca psicopatologica e alla particolare posizione interiore, al non ovvio assetto interno che richiede all'osservatore. Infatti come psichiatri noi ci confrontiamo sempre, che lo si voglia o no, con l'individuo nella sua totalità ed insieme nella sua specifica, irripetibile singolarità: totalità dell'umano e sua singolarità non possono essere comprese nella ricerca psicopatologica (K. Jaspers).
Come psicopatologi dobbiamo ricercare modi e concetti generali, ma con il limite di sapere che in essi non potrà mai risolversi il singolo individuo. Siamo quindi, interessandoci di Psicopatologia Generale, di continuo esposti a questo virtuosismo che in una sorta di gioco "gestaltico" fra figura-sfondo ci fa ora intuire o sentire o capire la singolarità e assieme la inafferrabile totalità (di un determinato soggetto), e nel contempo ci permette di definire e concettualmente afferrare i "modi" patologici dell'esperire.
La possibilità di passare liberamente dall'un piano all'altro, di fruire senza costrizioni o irrigidimenti di ambedue, è una condizione per fare psicopatologia in psichiatria, tentando di evitare lo sterilizzante stereotipismo da un lato e la fantasia approssimativa dall'altro.
Connesso a tutto ciò è di tutta evidenza il problema della "distanza" fra oggetto di studio e studioso in psicopatologia: una distanza fusionale tendendo ad appiattire e cancellare la abnormità dell'esperire che si può avere di fronte; una distanza stellare tendendo a rendere ogni vissuto altrui incomprensibile, estraneo, alieno. In generale il primo tipo di distanza tende a porre tutto, sbagliando, sul piano del comprendere, il secondo tipo a porre tutto, sbagliando, sul piano dello spiegare. La riduzione del pensiero schizofrenico ad un atto di ribellione sociale è un esempio del primo tipo; la spiegazione di ogni moto dell'animo o di ogni reazione di un individuo psicotico come dovuti alla malattia è un esempio del secondo tipo.
Inutile accennare alle implicazioni emotive di tutto ciò: se il pigro "spiegare" può svuotarci la vitalità emotiva, l'ingenuo "comprendere" può esporci a gravi delusioni.
È evidente come lo strumento di analisi psicopatologica del "comprendere" risenta inevitabilmente di tutto l'assetto psichico dell'operatore e possa essere considerato come inquinato da un discreto soggettivismo. Io mi domando però quale mezzo di indagine non risenta della soggettività dell'operatore, ad esempio della sua libertà da pregiudizi. Pur tuttavia tale inquinamento di soggettivismo non va poi tanto lontano, almeno nell'ambito della generalità delle persone e, a maggior ragione, nell'ambito di persone preparate.
Oggetto della psicopatologia è dunque l'accadere psichico reale e cosciente; il voler sapere che cosa provano gli esseri umani nelle loro esperienze interne e come le vivono, e le relazioni fra esse e i modi del loro manifestarti; "col presupposto che non conosciamo alcun concetto fondamentale con il quale l'individuo possa essere compreso, nessuna teoria attraverso la quale la sua realtà sia riconosciuta come un evento oggettivo del tutto" (K. Jaspers).
Nel fluire continuo della vita interiore cosciente, nell'ininterrotto erleben, la Psicopatologia isola e studia quelle esperienze che siano fondamentali per l'intera vita psichica del soggetto. E' questo il senso della parola Erlebnis, che può essere tradotta quale esperienza interna significativa.
Si capisce come con ciò siamo lontani dal piano della semeiologia psichiatrica comune, e come la diagnosi sia veramente l'ultimo problema che interessa lo psicopatologo. Se di tale problema si fa una sorta di "rage di conclure", si può tagliar via tutta la ricchezza e complessità dell'umano esperire coglibile; si fa un'anticipazione spesso deformante di qualcosa che idealmente sta alla fine di ogni ricerca. "In psichiatria, scrive K. Jaspers, diagnosticare è spesso uno sterile giostrare, nel quale solo pochissimi fenomeni cadono nel campo del sapere cosciente". L'importante per lo psicopatologo è che il caos dei fenomeni non venga seppellito, ai fini della conoscenza, da un'etichetta diagnostica.
