A proposito di "limiti", ricordo che qui a Reggio nel 1904, Tanzi, scrivendo di paranoia, un disturbo, per definizione, non critico, metteva un limite al trattamento, consigliando di non ricorrere al ricovero. Nelle sue argomentazioni sosteneva che la paranoia non fosse una vera malattia, ma una anomalia intellettuale, e pertanto un ricovero poteva solo aggravarla. L'utilità era accresciuta dall'enorme distanza che separa il paranoico dagli altri malati, e se lo psichiatra non lo avesse capito si sarebbe posto "al di sotto del paranoico". Tanzi dava non solo una indicazione pratica sulla convenienza di un provvedimento così grave, ma riconosceva la dignità del paranoico malato, cui era conveniente perfino insegnare, a "titolo amichevole", il ricorso alla dissimulazione, pur di evitare inconvenienti e ricoveri.
La paranoia è ben lontana dalla crisi psicotica acuta, di cui uno dei prototipi è la bouffée delirante, che Magnan (1895) ha descritto per primo con questo incipit: "Un delirio primario, multiplo, polimorfo, talora di breve, talora di lunga durata, ma senza una marcia evolutiva determinata. La gran parte di questi deliri hanno per caratteristica principale di apparire bruscamente, senza alcuna preparazione, nel mezzo della calma più perfetta.". Prototipo che si è conservato nella psichiatria francese, riproposto da Pichot (1992), nel solco tracciato da Henry Ey (1954). In Italia sono da citare vari contributi: Rossi e Sacco del 1964, di Giannelli nel 1965 e uno personale (Gozzetti, Vendrame, 1967), nei quali si sosteneva come la bouffée delirante rappresentasse la psicosi acuta, differenziabile entro certi limiti dalla schizofrenia, avvicinabile ai criteri diagnostici dei DSM-III e IV per la psicosi reattiva lieve e per il disturbo schizofreniforme, che racchiude in sé elementi vistosi della serie affettiva e coincidente con le psicosi cicloidi di Leonhard (1963). Un recente brillante lavoro di Lago e Martelletti (2000) riprende tematiche e differenziazioni con la schizofrenia acuta, ispirate al pensiero di Barison. La sindrome psicotica acuta e transitoria o bouffée delirante è stata accolta dal recente ICD-10. Nella letteratura italiana, a parte i lavori citati, da sempre si è insistito su di una presenza dell'alterazione di coscienza che in passato aveva tentato di ancorarsi all'organo-dinamismo di Henry Ey equivocando tra alterazione di coscienza come livello teorico di destrutturazione del campo e vero dato semeiologico. Cappellari (1999), con la descrizione di interventi non solo assistenziali ma anche psicoterapici nei casi di bouffée delirante, penso abbia dato un parere definitivo sulla lucidità di coscienza di queste e altre psicosi acute. Va ricordato che l'obnubilamento di coscienza si può aggiungere ad ogni disturbo acuto, laddove il digiuno protratto e le condizioni di cura favoriscano disidratazione o altro. Wyrsch, sempre nel 1949, rilevava una mortalità elevata nei pazienti acuti sottoposti ad isolamento in cella.
Un'altra fonte di equivoci potrebbe essere il bisogno di certezza degli psichiatri con interessi medico-legali, che spesso prediligono una continua attualizzazione della antica psichiatria "alla Wernike" della motilità e quindi della agitazione e dell'impulso, di ciò che sarebbe automatico e non coscienziale, secondo un mito - assolutizzazione dell'intendere e volere Ð ben lontano dall'andare in disuso.
Per la protezione del malato si può ritenere che ogni volta che si presenta un disturbo di coscienza, occorra il ricovero, mentre le valutazioni potrebbero essere più varie nei turbamenti lucidi.
Un trattamento di un paziente in crisi psicotica abbisogna di una relazione personale con un terapeuta, e contemporaneamente di un gruppo (una équipe o meglio miniéquipe) curante. Distinguo due fattori:
¤ Il primo fattore, simile a quello della psicoanalisi classica, riguarda il quadro di riferimento interno o setting: le regole che presiedono alla comunicazione tra terapista e paziente come tempo, ritmo, astinenza, ecc.;
¤ Il secondo fattore comprende il quadro di riferimento esterno: una équipe curante, uno psichiatra che si occupi eventualmente della terapia farmacologica, del necessario sostegno alla famiglia, ecc. La gran parte dei fallimenti iniziali è imputabile alla trascuratezza nello stabilire un quadro di riferimento esterno.
