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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Modelli e Tecniche in Psicoterapia



Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici

di Tullio Carere-Comes

Seconda parte: L'asse psicologico



III. Il vertice materno

Ha scritto Freud:

"Tra la vita intrauterina e la prima infanzia vi è molta più continuità di quel che non ci lasci credere l’impressionante cesura dell’atto di nascita" (Freud, 1926).

L’osservazione coglie il carattere basilare della funzione materna, che è di prolungare dopo la nascita le condizioni della vita prenatale. Si possono elencare i termini che la descrivono: buon contenitore, base sicura, scudo protettivo, accoglimento incondizionato. La nozione di "base sicura" è così definita da Bowlby:

"È la caratteristica più importante dell’essere genitori: fornire una base sicura da cui un bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi nel mondo esterno e a cui possa ritornare sapendo per certo che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se triste, rassicurato se spaventato. In sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza, ma intervenendo attivamente solo quando è chiaramente necessario" (Bowlby, 1988, p. 10).

Fornire una base sicura è certamente un compito di entrambi i genitori, al pari di quello di rendere i figli autonomi e responsabili di sé: ma se si vuole cogliere la specificità di ciascun ruolo, è indubbio che la prima funzione è di competenza primaria della madre, e la seconda del padre.
In che senso la relazione di terapia è paragonabile a un "buon contenitore" o a una "base sicura"? In primo luogo è bene sottolineare che si tratta precisamente di un paragone, di un’analogia, come fanno notare Thomš e Kšchele:

"Non vogliamo dimostrare che l’intersoggettività della situazione terapeutica deriva dall’interazione madre-bambino. Per noi è essenziale la convergenza di principio che mostra come la concezione diadica della situazione analitica sia conforme alla natura umana, come si può osservare sin dal primo momento di vita" (cit., p.47).

Esistono evidentemente delle "convergenze", cioè esigenze fondamentali comuni a tutti gli esseri umani che si esprimono in modi diversi in contesti differenti. Poiché il bisogno di sicurezza incondizionata trova il primo e massimo accoglimento nella relazione materna, si può dire per analogia che il terapeuta, in quanto accoglie e risponde a quel bisogno, assume una posizione materna.
Nell’esaminare questa analogia teniamo ben presente la differenza fondamentale, cui si è già accennato, tra ruolo terapeutico e ruolo materno. Il terapeuta è il destinatario di altre domande, oltre a quelle che lo pongono in un vertice materno. Può destreggiarsi tra questi diversi registri, e scegliere di volta in volta quale privilegiare, solo in quanto dispone di un luogo neutro rispetto a tutte le modalità particolari di relazione. Nel vertice cognitivo, che sarà esaminato in seguito, è sospeso il giudizio sulla realtà della risposta, oltre che della domanda: non necessariamente un intervento che nelle intenzioni coscienti del terapeuta ha un significato di contenimento materno - o qualsiasi altro - è percepito allo stesso modo dal paziente, che può cogliervi significati diversi e anche opposti. L’analisi dell’intreccio di intenzioni e significati che ciascuno dei due attribuisce alle parole e alle azioni proprie e dell’altro garantisce da una lettura ingenua e letterale dei bisogni, ma non li elimina dalla scena riducendoli a semplici fantasie. L’idea che ai bisogni reali portati in terapia possa essere data una risposta semplicemente "analitica", che renda superfluo un coinvolgimento personale e attivo del terapeuta, è un’operazione difensiva in cui paziente e terapeuta possono trovarsi a colludere. Con la trasformazione del terapeuta in "analista" e del paziente in "analizzando" si toglie di mezzo ogni riferimento alla malattia e a imbarazzanti interazioni personali, ma si dimentica che l’analisi è solo una delle funzioni che il terapeuta è chiamato a svolgere.
Con queste precisazioni, procediamo nell’esame del vertice materno. Il terapeuta ha diversi modi per rispondere al bisogno del paziente di sentirsi contenuto, dalla costanza delle condizioni spazio-temporali al tono e alla scelta delle parole. In generale, al di là dei modi specifici, è decisivo l’atteggiamento, che trasmette al paziente un messaggio di accettazione incondizionata, di riconoscimento del suo valore e della sua dignità di persona indipendentemente da qualsiasi lavoro, progetto e assunzione di responsabilità.
Questo contenimento basilare è necessario, ma non sufficiente, se il paziente esprime richieste di affetto, comprensione e considerazione superiori a quelle che possono trovare accoglimento in una relazione di terapia, e probabilmente in qualsiasi relazione. Ciò che deve essere contenuto allora è precisamente quello che il paziente non è ancora in grado di contenere, cioè il conflitto tra desiderio e realtà, tra l’urgenza e perentorietà delle richieste e la modestia e precarietà delle risposte. Allo stesso modo di una madre, il terapeuta deve essere in grado di contenere la contraddizione senza lasciarsi prendere dall’ansia o dal senso di colpa per non poter dare tutto ciò che l’altro chiede. Come afferma Sandler (1992), "l’internalizzazione (da parte del paziente) della capacità dell’analista di tollerare ciò che per il paziente era precedentemente intollerabile è vitale per produrre un cambiamento desiderabile". Il terapeuta deve offrirsi come contenitore perché il paziente possa in un secondo tempo acquisire lui stesso la capacità di contenere le contraddizioni.
La funzione di contenimento si esprime pertanto in una sostanziale accettazione di sé, dell’altro e della situazione così com’è, prima ancora che inizi o si prospetti un’elaborazione trasformativa. Questa calma accettazione della situazione problematica, permettendo di contenere l’angoscia del paziente, crea la base di sicurezza su cui potrà essere svolto ogni successivo lavoro.

