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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Schizofrenia: oltre le dicotomie

di Mario Rossi Monti e Giovanni Stanghellini


Quella che segue è la Introduzione al volume Psicopatologia della Schizofrenia. Prospettive metodologiche e cliniche (Raffaello Cortina Editore Milano,1999 - http://www.raffaellocortina.it/) curato da Giovanni Stanghellini e da me. Sono molto grato a Raffaello Cortina per avere acconsentito alla riproduzione ed alla diffusione di questo testo.

Il volume si propone di fare il punto sul contributo della psicopatologia fenomenologica alla individuazione e comprensione dei più importanti nodi della psicopatologia della schizofrenia. I principali temi trattati sono: Wahnstimmung, delirio, esperienza allucinatoria, disturbi del linguaggio, trasformazioni del vissuto corporeo, autismo, sintomi negativi, dissociazione, vulnerabilità e sintomi base, disturbi dei confini dell'Io ed altri. Gli autori: Andrea Carlo Ballerini, Arnaldo Ballerini, Gaetano Benedetti e Maurizio Peciccia, Peter Berner, Eugenio Borgna, Bruno Callieri, John Cutting, Luciano Del Pistoia e Giuseppe Lamberti Zanardi, Joachim Klosterkoetter, Carlo Maggini, Clara Muscatello, Josef Parnas, Louis Sass.

Nella Introduzione ci siamo proposti di rivistare il concetto di schizofrenia, cercando di andare al di là di una serie di dicotomie che hanno caratterizzato questa entità fin dalla sua origine. Il concetto di percorso psicopatologico, che si articola anche tra le classiche sotto-sindromi nelle quali la schizofrenia è stata divisa, fa da asse portante di questo discorso che si lascia alle spalle il mito di sintomi di per sé patognomonici e una immagine della schizofrenia basata sul primato dei tradizionali organizzatori nosografici. Il problema della "anomalia" schizofrenica è tornato da qualche tempo al centro della attenzione ed è stato anche recentemente ripreso da un Editoriale della Rivista Sperimentale di Freniatria (vol. CXXIVC, 1, marzo 2000) scritto da Mario Maj.

