EMPATIA - Condividere il Mondo |
Sabato 3 maggio si è tenuto ad Urbino, presso il giardino d'inverno, Palazzo Ducale con il patrocinio del Comune di Cagli, della Facoltà Scienze della Formazione dell'Università di Urbino e con la collaborazione dell' Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il primo Seminario Annuale di Psicopatologia e Filosofia, dal titolo "Empatia. Condividere il mondo". Un appuntamento di studio che non resterà un'occasione isolata di incontro ma che si inscrive in un progetto a lungo termine, realizzato grazie alla collaborazione con PiQuadro, Urbino. Cercherò di descrivere brevemente con che cosa i partecipanti hanno potuto arricchire la loro valigia, assistendo e collaborando ai lavori che psichiatri, psicologi, filosofi e scienziati hanno presentato in questa giornata. Parlare di empatia oggi riscuote da un lato molteplici critiche, dall'altro sembra imprescindibile data l'attualità delle ricerche e dei contributi in questo senso. Ma perchè questo opposto favore? Il termine empatia è qualcosa che comunemente tutti mastichiamo, nel suo significato quotidiano dello "stare nei panni dell'altro". In questa accezione si può dire che il termine empatia sia diventato un termine contenitore, essendogli stato attribuito tutto ciò che ha a che fare con l'affiliazione umana, ma anche termine contenuto, posto cioè in ogni disciplina, in ogni campo, in ogni contesto, rendendo saturo in qualche modo il linguaggio e sminuendo ad un atteggiamento partecipe il suo più complesso intreccio di significati. In effetti questa è proprio la definizione basilare di empatia, quella che rappresenta il termine potremmo dire in senso letterale. Ma empatia è anche concetto. Esso, infatti, sembra essere non solo ciò che quotidianamente definiamo "mettersi nei panni altrui", ma rappresentazione concreta dell'esperienza dell'umano incontrarsi, dell'umano comprendersi, dell'umana capacità di condividere. Questa esperienza, così naturale e all'apparenza quotidiana, semplice, è tanto densa di significati, azioni, linguaggi da poter essere difficilmente definita nella sua densità. Proprio qui risiede sia la leggerezza dell'uso del termine e la sua fortunata/sfortunata velocità di diffusione in tutti i campi; sia, la percezione di come una singola espressione non definisca, ma "quotidianizzi", qualcosa di così sfaccettato e, di conseguenza, l'atteggiamento rifiutante di chi mette al bando il termine empatia. L'intento del congresso risulta essere la possibilità di un dibattito aperto, "dialogante", tra varie discipline e soprattutto tra diversi esperti, nel tentativo di riscoprire una definizione condivisa e di arricchire la conoscenza tramite l'intreccio di diverse posizioni, su un tema tanto dibattuto e tanto irrinunciabile per la sua profondità, quale quello dell'empatia. Definire in prima battuta l'oggetto del lavoro di questa giornata è stato compito dell'intervento d'apertura, tenuto da Mario Rossi Monti. Attraverso un breve excursus storico, il relatore ha messo in luce come sia oggi di vitale importanza recuperare ciò che sembra non solo fare da sfondo alla quotidianità dell'incontro con l'altro, ma fornire un saldo punto d'aggancio fra discipline diverse, caratterizzate dell'interesse per l'uomo. Ma si può parlare di basi neurali dell'empatia? Le recenti scoperte riguardo i "neuroni mirror" sembrano proprio lastricare un primo sentiero volto in questa direzione. Di questo si è occupato il lavoro esposto da Giuseppe Di Pellegrino, che ha mirabilmente mostrato come all'interno dello spazio soggettivo, fatto non solo di ineffabile psiche, ma anche di "materia", sia possibile la creazione di un'area intersoggettiva nella quale figurarsi (sia cognitivamente che affettivamente) gli