Disponibilità e fermezza

La funzione del contenere può essere compresa meglio se è messa in contrasto con la funzione opposta del lavorare, caratteristica del vertice paterno. La prima è caratterizzata, per cominciare, dalla disponibilità del terapeuta: al paziente è offerto uno spazio e un tempo che potrà utilizzare come preferisce. Può stare seduto o sdraiato, parlare di ciò che vuole o rimanere in silenzio, seguire un filo coerente o abbandonarsi alle libere associazioni, vegliare o persino dormire. Nel secondo caso al paziente è richiesto di assumersi certi impegni o di eseguire determinati compiti.
È evidente che la domanda di sicurezza deve trovare risposte adeguate nella relazione di terapia come condizione preliminare perché qualsiasi lavoro possa essere svolto. Nell’impegnare il paziente in una collaborazione il terapeuta assume un ruolo paterno, ma per ottenerla deve fornire in primo luogo una base sufficientemente sicura, e in questo svolge un ruolo materno. Queste due operazioni costituiscono risposte specifiche ai bisogni del paziente, per come sono valutati dal terapeuta in ogni fase della relazione, e quindi non sono affatto neutrali. Possono esser rese tali solo con l’artificio di legarle a regole standard applicate rigidamente. La rassicurazione può essere trasmessa con la costanza del setting terapeutico, uguale per tutti, e con un atteggiamento uniformemente benevolo; allo stesso modo la richiesta di collaborazione può essere espressa con una formula standardizzata, come la regola fondamentale della psicoanalisi. Se tuttavia la terapia non si fonda sul metodo, ma sull’ascolto delle domande effettive, apparirà evidente che alcuni pazienti sono così spaventati, confusi o arrabbiati che non è possibile chieder loro sin dall’inizio alcun tipo di collaborazione responsabile, e non si può fare altro che cercare di tranquillizzarli e contenerli in tutti i modi possibili. Altri pazienti, invece, dispongono di una capacità di lavorare che deve essere impegnata con modalità che variano da caso a caso, e che rischierebbe di restare male utilizzata se si volesse canalizzarla in una metodica stereotipata.
Non esistono risposte generali e uniformi alle domande di base sicura o di contenimento. Ad esempio il divano è vissuto da alcuni come un luogo molto confortevole e protetto, da altri come un posto molto pericoloso. Per alcuni pazienti il silenzio del terapeuta è uno spazio in cui si sentono accolti e liberi di muoversi a piacimento, per altri un segno di freddezza e distacco intollerabili. Ne consegue che solo un terapeuta inesperto o insensibile ai bisogni del paziente può imporre in modo indiscriminato il divano, silenzi prolungati, o qualsiasi altra cosa.
La posizione del terapeuta nel vertice M non può essere definita da alcun accorgimento tecnico, ma solo da un atteggiamento, che è stato caratterizzato in primo luogo come disponibilità. È evidente d’altro canto che la disponibilità può essere grande ma non illimitata: a parte i limiti ovvi di spazio e di tempo, e alcune regole minime che una relazione terapeutica deve darsi al pari di qualsiasi altra, il terapeuta può decidere di porre limiti definiti alla relazione proprio in risposta al bisogno del paziente di essere contenuto. In uno dei quarantadue casi del Psychotherapy Research Project della Fondazione Menninger (Wallerstein, 1986) l’unico intervento che paziente e analista furono d’accordo di considerare decisivo al termine del trattamento fu quello in cui l’analista urlò alla paziente di stare zitta. Questa, sentendosi finalmente contenuta nel suo dilagare, smise di inondare la relazione di emozioni torrenziali e iniziò a collaborare. Interventi di questo tipo possono rendersi necessari anche in trattamenti definiti, come questo, "psicoanalisi propria".
Una base è resa sicura anche dalla fermezza con cui chi vi si trova è protetto, in primo luogo dalle situazioni di pericolo generate dalla sua stessa impulsività. Raramente si creano situazioni tali da consigliare interventi come quello citato: di solito sono sufficienti segnali più discreti per ottenere un effetto di contenimento. In altre occasioni a un risultato analogo si può giungere "imponendo" delle regole più rigide di lavoro, o difendendo con fermezza il setting terapeutico dagli attacchi dei pazienti che chiedono insistentemente delle modificazioni, ad esempio una frequenza ridotta delle sedute, che al terapeuta appaiono incompatibili con una relazione di lavoro minimamente funzionante. In effetti in questi casi l’imposizione è apparente, se è vista come una risposta a una richiesta implicita (o inconscia) di contenimento.
L’imposizione è invece reale nei trattamenti stereotipati (Peterfreund, 1983), nei quali si fanno valere indiscriminatamente in tutti i casi le stesse teorie cliniche e le regole tecniche che ne derivano. Ad esempio Langs, che applica delle regole molto rigide nel suo lavoro, sostiene che