Mario Rossi Monti



Schizofrenia: oltre le dicotomie

di Mario Rossi Monti e Giovanni Stanghellini


1. Che cosa chiamiamo schizofrenia?

Questa introduzione nasce dal tentativo di mettere in discussione e dialettizzare una serie di dicotomie che trovano il loro fondamento in una dicotomia originaria: la contrapposizione tra il pensiero di Eugen Bleuler (1911) e di Kurt Schneider (1959), i due padri della psicopatologia della schizofrenia. All'alba del '900 la psichiatria trova come cospicua ma impegnativa eredità del secolo precedente la nozione di dementia praecox forgiata da Emil Kraepelin sulla base del presupposto teorico di una sostanziale unitarietà nell'esito di diverse sindromi psichiatriche precedentemente considerate come entità a se stanti. Questo presupposto teorico, in quest'ultimo scorcio di secolo, si è dimostrato del tutto infondato, conseguenza di un artefatto e per certi versi anche arbitrario (Boyle,1990). L'operazione kraepeliniana, consistita nell'individuare elementi a comune fra l'ebefrenia descritta da Haecker, la catatonia descritta da Kahlbaum e la dementia paranoides descritta da Morel (1860 vedi Berner), aveva individuato il carattere unificante nella prognosi infausta demenziale osservata nei pazienti ricoverati in ospedale psichiatrico. Questa creatura, forse una vera e propria chimera mitologica, con la quale la psichiatria del XX secolo ha dovuto e continua a fare i conti, si è in seguito rivelata il frutto di un parto quantomeno distocico e di un maternage perverso che ebbero luogo nella gelida penombra del claustrum manicomiale. Ed infatti, a porte aperte, in primo luogo gli studi longitudinali sulle sindromi schizofreniche hanno ampiamente dimostrato la eterogeneità dei decorsi e degli esiti di tali sindromi; in secondo luogo sono state più volte stigmatizzate le caratteristiche di artefatto istituzionale insite nell'esito deficitario delle sindromi schizofreniche stesse.
Il problema è che una volta formatosi questo agglomerato, questa <<sindrome di sindromi>>, nessuno si è più potuto sottrarre al compito di studiarne le caratteristiche e di definirne gli elementi unificanti e i criteri di delimitazione diagnostica. Da Bleuler a Schneider questa operazione percorre la storia della psichiatria del XX secolo e l'itinerario scientifico viene sempre più a somigliare ad un viaggio in un vagone piombato. Mutano i criteri ma resta intatta la presupposizione di unitarietà. Le cautele bleuleriane, vale a dire l'insistenza sul concetto di gruppo delle schizofrenie e quelle schneideriane, vale a dire la clausola epistemologica secondo la quale quella di schizofrenia altro non è che una quasi-diagnosi, non sono certo valse ad attutire l'impatto tendenzialmente essenzialista del concetto di schizofrenia.
Perchè dunque una monografia che raccoglie i contributi dei principali autori contemporanei in tema di schizofrenia se così tanti dubbi si possono avere sulla legittimità dell'uso di questo concetto? Perchè un psicopatologia della schizofrenia? Perchè conservare questo termine <<schizofrenia>> che ha dato luogo ad interpretazioni così contraddittorie? Evidentemente coloro che hanno accettato di partecipare a questo volume, e noi per primi, ritengono che questa nozione, che è stata di volta in volta presentata come un monolite oppure lacerata da troppe dicotomie, conservi ancora una sua validità. Il concetto di schizofrenia riesce a mantenere una sua stabilità soltanto a patto di applicare degli organizzatori nosografici forti, come da esempio la demenzialità o la prognosi infausta oppure anche concetti nati sul terreno psicopatologico e successivamente esportati per un fine nosografico, come la dissociazione (1) e i sintomi di primo rango. Ma è proprio questa stabilità tetragona che ci appare come una moneta fuori corso.
Si può intanto cercare di definire che cosa non serve più; le monete fuori corso appunto. Quali sono i concetti che non hanno più diritto di asilo nel costrutto di schizofrenia? La schizofrenia non è una malattia cronica con esito necessariamente infausto, non è una demenza nel senso che non è semplicemente l'espressione di un minus cognitivo, non è identificabile con una sindrome caratterizzata da fenomeni produttivi, non implica necessariamente una dissociazione del corso del pensiero o una dissociazione ideo-affettiva. Esistono pazienti schizofrenici che sono identificabili tramite questi organizzatori concettuali, ma questi organizzatori non colgono un fenomeno diacronicamente costante nei percorsi psicopatologici dei pazienti che definiremmo schizofrenici; ne mettono piuttosto in risalto soltanto un aspetto emergente in un dato momento.
Perchè allora non risolversi ad un ritorno in epoca pre-kraepeliniana - prima della nascita del concetto di dementia praecox come federazione di stati in precedenza nosograficamente autonomi? Perchè non riferirci separatamente ai costrutti clinici di ebefrenia, sindrome paranoide e catatonia, magari aggiungendo il concetto di schizofrenia simplex di impostazione bleuleriana? Tenuto conto che delle quattro forme di schizofrenia tradizionalmente descritte solo tre sono sopravvissute (laddove infatti la forma catatonica appare un esemplare raro in via di estinzione), il motivo per cui la nozione unitaria di schizofrenia non ci appare come un fossile al quale si può serenamente rinunciare consiste nel fatto che nei percorsi psicopatologici di non pochi dei nostri pazienti vediamo susseguirsi e talvolta intrecciarsi aspetti salienti delle tre sindromi: ebefrenica, paranoide e simplex. Del resto è stato rilevata empiricamente la non stabilità nel tempo della diagnosi di sindrome positiva e sindrome negativa. Come sottolinea Maggini (2), solo nelle fasi precoci della malattia può essere rilevato un decorso monomorfo e una stabilità dei sottotipi positivo e negativo; successivamente questa stabilità viene meno e dopo cinque anni non si rilevano più sottotipi puri (Häfner,Maurer,1991; Maurer,Häfner,1991).
Se non abbiamo alcuna base legittima per ritenere che queste tre sindromi siano accomunate dagli esiti (come vorrebbe la vulgata kraepeliniana), abbiamo invece validi motivi per ritenere che queste tre sindromi (o la loro ridefinizione parzialmente ad esse sovrapponibili: sindrome negativa, positiva e disorganizzata) siano dei vasi comunicanti nel contesto delle storie cliniche ed esistenziali dei nostri pazienti (Carpenter,Stephens,1979; Pfohl,Winokur,1983; Amador,Gorman, 1998). Aldilà delle dicotomie nosografiche (schizofrenia positiva versus schizofrenia negativa) e aldilà delle concettualizzazioni forti della sindrome schizofrenia (tipo: la schizofrenia è una psicosi dissociativa, oppure è una sindrome caratterizzata da sintomi produttivi) ciò che si osserva nella clinica è la dialettica tra negatività e positività in senso patogenetico o tra fasi disorganizzate e fasi produttive in senso diacronico. Detto in breve più che di una nosografia della schizofrenia abbiamo bisogno di una sua nosodromia della schizofrenia.