stati altrui e sè stessi come portatori di questi stati. Questo sembra avere grosse implicazioni anche nell'interazione più spicciola, così già come ci ha insegnato l'Infant Research, in particolare nel modulare tramite le reazioni dell'altro e le propria esperienza di queste e i propri stati e le proprie relazioni verso l'altro. Dal punto di vista psicopatologico, le implicazioni dell'empatia o meglio, di forme "altre", alterate o diverse dell'esperienza empatica, sembrano riguardare gli stati psicotici o le forme ad esso più affini quali la personalità schizoide e schizotipica. Cosa succede infatti se l'ontologica qualità del mettersi in relazione e di poter fare "esperienza dell'altro", che appartiene all'essere umano, risulta compromessa? Giovanni Stanghellini ha proposto, a mio avviso, un'interessante ipotesi. Sander e Stern hanno dimostrato esistere normalmente già dalla nascita un'umana competenza alla sintonizzazione e desintonizzazione, o in altre parole, una dialettica tra auto e etero regolazione nelle relazioni. Essendo impossibile mantenere sempre ed in ogni situazione uno stato di regolazione ottimale, inevitabilmente si andrà incontro ad una serie di "rotture", in grado di essere riparate sia dalle competenze del cargiver, sia dalle abilità del bambino stesso. La tesi di Stanghellini applica questi concetti alla condizione psicotica, dove interverrebbe una incapacità di sintonizzazione emotiva o una ipersintonizzazione, che si porrebbe alla base del disturbo dei propri confini o del poter vivere e sentire il mondo. Attingendo alle teorie sanderiane e di Stern, penso che vedendo come ontologica la proprietà di sintonizzazione e desintonizzazione, possiamo anche dar spiegazione di quella tendenza dei soggetti psicotici, così incomiabilmente e accoratamente descritta da Stanghellini tramite le frasi dei suoi stessi pazienti, a voler trovare un modo, un "teorema" per tornare in relazione col mondo e con l'altro, che ha suscitato tanto interesse e domande durante il convegno. Se infatti questa possibilità appartiene all'uomo così profondamente, a qualche livello continua a "bussare" nonostante venga investa (o causi nella rottura di alcuni suoi meccanismi) dalla devastante destrutturazione psicotica. Infine, anche se certamente non per importanza, il contributo di Federico Leoni, ha messo in evidenza due approcci significativi al tema della condivisione del rapporto io-altro in campo filosofico. Infatti, questa questione così ampiamente dibattuta e ancora non risolta, annovera tra i maestri che se ne sono occupati, nomi illustri quali Husserl e Levinas. Nel confronto tra le posizioni dei due autori, Leoni ha messo in luce le domande più complesse e attuali che tratteggiano la fenomenologia dell' intersoggettività. Verranno qui di seguito riportati la presentazione e gli abstract di questi contributi, per introdurre il lettore in maniera sintetica ai lavori del congresso, con le parole degli autori stessi. Laura Corbelli - Università di Urbino
PRESENTAZIONE
Il termine empatia viene comunemente usato per indicare la capacità degli esseri umani di partecipare alle vicende dei propri simili: di sapersi cioè mettere nei panni degli altri immedesimandosi nella loro stessa condizione. Così, avere di fronte una persona che piange la morte di una persona cara, farà sentire ciascuno di noi dentro il suo stesso dolore. Vedere invece una persona che è felice, farà provare una sensazione di felicità analoga a quella che il soggetto esprime. Se è (apparentemente) facile usare della empatia come modo naturale per stare insieme ai nostri simili e per realizzare una reciproca partecipazione alle loro e alle nostre vicende, non è affatto facile cercare di precisare che cosa