"il setting sicuro dà al paziente una forte sensazione di holding e di contenimento e favorisce un salutare funzionamento dell’io. Esso dà al paziente l’immagine di un terapeuta sano" (Langs, 1986).

La posizione di Langs è singolare. Da un lato questo autore ha dato un importante contributo al riconoscimento della natura profondamente interattiva della relazione psicoterapeutica, che è regolata dalla percezione cosciente o inconscia da parte di ciascuno dei membri della coppia terapeutica del comportamento dell’altro. Langs ha giustamente insistito sulla capacità percettiva inconscia, che la psicoanalisi classica ha trascurato privilegiando nettamente, nell’inconscio, la funzione di distorsione su quella di percezione. In particolare il paziente fornisce al terapeuta una quantità di informazioni che, opportunamente decifrate, consentirebbero a questi di correggere gli inevitabili errori di conduzione della terapia. La portata innovativa di queste osservazioni è tuttavia fortemente limitata, e anzi nettamente contraddetta, dalla posizione ideologica di Langs, secondo il quale la proposizione di un setting "sicuro", cioè molto rigido, è giusta e necessaria oltre che per la ragione citata sopra anche e soprattutto perché induce angosce di tipo claustrofobico e paranoide, e quindi porta il paziente a sperimentare l’angoscia di morte che è alla base della sua "follia". Qualsiasi comunicazione del paziente che metta in discussione la validità universale di un setting del genere è invalidata a priori, perché Langs non ha alcun dubbio sulla verità della propria teoria sulla follia, né sulla modalità tecnica che ne deriva. Così da un lato si riconosce al paziente la capacità di percepire correttamente la realtà della relazione, dall’altro questo riconoscimento è vanificato dall’assunto che la percezione del paziente è corretta solo se coincide con le convinzioni del terapeuta.
Nella psicoterapia autentica, al contrario di quanto accade nei trattamenti stereotipati, non si dà nulla per scontato. Il bisogno di trovare una base sicura può variare di molto da paziente a paziente, sia come intensità sia come qualità. Alcuni pazienti possono essere contenuti e guidati in un processo di cambiamento solo in un setting decisamente rigido, mentre altri progrediscono in un contesto più morbido ed elastico. Ciò che è rassicurante per una persona può essere insopportabile per un’altra. Non c’è modo di saperlo a priori: solo l’ascolto attento delle domande esplicite e implicite e l’osservazione impregiudiziale delle risposte agli interventi servono di guida in una relazione autentica.