2. Criteri diagnostici o modelli patogenetici?

Se vogliamo ancora avvalerci del concetto di schizofrenia è necessario mettere da parte la domanda <<che cosa è la schizofrenia?>> e più modestamente cercare di rispondere alla domanda <<che cosa chiamiamo schizofrenia?>>. Due sono i modelli in gioco: il modello diagnostico-pragmatico alla Schneider ed il modello teoretico-patogenetico alla Bleuler. Il dibattito, verso la fine del XX secolo, è ancora tra la posizione di Bleuler ed i suoi sviluppi e quella di Schneider ed i suoi sviluppi. Sulla posizione bleuleriana si allineano la Scuola di Bonn (3) e la Scuola di Vienna (4.) Sulla posizione schneideriana, sia detto con le dovute cautele, si allineano i principali sistemi diagnostici operazionalizzati angloassassoni. Il nostro intento è quello di provare ad inquadrare il problema della schizofrenia mettendo in risonanza dialettica queste due posizioni - tenendo cioè conto della definizione dei fenomeni primari (basici e relativamente aspecifici) e delle manifestazioni compiutamente psicotiche (finali e relativamente specifiche). In tal senso un significativo progresso rispetto al considerare l'eredità bleuleriana e quella schneideriana come dissociate e non comunicanti tra loro è rappresentato dal vedere i sintomi di primo rango, come ad esempio la percezione delirante, non come fenomeni tutto o nulla, assenti o presenti, ma come il polo di un continuum lungo il quale la persona può muoversi in due sensi. Questa concezione del rapporto tra fenomeni psicotici conclamati e fenomeni base (o meno psicotici) si articola su due piani: sul piano fenomenico-descrittivo e su quello dinamico-patogenetico. Sul primo, l'idea guida è che la percezione delirante costituisca un prototipo lungo un continuum di fenomeni che gli assomigliano più che corrispondergli (Köhler,1979). E' questo il caso dei fenomeni deliranti meno specifici e meno psicotici (meno incomprensibili) siti in rapporto di contiguità con la percezione delirante stessa - vale a dire l'intuizione delirante e la nozione delirante evocata. Sul piano dinamico-patogenetico la percezione delirante è solo il fenomeno finale di un continuum di fenomeni patogeneticamente intermedi lungo il quale ogni paziente si sposta come un cursore e non l'esito finale diretto di una noxa patogena. Si parla a questo proposito di sequenze di transizione (5). Questo è anche il motivo per cui chi ha una sensibilità psicopatologica più raffinata, da una parte è in grado di individuare questi fenomeni, dall'altra è in grado anche di cogliere i limiti sfumati di questi prototipi sintomatologici. Da ciò discende che via via che si approfondisce il contatto e la conoscenza del paziente minore sarà la presupposizione di alienità e incomprensibilità, dello scacco del comprendere di fronte al fenomeno finale psicotico che apparirà sempre meno finale nel senso di definitivo. La percezione delirante apparirà così sempre meno simile ad un cristallo e ad un corpo estraneo nella storia personale del paziente e sempre più incarnata nelle vicende personali di quest'ultimo e pertanto storicamente se non patogeneticamente comprensibile (6).


