Ringraziamo gli autori, ed in particolare Luciano Del Pistoia, per averci accordato il permesso di riprodurre il testo di un importante contributo sulla depressione melanconica. Questo contributo è parte di un volume, curato da G.F. Placidi, L. Dell'Osso e C.Faravelli, intitolato La Malattia Depressiva (Idelson, Napoli,1989). Un ringraziamento anche alla Casa Editrice che ne ha autorizzato la diffusione.
Mario Rossi Monti
Antonella Di Ceglie
Introduzione
Due aspetti della categoria psichiatrica "depressione" affronteremo in questa sede: l'aspetto clinico e l'aspetto psicopatologico.
E affrontarli in senso fenomenologico significa - lo ricordiamo en passant - mettere innanzitutto tra parentesi il sapere descrittivo, atomizzante, della nostra formazione di medici psichiatri, e vedere poi, in un secondo momento, come codesti aspetti appaiono rivisitati con sguardo liberato da ogni pregiudizio, da ogni "ipse dixit", da ogni ovvietà scontata in materia (Husserl, 1965; 1970; Sartre, 1962; 1964; 1970; Sini, 1965).
Detto in termini un po' diversi e fenomenologicamente un po' più rigorosi, noi assumeremo due atteggiamenti noetici successivi, i cui correlati noematici saranno prima l'essere-al-mondo (Da-sein) melanconico visto dall'angolatura della temporalità e, in un secondo momento le strutture narrative del clinico viste come aspetto costituente del Da-sein e ricordando che mentre la descrizione noematica del vissuto melanconico ha illustri precedenti in Italia, prevalentemente nel solco dell'insegnamento germanico di Binswanger (1970; 1971), la descrizione noematica delle strutture narrative costituenti è un prodotto francese in rapida diffusione ma finora non molto conosciuto nell'ambiente italiano.
richiami fenomenologici
A titolo preliminare, ricordiamo, per accenni, alcune linee portanti dell'atteggiamento fenomenologico, anche se codesto ricordo sommario rischia di essere una ridondanza per il conoscitore e un enigma inutile per il principiante. Ma data l'aria "monoaminica" che soffia oggi sulla psichiatria italiana, preferiamo arrischiarci, gettar nel vento una manciata di semi, con l'auspicio che almeno qualcuno di questi cada nel desiderio di conoscenza di molti giovani e possa lì germogliare.
L'"intenzionalità" innanzitutto, "un'idea", come diceva Sartre "fondamentale della fenomenologia di Husserl" (Sartre, 1963). Intenzionalità significa che il nostro sguardo sul mondo non è neutro, estraneo e disimpegnato, ma è ogni volta una presa di posizione, un taglio, uno scorcio; è un far apparire le cose in una determinata prospettiva, è l'evincere, ogni volta, da una situazione un senso: operazione tanto abituale quanto misconosciuta, perché soffocata nella abitudine del pregiudizio, e che l'atteggiamento fenomenologico tende a ripristinare, enucleandola dal suo guscio indurito di ovvietà stratificate.
Intenzionare il senso delle cose, del mondo, significa che l'accento è messo sulle cose, sul mondo e non più sul soggetto della filosofia dell'introspezione. Come diceva Husserl, "la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa". Così, in che cosa consista una noesi, un atteggiamento intenzionale della coscienza, ce lo dice il modo di apparire del suo oggetto intenzionato, del suo correlato noematico. La percezione non è ciò che io provo percependo ma è il modo di apparire dell'oggetto percepito, l'immaginazione dell'oggetto immaginato e così via discorrendo. La rivoluzione copernicana di Husserl situa così la fenomenologia agli antipodi dell'introspezionismo, come sottolinea Sartre nel suo fondamentale articolo del 1939.
Con l'introspezione dice Sartre, l'oggetto si dissolve nel soggetto, si dissolve in un "umidiccio gastrico e digestivo" che domina codesta "filosofia alimentare". Husserl invece conserva, restituisce anzi, la sua esistenza all'oggetto, ripopola delle sue cose, delle sue esistenze, dei suoi colori il mondo svuotato dalla prepotenza fagica del cosiddetto soggetto, essere terribile è una proprietà di questa maschera giapponese... e non la somma delle nostre reazioni soggettive di fronte a un pezzetto di legno scolpito. Si profila così, conclude Sartre (1963), un nuovo trattato delle passioni, che si ispirerà a una verità così semplice e così profondamente malintesa dai nostri raffinati: "se noi amiamo una donna è perché essa è amabile".
Accanto all'intenzionalità, ricordiamo inoltre, fra gli atti fondanti della descrizione fenomenologica, l'"epoché". Con questo termine con cui gli scettici indicavano la loro sospensione del giudizio, prende nell'accezione husserliana il senso di un radicale rifiuto delle false evidenze del pregiudizio, che tanto ci confortano e rassicurano nel "si fa" e nel "si dice" della massificazione quotidiana; rifiuto non fine a sé stesso, ma mossa iniziale per andare all'essenza stessa delle cose, per vedere come esse appaiono all'esperienza diretta (e non attraverso l'ipse dixit!) una volta che il velo dell'ovvietà che le mascherava sia stato strappato. E' l'aspetto serenamente inquieto, e saggiamente critico, della fenomenologia, proteso verso un disvelamento della significatività esemplare dei fenomeni, e fatto più di penetranti smentite che di compiaciute convalide; anzi, di una continua autosmentita.
Così con quest'ultima frase abbiamo evocato un altro aspetto essenziale dell'atteggiamento fenomenologico: la "riduzione eidetica": che non è la ricerca platonica di una mitica essenza traslucida, posta nell'iperuranio a garanzia dell'essere appannato delle cose del mondo; ma è la ricerca di una significatività esemplare di queste nel mondo stesso in cui le troviamo. Niente, comunque, di misterioso in questa riduzione eidetica, essa abita la vita quotidiana: in "Baudelaire" di Sartre, la "Storia dell'età barocca" di Croce sono esempi, fra mille, di riduzione eidetica, la messa cioè in forma di un certo materiale (qui un periodo storico, là una biografia) nella prospettiva di un senso. Materiale che non necessariamente deve essere sempre così nobile; può essere anche la battuta riuscita o la definizione azzeccata dell'umorismo popolar-quotidiano: da il "Mal lavé'" del fiaccheraio parigino tirato al negro che gli traversava la strada (Bergson, 1958) fino a quel "La tigre del materasso" che compendiava in questo tratto essenziale, le arzigogolate inquietudini di una signora fiorentina degli anni cinquanta. E molti altri esempi di riduzione eidetica si potrebbero citare accanto a questi e sempre anche a proposito dei medesimi "oggetti" qui nominati, la fenomenologia notoriamente insegnandoci che le prospettive, gli scorci, le "abschattungen" attraverso cui si può guardare un oggetto non hanno, per principio, nessuna limitazione quantitativa; posso, per esempio descrivere il Partenone come conoscitore d'arte interessato all'estetica, ma anche come storico della Grecia del V secolo a.C., o come architetto ammirato della solida semplicità della costruzione, o come geologo interessato alla natura e alla qualità del marmo..., o ancora come sociologo posto nella prospettiva del lavoro occorso per costruirlo e di un eventuale proto-marxismo ante-litteram; e così via discorrendo.