Analisi e sintesi

Nessun termine del lessico psicoanalitico ha un significato univoco, e empatia non fa eccezione. Da un lato con questa parola si intende la capacità di entrare nell’altro, o lasciare che l’altro entri in noi, in modo da sentire ciò che lui sente. Dall’altro il termine è avvicinato a quello affine di simpatia: non limitarsi a sentire quello che l’altro sente, ma simpatizzare con lui, solidarizzare, comprendere e giustificare la sua posizione. Kohut nei suoi scritti oscilla continuamente tra questi due significati, senza distinguerli chiaramente (Fornaro,1993).
L’atteggiamento totalmente comprensivo e giustificante corrisponde a una scelta di vertice materno, quindi a uno scostamento dalla posizione neutra. Contiene implicitamente un’interpretazione, centrata sulla figura di un bambino naturalmente orientato alla realtà, alla crescita e alla realizzazione di sé, che regredisce, rifiuta di crescere e si dirige su obiettivi perversi e distruttivi solo come reazione difensiva alla mancanza traumatica di sostegno ed empatia. Mentre nella prospettiva freudiana il bambino è visto come originariamente orientato al piacere, e non alla realtà, e quindi intrinsecamente perverso, negli scritti di autori come Fairbairn, Winnicott e Kohut la perversione infantile non ha nulla di originario, ma corrisponde alla corruzione cui va necessariamente incontro il bambino in un ambiente non sufficientemente buono. Entrambe le interpretazioni sono legittime, ma si tratta di riconoscere che sono appunto interpretazioni: il terapeuta sceglie di collocarsi in una prospettiva o nell’altra. La differenza rilevante sta nel fatto che il terapeuta stereotipato trasforma la propria interpretazione in un paradigma fisso che esclude le visioni contrastanti, mentre il terapeuta che non si vincola ad alcuna prospettiva rigida può collocarsi in un vertice "freudiano" in alcuni casi e momenti, e "kohutiano" in altri.
La convinzione che il bambino sia originariamente innocente e spontaneamente orientato alla realtà, o la convinzione opposta che egli sia naturalmente perverso e dedito unicamente al piacere, in quanto si fissano e si trasformano in ideologie, sono di ostacolo alla comprensione dei bisogni reali del paziente. E’vero che la carenza di cure materne valide, o di una base sufficientemente sicura, può favorire delle scelte regressive o perverse in chi ne ha sofferto. Ma è ugualmente vero che tendenze analoghe possono essere riscontrate anche in chi, pur non avendo patito privazioni particolari dal lato materno, non è stato educato (da una figura paterna) a far fronte alle normali perdite e frustrazioni che non sono risparmiate a nessuno. In altre parole: l’essere umano è certamente e originariamente orientato alla realtà, ma dimostra una propensione altrettanto certa e altrettanto originaria a sfuggirla e a rifugiarsi nell’immaginario. Un cattivo adattamento o un disturbo evolutivo possono essere dovuti a carenze di cure materne, ma anche a un loro eccesso, e ugualmente alla debolezza del padre, o alla sua severità esagerata.
Oggi si ammette che nella generalità dei casi l’atteggiamento del terapeuta non può essere soltanto uncovering, ma deve essere anche remaking : non ci si può sottrarre al compito di fornire in qualche misura delle "esperienze emotive correttive". In ciò che un tempo era detto genericamente supportive si pone ora la necessità di distinguere in primo luogo una modalità materna da una paterna; in secondo luogo, per una migliore comprensione di questi vertici è utile differenziare, all’interno di ciascuno di essi, un versante sintetico e uno analitico. Uso questi termini in senso letterale, per indicare dei movimenti rispettivamente di unione e di separazione. Questa polarità si ritrova in ogni aspetto della relazione di terapia, e del resto già nel cervello umano, diviso nell’emisfero sinistro che integra prevalentemente le attività analitiche e in quello destro che presiede alle attività sintetiche.
Descrivendo la funzione dell’ascolto avevo distinto un momento sintetico, cioè globale e non selettivo, e uno analitico, focalizzato e discriminativo. Se applichiamo le stesse categorie ai vertici del quadrato della terapia, rileviamo che in ciascuno di essi si ha una prevalenza di un modo o dell’altro. Così la posizione materna, che offre contenimento e sicurezza, è di tipo sintetico, mentre quella paterna, che promuove la separazione e l’emancipazione, è di tipo analitico. Tuttavia all’interno di ciascun vertice si ripropone un’ulteriore opposizione tra attività dell’uno o dell’altro tipo.
Se sostituiamo alla coppia analisi-sintesi l’altra coppia conoscenza-affetto, che per molti aspetti la rappresenta nell’ambito psichico, possiamo tradurre quanto appena detto in questi termini: in primo luogo, gli interventi di vertice M hanno una tonalità prevalentemente affettiva e quelli di vertice P un’impronta prevalentemente conoscitiva; in secondo luogo, all’interno del vertice M distinguiamo attività che implicano un coinvolgimento affettivo diretto, e altre che trasmettono conoscenza, se pure con una modalità caratteristicamente materna.
Gli atteggiamenti di accettazione incondizionata, disponibilità unita a fermezza e considerazione positiva che sono stati descritti come costitutivi dell’offerta di una base sicura appartengono al versante sintetico del vertice materno, in quanto modi di relazione che tendono a produrre un’esperienza di contenimento affettivo.
Lo stile cognitivo caratteristico di questo vertice è invece osservabile nei metodi delle scuole in cui l’orientamento materno è prevalente, come quelle di Rogers e di Kohut. È stata notata un’affinità tra il procedimento rogersiano e il metodo dell’osservazione empatica di Kohut, in quanto entrambi si mantengono a un livello fenomenologico o descrittivo (Balter e Spencer, 1991)1. In entrambe il terapeuta cerca di verbalizzare in modo un po’ più chiaro il pensiero del paziente, e di riconoscere e formulare in modo più preciso i significati che sono comunque già evidentemente presenti nel suo discorso. Si rimane pertanto a un livello strettamente cosciente o preconscio, evitando qualsiasi ipotesi sue ventuali significati nascosti. Si tratta quindi in sostanza di interventi di chiarificazione.
A un livello più profondo opera il metodo di holding interpretativo come è inteso in ambito kleiniano-bioniano. Il terapeuta accoglie dentro di sé i segnali poco strutturati o decisamente caotici che il paziente gli invia per restituirglieli parzialmente elaborati, in modo che possa iniziare a integrarli in nessi significativi. Questa operazione, che Bion (1962) ha paragonato alla rêverie materna, è diversa dall’interpretazione classica, perché non si propone di svelare significati rimossi - operazione di vertice paterno, in quanto chiede al paziente di riprendersi qualcosa che ha rifiutato - ma di venire incontro a una effettiva incapacità con l’offerta di un contenitore ausiliario per l’esperienza che l’altro non è ancora in grado di trattenere ed elaborare autonomamente. Questo tipo di interpretazione non affronta una resistenza, ma si rivolge a un’incapacità: riguarda un paziente che "non può", piuttosto che uno che "non vuole".
Al di là delle differenze tra i procedimenti delle scuole citate, ciò che li accomuna è l’enfasi sull’accogliere, prendere dentro di sé e contenere l’esperienza dell’altro, per sottoporla a una elaborazione parziale prima di restituirla in una forma suscettibile di essere integrata. Riassumendo, nel modo materno distinguiamo una componente sintetica, in quanto è offerto un contenitore affettivo, e una analitica, in quanto è eseguita una elaborazione cognitiva che non attribuisce al paziente un ruolo responsabile nel lavoro.