3. Cesure verticali e cesure orizzontali

Si ripresenta così il problema della specificità diagnostica di determinati sintomi. Se ci troviamo di fronte effettivamente - nel caso dei sintomi psicotici - a fenomeni inquadrabili secondo il modello prototipico-dimensionale piuttosto che categoriale e se vogliamo usare questi sintomi come criteri diagnostici, allora diviene necessario definire un punto di cesura, aldilà del quale il sintomo diventa inequivocabilmente psicotico e patognomicamente schizofrenico. A questo proposito proponiamo di fare riferimento a due ordini di discontinuità qualitative che chiameremo cesure verticali e cesure orizzontali.
Il costrutto di cesura verticale riguarda le caratteristiche psicopatologiche in grado di distinguere fra sintomi appartenenti alla medesimo prototipo ma che compaiono in contesti nosografici diversi, come ad esempio le caratteristiche di un delirio tipicamente schizofrenico da quelle di un delirio così come si manifesta in una psicosi affettiva. Naturalmente ci troviamo di fronte alla vexata quaestio se sia possibile fare esclusivo riferimento a criteri sintomatologico-psicopatologici (trasversali) per porre diagnosi ad esempio di schizofrenia o se sia invece necessario ricorrere ad altri elementi quali quelli che riguardano il decorso. Abbiamo a questo proposito parlato di "rasoio psicopatologico" (Rossi Monti, Stanghellini,1996) cercando di mostrare come nella comunità degli psicopatologi si pratichino due fedi distinte e contrapposte: da un lato vi sia chi sostiene che il rasoio psicopatologico è in grado di distinguere, senza fare ricorso a criteri extra-sintomatologici (come il decorso o lo sfondo in cui si collocano i sintomi), tra fenomeni psicotici schizofrenici e non (affettivi o dell'area paranoiacale, ad esempio). Dall'altro invece c'è chi al contrario sostiene l'indistinguibilità di fenomeni psicotici occorrenti nel contesto di diverse sindromi psicopatologiche o comunque l'inservibilità del criterio puramente sintomatologico per porre la diagnosi differenziale, ad esempio, tra una psicosi schizofrenica paranoide ed una psicosi maniacale.
Volendo riproporre l'esempio classico della percezione delirante, coloro che sostengono la efficacia del rasoio psicopatologico portano come argomento la diversa articolazione di questo fenomeno psicotico in contesti nosografici diversi. Da un lato la percezione delirante tipicamente schizofrenica sarebbe caratterizzata dal dispositivo antropologico della rivelazione, mentre quella rilevabile nel contesto di una psicosi affettiva sarebbe contrassegnata dal dispositivo antropologico della conferma. L'esperienza schizofrenica di rivelazione è caratterizzata dall'emergenza di un elemento di novità che si staglia sproporzionatamente e si impone sullo sfondo della biografia del soggetto con la quale non ha alcun rapporto di continuità apparente, almeno dal punto di vista del soggetto stesso. La rivelazione cioè apre le porte di un mondo nuovo. L'esperienza delirante della conferma invece non è vissuta con il crisma della novità e della sorpresa (dell'Eureka) bensì come l'ennesimo avvenimento della vita vissuta che suggella quanto il soggetto già sa di se stesso: nel caso del melancolico la colpevolezza, nel caso del maniacale la grandezza. Seguendo questa falsariga e sulla base di un approccio fenomenologico all'analisi del sintomo Alfred Kraus (1994) ha proposto un criterio psicopatologico centrato sulla analisi puramente formale (non sul contenuto) dell'esperienza delirante capace di distinguere trasversalmente tra delirio propriamente schizofrenico e fenomeni deliranti non schizofrenici e cioè inerenti alle psicosi affettive e paranoicali (7).
Il costrutto di cesura orizzontale riguarda il problema della specificità o meno dei fenomeni-base e cioè il problema del punto di discontinuità lungo il continuum che unisce i fenomeni-base ai sintomi cosiddetti di primo rango. A questo riguardo, sia detto per inciso, preferiamo parlare di fenomeni-base piuttosto che di sintomi-base poichè il termine sintomo rimanda paradigmaticamente ad una eziologia organica che nel caso dei cosiddetti sintomi base è puramente ipotetica e ancora da dimostrare (Stanghellini,1997). Il quesito è duplice: da un lato se i fenomeni-base che preludono alla sindrome psicotica schizofrenica siano già schizofrenia; se cioè la loro presenza rappresenti o meno un indizio sufficiente per porre precocemente la diagnosi di schizofrenia. Dall'altro, dove - lungo il continuum delle connessioni seriali - si possa individuare il punto oltre il quale si è autorizzati a parlare di esperienze schizofreniche. Adottare un criterio in questo caso significa introdurre in maniera convenzionale una punteggiatura tutto sommato arbitraria lungo un gradiente. Data la convenzionalità della scelta del criterio diviene indispensabile precisare il contesto operativo e le finalità del criterio prescelto. Ad esempio in un contesto operativo in cui sia necessario adottare una valutazione a maglie strette (per escludere falsi positivi) è indispensabile spostare il criterio verso il polo dei sintomi cosiddetti di primo rango, viceversa in un contesto operativo che voglia escludere falsi negativi è necessario adottare criteri a maglie più larghe. Questo discorso in tutta la sua complessità clinica, epistemologica ed etica risulta di estrema importanza nella attuale fase della psichiatria comunitaria contrassegnata, almeno nel nostro paese, da un lato da una patomorfosi caratteropatica (e cioè sempre meno evidentemente psicotica) dei quadri schizofrenici; dall'altro da un intervento sempre più precoce in quanto compiuto con grande anticipo rispetto a ciò che accadeva di norma in un modello psichiatrico nel quale la presa in carico coincideva sostanzialmente con il momento del ricovero (e cioè della acuzie psicopatologica). Questi due ordini di considerazioni - patomorfosi caratteropatica e presa in carico precoce - avvicinano il criterio al polo dei fenomeni-base e cioè della vulnerabilità, ma al tempo stesso sollecitano un'ampia riflessione tesa ad evitare i rischi di una psichiatria ortopedica ed eugenetica (Stanghellini,1998).