Per quanto riguarda infine il problema della soggettività come intersoggettività storica, rinunciamo a sacrificarlo in uno pseudo-compendio di poche righe e rimandiamo in merito alla fondamentale monografia di Georges Lantéri-Laura (1968), limitandoci a ricordare che questo problema è basilare per una comprensione scientifica del vissuto psicotico, nella prospettiva della destrutturazione delle cosiddette "funzioni dell'io" (continuità nel tempo, intimità inviolabile, padronanza del proprio pensiero e delle proprie azioni e via discorrendo) e della trasformazione dell'"alter" in "alius", in alieno.
L'arrovesciamento prodotto dalla intenzionalità di Husserl è a questo proposito quasi incredibile: passi, infatti, si potrebbe dire, che la conoscenza delle varie funzioni psichiche, come la percezione, l'immaginazione, la memoria, ecc. mi venga dall'oggetto, da una proiezione verso l'esterno e non dalla classica discesa dentro me stesso: ma per quel che riguarda la conoscenza di me stesso, del mio io, non si dovrà negare il valore-chiave dell'introspezione.
Si tratta invece del proprio contrario e, ricordando in particolare Sartre (1965) si capisce come anche l'ego è trascendente, come anch'esso è un soggetto del mondo che io colgo dall'esterno allo stesso modo del mio ricordo dei ciliegi fioriti sulla strada di Sopron alla frontiera fra Austria e Ungheria, o de "Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo" della stampa di Dürer.
Quello che noi siamo - o che riteniamo di essere: l'amico dei nostri amici, il marito di nostra moglie, il titolare del nostro lavoro, l'autore dei nostri scritti...e così via discorrendo, non lo siamo mai realmente in uno stesso momento.
In un certo momento, siamo l'uno o l'altro di questi atteggiamenti - o ruoli, o personaggi - a seconda di come in quel momento intenzioniamo il mondo - mentre il loro insieme - che chiamiamo il nostro ego - è per così dire una nostra sintesi, una nostra ricostruzione. In altre parole, e non senza un'apparente paradossalità, la tesi di Sartre dice che l'ego non si riscontra per la strada e che il luogo dove esso appare non è la percezione, ma è l'immaginario.
Questi atteggiamenti filosofici appena ricordati accettabili o meno, e storicamente relativi come tutti gli enti di cultura, hanno avuto un innegabile impatto critico sulla psichiatria contemporanea che, ancora invischiata nel modello scientista e della riduzione della psicopatologia a fisiopatologia dei "centri nervosi" (Magnan, 1876), faceva al seguito di Jaspers (pubblicato nel 1913, ma tradotto in italiano nel 1964!) i primi incerti passi sulla via del comprendere. Ma per questa via aperta da Husserl, la distinzione jaspersiana fra "verstehen" e "erklären", fra il comprendere empatico e lo spiegare scientifico là dove tale comprendere si pensa che più non arrivi, viene superata nel senso che il delirio anche il più "incomprensibile" può essere descritto nei suoi modi di apparire come una forma "sui generis" di Da-sein, dove è puramente illusorio che il malato che lo vive ne sappia di più del clinico che lo osserva; così come è illusorio pensare, ancora ricordando un famoso esempio di Sartre, che Piero sappia sul suo amore per Giovanna - che egli vive - più di quanto ne sappia il suo amico Paolo, che può solo "vederlo dall'esterno". Chè per ambedue, si tratta di descrivere degli oggetti esterni, per Paolo si tratta di descrivere come appare l'amico Piero innamorato, per Piero si tratta di descrivere non una qualche romantica e ineffabile sensazione interiore, ma il modo in cui la Giovanna gli appare. La coscienza husserliana si ricorderà, è infatti la coscienza di qualche cosa e non un autoripiegamento narcisistico del "bambino che si abbraccia le spalle".
descrizione noematica della temporalità melancolica
La temporalità è una delle tante "abschattungen", delle tante prospettive della possibilità epifanica del "fenomeno" melancolico: possibilità, si ricorderà, per definizione fenomenologica, inesauribile come quello di ogni oggetto epochizzato a fenomeno; tanto che sotto molte altre angolature avremmo potuto affrontarla: e cioè il mit-sein, l'appresentazione dell'"altro", la corporeità, l'essere e l'avere, la materialità, la luminosità (o l'oscurità) e così via; ma la temporalità dopo gli studi di Minkowski (1933) e di Tellenbach (1975), soprattutto dopo l'aureo libello di Biswanger "Melancolia e Mania" (1971) è classicamente l'ottica preferenziale, quella che meglio di ogni altra coglie e sintetizza l'essenza del disturbo melancolico, quasi, per Binswanger, un disturbo fondamentale nel senso che intendeva Bleuler per schizofrenia.
Lungo questo cammino ricercheremo dunque il significato esistenziale della melancolia, quel suo essere una presenza umana nel mondo. Presenza umana dalla quale anche il sapere clinico atomizzante aveva preso le mosse, ma che si era rivelato incapace di ritrovarla al termine del suo percorso; che, anzi, occultava se non addirittura distruggeva, nel momento stesso del suo porsi in atto.
Ma prima di incamminarci in codesta direzione, non sarà inutile ricordare la nozione fenomenologica di temporalità; ben diversa, notoriamente, dal pregiudizio del tempo spazializzato che quotidianamente ci abbaglia.
Nell'ottica fenomenologica la temporalità è un flusso continuo intenzionato dalla coscienza secondo le tre modalità di "presentatio, protentio e retentio"; in modo cioè che "ciò che sta per avvenire, e che io esperisco appunto come tale, si trasforma continuamente in ciò che avviene; così come...ciò che avviene si trasforma in ciò che è appena avvenuto" (Galimberti, 1979). E' questo un mettere il tempo in prospettiva dall'angolatura del presente e secondo un progetto che fa sì che il passato non è "il per sempre e solamente trascorso" come appare invece nel pregiudizio "del tempo spazializzato" ma ciò che mi si presentifica sotto la forma dell'"essere-già-stato", mio fondamento storico per un futuro che mi si presentifica sotto la forma dello star-per-essere. In altre parole, passato e futuro sono orizzonti dove il progetto si staglia come figura sul fondo e che si attualizzano non attraverso un'impossibile presenza totale (evocare tutti i ricordi, enumerare tutti i progetti prima di agire) ma attraverso una selezione emblematica, funzionale al progetto di volta in volta in causa, selezione la cui caratteristica fondamentale è appunto il modo di presentarsi, appunto la marca trascendentale dell'"esser-già-stato" o dello "star-per-essere".