Nella pratica, si può ricorrere ad un Servizio di diagnosi e cura, almeno nella fase iniziale, o/e ad un Ospedale di giorno, o ad una comunità terapeutica e in qualche caso ad una struttura privata, penso all'Ospedale S.Giuliana di Verona, nel periodo di conduzione di Ferlini e di consulenza come supervisore di Resnik, se è assicurata la necessaria formazione e dato un sostegno permanente al gruppo di lavoro.
Buona parte del lavoro terapeutico in un ricovero o in un accoglimento in Ospedale di giorno, centro diurno o comunità riguarda, in un primo tempo, il contorno o la cornice, più che i contenuti dell'incontro terapeutico.
La dimensione osservativa viene assicurata in questi spazi, specialmente in momenti privilegiati come le riunioni del gruppo di lavoro e la supervisione. In tal modo, per dirla con Resnik, si costituisce una vera e propria bottega psichiatrico-psicoanalitica dove il paziente è osservabile con tutti i nostri sensi. Trasportato dallo spazio dell'incontro duale a quello di gruppo è investito ed esplorato da diversi modi di sentire e teorizzare "sotto lo sguardo prospettico di tutti, in altre parole secondo i punti di vista degli spettatori" (Resnik, comunicazione in gruppo). La condizione osservativa può animarsi, se lo spazio è reso sicuro e tollerante nei riguardi dei comportamenti dei pazienti e specialmente delle eventuali crisi.
La crisi fa sempre paura perché, ritengo, ognuno ha un contatto intenso, seppur inconscio, con un proprio sistema delirante interno o nucleo psicotico; si ha paura che venga fuori quello che non vogliamo sapere di noi.
Una istituzione psichiatrica, come ambiente umano, può allargare la propria spazialità fino a farsi spazio-vissuto secondo un concetto proveniente dalla fenomenologia di Minkowski (1933), elaborato poi, in senso microsociologico, da Woodbury (1966), che ha lavorato dapprima a Washington e poi in Svizzera a Prangins assieme a Racamier. Occorre che l'istituzione si strutturi o meglio si lasci permeare da una mentalità ed una cultura comuni, tale da realizzarsi come una matrice-madre (concetto ispirato alla matrice di base di Foulkes): un modo di intendersi dei membri dell'équipe, che crei un maternage, una tolleranza, una capacità di assorbire le proiezioni del paziente. La funzione materna non basta, c'è bisogno di una funzione paterna, di un ordinamento, di uno scopo comune che in genere è additato dal leader o da un gruppo-leader.
Il pericolo più grave di restringimento dello spazio, di creare un rapporto claustrofobico per il paziente, avviene quando le proiezioni che il paziente emana verso l'équipe e che questa non riesce a filtrare, gli sono rimandate indietro, facendogliele reintroiettare a forza attraverso qualcosa che, anche se non è tecnicamente un insulto, diventa un rinfacciare il comportamento delirante. Il problema dello spazio è quello di poter riuscire (e dipende dalla sanità mentale degli operatori) ad assorbire le proiezioni deliranti. Per questo spazio della struttura psichiatrica è più di uno spazio di formazione che uno spazio architettonico.
La situazione di reintroiezione violenta, cioè la situazione di mettere violentemente un paziente di fronte al proprio comportamento pazzesco, assomiglia (queste sono le cose che ha additato Bion in maniera illuminante) alla situazione di una madre che di fronte al pianto del bambino, invece di accoglierlo, di filtrarlo e di dare un senso al pianto stesso, si arrabbia e si chiude costantemente. Dice Bion che di fronte ad un comportamento di questo tipo il bambino, e lo stesso vale per la persona psicotica nella struttura di accoglienza, vive una situazione di morte, di terrore senza nome. Si corre il pericolo di dare una restrizione così acuta e soffocante dello spazio-vissuto del paziente da indurlo a perdere ogni speranza nella guarigione, di essere così intolleranti da dare al paziente la sensazione che oramai per lui non c'è più nessuna speranza di venirne fuori.
Espongo un caso, nel quale non vi sono da parte dell'équipe intenzionalità restrittive, ma è lo stesso atto volontario di ricoverarsi che pone il paziente di fronte alla sua follia.
Filippo un calzolaio di anni 40, che ha alle spalle molti anni di ricoveri, da quando è aperto il Servizio, entra ogni tanto per scompensi psicotici, in queste occasioni ha deliri di grandezza, si sente al centro di attività spirituali e miracolose. Nei periodi di crisi, durante i ricoveri, riempie fogli e fogli con disegni di scarpe che regala con degnazione ai curanti. Una volta, durante un ricovero, ebbe questo strano comportamento: attirava i colombi sul davanzale con mollica di pane, poi li afferrava con i denti mozzando loro il capo e succhiando un po' di sangue dal collo; nonostante la costernazione e l'intervento di tutti riesce a sacrificare alcuni animali al giorno per tre o quattro giorni.