Viceversa il fondamento di ogni diagnosi psichiatrica dovrebbe proprio essere l'analisi, statica e genetica, degli Erlebnisse più significativi del soggetto, con la consapevolezza che in essa diagnosi non si risolverà, non si riassumerà il mondo esperienziale abnorme e tanto meno l'intera vita psichica del soggetto, che continua ad essere qualcosa di più che non la mera connotazione psicopatologica.
Naturalmente, come esistono semeiotiche psichiatriche diverse a seconda del piano di rapporto, esistono possibilità di conoscenza psicopatologica diversa a seconda del piano di rapporto: non perché i dati psicopatologici mutino, ma perché muta il modo di apprendere da parte dell'osservatore, che può guardare quel singolo uomo senza vedere, o peggio credendo di aver visto tutto. Occorre cioè conservare la curiosità e la capacità di stupirci, in qualche modo sospendendo momentaneamente il desiderio diagnostico e la stessa conoscenza nosografica.
Lo psicopatologo infatti è legato alla propria capacità di vedere, di sperimentare interiormente, alla propria ampiezza di orizzonti, alla possibilità di sentire, alla mancanza di pregiudizi: "Impassibilità e commozione, scrive ancora Jaspers, procedono unite e non possono contrapporsi, mentre la fredda osservazione di per sé non vede nulla di essenziale".
L'atteggiamento fenomenologico quindi ci fa conoscere una serie di frammenti della vita psichica realmente vissuta, e se questa disarticolazione è una necessità conoscitiva, la psicopatologia non è però un catalogo, una sorta di pietrificazione dell'esistenza psichica. Il lavoro dello psicopatologo comincia quando, usando di sé come dell'unico strumento possibile, si confronta con tali frammenti esperienziali e tenta di comprenderli, sia in senso statico sia nella loro articolazione genetica, immergendosi per fare ciò nei modi di essere, nel mondo di valori, nella dimensione socio-culturale della persona sulla quale riflette. E' questo sforzo del comprendere lo specifico del metodo psicopatologico: il werstehen. Nel senso etimologico di stare al posto di qualcuno, di immedesimarsi; "come un caldo sforzo di tutto l'essere", dice ancora Jaspers.
Tutto ciò è dunque programmaticamente lontano da ogni riduzionismo, pur senza esprimere alcun giudizio sulle linee di ricerca che lo adottano, ma semplicemente ritenendole appartenere ad altri campi di studio e non alle premesse della psicopatologia, per la quale l'umano accadimento psichico va studiato così come esso si dà alla coscienza introspettiva del soggetto, così come esso ce lo comunica; va studiato nei suoi aspetto modali sovrattutto , ma anche nei suoi rapporti con la visione del mondo, con il progetto di esistenza.
La Psicopatologia è, in questo senso, il contrario di ogni interpretazione ermeneutica; non pretende di ricondurre l'esperienza psichica a nessuna forza altra e diversa soggiacente, a nessun "demone degli abissi", ritenendo tutto ciò semplicemente fuori del suo interesse specifico. Sappiamo bene che altri approcci di studio alla vita psichica devono per forza operare una riduzione dell'esperienza psichica, quale essa fattualmente è, ad un'altra dimensione che la riconduca a quella che si ritiene essere la sua celata ed intrinseca verità. La domanda, così carica di tensione conoscitiva (ma anche così pericolosa): qual è la causa di questa o quella esperienza psichica, a cosa posso ricondurla per spiegarla?, è una domanda del tutto estranea alla Psicopatologia Generale, che si pone come indagine causale, e questo è un suo preciso limite, ma come studio del dato esperienziale e attraverso esso del modo di essere, quale si manifesta alla coscienza di chi lo prova. Nessuna contrapposizione potrebbe essere quindi più netta fra lo "spiegare" e il "comprendere".
W. Dilthey osservò che i nostri rapporti con la realtà umana sono radicalmente diversi dai nostri rapporti con la natura. La realtà umana è tale che noi possiamo tentare di comprenderla dal di dentro, perché possiamo rappresentarcela sul fondamento dei nostri stati, mentre la natura resta sempre qualcosa di esterno; nelle scienze che hanno per oggetto la realtà umana "il comprendere scrive Dilthey è un ritrovamento dell'Io nel Tu", perché uomo è colui che indaga e uomo è colui che viene indagato.