4. La schizofrenia per dicotomie

La storia del concetto di schizofrenia fino al dibattito contemporaneo è contrassegnata da una serie di dicotomie: negativo-positivo, acuzie-cronicità, comprensibile-incomprensibile, persona-disturbo, cognitivo-affettivo, demenziale-iper-razionale.


a) Negativo-Positivo

La dicotomia negativo-positivo ha caratterizzato il dibattito e ancor più la ricerca empirica di questi ultimi vent'anni di psicopatologia della schizofrenia. Su questa base si è arrivati a postulare l'esistenza di due forme ezio-patogeneticamente e clinicamente distinte di schizofrenia. Questa dicotomia è criticabile sia dall'interno del paradigma biologico-empirico entro cui è nata, sia dal suo esterno. Sindrome negativa e sindrome positiva sono fasi che si succedono nel tempo di un unico percorso psicopatologico. Inoltre i cosiddetti sintomi negativi non rappresentano affatto fenomeni omogenei dal punto di vista eziopatogenetico, bensì gusci comportamentali vuoti che hanno ora il carattere della primarietà, ora quello della secondarietà. In qualche caso cioè si ipotizza che corrispondano all'espressione diretta del supposto substrato neurologico della "malattia" schizofrenica, in altri casi rappresentano invece il risultato di strategie di compenso volte a contrastare il disturbo, come ad esempio nel caso dell'evitamento sociale.
Tuttavia la critica più radicale a questa dicotomia era già presente nei contributi seminali di Eugen Bleuler (1911) e Eugene Minkowski (1927): il primo vedeva nella sintomatologia successivamente definita negativa il primum movens della psicosi e nei sintomi positivi il risultato finale di strategie di compenso; il secondo interpretava l'autismo ricco delirante come il "pieno" che riempie il "vuoto" primario dell'autismo povero caratterizzato dalla perdita del contatto vitale con la realtà (8). Nè Bleuler nè Minkowski radicalizzavano la distinzione negativo-positivo ipostatizzandola in una dicotomia nosografica ma dialettizzavano il rapporto tra queste due dimensioni psicopatologiche della sindrome schizofrenica evidenziandone la reciproca interdipendenza.


b) Acuzie-Cronicità

Gli studi longitudinali 9() sui decorsi delle sindromi schizofreniche hanno rivoluzionato il tradizionale modello della schizofrenia come disturbo a decorso cronico ed esito defettuale.
Una delle conseguenze più rilevanti di questo nuovo sguardo sulla sindrome schizofrenica è stato il cambiamento di paradigma interpretativo e la concettualizzazione del cosiddetto modello della vulnerabilità (Zubin,Spring,1977; Zubin,1986). Alla luce dei risultati di questi studi empirici e di questo nuovo quadro di riferimento teorico nessuno è più autorizzato ad identificare schizofrenia e cronicità. La schizofrenia non è una malattia cronica il cui organizzatore psicopatologico è rappresentato dalla ingravescente demenzialità, ma non è nemmeno riducibile alla "sindrome di Schneider" e cioè ad una costellazione di sintomi acuti e produttivi che di fatto compaiono in talune fasi del percorso schizofrenico. In fondo così come la concezione kraepeliniana è cristallizzata nell'endiadi demenzialità-cronicità, quella schneideriana è riassumibile nell'endiadi acuzie-produttività. Se la demenzialità rimanda ad una immagine della schizofrenia nella quale un processo erosivo sotterraneo taglia le radici alla vita psichica, l'immagine evocata dalla concezione schneideriana è quella di un pacchetto di sintomi che si sovraimpone ad assetti psichici molto variabili, un po' come fiori del male che sbocciano su qualsiasi terreno psicopatologico (anche solo per una notte). Al di là della dicotomia acuzie-cronicità si situa il concetto di vulnerabilità secondo il quale ciò che perdura nel tempo sono tratti preesistenti e persistenti identificati come esperienze disturbanti dal soggetto stesso, a partire dalle quali possono svilupparsi - in particolari condizioni di sollecitazione ambientale - fenomeni psicotici conclamati.