Il fallimento empatico

La funzione di accoglimento empatico è la più elementare tra le operazioni psicoterapeutiche, ma anche una delle più difficili da realizzare. Nessuno trova mai, nella terapia o altrove, tutta la comprensione che vorrebbe ricevere. Tuttavia al terapeuta non si prospetta il compito impossibile di soddisfare pienamente il bisogno di accoglimento empatico che il paziente esprime: è scontato che in questo compito non potrà che fallire, ma è proprio nel riconoscimento e l’elaborazione di questi fallimenti che consiste una delle sue funzioni più specifiche e decisive.
Per meglio comprendere come opera il terapeuta nel vertice materno, il trattamento può essere strutturato come se non avesse altro vertice che questo, per essere destinato a pazienti che si presume abbiano precisamente questo bisogno. Una ricerca esemplare in questo senso è stata condotta dagli psichiatri australiani Stevensone Meares (1992), che hanno elaborato un modello di trattamento per pazienti affetti da "disturbo borderline della personalità". L’ipotesi di partenza è che tale disturbo è la conseguenza di un arresto nello sviluppo del sé.

"L’assunzione principale è che un certo tipo di attività mentale, che si trova nel fantasticare (reverie) e nel gioco simbolico sottostante, è necessaria per la generazione del sé. Questo tipo di attività mentale è non lineare, associativo, e pregno di affetti. Nei primi anni di vita la sua presenza dipende da un senso di ‘unione’ con le persone che si prendono cura del bambino, in quanto esse sono sperimentate come estensioni della vita soggettiva dell’individuo in crescita . Lo sviluppo si interrompe a causa di ‘urti’ ripetuti da parte dell’ambiente sociale" (Stevenson e Meares, 1992).

Se c’è stato un arresto maturativo come conseguenza di un ambiente primario non sufficientemente unitivo, empatico e protettivo, la terapia deve cercare di fornire un ambito relazionale simile a quello che è mancato, in modo che lo sviluppo possa riprendere: ciò equivale a dire che il terapeuta cerca per quanto è possibile di porsi nel vertice materno della relazione.

"Il primo obiettivo è di stabilire un’atmosfera facilitante in cui l’attività mentale generativa possa emergere. Per far questo, il terapeuta deve immergersi immaginativamente nella vita interiore embrionale del paziente. L’empatia, tuttavia, fallisce inevitabilmente. Il secondo obiettivo principale del terapeuta è di scoprire questi fallimenti, di dirigere l’attenzione del paziente sulla sua esperienza al momento dei fallimenti, e permettere che queste esperienze siano il punto di partenza di esplorazioni esperienziali. Tali fallimenti empatici, o disgiunzioni, sono indicati da 1) affetti negativi (ad esempio indifferenza, ansietà), 2) pensiero lineare, 3) orientamento verso eventi del mondo esterno, 4) un cambiamento di stato del sé (ad esempio svalutativo o grandioso), 5) emergenza di fenomeni di transfert." (Ibidem)