E' noto che procedendo in questo modo si può arrivare a "comprendere", nel senso appunto di rivivere in noi, molte delle esperienze della vita psichica altrui, e come uno stato psichico derivi in modo evidente da un altro stato psichico, etc. possiamo comprendere sia in modo statico sia geneticamente lo "svilupparsi", il divenire di condizioni psichiche e l'affiorare dei modi dell'esperienza. Ma è chiaro che comunque si arriva sempre ad un limite, che in definitiva è il limite del fondo di ogni persona che è inafferrabile alla coscienza: l'Untergrund degli psicopatologi, dal quale emergono disposizioni, stati d'animo, etc.
Questo limite della comprensibilità è però molto vicino o del tutto in primo piano nelle esperienze psicotiche: che non sono incomprensibili perché abnormi, il che significherebbe disporre di un metodo diverso dalla psicopatologia per giudicare che cosa è abnorme, ma invece connotiamo come abnormi proprio perché incomprensibili. Usando il linguaggio antropofenomenologico potremmo dire che a quel punto l'alterità è divenuta alienità.
Credo che ci possiamo risparmiare a questo punto le trite considerazioni sul fatto che si può non capire perché si è diversi (fra osservatore e soggetto), diversi come uso della lingua, come status sociale, come capacità espressiva, come visione del mondo, etc. Tutte considerazioni, queste, che non invalidano ma rendono difficile o anche limitano l'esercizio della metodica psicopatologica e possono portare talora all'astenersi, al dubbio, alla sospensione del giudizio di abnormità nei confronti di taluni vissuti in taluni contesti, ad esempio se profondamente diversi dal punto di vista culturale.
E' appena necessario ricordare che la metodica del "verstehen" non si rivolge ai contenuti, ma alle forme dell'esperienza, e che i temi , i contenuti appunto, anche i più schiettamente patologici, possono essere spesso largamente compresi da chi conosca a fondo la biografia interiore ed esterna di un soggetto. Non altrettanto si può dire delle forme di vita psichica, dei modelli di mente che si attualizzano nella coscienza psicosica. E' singolare come un autore quale Laing riscopra la stessa problematica del verstehen quando scrive (nell'"Io Diviso") che la "psicosi si misura col grado di divergenza fra due persone, una delle quali sia per comune senso sana di mente". Dove è evidente, fra l'altro, la pesante approssimazione di un simile uso del concetto di normalità.
Del resto lo studio condotto dalla Psicopatologia Generale sui modi dell'esperire psicotico, sugli Erlebnisse abnormi fondanti, ha retto assai bene al vaglio di molte osservazioni di psichiatria transculturale. Queste ultime hanno indicato la somiglianza o l'identità profonda, al di là dei contenuti, fra modelli di esperienza schizofrenica non soltanto di soggetti con storia individuale diversissima, ma anche fra situazioni psicosiche in ambienti geografici, etnici e quindi culturali, diversissimi. Tutto ciò riporta a concetti di struttura, ad esempio di Weltanschauungen schizofreniche, ed ha trovato espressione in enunciati concernenti le "logiche irrazionali" quali quello di Von Domarus del pensiero "paralogico", o quello del principio di simmetria rigida di Matte Blanco. Questa validità interpersonale e interculturale di forme o assiemi strutturati dell'esperienza che si ritrovano nella vita mentale psicosica è esattamente il progetto della Psicopatologia Generale. E basti pensare all'Erlebnis psicosico "del fatto, dell'imposto" secondo il quale pensieri, sentimenti, etc. non vengono più vissuti dal soggetto come propri ma come artificialmente imposti, "iniettati" dell'esterno etc. Basta pensare a tutta la fenomenica del gemacht descritta dalla Psicopatologia Generale come essenziale a quel particolare modo di essere che è la psicosi schizofrenica, per rendersi conto di come questa modalità fenomenica sia risultata ubiquitaria e fondamentale per ciò che si chiama schizofrenia.