c) Comprensibile-Incomprensibile

Su questa dicotomia si fonda tutto l'edificio della psicopatologia classica. L'area dei sintomi schizofrenici viene largamente a coincidere con il campo dell'incomprensibile. Là dove ha inizio il delirio schizofrenico cessa la comprensibilità e viceversa: questo è l'assioma della psicopatologia della Scuola di Heidelberg, da Jaspers a Schneider. Questo assioma è stato recentemente criticato all'interno della comunità psicopatologica da Sass (1994) e Cutting (1997). In effetti, preso alla lettera o, per meglio dire, preso come un veto, il monito jaspersiano e schneideriano taglia le gambe a qualsiasi autentica indagine psicopatologica che si proietta per sua natura verso i confini dell'incomprensibile per superarli. Naturalmente concetti come quello di processo psicopatologico o di delirio primario vanno oggi abbondantemente riveduti (10) (si veda capitolo di Arnaldo Ballerini in questo volume) e ancor prima contestualizzati nel momento storico in cui sono stati formulati - un momento storico in cui la psicopatologia, al suo nascere, doveva difendersi e distinguersi dalle derive ermeneutiche psicoanalitiche e antropoanalitiche oltre che dal riduzionismo biologico. La prima sfida alla dicotomia comprensibile-incomprensibile fu lanciata già nel 1918 da Ernst Kretschmer con la monografia sul delirio di rapporto sensitivo - il prototipo del delirio comprensibile (Ballerini, Rossi Monti, 1990). Senza esagerare si può eleggere Kretschmer a fondatore del paradigma bio-psico-sociale dato che il suo modello si incentrava sullo studio della interazione tra aspetti temperamentali, personologici e sociali. Il carattere sensitivo veniva definito come la giustapposizione di un elemento temperamentale astenico con una spina stenica - giustapposizione di elementi contrastanti all'origine di una disposizione vulnerabile ad esperienze di vergogna. Questo carattere così definito, se esposto a situazioni "sociali" umilianti, sviluppa esperienze di rango psicotico all'interno delle quali si può cogliere un filo di comprensibilità centrato sull'organizzatore psicopatologico vulnerabilità alla vergogna.


d) Persona-Disturbo

Una ultima dicotomia riguarda la coppia concettuale persona-disturbo tramite la quale si scandiscono le due concezioni fondamentali di qualsiasi discorso psicopatologico: l'essere schizofrenico o l'avere una schizofrenia. In fondo ciascuno psichiatra finisce più o meno consapevolmente con l'aderire ad una di queste concezioni rispetto che all'altra. In un'ottica secondo la quale nei fenomeni psicotici si esprimono anche i valori e le credenze del paziente, la cui identità stessa non può prescindere da questi stessi fenomeni, si tende ad estremizzare la visione dello schizofrenico come colui che è schizofrenico. Uno psichiatra che considera i fenomeni schizofrenici come sintomi di una malattia cioè come conseguenza diretta di una noxa biologica verso cui mirare i trattamenti farmacologici aderisce alla seconda concezione (il paziente ha una schizofrenia). Inutile dire che entrambe le posizioni hanno pregi e difetti, ad esempio la prima restituisce dignità alla persona ma può anche portare ad una sua colpevolizzazione e ad una visione di carattere fatalistico che fa coincidere il modo di essere con il destino e la malattia. La seconda contribuisce ad attenuare i sentimenti di colpa ma può indurre una pratica terapeutica mirata a potare i sintomi come una siepe all'italiana trasformando lo psichiatra in un giardiniere della follia.
E' invece la intercambiabilità tra queste concezioni, il gioco gestaltico tra figura e sfondo che caratterizza l'assetto dello psichiatra. Se si considera il sintomo come un corpo estraneo si nega ascolto a quella istanza che nel paziente, attraverso il sintomo, vuole comunicare. Il sintomo in quanto corpo estraneo risulta così incarnito, come un'unghia da strappare; se invece il sintomo esprime l'identità e ne è parte integrante, esso sarà in questa incarnato: se lo togli, togli tutta la persona, togli l'identità. Solo oscillando tra questi due posizioni (il paziente come portatore o autore del disturbo - come ha scritto Eugenio Gaddini [1989] ) sembra possibile tenere aperta una relazione terapeutica. Porre in risonanza dialettica la dicotomia persona-disturbo risulta dunque fondamentale per un approccio terapeutico-riabilitativo (11). L'interscambio persona-disturbo è stato formalizzato sul piano clinico nel modello illness-coping (Strauss,1989a; 1989b;1992) che valorizza la analisi della soggettività del paziente sia intesa come analisi dei disturbi soggettivi sia come analisi dei meccanismi individuali di compenso scandendo le due tappe fondamentali di qualsiasi percorso psicopatologico e discorso terapeutico, quelle che vanno dall'essere schizofrenico all'avere una schizofrenia.