Codesta triplice articolazione di figura sul fondo è sempre presente nella struttura normale della temporalità, anche quando sembriamo risucchiati totalmente nel passato come nella tristezza o nel rimpianto oppure sembriamo sbilanciati totalmente nel futuro come nella utopia. Come dice Merleau-Ponty (1965) anche nel più profondo dolore del lutto, anche quando il mondo pare vuoto e il futuro un niente, il nostro sguardo fruga l'ambiente a nostra insaputa e si dirige su qualche punto luminoso che l'attrae: è questo appunto l'indizio della struttura prospettica della temporalità al lavoro.
La follia è infatti lo scardinamento di codesta struttura; e, nel caso specifico della melancolia, è un essere rivolti verso un passato che non è più semplicemente "triste" perché non più in articolazione dinamica e prospettica con il presente e con il futuroE' un essere in un passato assoluto: per questo la melancolia non è una banale variazione quantitativa sul tema del rimpianto, ma è un'esperienza affettiva ignota alle persone normali. Ci guida, alla sua conoscenza, il filo rosso del discorso stesso del paziente. Colpisce il verbo unicamente, ostinatamente coniugato al passato: passato dell'indicativo, del congiuntivo, del condizionale. "Ho fatto" o "feci", "se avessi fatto" o "avrei dovuto fare", indici ricorrenti della scomparsa del possibile dall'orizzonte melancolico, indici della assolutizzazione del passato. Tutto è già successo, anche quello che dovrà succedere: questo è il paradosso tragico della melancolia, che esprimono in particolare i suoi temi deliranti. "Ciò che colpisce (nei deliri melancolici: impoverimento, perdita...) è il carattere dell'evidenza col quale vengono vissuti...come se appartenessero già al passato" così il Sarteschi-Maggini (1982). E, Galimberti, di rincalzo; "la sua (del melancolico) incapacità ad esperire possibilità aperte, a causa della distruzione della consequenzialità dei legami temporali in cui si articola l'esperienza, fa sì che (egli) legga come fatto compiuto ciò che sta semplicemente per compiersi o addirittura può anche non compiersi" (Galimberti, 1979).
Passatizzazione del presente e anche del futuro, cancellazione del poter accadere, un "già accaduto" a trecentosessanta gradi, in altre parole essere nel futuro solo quello che si è già stati nel passato: come nella morte. Questa è la melancolia. Vita morta in un tempo "figé" nel ripiegarsi su sé. Questo spiega perché i ricordi divengono rimorsi, le azioni compiute colpe. Per l'arresto del tempo cadono nella impossibilità di essere ripresi in un progetto, in una speranza; in una possibilità di rifare il già fatto nel senso di fare meglio, di rimediare, di riparare.
Struttura temporale-formale che impronta di sé il contenuto: le basi reali delle autoaccuse dei melancolici appaiono infatti pretestuose, "peccadilles" sproporzionatamente incommensurabili con la mostruosità morale di cui si dicono l'incarnazione.
Ma cos'è questo tempo figé questo non-tempo melancolico se non l'eternità della dannazione, il non-tempo dell'inferno di Dante? Cos'è se non l'essere per l'eternità il gesto che ti ha dannato per sempre? Bocca degli Abati è e sarà per l'eternità il traditore di Montaperti, l'arcivescovo Ruggieri per l'eternità il traditore del Conte Ugolino. L'incontro con Dante è un'apparenza, una illusione di presente. Farinata non "presentifica" il ricordo iroso e dolente del bando degli Uberti da Firenze, ma si "passatizza" in quel ricordo perché egli è per l'eternità ciò che quel ricordo lo fa essere. Auspici o auguri non hanno senso per lui; e non perché un giorno dell'aprile del 1264 sia morto, ma perché è morto eternamente. Un tratto, della dannazione, questo, che meglio si evidenzia nel confronto con i beati del paradiso; i quali pur son morti, che son anch'essi anime di trapassati, ma non sono colpiti dalla morte eterna e per questo sono così densi di tensione progettuale, quasi di veemenza (si ricordino le filippiche di S.Tommaso e di S.Bonaventura sulle "deviazioni" di francescani e domenicani); la quale tensione non può avere per teatro che la terra, luogo possibile di perfettibilità eventuale. Non necessaria, che, allora avrebbe come teatro il purgatorio.
Temporalità melancolica, temporalità di dannato, dunque: e quando il Cotard della dannazione esplicita il tema, non fa forse che esplicitare la struttura trascendentale della melancolia, non fa che svelarne attraverso una riduzione eidetica la intima e reale essenza: morte eterna.
A questo punto si pone il problema del suicidio, non infrequente, come si sa, fra i melancolici; si pone in particolare il problema se sia esso un atto di morte, come pare ovvio, evidente, scontato, quasi la ufficializzazione di una morte di fatto già presente, o se sia invece, con una paradossalità tipicamente folle, e in un modo tutto suo, un atto di via. Le "spiegazioni" che correntemente se ne danno sono note: un chiudere, anche fisicamente, un'esistenza psichicamente già morta. Oppure: un mettere fine a delle sofferenze intollerabili. O ancora, psicoanaliticamente: uccidere per vendetta l'altro introiettato come malo obietto. Non è però difficile accorgersi quanto codeste spiegazioni appaiono troppo ragionevoli e, per quanto ci riguarda, come stridano con ciò che rivela l'analisi fenomenologica.
Per esempio, il "mettere fine alla sofferenza" implica un vissuto di durata, l'affermazione cioè, e non la negazione, del flusso temporale implica la conseguente riduzione della temporalità melanconica ad una temporalità da settimana santa, ad una temporalità da passione, dove il paziente non ha però l'eroismo del martire e si impicca in cella prima di salire il Calvario.
Più interessante la spiegazione psicoanalitica con la sottolineatura in qualche modo di un'apertura verso l'altro che, seppure fantasmatico, schiude un orizzonte altrimenti ripiegato su un improbabile quanto soffocante solipsismo.