Perciò quando la Psicopatologia Generale metodicamente analizzava le diverse connotazioni dell'esperienza cosciente di "attività dell'Io" e indicava nella perdita del "senso di appartenenza all'Io" degli atti psichici, cioè alla sconvolgente esperienza di rottura di tale background permanente, un fondamentale modo dell'incomprensibile psicosico, si poneva indubbiamente assai vicina al nucleo essenziale dell'esistenza psicosica.


La psicopatologia e le "strutture" psicosiche

Uno dei problemi di qualsiasi metodica di studio è a quale livello si situa rispetto alla realtà esplorata: se si coglie ciò delle variabili accidentali o invece dei fenomeni di fondo, indipendentemente da ogni spiegazione causale. La Psicopatologia Generale si pone su un piano di concettualizzazione maggiore della variabile sintomatologica (la quale non può né deve trascurare i personali contenuti), e ricerca delle forme strutturali che da tale variabile prescindano, pur sottendendola. Si pone invece su un piano più vicino alla realtà fenomenica nei confronti di ogni teoria o sforzo esplicativo generale.
Mi sembra comunque che chiunque operi sul piano sintomatologico, o viceversa su quello speculativo dei tentativi di spiegazione, non possa fare a meno del livello di concettualizzazione proprio della Psicopatologia Generale, e non possa eludere il confronto con i dati da essa sistematizzati.
Del resto è esemplificativo del modo di procedere della Psicopatologia Generale come si è posta nei confronti del delirio, nei confronti di questa struttura così nuova e singolare e che connota così fortemente la vita psicotica. Noi sappiamo che il delirio (più o meno vistoso, espresso, elaborato) quale cambiamento dei presupposti conoscitivi del mondo della realtà interpersonale comune e quale sostituzione ad esso di un universo (o di un progetto di universo) particolare, permea la follia; cosicché l'esistenza psicosica potrebbe essere concisamente detta una "esistenza delirante". Partendo da una definizione così ambiguamente evanescente e se vogliamo così esposta ad usi manipolatori, e tuttora rintracciabile nei manuali, del delirio quale convincimento errato e immodificabile, lo psicopatologo osservò come la vita e la storia, siano colme di convincimenti immodificabili e di volta in volta giudicabili (a seconda dei casi e della parte dalla quale sta chi giudica) come errati, e che peraltro non sono affatto un delirio.
Osserva ancora lo psicopatologo come sia peregrino il tentativo (non saprei dire se più ingenuo o più sbrigativo) di fare diagnosi dai contenuti, dai temi, e di come invece occorra saper analizzare la forma, la modalità di pensiero con le quali si struttura nella coscienza del soggetto la convinzione presupposta delirante.
Mi è capitato in questi giorni, in una revisione di un gruppo di pazienti, di leggere nella cartelle ospedaliera di una schizofrenica una nota redatta una quindicina di anni fa, che dice: "La paziente delira evidentemente, perché sostiene che il manicomio può modificare le persone". Il che mi sembra un bell'esempio di una diagnosi di delirio dai contenuti, che riesca a raggiungere un inconsapevole humor.
La distinzione fondamentale, ben nota, che la Psicopatologia opera nell'indagare il vissuto delirante è fra lo "sviluppo delirante" e il "delirio primario". Nella prima condizione si tratta di temi esplicativi, che spesso costituiscono la parte maggiore del delirio al livello clinico, e ai quali può essere ancora applicato il criterio del "comprendere"; nel cosiddetto delirio primario, invece, si batte il naso in esperienze fondanti, costitutive ed ultime. Ultime nel senso che non si può risalire ad altre precedenti, non si può cioè stabilire una comprensibile linea di causalità psicologica, per quanto riguarda beninteso l'attività psichica conscia. Si può allora cambiare piano di indagine, mettersi su un altro; che sia quello delle vicissitudini inconsce, delle pavloviane aree di eccitazione-inibizione, della crisi dell'assieme relazionale, delle modificazioni dei neurotrasmettitori, etc. Ma dovremo essere acutamente consapevoli di questo salto di piano di osservazione e di indagine, e non confondere una interpretazione con la "comprensione" dell'esperienza che ci troviamo di fronte.
La metodologia psicopatologica ci chiede di renderci conto che quando così facciamo stiamo puntualmente passando dal piano del "verstehen" a quello dell'"erklaren": dal comprendere fenomenico allo spiegare causale.