l'empatia effettivamente sia. Lungi dall'essere un fenomeno semplice, non appena la si voglia indagare, l'empatia si rivela un fenomeno estremamente complesso e dalle variegate sfaccettature. Un fenomeno che, per essere compreso, necessita di molteplici e differenti prospettive. Sotto il grande ombrello di ciò che sbrigativamente chiamiamo empatia rientrano infatti fenomeni molto diversi tra di loro: ad esempio, una madre che guarda negli occhi il suo bambino e capisce immediatamente di che cosa il bambino ha bisogno. Allo stesso modo la facilità con la quale ciascuno di noi capisce che cosa ha in mente l'altro, permette di anticiparne con sorprendente naturalezza le intenzioni, desideri, comportamenti o anche riconoscerne le emozioni. L'empatia in questo contesto fa da sfondo ad ogni relazione umana, nel senso che non si può sviluppare una relazione se non c'è questa intesa di fondo e preliminare. Una persona che non fosse capace di empatia non potrebbe entrare in risonanza con gli altri esseri umani e rimarrebbe quindi tagliata fuori da ogni relazione. In questo senso gravi difetti della empatia sono elementi fondanti alcuni gravi quadri psicopatologici, come ad esempio l'autismo infantile o alcune varietà della schizofrenia. Ancora, quando di fronte ad un quadro, ad una scultura o ad un tempio greco ci sentiamo improvvisamente coinvolti in esso, sentiamo, ad esempio, il senso di peso che la grandiosità del tempio ci comunica, oppure sentiamo nei nostri muscoli la stessa tensione che vediamo nel corpo umano scolpito dall'artista, stiamo vivendo un fenomeno di immersione empatica di qualità estetica. Proprio pensando a questa ultima eventualità Theodore Lipps, alla fine dell'800 scriveva che "il piacere estetico è un godimento della nostra stessa attività in un oggetto". Così come ci possiamo immedesimare nelle persone ci possiamo immedesimare negli oggetti. Anche se l'empatia, in chiave evolutiva, può essere pensata proprio come quella sonda che ci permette di esplorare il mondo, chi e cosa ci sta intorno, per capire se ci troviamo di fronte ad un oggetto inanimato o viceversa ad un oggetto animato, o addirittura ad un nostro simile. A partire da queste varie realtà, nella storia del concetto di empatia si sono susseguite varie fasi: una fase estetica, una fase filosofica ed infine una fase psicoanalitica. Se l'empatia è parte fondante di ogni relazione umana, all'interno del setting psicoanalitico l'empatia è stata pensata come strumento di esplorazione, di conoscenza e soprattutto di cura della mente umana in condizioni di sofferenza mentale. Estetica, filosofia, antropologia, psicologia, psicopatologia, psicoanalisi sono tutte discipline che hanno fatto dell'empatia uno dei loro oggetti di indagine. Ma il dibattito intorno alla natura ed ai vari livelli dell'empatia ha ricevuto uno straordinario impulso dalle recenti scoperte realizzate dal gruppo di ricerca di Parma nell'ambito delle neuroscienze. Rizzolatti e i suoi collaboratori hanno infatti individuato, prima nei primati non umani e poi nell'uomo, un particolare tipo di attività neuronale che potrebbe essere considerata come base neuronale della empatia. Lo studio del cervello, da questo punto di vista, ha condotto a risultati che impongono un ripensamento delle tradizionali concettualizzazioni dell'empatia. Questa giornata di studio, che vede a confronto un filosofo, un neuroscienziato, uno psicopatologo e uno psicoanalista, rappresenta una occasione per fare il punto del dibattito che si è animato intorno alla empatia e alle sue varie declinazioni, nella speranza che una più precisa messa a fuoco del concetto di empatia si traduca in più efficaci strumenti di conoscenza e di cura in ambito clinico e psicopatologico.