Siamo tuttavia ancora troppo lontani da quelle "assurdità allucinanti" della follia che il senso comune avverte, e che il brivido che percorre le cronache giornalistiche di codesti eventi, sottolinea. Una vendetta al prezzo della propria distruzione rientra in fondo nella "ragionevolezza" del "muoia Sansone con tutti i Filistei", anche se l'assurdo inquietante del melanconico occhieggia attraverso la cancellazione dell'altro dalla realtà, attraverso la sua riduzione a pura presenza fantasmatica e introiettata, e attraverso quell'impennata megalomane, così esplicita in certi Cotard, che fa del proprio Sé il contenitore fagocitante non solo del prossimo, ma dell'universo intero.
Lascia tuttavia perplessi, anche in questa versione, il prendere così alla lettera il "messaggio di morte" del paziente il raddoppiarlo anzi nella forma di un omicidio-suicidio attuato sul corpo di un'unica e stessa persona.
C'è da chiedersi, infatti, se il suicidio melancolico non sia invece, un tentativo disperato di rimettere in moto un flusso temporale pietrificato, un sussulto di "slancio vitale" (Galimberti, 1979) dal cuore stesso di un'esistenza sentita come morta nell'impossibilità tragica di rifiutarla come tale.
E' in effetti in questo senso che riassume e precisa la questione Galimberti. "Quando uno è arrivato a cancellare sé stesso dal proprio libro di casa" - come diceva un malato a Binswanger - "il suicidio appare non come mezzo per eludere la vita, ma come qualcosa di pieno e univoco in cui poterla ancora esprimere" (Galimberti, 1979). In altre parole, è la vita che si afferma negandosi; questo è il paradosso del melancolico. La sua esistenza heideggerianamente ridotta alla ultima possibilità di "impossibilità di esistere"; ma che, a differenza di altre impossibilità di esistere - l'ammiraglio che si lascia andare a fondo con la sua nave, un Salvo d'Acquisto che si sacrifica al posto di ostaggi innocenti - non si infutura: né esempio, né speranza, ma solo raddoppiamento del nulla attraverso l'annientamento sadico de "l'altro" fantasmatico. Non si in futura perché gli manca la struttura temporale portante che faccia di quel gesto un atto aperto su un avvenire. Gesto che sprofonda invece in quel nulla di morte ma che però è al tempo stesso un guizzo di vita perché cerca appunto di infrangere codesto nulla e cerca di ritrovare e ricostruire, attraverso un frammento di contenuto, la forma che gli falla.
Su un registro meno folle, ma utile per capire, si può pensare all'ossessivo che cerca di annullare l'ossessività annullando un gesto deprecato tramite uno scongiuro. Annullamento di contenuto che riconferma la forma. Il melancolico, in modo più folle e più tragico, cerca di annullare l'immobilità eterna del tempo con un gesto che... sfocia subito nell'eternità. Ma è, il suo, un guizzo di vita: anche se l'ultimo, disperato.
Tratteggiata in questo modo la descrizione noematica della temporalità melancolica, affrontiamo ora il secondo tema che ci eravamo proposti: le strutture narrative della clinica. Passiamo così al piano psicopatologico.
Le strutture (1) narrative della clinica
è questo, tipicamente, uno degli aspetti fondanti della clinica, smarrito dall'ottusità medico-psichiatrica nella naftalina delle ovvietà organo-meccaniciste ereditate di ossequio in ossequio, e di plagio in plagio dai nostri predecessori del tardo ottocento.
La psichiatria è una branca della medicina, ergo l'anamnesi psichiatrica ricalca l'anamnesi medica: ferrea coerenza di un falso sillogismo anche se percorsa da un brivido di dubbio: "e se questo non bastasse?". L'anamnesi psichiatrica si integra così di un profilo della "personalità premorbosa" e l'animo medical-psichiatrico ritrova la sua pace.
Ma che significa, in effetti, essere il cronista e lo storico, o il narratore (magari proustiano) o lo stenografo, come si è più spesso, di un delirio? Il modo di fare storia è un'attività che si declina al plurale - e oggi lo sanno tutti - articolato su più modelli: dai Commentari di Cesare, alla Cronica del Compagni; dai Discorsi di Machiavelli, alla Storia di Hegel, dal Croce a Karl Marx, alla Scuola degli Annales.
A risvegliar gli psichiatri dal loro duro sonno dogmatico ci pensarono gli antipsichiatri del '68 con l'idea che il taglio narrativo, dell'anamnesi medicalistica è la quintessenza della falsificazione: ché cerca nella ragnatela dei neuroni, o in una presunta profondità della coscienza, quello che invece s'ha da cercare nella "realtà" esteriore politica e sociale. Discorso, come la stragrande maggioranza di quelli del '68, valido in senso demolitivo, la sua controproposta costruttiva essendo stata infatti altrettanto rozza dell'esecrato medicalismo che attaccava: il romanzaccio d'appendice a forti tinte sociali, e il correlativo trasloco del delirio dal cervello ai condomini di periferia.
Non devono tuttavia far perdere di vista, codesto fideismo povero e codesto settarismo squallido, l'interesse formale della controproposta antipsichiatrica: l'idea, cioè, della possibilità a-priori di una pluralità di scrittura, ovvero l'idea che la struttura narrativa è per definizione molteplice. E si ritrovan qui, del resto, le buone radici cultural-fenomenologiche dei proto-anti-psichiatri; quelle che mancavano - e che mancano - ai tardi antipsichiatri e a buona parte all'establishment psichiatrico ufficiale italiano. Basta d'altronde rileggersi il "Penser la Revolution Francaise" di Furet (1978) per avere un'idea precisa, concretamente esemplificata e non astrattamente affermata , di come vedono tale pluralità narrativa gli storici di mestiere; o rileggersi quel numero di Communications su l'analisi strutturale del racconto (Furet, 1966) per vedere come la pluralità investa le strutture narrative in generale e non solamente quelle storiche. Nel nostro campo, del resto, il problema era già stato prospettato esplicitamente e da tempo dalla psicoanalisi a proposito della questione dell'interpretazione. Allo psichiatra si poneva in termini analoghi e nella stessa sede: la sua pratica quotidiana. Ma è rimasto ignorato e nessuno si è chiesto cosa significhi "trascrivere un delirio?" che operazione comporti, e quali conclusioni anticipi. Nessuno si è ricordato che l'esito del processo è nelle pieghe del primo rapporto di polizia.