Nella ricerca dei modi di esperire che costituiscono nella coscienza del soggetto i punti di partenza di temi deliranti, che possono essere successivamente anche "comprensibilmente" elaborati, la Psicopatologia Generale ha analizzato, come è noto, due strutture fondanti il sapere delirante (parallelamente del resto ad ogni tipo di sapere): l'intuizione delirante e la percezione delirante. Nei confronti del primo atteggiamento mentale lo psicopatologo si arresta sospendendo ogni giudizio di sicura abnormità, dopo aver rilevato che l'intuizione delirante, anche la più inverosimile e bizzarra nel contenuto, non ha caratteristiche modali, formali, strutturali tali che la differenzino dai comuni processi intuitivi, ed è pertanto assai poco utilizzabile dal clinico nello sforzo diagnostico.
La seconda forma invece di sapere delirante, la percezione delirante, mostra caratteristiche tali da indicare l'emergenza di un modello di mente psicosico, non presente nell'esperire comune. Come si sa, la caratteristica formale della percezione delirante è di legare strutturalmente in un'unica esperienza una doppia articolazione di significato: la prima che riconosce nell'oggetto della percezione un significato interpersonale comune, la seconda che gli attribuisce un senso personale e irripetibile per tutti gli altri, senza un motivo affettivo o razionale comprensibile: il problema del verstehen si pone a livello del secondo legame. Una simile esperienza, una "percezione delirante", indica senza equivoco né valutazioni soggettivistiche l'emergere del pensiero psicosico.
Chissà se quando la nostra ammalata che ho sopra ricordato asseriva, a parere di molti di noi giustamente, che il manicomio può cambiare le persone, usava modelli di esperienza psicosici o no; peccato che non si sia tracciata in quella nota una analisi psicopatologica della sua illuminante asserzione, che non sapremo quindi mai se era delirante o meno.
E così verità-falsità, delirio-non delirio sono coppie irrapportabili, sono variabili indipendenti.
Una stessa asserzione può essere delirante o non a seconda dei modi strutturali e inoltre si colloca su piani diversi rispetto al continuum personale, proprio a seconda delle forme che assume. Istruttiva a questo proposito è la tematica di gelosia, che può esprimersi attraverso modelli esperienziali diversi, e soltanto alcuni sono deliranti (se vogliamo dare un senso preciso al termine delirio); è ovvio che se una asserzione gelosa si articola su modalità psicosiche è un delirio e tale resta anche se, per caso, ha motivazioni valide. Viceversa la più bizzarra o improbabile asserzione nulla ha a che fare con il delirio se non è sottesa da determinati modi patologici dell'erleben. Noi potremo dire che tali modi patologico dell'erleben interrompono o turbano quel perenne processo di cambiare mantenendo l'identità, che è la vita psichica: come macigni in un fiume. Sarebbe troppo dire anche che influenzano il fiume, ma non ne sono influenzati?
Il rapporto fra esperienze "primarie" patologiche e il fluire esperienziale è argomento affascinante, ma altamente speculativo.
Come altamente speculativa e affascinante è la misteriosa giungla fra mondo cosiddetto somatico e mondo cosiddetto cosciente, che tali esperienze patologiche ripropongono.


La psicopatologia e la psichiatria

Certamente quello della Psicopatologia Generale è un argomento abbastanza frustrante, lontano com'è dall'avanzare spiegazioni causali, le quali si sa anche se ipotetiche sono sempre rassicuranti nei confronti di quella tragedia, sembra unicamente umana, che è la malattia mentale. Se io ripenso all'attrazione che la Psicopatologia Generale esercitò su diversi di noi, mi viene in mente che risiedesse nella scoperta di un metodo, forse anch'esso a modo suo rassicurante.