e) Cognitivo-Affettivo

L'idea delirante di uno schizofrenico è l'iperinvestimento affettivo di un nucleo ideico che si ipetrofizza rispetto agli altri o, viceversa, è l'esito di una destrutturazione cognitiva della visione del mondo a partire dalla quale emergono degli schemi cognitivi ancestrali? In che misura la melancolia è un "delirio triste" (come voleva Esquirol) e la schizofrenia un disturbo dell'umore (12)? Ecco un'altra dicotomia che vede due schiere di psicopatologi collocarsi su fronti contrapposti. Ancora una volta la percezione delirante si pone come caso paradigmatico. Da un lato esistono teorie dinamiche secondo le quali la percezione delirante scaturisce da una alterazione dell'umore di fondo (il trema di Conrad [1958] come chiave della interpretazione della cosiddetta atmosfera predelirante) (13). Secondo Janzarik (1959) rapide oscillazioni timiche (instabilità dinamica) suscitano l'impressione che stia accadendo qualcosa di strano, determinano il carattere della artificiosità dell'esperienza; ciò comporterebbe una regressione ad una condizione filogeneticamente più antica caratterizzata da insicurezza e paura. L'atmosfera predelirante in quest'ottica sarebbe caratterizzata da fluttuazioni dello stato timico oscillanti tra elazione e tristezza. La scuola di Amburgo (Mentzos,1967) individua in questo fenomeno la matrice dei sintomi schneideriani di primo rango. Da un altro lato, nella prospettiva di una teoria cognitiva, la atmosfera predelirante viene interpretata come conseguenza di un difetto nella elaborazione delle informazioni (difetto del filtro cognitivo). Da ciò deriverebbero fenomeni di iper-inclusione, interferenze, cenestopatie, fenomeni di blocco e deragliamento dei pensieri, tendenza alla esternalizzazione psicotica - tutti fenomeni che possono preludere alla strutturazione di sintomi psicotici. Inoltre il difetto del filtro cognitivo sarebbe alla base della diminuzione della capacità di discriminazione tra i diversi affetti e dunque il disturbo cognitivo sarebbe all'origine del disturbo della affettività. Frith e Done (1988) hanno invece elaborato un ulteriore modello centrato sul costrutto del disturbo cognitivo nel quale il difetto di base riguarderebbe non tanto l' input filtering quanto piuttosto l'output filtering, vale a dire il sistema di monitoraggio interno sostenuto da meccanismi di ri-afferenza (Sperry,1950) che danno indicazioni sul tipo di azione e soprattutto sulla sua sorgente. Il mancato riconoscimento di certe esperienze come appartenenti a sé comporterebbe un errore nell'etichettamento interiore delle azioni e la tendenza alla loro attribuzione all'esterno (esternalizzazione psicotica). Di fatto tra tutte le dicotomie finora descritte questa è probabilmente quella che ancora attende una valida integrazione. Tuttavia, piuttosto che andare alla ricerca del disturbo "veramente primario" nel registro affettivo oppure in quello cognitivo, sembra più importante interrogarsi sui modi in cui intorno ad un difetto cognitivo prevalente si organizza una determinata configurazione affettiva o, viceversa, come una certa modificazione del registro affettivo si ripercuota su una modificazione della mappa cognitiva (14).


f) Demenziale-Iper-razionale

Apparentemente contro il modello demenziale della schizofrenia si schiera la maggior parte della psichiatria contemporanea, se si eccettuano posizioni pesantemente riduzionistiche che vedono in questa sindrome l'epifenomeno di un "cervello rotto" (Andreasen,1984). Purtuttavia la nozione di demenzialità, uscita dalla porta rientra dalla finestra sotto il travestimento di concetti che rimandano comunque all'idea di un minus. Con gradazioni diverse demenzialità, sintomi negativi, difetto del filtro cognitivo, disturbo delle associazioni riflettono una immagine della schizofrenia intrisa di alienità assai più che alterità. All'altro estremo della dicotomia si collocano posizioni ideologiche naïf - posizioni cinicamente romantiche - che percorrono tutta la storia della psichiatria e che vedono nella psicosi un viaggio verso l'autenticità (Laing,1967). Concetti quali "razionalismo morboso" (Minkowski,1966) e "iper-razionalità" (Sass,1992) (15) fanno da ponte tra i due poli di questa dicotomia propugnando una immagine non stigmatizzante nè esaltante della condizione schizofrenica. Per venire a capo di questa dicotomia è indispensabile operare una distinzione tra vulnerabilità alla schizofrenia e schizofrenia conclamata. Laddove infatti la vulnerabilità schizofrenica, in quanto eccentricità e possibilità di distanziamento dal senso comune, rappresenta una premessa fondamentale per lo sviluppo di "nuovi" paradigmi di conoscenza umana, la malattia schizofrenica costituisce il tragico fallimento di questa possibilità (Stanghellini,1997).