Livelli così intensi dell'azione delirante sembrano racchiudere il paziente entro un cerchio onirico. Superato il duro impatto con la drammaticità cruenta, si sono tentate nella riunione di èquipe, delle ipotesi semeiologico-psicoanalitiche (ispirate a Bion) che hanno portato una significazione, seppur arbitraria, laddove si sarebbe parlato solo di una stranezza incomprensibile. Vediamo una ricostruzione: il paziente accolto per uno scompenso psicotico, si mette a far circolare quei tentativi di realizzazioni che sono i disegni di scarpe, che entro certi limiti rappresentano una attività bugiarda, come i deliri, perché gli permettono di conservare un atteggiamento di negazione e potente superiorità, anche se, nello stesso tempo, possono considerarsi tracce di una attività precedente e tentativi di conservare una identità legata al mestiere: un doppio registro bivalente che sempre si osserva nella psicosi di tipo schizofrenico. Il ricovero, che lui stesso ha chiesto, lo rimanda ad un incontro coi curanti e con la verità relazionale ed interna della follia. Il ricovero volontario in un paziente così regredito, con il Sé frammentato e dislocato in parti entro i curanti ed i familiari, rappresenta il frutto di una decisione gruppale altrui, gruppo cui il paziente ha inconsciamente delegato le sue funzioni. Ma il reparto è un luogo scomodo di accoglimento della follia, sentito spesso meno accogliente, di quanto lo possa già essere per la scarsa e povera ricezione ospedaliera. Nel reparto, per la interazione coi curanti (e l'azione dei farmaci), egli sente che deve tentare di incontrarsi con la follia, non bastano gli inganni della pseudocreatività. Queste parti di cui si è sbarazzato o pensieri veritieri ritornano per rientrare verso di lui e divengono persecutori, tanto che egli, agendo solo in concreto nel registro psicotico, se ne sbarazza eliminandoli.
Queste difficoltà di incontrarsi con la verità della follia può riguardare l'intera équipe curante. Molto forte è sempre la tentazione di evadere e accettare le bugie, impostando un dialogo sulla malafede (v. Sartre, 1943). Anche in questo comportamento al limite sono da considerare alcuni fattori integrativi latenti, perché non solo, egli, si sbarazza degli uccelli, ma se ne nutre. In questo modo grottesco tenta di agire un disperato tentativo di mettersi in contatto con una certa concepibilità, con una embrionale capacità di pensare. Così una storia interpretativa, arbitraria almeno in parte, può dare senso e placare il raccapriccio e l'orrore di tutti. Qui non si tratta di una interpretazione o costruzione da dare al paziente, ma da comunicare al gruppo. Molto di ciò che si fa nell'istituzione, nel senso della clinica psicoanalitica, tende a preservare una atmosfera piuttosto che ad interpretare.
Come diceva Barison (1998), l'attenzione va rivolta sempre, come nella migliore tradizione ermeneutica sia psicoanalitica che fenomenologica, alle zone marginali, all'inapparente, al disvelarsi-nascondersi dell'essere, come direbbe Heidegger, così ben simbolizzato nella radura nel bosco. Non c'è solo l'inapparente, ma anche lo sconosciuto; alle volte sembra molto evidente e di fronte a tutti, come nel racconto di Poe "La lettera rubata", che costituì l'oggetto di una disamina da parte di Lacan. La visibilità dell'inconscio (Resnik), andrebbe sempre riconosciuta, e per questo necessita un supervisore, perché, quando comincia ad essere avvertita, risulta ovvia e banale con uno spostamento nel quotidiano che ne ostacola lo svelamento.
Il primo incontro del paziente psichiatrico col Servizio di diagnosi e cura è un momento cruciale, così cruciale che in quel momento lui può ricevere dai curanti ed introiettare un modello rigido, nosografico della malattia, e questo modello diventare per lui il punto di riferimento di tutta la sua carriera psichiatrica.
Occorre una filosofia bene assimilata della cura. Si è imparato da Resnik di non conformarsi mai ad un teoretico, facilmente comprensibile, modello, né a tagli scientifici freddi, ma di ricordarsi sempre di essere in presenza di una persona. La persona non è un "oggetto", come psicoanaliticamente si dice per contrapporlo al "soggetto", ma è innanzitutto una nozione globale, non è mai riconducibile ad una istanza psichica come Io,Super-Io, né, in un altro versante, ad astrazioni biologiche come la prevalenza o il gioco dei neurotrasmettitori, ma è carne, sangue, sudore, vita. Personalmente sento quanto mi aiuta il concetto di persona, per tutto quello che mi evoca, dal romano avere una persona come uno stato di diritto, al cristiano essere persona, che fa dire a Marcel Mauss (1950) che "sono stati i cristiani a fare della persona morale una entità metafisica, dopo averne avvertita la forza religiosa. La nostra nozione di persona umana è ancora fondamentalmente la nozione cristiana".