Siamo tutti ben consapevoli dell'aspetto composito, multidimensionale della cultura psichiatrica, e molti di noi sono inclini a considerare questo un vantaggio, uno stimolo alla necessaria multidisciplinarietà, derivato anche dalla presa di coscienza di come il problema della malattia mentale debordi da ogni lato lo stretto tecnicismo medico al quale si pensò di poter ridurre la follia. Ma siamo, credo, sovrattutto consapevoli che oggi l'interesse maggiore è verso i terreni di confine fra discipline e metodiche di studio diverse, di come fra queste siano più utili "membrane semipermeabili invece che barriere invalicabili", per citare il filosofo della scienza Y. Elkana. E tuttavia in questo panorama così polimorfo la Psicopatologia Generale è sembrata darci il modo di definire almeno gli oggetti di studio della psichiatria. Stretti fra lo Scilla di un piatto comportamentismo (che spesso descriveva le turbe mentali quali bizzarrie visibili o anche esteticamente fruibili come Tobino ci insegna nei luoghi deputati alla follia) e il Cariddi di ipotesi esplicative parzialmente accettabili e parzialmente inverificabili, la metodica psicopatologica, con la sua coerenza interna, il suo spessore gnoseologico, ci permise di sapere di cosa stavamo parlando. Ci permise anche , e non fu piccolo merito, di rifiutare lo scambio atroce fra pretesa diagnosi psichiatrica e giudizio di valore. Scambio all'ombra del quale (con la complicità appunto di scarse conoscenze psicopatologiche) tanti soprusi possono commettersi, fino a fare sembrare la terminologia psichiatrica quasi un vocabolario di insulti.
Da questo punto di vista non si può certo condividere l'accusa di "razzismo" che in anni recenti è stata rivolta a Karl Jaspers, alla sua breve e feconda stagione di psicopatologo, a meno che non si intenda per razzismo qualsiasi tentativo di studio oggettivo delle esperienze umane, travolgendo nella stessa condanna l'oggettivazione conoscitiva con l'oggettivazione dell'uomo in sede morale, in sede economica, in sede politica.
E' quasi inevitabile che qualsiasi discorso di psicopatologia sia anche un discorso sulla psicopatologia. Il fatto è che la Psicopatologia Generale ha fondato, nei primi anni di questo secolo, uno degli approcci più propriamente scientifici alle psicosi.
Quale può essere oggi il valore conoscitivo e formativo, il significato di questa dimensione della cultura psichiatrica? A me pare evidente che mantiene una validità che qualunque "addetto ai lavori" verifica bene ogni giorno, anche se non di rado se ne fa un uso più approssimativo che consapevolmente approfondito. Ovviamente non è mai stato possibile fare della Psicopatologia Generale una metodologia normativa in psichiatria, di ricondurre ad essa come ad una sorta di odioso letto di Procuste i diversi possibili approcci al problema della malattia mentale, e nemmeno le possibili diverse teorizzazioni del concetto stesso di malattia mentale.
Forse si può ancora citare la frase di Jaspers che paragona la vita psichica, normale o patologica che sia, ad un continente vasto e poco conosciuto che venga esplorato da direzioni diverse, senza che oggi gli esploratori si incontrino completamente, perché tra essi rimane sempre un largo tratto di territorio sconosciuto. E tuttavia mi sembra che altri approcci, altri "vertici" dai quali costruire con metodiche proprie altre prospettive del problema della vita psichica abnorme, non possano prescindere dalle costanti individuate e studiate dalla Psicopatologia della quale io penso si debba passare oltre, ma non a lato ignorandola. Nella formazione di uno psichiatra, ad esempio, assai di rado la scarsa cultura psicopatologica è irrilevante, perché si sanno usare più raffinati e diversi metodi di analisi e di approccio. Il più spesso tale scarsa preparazione psicopatologica significa puramente la regressione a modelli psichiatrici pre-psicopatologia generale, e si procederà allora per impressioni e immagini approssimative. Perché questa è stata la trama di fondo, storicamente, della Psicopatologia Generale: la ricerca nell'apparente caos della follia di "costanti", di strutture che prescindano il più possibile dalle contingenze individuali, pur facendo del mondo individuale l'aspetto essenziale del tentativo di penetrazione comprensiva, ricercando delle regole riportabili all'intero universo umano.