Un delirio si dà infatti come una totalità, appare d'un tratto nella globalità di una intuizione, di una illuminazione, è un quadro che il malato ha di colpo davanti a sé. Sono idee in crinolina quelle che volevano il delirio costruito per deduzione logica dalle esperienze psicosensoriali abnormi. Il Cristo Pantocrator della cupola del Battistero di Firenze è fatto sì di tanti quadratini di pietra: bianchi, d'oro, azzurri, rossi, marroni, neri...: ma Cimabue doveva ben "vederlo" prima di disporre codesti quadratini, altrimenti ne sarebbe risultata altra immagine o un semplice pasticcio. Il delirio si dà in effetti d'emblée, tutto insieme come una pittura; e più precisamente come una di codeste pitture antiche dove, nel presente senza tempo del paradiso, siedono di qua e di là dal Cristo trionfante gli apostoli suoi contemporanei, gli evangelisti di poco a lui posteriori, i padri della chiesa del III e IV secolo, e qualche santo vescovo del dugento; si dà anzi in modo un po' più complesso, perché il comprendere il Battista e Santa Chiara in una stessa figura avrebbe gettato bagliori di rogo sul pittore, mentre i meccanismi onirico-deliranti di condensazione e spostamento non hanno né remore né scrupoli per mascherate e ambiguità androgine del genere.
Il che riviene a dire che la "semplice raccolta delle notizie anamnestiche" umile compito che affidiamo, di solito, all'ingenuo ragazzo di bottega, non è poi, a ben guardare, né tanto semplice né tanto umile né tanto ingenuo. Essa consiste, infatti, e nientemeno, che nello sdipanamento sintagmatico di ciò che si dà insieme paradigmatico; nel mettere un racconto al posto di una visione; o, psicoanaliticamente, nella traduzione del processo primario in processo secondarioE', in altre parole, e come minimo, una cripto-analisi selvaggia dove il delirio viene strapazzato e deformato sul letto di Procuste di identità, non contraddizione e terzo escluso.
Il problema della pluralità dei modelli narrativi nasce a questo propositoE' la norma stessa della clinica psichiatrica. Perciò storicamente esso si sviluppa al di fuori della psichiatria, e finisce col penetrarla "di ritorno" e seppure con profondità diverse a seconda della durezza del terreno culturale su cui incide: Italia, Francia, States ecc.; a conferma che anche la psichiatria, almeno in vita sua, è presa nel movimento storico delle culture a cui appartiene e nella logica ferrea della storicità. Se l'evasione fiscale è moneta corrente, l'evasione storica è una categoria vuota.
Il cambiamento si insinua surrettiziamente anche all'interno di quel modello medicale che protendeva all'immutabilità eterna di una perfezione platonica, come illustra l'esempio dell'evento traumatico studiato dalla geniale Gladys Swain (1983).
Dice dunque Gladys Swain che nell'arco della psichiatria compreso fra Pinel e Lacan, si ritrovano almeno tre modelli narrativi riguardanti la nozione di "trauma". Tre modi diversi, cioè, di dare il taglio del racconto, di selezionare gerarchicamente gli eventi, di valutarli nelle loro conseguenze.
1). Nel primo modello, che potremmo chiamare Pinel-Balzac dall'esemplificazione di supporto, il trauma è l'irruzione dall'esterno mondano verso l'interno psicologico, soggettivo con conseguente annientamento del soggetto.
Pinel racconta di "Un artilleur qui, l'an deuxième de la République, propose au Comité de salut public le projet d'un canon de nouvelle invention, dont les effets doivent être terribles; on en ordonne pour un certain jour l'essai à Meudon, et Robespierre écrit à son inventeur une lettre si encourageante, que celui-ci reste comme immobile à cette lecture, et qu'il est bientot envoyé à Bicêtre dans un état complet d'idiotisme>>.
De Balzac, per contro, riferisce la storia di Stefania, contessa di Vandières, coinvolta la seguito del marito generale, nelle vicende della Grande Armée napoleonica in Russia. Nel disastroso passaggio della Baresina, Stefania perde e questi e l'amante, colonnello Philippe de Soucy. L'amante si sacrifica per lasciarle il posto sull'ultima zattera; il marito, sbalzato in acqua, finisce decapitato da uno dei lastroni di ghiaccio che spinge l'impeto del fiume. Il trauma distrugge l'"umanità" della donna per lasciar posto a una specie di animalità compiuta in sé: Stefania viene ospitata in una fattoria presso Parigi, regredita a una specie di stato di natura, unico resto di umanità lo stereotipo verbale "Audieu", iterazione dell'ultimo straziato saluto lanciato all'amante sulla Baresina. Così la ritrova De Soucy anni dopo: vecchia storia di soldati dati per dispersi in Russia e riapparsi dopo anni di prigionia. Una costosa ricostruzione, per farle rivivere quella notte della Baresina, le fa ritrovare la ragione, ma solo per il tempo di riconoscere il suo amante. Essa muore infatti subito dopo. Il suo cuore non regge, e non potrebbe reggere, al trauma di ritorno. L'arte geniale del grande romanziere travolge ovviamente il raccontino scarno dello psichiatra sopraccitato, ma il modello che ambedue sottende è identico. L'occhio del narratore cerca l'evento eccezionale e non è certo per caso che il contesto che ne rende possibile l'emergenza sia fra i più eccezionali: il grande Terrore, la campagna napoleonica di Russia.
2). In una seconda versione, il trauma è l'avvenimento esterno che si inscrive nell'oblio del soggetto e da cui comincia a lavorarne il comportamento. A differenza del modello precedente, non si tratta di un annientamento in toto, ma solo della confisca di parte del soggetto, con un suo conseguente obbligo ad essere, in parte, "un altro" è il modello che possiamo chiamare Charcot-Freud.
Il carrettiere di Charcot è paraplegico perché si dice tranciato dalle ruote del carro che in realtà l'ha solo sfiorato: ma questo il carrettiere "non lo ricorda". L'avvenimento, in questo modello, è fatto in parte di realtà esterna e in parte di proiezioni fantasmatiche del soggetto.
Si ricorderà come Freud radicalizzerà questa versione a partire dal 1897, dando in particolare uno status del tutto fantasmatico alla scena di seduzione infantile allegata dagli isterici.
3). In una terza versione - di radice lacaniana - l'avvenimento è il momento rivelatore di una struttura che gli preesiste, "L'avvenimento per eccellenza non è più ciò che noi subiamo, ciò che viene a imprimersi in noi per effrazione, ma è l'incontro interiore, il face-à-face con noi stessi di cui il cammino delle cose diviene il supporto casuale". (Swain, 1983).