Questo approccio, che si ispira dichiaratamente a Winnicott (1965) e Kohut (1984), mette in evidenza i due punti fondamentali dell’operazione terapeutica di vertice materno: tentare di creare un’atmosfera in cui il paziente possa sentirsi accolto e compreso, ed elaborare gli inevitabili fallimenti di questo tentativo. Notiamo le differenze con il lavoro compiuto negli altri vertici: l’obiettivo qui non è di fare emergere materiale per interpretarlo e portarlo a coscienza; i fenomeni di resistenza e di transfert (o di resistenza di transfert) non sono attivamente ricercati, al contrario segnalano proprio la mancata riuscita del tentativo primario di creare un’atmosfera di accoglimento e comprensione. Inoltre questi fallimenti non sono mai connotati come "resistenze" - termine che inevitabilmente allude a una responsabilità del soggetto che resiste, che "non vuole" affrontare qualcosa di spiacevole, e quindi appartiene al lessico del vertice paterno - ma precisamente come fallimenti del terapeuta, al quale come alla madre compete l’intera responsabilità della cura.
Non è colpa del paziente se il tentativo di empatia fallisce; non è colpa nemmeno del terapeuta: non è colpa di nessuno se gli esseri umani sono limitati e non sono onnipotenti. Proprio questo accoglimento incondizionato della persona e della situazione così com’è, inclusi i suoi aspetti dolorosi, problematici e fallimentari, caratterizza la posizione del terapeuta nel vertice materno. E proprio questa consente in particolaredi accogliere l’esperienza del fallimento, che altrimenti entra con difficoltà nell’orizzonte delle persone che hanno avuto un arresto maturativo, per le quali di solito il fallimento è inaccettabile perché è vissuto come una colpa, un’onta o un affronto intollerabile. Quando l’esperienza del fallimento può essere accettata come tale, grazie al fatto che il terapeuta per primo accetta il proprio con dispiacere, ma senza ansia, sensi di colpa o rappresaglie, può avere inizio la sua elaborazione: l’osservazione dei modi abituali del soggetto di reagirvi e l’esplorazione di modalità alternative di risposta.
Il terapeuta può imporsi di privilegiare in modo esclusivo il vertice materno per una finalità di ricerca. Nella pratica clinica normale, tuttavia, la finalità terapeutica prevale sulla finalità di ricerca, e quindi l’ascolto e la risposta ai bisogni del paziente di volta in volta espressi hanno la precedenza su qualsiasi obiettivo scientifico. Di conseguenza, sarà inevitabile che, anche con pazienti "borderline", di quando in quando il terapeuta trovi opportuno o necessario intervenire con modalità differenti. Solo dalla risposta del paziente a questi interventi si potrà capire se la decisione di attuarli e il modo in cui sono stati attuati sono stati corretti. Ma per una valutazione globale dei bisogni del paziente e delle modalità appropriate di risposta il terapeuta dovrà necessariamente collocarsi in un diverso vertice, quello cognitivo. Un terapeuta saldamente installato nel vertice materno e inamovibile da questo si comporterebbe come quelle madri che possono anche avere svolto il loro compito in modo inappuntabile, ma non capiscono quando è il momento di farsi da parte. Sono le terapie, tutt’altro che rare, che si trasformano in adozioni.



IV. Il vertice paterno

La responsabilità

Il terapeuta si colloca in un vertice paterno in quanto propone una relazione di lavoro (inteso come attività che implica sforzo e fatica, contrapposta alla spontaneità e al gioco). Mentre nella posizione materna il terapeuta offre al paziente una base sicura assegnando a sé stesso tutto il lavoro da fare, qui chiede collaborazione e impegno. Nel vertice paterno il terapeuta si rivolge al soggetto inteso come agente responsabile, mentre in quello materno si prendeva cura di un soggetto non ancora fornito di un centro decisionale autonomo - o in cui questo centro non aveva ancora un ruolo preminente.
Dal punto di vista materno la persona deve essere sempre contenuta, sostenuta e protetta. Certamente la madre, in quanto comincia a vedere nel figlio un abbozzo di autonomia, lo sollecita e lo stimola, ma sempre all’interno di una relazione i cui tratti dominanti restano di tipo simbiotico. Essa si prende cura di una persona embrionale, il cui confine non è ancora sufficientemente formato, e fornisce il proprio come recinto provvisorio in cui il figlio può spaziare. Tutto ciò che avviene entro questo confine è governato da un unico centro, l’io materno, perché l’altro non esiste ancora, o esiste solo in modo marginale e ininfluente.
Quando lo sviluppo del bambino è sufficientemente avanzato da rendere percepibile il primo nucleo di un’agenzia responsabile, a questa si rivolge il genitore - padre o madre, ma in un ruolo paterno -per sollecitare le prime uscite dal recinto simbiotico. Un modo iniziale di caratterizzare la funzione paterna consiste nel dire che in essa il bambino è accettato in modo condizionato, non più incondizionato come nello spazio materno. In questo il bambino sapeva di avere un valore per il solo fatto di esistere, ora entra in una nuova dimensione in cui il valore deve essere dimostrato e conquistato. Questa nuova dimensione è rischiosa: il bambino può fallire ed essere sconfitto, e il rispetto e la stima che riceverà non sono più gratuiti, ma dipendono dall’esito delle sue lotte e delle sue fatiche.

Lo studio della funzione paterna del terapeuta corrisponde all’analisi dei modi in cui questi aiuta il paziente a rendersi responsabile di sé. Nella prospettiva freudiana l’obiettivo della responsabilizazione è perseguito indirettamente, in quanto si tende a rendere il paziente il più possibile consapevole dei propri modi di esperienza e di azione. Ha osservato Freud (1925, p. 159):

"È ovvio che bisogna considerarsi responsabili per i cattivi impulsi che si manifestano nei nostri sogni: che altro atteggiamento dovremmo mai assumere di fronte ad essi?".