Si sa che una qualsiasi "costante" scientificamente definita vale finché altri schemi di riferimento, più "forti" perché esplicativi, non la sostituiscono. In fondo il problema che dovremmo porci è se per caso ciò non sia già accaduto per la metodica psicopatologica, tenendo presente che in questi ultimi tempi i legami fra "cultura" e "natura" si sono assai rafforzati, che fra strati un tempo in pratica non comunicanti, quali lo psichico e la struttura fisico-chimica, si sono aperte una serie di varchi e vie di comunicazione, con la messa in crisi della diltheiana distinzione fra cosiddette "scienze dello spirito" a cosiddette "scienze della natura", distinzione che invece è stata il punto di partenza della ricerca psicopatologica. Distinzione che assume che mentre i fatti della realtà fisico-chimica possono essere spiegati o non, gli avvenimenti psichici possono essere soltanto comprensibili o non. Il primo è il terreno dell'erklaren, il secondo del verstehen.
Questa distinzione, nata nella corrente di pensiero dello storicismo tedesco, è stata applicata alla storia e in generale alla conoscenza interpersonale dell'uomo, in quanto non suscettibile di spiegazioni causali. E' evidente anche come lo spiegare naturalistico e il comprendere antropologico fossero più antitetici nei confronti delle scienze naturali contemporanee di Dilthey, e come invece tale antinomia si sfumi nella scienza attuale. Ma, a ben vedere, sono essenzialmente caduti i modi e la rigidità con i quali tale distinzione veniva teorizzata, è caduta come acutamente ha osservato P. Rossi "la garanzia di reciproca immunità fra questi campi di conoscenza".
Pensando a tutto ciò, di nuovo ritroviamo, in qualsiasi clima culturale si sia immersi, la validità della distinzione fra esperienze comprensibili o no, tra il werstehen e l'erklaren, quale filo di Arianna dello studio psichiatrico del singolo. Noto, di passaggio, che incomprensibile non vuol dire privo di senso, ma vuol dire uso di uno strumento di analisi psicopatologica, che non vanifica il discorso sulle logiche irrazionali, né si contrappone all'attenzione verso le modalità fantasmatiche della vita psichica.
E tuttavia io credo si debba rilevare, per la Psicopatologia Generale, un suo essere messa un tantino in ombra, un parlarne o discuterne forse poco, in contrasto con un suo uso puntualmente quotidiano (nella prassi come nella ricerca psichiatrica), ma un uso che rischia talora di confondere la metodica psicopatologica con un dato intuibile, con una sorta di apprensione immediata. Ho la sensazione che alcuni operatori di psichiatria si comportino verso la Psicopatologia Generale come Jacòb ha notato essersi comportati i biologi nei confronti del problema teologico: come verso una donna scrive Jacòb della quale non si possa fare a meno, ma in compagnia della quale non ci si voglia far vedere in pubblico. E' noto come il concetto di "programma" abbia offerto ai biologi il riconoscimento di questo legame clandestino.
Può funzionare nello stesso modo la riflessione che le notevoli possibilità che riconosciamo alla farmacoterapia non sono utilizzabili con proprietà, né in base alla diagnosi psichiatrica, né ai sintomi tradizionalmente definiti (che così spesso hanno un valore diverso a seconda del contesto), ma bensì sulla base di complessi sintomatici; vale a dire di quelle strutture dell'erleben che la Psicopatologia aiuta a riconoscere?
Forse potremmo concludere che la Psicopatologia Generale è un metodo di studio che ha reso e può rendere servizi alla conoscenza delle malattie mentali e alla clinica psichiatrica, sollecitandoci anche alla possibilità di studiare l'uomo per quello che è, per quello che si attua nel suo esperire, e non solo per ciò che può sottenderlo dal punto di vista delle motivazioni e delle cause.
Nel campo della causalità esiste un rischio: quello delle affrettate confluenze, dell'estrapolazione e generalizzazione di modelli parziali anche se importanti, che è una grossa e ricorrente tentazione che parte da lontano (pensiamo all'interesse della cultura del '700 per gli automi) e in qualche misura arriva fino al film "Mon oncle d'Amerique".
Non credo però si debba sostenere il persistere della Psicopatologia Generale in una sorta di "turris eburnea", non contaminata da prospettive che nascono da altri modelli di ricerca; evitando premature estrapolazioni e confluenze confusionali, ma anche sclerotici arroccamenti, che hanno forse più a che fare con il bisogno di sicurezza dello studioso che con l'aspetto molteplice della realtà osservabile.


BIBLIOGRAFIA

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Ey H.: Traitements au long cours des états psychotiques. Privat, Toulose, 1974.
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