La "forclusione del nome del padre", il "difetto di accesso al simbolico" ci abitavano come una tara nascosta, ci attendevano alla svolta dell'avvenimento: il matrimonio, il posto di ruolo, il trasferimento, la nascita del figlio e così via. In codesta versione il ventaglio della reattività si apre a trecentosessanta gradi, e se a un suo estremo ritroviamo ancora le grandi catastrofi (personali o sociali) dall'altro l'evento sfuma nella banalità dell'accadere quotidiano. La "realtà", da protagonista in senso assoluto, si fa evanescenza, si fa supporto, o pretesto, di proiezioni fantasmatiche: è prevalentemente dall'interno del soggetto che si fabbrica l'avvenimento. L'avvenimento è una questione di significatività la cui chiave risiede nelle strutture intrapsichiche dell'immaginario, il reale offre il materiale occasionale. La psichiatria, senza rendersene conto, risente della evoluzione storica delle idee, nella fattispecie della montata della filosofia dell'immaginario: psicoanalisi, fenomenologia, surrealismo ma anche il Croce (1958) dell'estetica, così a torto dimenticato. Nel campo dell'estetica in particolare, troviamo esempi calzanti: il "Bue" di Rembrandt da un lato, svenduto per la presunta incompatibilità di un pezzo di macelleria col bello;e, dall'altro, il cosiddetto problema de "la bella merda" riassumibile nella questione se può un escremento rappresentato suscitare emozioni estetiche. L'oggetto, il supporto dell'immaginario - come si vede - non solo è casuale ma può addirittura essere "antitetico" rispetto all'emozione ricercata.
E' l'effrazione dei limiti della "congruenza" che il simbolismo, il surrealismo, il cubismo, etc. esprimeranno ciascuno a suo modo. Così, il mulino della giaculatoria, psichiatrico-anamnestica gira ormai a vuoto, non macina più cultura.
L'evoluzione della nozione di trauma così illustrata indica, con la pregnanza dell'esempio l'evoluzione delle strutture narrative in psichiatria, come problema sotteso alla clinica, anzi come l'angolatura al tempo stesso nascosta e obbligata, da cui la si guarda.
Il parallelo Pinel-Balzac che Swain (1983) richiama è in merito illuminante e il suo approfondimento lo sarebbe ancora di più. E' infatti intuitivamente chiaro che il passaggio della nozione di "trauma" da evento annichilante a detonatore occasionale di una struttura preesistente, implicherebbe un correlativo evolvere del taglio narrativo clinico lungo un cammino dilettantescamente analogo, ma sempre parallelo a quello che da Balzac arriva al Nouveau Roman di Robbe Grillet passando per Proust e per Svevo e per altre stazioni stilistiche chiave. Ma la scommessa della neuro-psichiatria sul modello scientista fine ottocento le ha obliterato la sensibilità a questo genere di messaggi e l'ha sradicata dalla cultura. Come dicevano del resto gli antipsichiatri quando accusavano il modo di fare dei neuropsichiatri di barbarie deificante: affermazione che, seppure nella sua deformazione polemica, coglie in effetti la radice storica del fenomeno. La barbarie deificante infatti è il residuo stilistico, il resto, il cascame di una psicopatologia ormai orba dell'antropologia che l'aveva a suo tempo sostenuta e garantita. Per i borghesi colti, nostri predecessori nell'800, la riduzione scientista della psiche, la meccanizzazione della psicopatologia a fisiopatologia dei centri nervosi, non voleva essere una semplificazione sprezzante della esistenza umana, ma l'appropriazione scientifica e liberatoria di terrori ancestrali monopolizzati da uno spiritualismo a cui avevan dichiarato la guerra. Se la scienza moderna era scesa, come dice Bergson, dal cielo sulla terra lungo il piano inclinato di Galileo (Bergson, 1934), scendeva ora dal mondo esterno nell'intimo della psiche attraverso la conoscenza del cervello (Lanteri-Laura, 1987). I gruppi correlati di centri nervosi - primi fra tutti quelli del linguaggio - erano le costellazioni della nuova psicologia.
Visto in questa prospettiva, il DSM III, di cui una moda attuale fra consumistica e sorniona ci impone di far menzione, appare un tentativo, seppure un po' tardivo e un po' maldestro, di recuperare lo svantaggio accumulato in tanti anni d'incultura. I suoi diversi assi rinviano infatti, seppure surrettiziamente, a modelli narrativi diversificati. L'asse I: la sindrome psichiatrica e l'asse III, i disturbi fisici, sembrano confermare la solenne fedeltà alla tradizione medico-scientista; ma l'asse II, relativo ai disturbi di personalità sembra richiedere invece al narratore, un qualcosa delle qualità di Teofrasto o di Goldoni. E così l'asse V, cioè "il massimo livello di adattamento raggiunto l'anno precedente" seppure faccia venire in mente - sia detto senza offesa - i quaresimali del Padre Segneri e quell'esame di coscienza pre-pasquale atto a scoprire se l'anno appena trascorso sia stato dedicato più a Dio o più al diavolo.
Per quanto riguarda invece l'asse IV, anche questo ha pretese innovative: gravità degli eventi psico-sociali stressanti, scivola decisamente nel grottesco. Basterebbe prendere un numero dello Wall-Street Journal e un numero della Pravda (ora accessibile anche in italiano) per constatare quanto lontano si possa andare nel selezionare gli eventi, in una direzione o in un'altra, una volta scelto il presupposto di partenza. L'incidenza dei crolli in borsa sui deliri di rovina in URSS e la incidenza delle purghe staliniane sui deliri di persecuzione negli States sono infatti categorie (almeno ufficialmente) vuote.
In proposito, più interessante euristicamente - e più serio culturalmente - più filosoficamente vecchia Europa - il tentativo di Tellenbach (1975) che cerca di ripristinare un certo ordine gerarchico-gestaltico là dove la prevaricazione della nozione di struttura (o, se si vuole, della vecchia nozione francese di costituzioni psicopatiche di Dupré (1925) e Achille-Delmas (1932) di questa in qualche modo antenata) aveva determinato un livellamento demagogico nella categoria degli eventi. Figure di fatti "banali" come eventi scatenanti sì - dice in sostanza Tellenbach - ma prendenti significanza sullo sfondo di una struttura di vita all'insegna della "includenza" e della "rimanenza", categorie fenomenologico-intenzionali (e non, si badi bene, caratterologico-costituzionali) che individuano il Typus Melancolicus. Categorie che rimandano ad una vita difensivamente abitudinaria, "inclusa" in un disegno spaziale di cui ogni nuovo giorno si premura di ricalcare ossessivamente il contorno, e tesa, nel tempo, ad esorcizzare con l'attivismo il rischio di "rimanere indietro" rispetto al proprio senso del dovere, o di "rimanere in debito" rispetto alla disponibilità cordiale e ablativa de "l'altro".