Per Tommaso d'Aquino "ogni nome attinente alle Persone significa una relazione", persona-relazione passò dalla teologia trinitaria alla Persona in Generale. Anche nel senso comune, la Persona è, secondo S. Tommaso, distinzione e relazione. Persona è dunque individualità e relazione, irripetibilità e continuità e ciò che rimane anche in quel disturbo della persona che chiamiamo schizofrenia: essere riconosciuto come persona individuale e l'essere insieme sono i cardini di ogni idea di trattamento.
Resnik con Antonetti e Ficacci (1982) ha affrontato il tema del farsi, del fondarsi dell'incontro e lo ha svolto come semeiologia dell'incontro, accentuandone non solo l'aspetto ermeneutico, ma anche la tensione dinamica. Nella semeiologia, come Resnik sostiene, l'osservazione si fonda sull'arbitrarietà, nel senso che ognuno, secondo la propria natura, la propria storia personale, la propria capacità e concezione del mondo e del corpo, privilegerà alcuni fatti sugli altri. Scrive (1989): "La psicoanalisi è una ermeneutica che ha per scopo di scoprire con prudenza l'intimità dell'essere. Lo psicoanalista che contempla l'altro in un contesto individuale e gruppale è nello stesso tempo contemplato. Il transfert è una esperienza che si basa sulla reciprocità affettiva tra due mondi, quello del paziente o gruppo-paziente e quello dell'analista. Ciascuna delle parti in movimento appartiene ad un sistema culturale dato, per cui si ha un confronto di culture diverse. In questo senso ogni fenomeno di transfert ha una dimensione transculturale".
L'incontro psicoterapico non ha in sé una iniziale spontaneità. Occorre diffidare di una mistica della spontaneità, perché spesso l'incontro si realizza con uno sforzo indirizzato ad evitare lo scontro (Resnik et al., 1982), e non può essere il frutto di una idealizzazione, che come tale è solipsistica e al servizio della grandiosità narcisistica, che produce solo uno pseudo-incontro. "Nell'incontro [psicoanalitico] vissuto c'è simpatia, antipatia, empatia; cioè vita, pathos, esperienza, possibilità. Occorre sviluppare la capacità di tollerare l'antipatia, assumendo l'effetto che la presenza dell'uno induce nell'altro. Se non c'è tutto questo, l'incontro è già morto in partenza, senza vita" (Resnik, 1982). Una puntuale trattazione del primo incontro in una situazione curante la si deve ad A. M. Ferruta.
Ho parlato di persona e non posso dimenticare che l'incontro ha sempre un significato etico e presuppone una certa idea dell'uomo. Maldiney (1997), il filosofo di Lione, insegna che psichiatria e psicoanalisi non possono sottrarsi alla domanda: che cosa è l'uomo? L'attitudine nei riguardi del malato informa la situazione terapeutica, "questa attitudine non è nient'altro che un certo modo di essere, precisamente un modo di ex-sistere o di non ex-sistere, nei riguardi dell'altro". L'uscita fuori espressa dal prefisso ex, è per Resnik un tutt'uno col pro-gettarsi, se pro-jeter, affrontare la propria claustrofilia, riconoscere l'alterità: l'altro che ti interpella. Ancora Maldiney: "Quando l'altro da me, al quale mi rivolgo, mi interpella a sua volta con la parola o col mutismo, c'è in questi modi di espressione qualcosa che mi chiama fin dentro i miei propri confiniÉ E' proprio per questo che lo psichiatra o lo psicoanalista è tentato e tenta di sottrarsi alla prova trasferendola nell'oggettivo, dove comandano i concetti, dove farne occasione di un gioco patetico, senza prendere su di sé il momento patetico, vero".
Fare un gioco patetico è cosa ben diversa dal mettersi in gioco, nel senso di dover sperimentare, nel clima della coesistenza, l'attaccamento, l'impotenza e il bisogno dell'altro e specialmente la previsione di un lungo tempo di disponibilità che questa persona risvegliata, uscita dalla glaciazione (Resnik, 1999) e dall'immersione farmacologica (Searles, 1979), continuerà a chiederci, magari solo ogni tanto per tutta la sua vita, per tutta la nostra vita. Un risveglio che fa paura per l'attaccamento che si annuncia fin dalle prime battute. Questo è il limite pesante per chi si imbarca nell'avventura terapeutica con la psicosi.
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