È inutile, in altre parole, cercare di sottrarsi alla responsabilità per le proprie tendenze inconsce, perché in ogni caso siamo costretti a rispondere di ciò che siamo: se pretendiamo di non farlo, dovremo sopportare le conseguenze di ciò che abbiamo cercato di evitare, sotto forma di disturbi del comportamento e confusione dei sentimenti.
Shafer (1973) ha sviluppato un linguaggio dell’azione che riferisce al soggetto in quanto agente responsabile ogni esperienza che questi attribuisce ad agenti esterni o istanze interne oggettivate. Ad esempio al paziente che si sente vittima delle circostanze si dovrà mostrare che cosa lui stesso fa per sentirsi vittima, nell’assunto che anche le circostanze più avverse possono essere vissute in modi differenti, in funzione del modo in cui il soggetto struttura la propria esperienza. In particolare, questo atteggiamento ermeneutico è stato proposto come un rimedio contro le oggettivazioni metapsicologiche che la stessa psicoanalisi ha prodotto, e che rischiano di colludere con la tendenza autooggettivante del paziente.
Si tratta, è chiaro, di una responsabilità potenziale, che deve essere distinta dalla responsabilità attuale, cioè dalla capacità effettiva di compiere scelte diverse. Il paziente è realmente incapace di agire differentemente da come agisce, se non è consapevole di avere una parte attiva nel mantenimento della situazione di cui soffre, e lo è ancor meno delle alternative possibili. Bisogna aiutarlo a vedere tutto questo, o mostrarglielo esplicitamente. Secondo la posizione che è comunemente identificata con quella della psicoanalisi classica, un soggetto che abbia preso coscienza di sé, cioè dei propri conflitti inconsci, delle proprie difese e degli impulsi da cui si difende, farà di conseguenza le scelte più convenienti e realistiche; pertanto tutto ciò che si deve fare è illuminare e portare alla coscienza l’inconscio. Perché la responsabilità del soggetto passi da potenziale ad attuale questo è certamente necessario; ma è anche sufficiente?
La responsabilità è, letteralmente, la capacità di rispondere delle proprie azioni. Quando questa capacità è matura, si risponde a sé stessi, ma si comincia con i richiami che vengono dagli altri. Perché il bambino impari a rispondere bisogna chiamarlo, e spetta soprattutto al padre farlo, perché la madre ha un rapporto primario con l’infante, che non parla e non risponde se non all’interno di una corrispondenza amorosa. Il passaggio dalla corrispondenza alla responsabilità è governato dal padre, o da chi gli subentra nel ruolo.
Ha scritto Altiero Spinelli che se si vuole far presa sugli altri bisogna chiamarli a fare qualcosa.

"Chi è chiamato, può non rispondere, e allora lascialo andare; o rispondere, e in tal caso è questa effettiva azione che lo modifica, forse a sua insaputa, forse in modo differente da quello che avevi pensato, ma lo modifica. Tu, allora, seguilo con occhio sempre critico e freddo, ma con silenziosa comprensione. Con il lavoro hai infatti messo in movimento le forze del suo animo, e lo hai per ciò posto nella necessità di padroneggiarle e equilibrarle. Se hai abbastanza comprensione, quando lo vedi vacillare, dagli discretamente una mano per aggiustargli meglio il peso sulle spalle" (1987, p. 12).

È una descrizione esatta della funzione terapeutica, vista dal vertice paterno. Il terapeuta chiama il paziente a compiere un lavoro: in tal modo "mette in movimento le forze del suo animo", e quindi lo pone "nella necessità di padroneggiarle e equilibrarle".
La definizione si applica in modo evidente alle terapie di indirizzo comportamentale, dove la richiesta di impegnarsi in compiti e esercizi è all’ordine del giorno; mentre potrebbe andare un po’ stretta a uno psicoanalista che al suo paziente sembra chiedere solo di sdraiarsi sul divano e dire tutto ciò che gli passa per la mente. Tuttavia una cosa è ciò che un terapeuta afferma e sa di chiedere al suo paziente, altro è ciò che in effetti gli chiede, senza riconoscerlo esplicitamente e forse senza nemmeno saperlo.

Azioni terapeutiche

La relazione di terapia è un’interazione complessa, in cui anche i comportamenti in apparenza più neutri fungono da veicolo per i più diversi messaggi. Consideriamo ad esempio il silenzio.

"Nella situazione psicoanalitica classica il silenzio è un mezzo di comunicazione straordinariamente importante. Benché sia lo sfondo o il contesto tipico per le associazioni del paziente, e quindi sia apparentemente inosservabile come il mare per il pesce che vi nuota dentro, è un mare turbolento e mutevole le cui correnti possono essere percepite dal paziente e influenzare le sue associazioni e i suoi sentimenti. Vi sono silenziostili, silenzi accettanti, silenzi sconcertati, silenzi deprivanti, e ciascuno ha il suo proprio impatto" (Wachtel, 1977, p.256).