Conclusioni
A cosa serve dunque un atteggiamento fenomenologico in psichiatria? E, venendo al particolare, cosa ci ha insegnato la melancolia, rivisitata come esempio preciso e come modo di funzionamento concreto di codesto atteggiamento? Diverse considerazioni si presentano, alcune sul piano clinico, altre sul piano psicopatologico e metodologico: vediamone alcune nell'ordine.
Sul piano clinico-psicopatologico, l'atteggiamento fenomenologico ci ha consentito di trascendere la descrizione della follia dal caso clinico-empirico ai termini di esistenza alienata. Di questa esistenza noi abbiamo ricordato gli aspetti strutturali generali e impersonali; abbiamo però indicato come l'uso dell'esempio ci consenta di passare da questa generalità ad una forma di soggettività impersonale prima e poi a una precisa forma di soggettività, cioè a dire a quella data soggettività alienata, colta nella sua irripetibile originalità.
Due notazioni in proposito. La prima per dire che questa soggettività irripetibile non scade nell'empiria della cronachistica né polverizza per conseguenza l'universo chimico in una miriade di aneddoti incomparabili l'uno con l'altro, né sussumibili in categorie di senso più generali; ma che rinvia al contrario a strutture di fondo di ampia comprensibilità per fatto della sussunzione dell'aneddotica nell'universo di significanza generale tramite la riduzione eidetica. Il "caso" cioè rimane se stesso ma la sua significanza strutturale lo trascende verso la emblematicità. La seconda considerazione per dire che questa possibilità di attingere l'individualità dell'ammalato è un modo per superare finalmente il muro della impersonalità del caso, della anonimità del tipo che la clinica classico-atomistica non era in grado, per la sua stessa struttura epistemologica, di superare. Anche codesta pratica partiva da una precisa forma di esistenza alienata, da questo-malato-qui-in-carne-ed-ossa, ma doveva spogliarlo della sua soggettività per poter affermare la propria competenza "scientifica" in materia. E una volta compiuto questo movimento di spersonalizzazione, codesta clinica - ottocentesca - per il suo taglio euristico, non effettuava - né poteva farlo - il movimento di ritorno dal tipo a cui arrivava all'individuo da cui era partito, dall'oggetto "scientifico" alla storicità soggettivizzante. Questo ritorno è al contrario possibile all'atteggiamento fenomenologico, gli è anzi connaturato di necessità e molte sono le considerazioni storiche e metodologiche che esso suggerisce; qui una ne ricordiamo per il momento, altre più avanti, quando affronteremo la falsa antinomia tra clinica classica e atteggiamento fenomenologico in psichiatria.
La considerazione da fare è questa: che cioè la riscoperta e lo studio della individualità dell'alienato non è la conquista - come a volte si legge - di un movimento umanitario, ovvero il tributo pagato da clinici colti al loro senso di colpa tardo-positivista e al correlativo bisogno di riparazione del crimine di spersonalizzazione del malato. Queste sono ovviamente sciocchezze sentimentali che poco hanno da vedere con la storia delle idee e della pratica psichiatrica. La riscoperta della individualità alienata è piuttosto il risultato di un movimento storico culturale di cui la fenomenologia - come la psicoanalisi - fa parte e che aiuta a comprendere e a teorizzare; e che, non a caso, e per un altro verso, si caratterizza con la ripresa di interesse e il rilancio dei trattamenti morali di settecentesca memoria, ristrutturati profondamente e ribattezzati, come tutti sanno, col nome moderno di psicoterapie. Cos'è infatti una psicoterapia se non il tentativo di evincere una individualità dal magma infernale dell'istinto? O, se si vuole, e più tecnicamente, di individuare quel codice personale rispetto al quale e solo rispetto al quale i generici messaggi cifrati dell'inconscio patogeno possono acquistare una significanza individuale? Oppure, come diceva Freud, un lavoro per far sì che là dov'era l'inconscio advenga l'io?
Ebbene un lavoro di questo genere avverte questa riduzione del soggetto e "caso clinico" come una prigione e come un limite e solo uscendo da questa prigione e superando tale limite può iniziare davvero il suo lavoro originale che è di riscoperta del soggetto e della sua ricostruzione terapeutica. In altre parole, la psicoterapia del "tipo" "non datur" è contraddizione in termini. Su questa strada la descrizione fenomenologica, applicata al Da-sein heideggeriano, è andata anche oltre la psicoanalisi - stando almeno alle asserzioni di Binswanger e di Cargnello secondo le quali l'uomo che ci dà la psicoanalisi non accede ad una autentica soggettività che rimane pur sempre e in fondo un "homo natura".
Sul piano metodologico, due considerazioni.
La prima riguarda le strutture narrative della clinica, di cui abbiamo tracciato il modo di apparire ad una descrizione fenomenologica. Il senso del nostro discorso è semplice e riviene a confrontare criticamente la psichiatria classica col suo modello medicalista-atomistico di descrizione: modello che essa ha dapprima assolutizzato, il che è già una grossa svista metodologica, ma che poi ha dimenticato di sottoporre a revisione critica, il che è segno di una inadeguatezza culturale che prima o poi si paga. Mentre infatti le strutture narrative evolvevano dal romanzo classico al romanzo proustiano e al nouveau roman, questa clinica - specie in Italia - rimaneva fossilizzata al suo verismo oliano perdendo il treno di quel movimento culturale che superava la psichiatria delle grandi sindromi verso quella delle grandi strutture patologiche. Riprova ne sia che gli italiani, da quel momento, cioè dalla paranoia-atavismo del Tanzi, non hanno più avuto voce né capitolo nel campo psicopatologico.
La pretesa neutralità scientista della struttura narrativa è un mito così come lo è la pretesa neutralità dell'occhio dietro il microscopio. Narrare, come guardare, è sempre collocarsi in una prospettiva, scegliere un taglio, operare una selezione. Ed è inoltre un'attività che si declina al plurale: molti sono i modi di scrittura di uno stesso evento.
Il che riviene a dire che il taglio medicalista delle descrizioni psichiatriche correnti è uno fra i molti possibili - e non l'unico - e che, sul piano terapeutico, rinvia sì e no alla possibilità di un trattamento somatico. L'intenzione di rinviare a un trattamento psicoterapico implica una nuova scrittura di quel caso clinico: cosa che non tutti sono all'altezza di fare e che una ipoteca produttivista ci costringe spesso a far solo per accenni se non ad affidarla alla più facile tradizione orale della clinica, con la perpetrazione di un quotidiano tradimento culturale.