5. Conclusioni

Nel raffigurarsi l'immagine di una data sindrome, ciascuno si orienta a partire da alcuni casi paradigmatici, assai più che fare riferimento a liste di criteri diagnostici (Sadler, Wiggins, Schwartz 1994). Il processo diagnostico è assai più prossimo ad una tipizzazione che si compie sulla base di una apprensione globale - olistica - del caso osservato, che al sistematico riconoscimento di singoli aspetti la cui somma porta alla conclusione diagnostica (Cooper,1983). Inoltre, questa apprensione globale fa riferimento a tipi idealizzati a partire da osservazioni particolarmente pregnanti e significative - una specie di imprinting che si compie sulla base del caso che più si imprime nella mente in quanto esemplare.
D'altra parte non si può ignorare che ciascun paziente, come un prisma, rifrange in particolar modo un determinato aspetto della sintomatologia che globalmente caratterizza una data sindrome. Tra i pazienti "schizofrenici", l'uno ad esempio mostra in primo piano il vuoto, l'altro il pieno: la mente di un paziente appare impoverita, svuotata di contenuti, scheggiata in una miriade di frammenti che non si aggregano in un costrutto significativo; la mente di un altro si mostra invece ipersatura, trabocca significati che si proiettano caleidoscopicamente sul mondo circostante. Chi ha in mente il primo prototipo, sosterrà che l'essenza della sindrome schizofrenica consiste in questo vuoto e che il "pieno" rappresenti un mero riempimento. Chi, invece, abbia subito il fascino della possibilità di svelare la iconicità celata oltre le cose penserà alla mente schizofrenica come ad un congegno che produce rivelazioni. Ha senso chiedersi quale delle due sia la "vera" schizofrenia? Non aveva già mostrato Kretschmer, tramite il concetto di "proporzione psico-estesica", che l'hysteron proteron da cui nasce la schizofrenia stessa - e cioé la schizotimia - è una condizione caratterizzata dalla coincidenza di due opposti: l'anestesia e l'iperstesia? Ci sembra di poter condividere l'opinione già formulata dallo psichiatra di Tubinga secondo il quale è la coppia freddezza-calore, distacco emotivo-passionalità, indolenza-idealismo a delimitare lo spazio di manovra della mente schizofrenica allo stato nascente - mente schizofrenica che in seguito assume in prevalenza il connotato di un'estremità piuttosto che dell'altra.
Mettendo in risonanza dialettica queste due posizioni si viene a disporre di una serie di mappe psicopatologiche utili ad orientarsi nei percorsi schizofrenici, a patto che si lasci alle spalle il mito dei sintomi patognomonici e l'immagine della schizofrenia basata sul primato dei tradizionali organizzatori nosografici. Una visione autenticamente psicopatologica della schizofrenia mette in parentesi l'ambizione "fissista" della nosografia che, inseguendo l'idea di una tavola sinottica dei disturbi mentali, dimentica l'obiettivo fondamentale del clinico: il comprendere, nei suoi aspetti statici (trasversali) e dinamica (genetico-longitudinali). Le "vecchie" sottosindromi schizofreniche vengono, nell'ottica della comprensione statica, a rappresentare unità dotate di senso, alla luce di organizzatori psicopatologici che ad esse si accoppiano, come ad esempio all'ebefrenia la perdita dell'evidenza naturale e alla sindrome paranoide il fenomeno della rivelazione (Rossi Monti, Stanghellini,1996). Nell'ottica della comprensione dinamica, tali sottosindromi rappresentano i fotogrammi di un percorso che è compito del clinico articolare tra loro in sequenze significative il cui orizzonte epistemologico non sia quello di una nosografia statica ma quello della visione prospettica nosodromica.


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(1) Per un approfondito esame del concetto di dissociazione si rimanda al contributo di Gaetano Benedetti e Maurizio Peciccia in questo volume (cap. 8).

(2) Si rimanda al contributo di Carlo Maggini in questo volume (cap.7).

(3) Si rimanda al contributo di Joachim Klosterkötter in questo volume (cap.9).

(4) Si rimanda al contributo di Peter Berner in questo volume (cap.13).

(5) A proposito delle sequenze di transizione si rimanda al contributo di Joachim Klosterkötter in questo volume (cap.9).

(6) Si rimanda al contributo di Bruno Callieri in questo volume (cap.1).

(7) Si rimanda al contributo di Giovanni Stanghellini e Mario Rossi Monti in questo volume (cap.6).

(8) Per revisione del concetto di autismo si rimanda al contributo di Josef Parnas in questo volume (cap. 10).

(9) Huber,Gross,Schüttler,1975; Ciompi,Müller,1976; Bleuler M.,1978; Ciompi,1984; Harding,Zubin, Strauss, 1987.

(10) Si rimanda al contributo di Arnaldo Ballerini in questo volume (cap.2).

1(1) Si rimanda al contributo di Andrea Ballerini in questo volume (cap.14).

(12) Questa dicotomia rimanda anche al problema della psicosi unica. Cfr. il contributo di Luciano Del Pistoia e Giuseppe Lamberti Zanardi in questo volume (cap.12).

(13) A questo proposito si rimanda al contributo di Bruno Callieri in questo volume (cap.1).

(14) Il modello della intenzionalità disturbata sembra puntare in questa direzione (Mundt,1985).

(15) Si rimanda al contributo di Louis Sass in questo volume (cap.11).


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