L'empatia rappresenta uno dei meccanismi attraverso cui condividiamo l'esperienza degli agenti del nostro ambiente sociale e comprendiamo i loro stati mentali. I correnti modelli neuroscientifici dell'empatia postulano che l'osservazione o immaginazione di un'altra persona in un particolare stato emozionale, motorio o sensoriale attivi automaticamente una rappresentazione neurale corrispondente nell'osservatore (Preston, de Waal, 2002; Gallese, 2003; Decety e Jackson, 2004), creando così uno spazio intersoggettivo di rappresentazioni condivise tra sé e gli altri. Tra le evidenze più interessanti e sorprendenti a sostegno di un codice interpersonale condiviso vi è l'imitazione da parte di neonati di poche ore di espressioni facciali mostrate da adulti (ad esempio, protrusione delle labbra, della lingua, apertura della bocca; Meltzoff & Moore, 1977). L' equivalenza funzionale tra percezione e movimento sembra essere quindi legata da un meccanismo innato, o a sviluppo estremamente precoce. In neuroscienze, la scoperta dei cosiddetti "neuroni mirror" nella corteccia premotoria di scimmia costituisce la prima e più convincente dimostrazione neurofisiologica di un codice condiviso fra se e l'altro. Questi neuroni scaricano sia quando l'animale svolge specifiche azioni dirette ad uno scopo, sia quando osserva le medesime azioni compiute da un altro individuo (Gallese et al., 1996; di Pellegrino et al., 1992; Rizzolatti e Craighero, 2004). Questi studi mostrano che i circuiti neuronali coinvolti nella programmazione dell'azione si sovrappongono ampiamente a quelli attivati nell'osservazione delle azioni altrui (Rizzolatti et al. 1996; Decety et al. 1997; Grèzes et al. 2003; Nishitani and Hari 2000; Johnson-Frey et al. 2003; Buccino et al. 2004). Tale rappresentazione neurale condivisa tra percezione ed azione crea le basi per l'intersoggettività e le interazioni sociali, in quanto fornisce una sorta di legame funzionale tra attività cognitiva in prima persona e quella in terza persona. L'attività risonante dei neuroni mirror potrebbe rappresentare un meccanismo fondamentale per la comprensione delle azioni ed intenzioni altrui (Rizzolatti e Craighero, 2004). é stato proposto che la nostra capacità di comprendere ed empatizzare con le altre persone potrebbe basarsi sull'attività di molteplici sistemi risonanti analoghi al sistema mirror per le azioni (Gallese, 2003). In accordo con queste ipotesi, studi neurofisiologici e di neuroanatomia funzionale nell'uomo hanno dimostrato che gli stessi circuiti neurali alla base dell'esperienza personale del disgusto (Wicker et al., 2003), del tatto (Keyser et al., 2004) o del dolore (Singer et al., 2004; Morrison et al., 2004; Avenanti et al., 2005), sono attivati quando si osserva la stessa emozione o sensazione in altri. Tale rappresentazione neurale condivisa tra percezione di uno stato sensorimotorio o affettivo dell'altro ed esperienza personale del medesimo stato crea le basi per l'intersoggettività e le interazioni sociali, in quanto fornisce una sorta di legame funzionale tra attività cognitiva ed affettiva in prima persona e quella in terza persona. Ci sono pertanto numerosi e diversi supporti empirici all'idea che riusciamo a comprendere
Il mio intervento muoverà da una sintetica ricognizione intorno a due modi fondamentali in cui la fenomenologia ha dato conto, storicamente, del rapporto io-altro. Il primo è quello caratteristico di Edmund Husserl, che nelle Meditazioni cartesiane batte una via che potremmo definire "analogica". L'altro è un "altro io", in questa prospettiva, un altro me stesso, a cui attribuisco intenzioni e stati d'animo in analogia, appunto, con ciò che apprendo per via diretta dal mio vissuto personale. Il secondo modo, quello di Emmanuel Levinas, batte una via che potremmo chiamare "eterologica", e che per tanti versi nasce da una reazione alla posizione di Husserl. L'altro non è mai un "altro io", un io ricavato a partire da me stesso come una sua variazione o declinazione; un simile "altro" analogico sarebbe un falso altro, pensa in sostanza Levinas; sarebbe una proiezione dell'io incapace di rendere giustizia all'altro nella sua alterità (ma, tutt'al più, all'altro nella sua somiglianza con l'io). L'altro che rende giustizia alla sua alterità, pensa Levinas, dev'essere non un "altro io", ma un "tutt'altro" dall'io. Fin qui l'esposizione "storiografica" delle due posizioni in campo. Esposizione che esige, evidentemente, un supplemento d'indagine. Non è infatti evidente che il fenomeno dell'incontro è, in entrambi i casi, ciò di cui l'analisi fenomenologica rischia di non poter dare conto? Nel primo caso (Husserl) io