L'ultima notazione infine circa la portata della descrizione fenomenologia in psichiatria, riguarda la presunta antinomia fra questa e l'atteggiamento clinico classico. Non pochi membri della famiglia psichiatrica attuale sono convinti che solo l'odore di monoamine e di stabulario fondino la scientificità della psichiatria così come nell'800 la fondavano l'odor del formolo e quello della sala di dissezione; e che la fenomenologia sarebbe da relegare fra i lussi di psichiatri colti, disoccupati e tutto sommato marginali.
Qualche buona lettura ci consente di uscire da questa apparente antinomia e capire che la descrizione dei segni di una malattia mentale e la descrizione di una esistenza alienata non sono due attività di natura diversa, se non addirittura estranee l'una all'altra, ma sono due diversi atteggiamenti poetici della coscienza, due modi di intenzionare il medesimo oggetto che è e rimane, sia per la clinica che per la fenomenologia, il Da-sein alienato.
Nessuna presunta differenza di natura quindi tra queste due attività - favoleggiando di una psichiatria classica radicata nella solida famiglia delle scienze e di una psichiatria fenomenologica svolazzante nel demi-monde delle "filosofie" - ma solo una differenza di intenzionalità, marcata da gradi diversi di "epoche".
L'oggetto della psichiatria fenomenologica diventa l'oggetto della psichiatria classica quando operiamo almeno due operazioni epochizzanti in quella esistenza folle che è il comune dato di partenza; mettiamo cioè prima fra parentesi il suo lato umano sofferente, e mettiamo poi fra parentesi la sua soggettività, intesa, come ha bene evidenziato Lanteri-Laura, nel senso di storicità soggettivante. Operazione "disumanizzante" - come del resto dicevano gli antipsichiatri - perché per esempio il "dolore morale" del paziente non si pone al clinico come un invito alla compassione, ma come un segno eventuale di melanconia che impone la scelta di una cura appropriata e di adeguate misure antisuicidio; e "destorificante" (altra critica antipsichiatrica) perché le catene di ricordi che egli cerca e seleziona nel racconto anamnestico del paziente non mirano a ricostruire la storia di quella persona nella sua originalità singolare, ma a evincere da questa le figure della naturalità patologica. In altri termini, con queste operazioni epochizzanti, noi compiamo un percorso che parte dalla esistenza individuale alienata per approdare al tipo, operiamo cioè la riduzione dell'individuo all'oggetto della scienza galileiana. Che non è però la sua riduzione al campo trascendente di una mera "naturalità" ma il suo inserimento in un universo di segni, in una struttura trascendentale di significanza. L'ecolalia non è il semplice ripetere l'ultima parola del discorso dell'interlocutore e il termine greco una pedanteria superflua ma è, tramite codesto termine, il sussumere un fatto naturale nell'universo di una conoscenza clinica, che lo inquadra operativamente come catatonia.
Diciamo dunque che costituire l'oggetto della clinica classica significa ridurre l'esistenza folle all'universo segnino della docenza medicaE' la "riduzione eidetica" di una esistenza al senso della medicina, tramite una doppia e drastica operazione di epoche, di messa fra parentesi come abbiamo appena indicato. Ma, compiuta questa operazione, e terminata la descrizione clinica empirica, occorre come ogni praticante di fenomenologia sa bene, togliere le epoche operate all'inizio affinché la conoscenza dell'oggetto possa considerarsi esauriente, liberata da codeste finzioni di temporaneo misconoscimento di certi suoi aspetti, finzioni che altrimenti finiscono con l'invalidarla come parziale, incompleta, gratuitamente reticente e mutila. Fa parte quindi del movimento naturale di una clinica psichiatrica epistemologicamente consapevole e non automutilantesi di risalire dal livello semeiotico-sindromico, a cui è scesa all'inizio come al più elementare della sua descrizione, verso il livello esistenziale, individuale, togliendo la prima epoche e descrivendo le forme impersonali della soggettività e risalire infine, col togliere la seconda epoche, alla forma personale di questa. In altre parole, il movimento di "andata" di spersonalizzazione dell'individuo nel tipo si continua e completa nel movimento di ritorno dal tipo all'individuo: il che non significa scadere dalla descrizione scientifica alla cronaca e al pettegolezzo, ma di individuare come la follia, come la particolare forma di follia di quel paziente, abbia alterato le strutture trascendentali della sua soggettività.
Psichiatria classica e psichiatria fenomenologica non sono quindi due forme di sapere estranee, se non addirittura in contrasto, come alcuni incolti vorrebbero, l'una con l'altra: ma sono due aspetti di una stessa conoscenza la quale, per l'esattezza, è tutta di natura fenomenologica. Un'identità che i termini che abbiamo ereditati e di cui ci siamo serviti - classico / fenomenologico - possono mascherare, creando l'abbaglio del dualismo inesistente.
Da dire anzi che l'espressione "psichiatria fenomenologica" è al piè della lettera impropria, perché non esiste una psichiatria di questo genere da contrapporre - o integrare - con altre eventuali psichiatrie, dalla biologia alla psicodinamica; ma è invece esatto parlare di un atteggiamento fenomenologico che consente di intenzionare "l'oggetto" follia secondo varie angolature di cui quelle ricordate (medicale, psicodinamica, esistenziale,...) non sono che alcune delle infinite possibili.
Da far rilevare infine che la contrapposizione descrizione clinica classica - descrizione fenomenologica non è storicamente esatta. I testi dei classici pullulano di descrizioni fenomenologiche - come mi ricordava Cargnello, citando in particolare Griesinger - e tutti ricordiamo la ricchezza di esempi che ravvivavano i vecchi tratteti, anche se raramente questi esempi trascendevano l'aneddoto verso un significato emblematico - eidetico.
Resta così da sapere come e perché i nostri predecessori dell'800 abbiano voluto contrabbandare queste descrizioni fra le righe del loro dogma medicalista colpendole al tempo stesso di una rimozione metodologica che le poneva in posizione di completamento. Ma questo è un altro discorso per l'esattezza di storia e metodologia della psichiatria.
Crediamo di aver così portato un contributo alla comprensione dell'atteggiamento fenomenologico in psichiatria: un atteggiamento basilare, buona medicina contro pregiudizi e dogmatismi vari (dalla sinapsi all'inconscio patogeno) sul piano metodologico, chiave di accesso alla singolarità individuale dell'ammalato sul piano clinico. Sul piano terapeutico diremo, parafrasando Kant, premessa basilare di ogni psicoterapia che si voglia presentare come scienza.
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1 Usiamo qui il termine in modo generico. Il suo significato rigoroso si trova negli scritti di Roland Barthes e di Vladimir Propp.
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