incontro infatti non l'altro, ma un altro me stesso; mi incontro per interposta persona, per dire così; ed è ciò che Levinas obiettava in sostanza a Husserl. Nel secondo caso (Levinas), questa prima obiezione viene risolta solo per dare luogo a un'altra difficoltà, non meno grave. Incontrando il "tutt'altro", incontro infatti qualcosa di così radicalmente altro, da non poterne avere alcuna esperienza, nella misura in cui fare esperienza significa sempre e per definizione conferire significati, e i significati mostrano sempre e per definizione, in ciò che incontro, ciò che ho già incontrato, nel nuovo il vecchio, nella singolarità l'universale, nel concreto l'astratto. Levinas salva l'altro al prezzo di rendere impossibile l'incontro, laddove Husserl aveva salvato la possibilità dell'incontro al prezzo dell'alterità dell'altro. Ci troviamo così di fronte all'impasse di un incontro mancato. Mancato per motivi opposti, ma anche curiosamente e non casualmente simmetrici. In Levinas, l'altro è troppo altro perché se ne dia esperienza possibile "per me". In Husserl, l'altro è troppo poco altro perché possa darsi qualcosa d'altro da un'esperienza che va sempre e soltanto "da me a me". Come uscire dall'impasse? Come immaginare un incontro o un pensiero dell'incontro (dunque dell'empatia, dell'intersoggettività, ma anche della comprensione, dell'ermeneutica, ecc.) che non metta capo alla pura e semplice elisione dell'io come tale
Il mio obiettivo principale è stabilire un dialogo coerente tra psicopatologia e filosofia sul tema della vulnerabilità alla schizofrenia. La psicopatologia, in quanto scienza del comprendere, non può prescindere dal sapere filosofico, da quel corpus di analisi delle aporie indigene alla conditio humana che si è andato strutturando in secoli di pensiero umano. Le varie forme della follia incarnano queste aporie. Comprendere queste aporie, e renderle comprensibili a coloro che in esse si dibattono, equivale a curarle. La filosofia è, in tal senso, il fondamento della terapeutica dell'anima. D'altra parte, la filosofia in quanto ricerca sui modi in cui l'Uomo conosce e dà senso alla propria esistenza, non può prescindere dalla psicopatologia, cioè dalla conoscenza dei modi concreti in cui gli uomini si smarriscono lungo il loro percorso di ricerca del senso e della conoscenza. L'esperienza della follia rivela le anomalie normalmente celate nell'esperienza quotidiana; la psicopatologia e la filosofia insieme rintracciano il senso di queste anomalie quando esse si manifestano palesemente lungo i percorsi dell'esistenza umana. La nozione di senso comune rappresenta il chiasmo filosofico-psicopatologico di questa ricerca. Il problema che in esso si pone è quello dei rapporti tra le anomalie del sé fenomenico e del sé sociale nella condizione schizofrenica, o detto altrimenti tra coscienza di sé e coscienza sociale, o tra corporeità e intercorporeità. Per formulare una comprensione della condizione schizofrenica che stia in piedi è necessario tenere un piede ben saldo nelle anomalie della coscienza di sé, e poggiare l'altro sulle anomalie dell'intersoggettività. La teoria di Aristotele della koiné aisthesis (senso comune) fornisce una solida base filosofica per la comprensione delle modificazioni del sé fenomenico e del sé sociale nella condizione schizofrenica. La mia proposta consiste nel suggerire che coscienza di sé e coscienza sociale sono due facce del medesimo fenomeno fondamentale che Aristotele chiama koiné aisthesis. La koiné aisthesis non risulta essere soltanto la coscienza di sé pre-riflessiva (il sentimento implicito di essere incarnato, in contatto con se stesso); ma anche la base per la percezione integrata del mondo fisico e di conseguenza anche la base per la comprensione dei comportamenti altrui. Infatti, le integrazioni senso-sensoriale e senso-motoria rappresentano il substrato del fenomeno della sintonizzazione emotiva, che è il prerequisito per la comparsa di forme compiute di intersoggettività. Da ciò discende che le anomalie della coscienza di sé pre-riflessiva implicano l'inadeguata costituzione del fenomeno della sintonizzazione. Un corpo deanimato è incapace di sintonizzazione intercorporea, e in assenza di questa le altre persone sono a loro volta corpi deanimati automi che si comportano in maniera incomprensibile. Anomalie della corporeità implicano anomalie dell'intercorporeità. D'altra parte, anche le anomalie precoci dell'intersoggettività implicano disturbi nella coscienza sensoriale di sé e, globalmente, della cenestesi dunque fenomeni di depersonalizzazione auto- e somato-psichica.
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