Al pari di qualsiasi altra azione del terapeuta,

"il silenzio non esercita la sua influenza sul paziente direttamente, senza la mediazione delle sue aspettative e fantasie. Un silenzio che riflette la paura del terapeuta di ciò che potrebbe dire può essere sperimentato dal paziente come un segno di calma accettazione di ciò che questi ha appena comunicato; similmente, un silenzio che riflette un ascolto partecipe e pieno di interesse e uno sforzo di capire ciò che il paziente intende dire prima di rispondergli può essere sperimentato come un rifiuto sprezzante di aiuto. Ma persino nei terapeuti più ‘completamente analizzati’ è probabile che vi siano dei modi tipici di stare in silenzio - o, piuttosto, di tacere e di parlare, perché ciò che rende significativo il silenzio è il fatto che il terapeuta non sta sempre in silenzio. A volte parla e a volte no, e in un certo senso sceglie e decide costantemente di fare una cosa o l’altra. In parole semplici, noi diciamo ‘sì’ o ‘no’ in molti più modi di quanto siamo usualmente disposti ad ammettere" (Wachtel, ibid).

Il silenzio, dunque, non è un semplice sfondo neutro, ma un potente mezzo di comunicazione. Che se ne renda conto o meno, il terapeuta se ne serve per trasmettere una quantità di messaggi di ogni genere. Lo stesso vale del resto per le parole: il tono di voce, la scelta dei vocaboli, il momento e il modo in cui sono dette dicono molte cose, molte di più che non dica il loro senso esplicito. Le parole e il silenzio veicolano significati, ma anche messaggi affettivi di accettazione e rifiuto, di approvazione e riprovazione. Come osserva Wachtel, tutto ciò che il terapeuta dice e non dice vale anche, e particolarmente, come una modalità di rinforzo dei comportamenti che il terapeuta considera desiderabili. In primo luogo si tratta di riconoscere che questo è un fatto2. In secondo luogo occorre decidere che farne: cercare di neutralizzarlo il più possibile, come fa chi adotta una visione psicoanalitica classica, oppure accettarlo e utilizzarlo come una componente essenziale del lavoro terapeutico.
La questione può essere formulata così: è giusto e opportuno che il terapeuta chieda al paziente di impegnarsi in determinate azioni, o è meglio che se ne astenga e tenti di mantenersi per quanto è possibile neutrale? Di solito questa domanda viene elusa con una risposta che dà per scontata e inevitabile la divisione in compartimenti stagni del campo psicoterapeutico: il terapeuta deve fare ciò che è previsto dal metodo che applica. Una risposta giudiziosa, che tende a scoraggiare l’improvvisazione e l’eclettismo confusionario. Ma, oltre che giudiziosa, la risposta sarebbe anche giusta se fornisse contemporaneamente un criterio per decidere quali metodi sono adatti per quali pazienti. Per essere giusta, questa risposta dovrebbe fondarsi su una teoria generale della relazione terapeutica, vale a dire un modello integrato che includa i principi basilari di tutti i metodi principali, tra i quali scegliere di volta in volta il più adatto. Ad esempio il modello proposto da Frances, Clarkin e Perry (1984) divide le diverse metodiche psicoterapeutiche in tre gruppi: psicodinamico, comportamentale ed esperienziale. In ogni gruppo si distinguono gli scopi primari, i modi di raccogliere i dati, la posizione del terapeuta, le strategie, le tecniche e le scuole principali. Sulla base di questi elementi si distinguono quindi le indicazioni, le controindicazioni e i fattori che permettono di applicare ciascun tipo di terapia. Uno strumento come questo è sicuramente utile, particolarmente se è confrontato con il modo idiosincratico in cui la selezione è abitualmente fatta. Il suo limite, d’altra parte, è indicato dagli stessi autori:

"se una categoria di psicoterapia è impiegata durante un certo periodo, ci rendiamo conto che un’altra categoria può essere indicata in un momento successivo, forse persino all’interno della stessa seduta" (ibidem, pag. 96).

In altre parole, un modello integrato può essere utilizzato come strumento di screening solo per trattamenti focali brevi, mentre per trattamenti a medio e lungo termine il modello dovrebbe essere impiegato direttamente all’interno della relazione terapeutica per decidere, a seconda delle fasi attraversate e delle problematiche che emergono, le modalità di intervento e di risposta alle domande del paziente.
Ritornando alla domanda da cui siamo partiti, se sia o non sia giusto assegnare dei compiti ai pazienti, siamo ora in grado di rispondere: dipende. Alcuni ne hanno bisogno, altri no; alcuni ne hanno bisogno in certe fasi del trattamento, e non in altre. È un fatto che tutti i terapeuti tendono a incoraggiare determinati comportamenti e a scoraggiarne altri, anche quando teorizzano il contrario. Escludere a priori ogni forma di direttività, per poi essere direttivi clandestinamente o inconsapevolmente, o viceversa somministrare prescrizioni terapeutiche in modo routinario e indiscriminato, rappresentano modi opposti (rispettivamente "psicoanalitico" e "comportamentale") dello stile di lavoro stereotipato.

Vertice paterno e paternalismo

Uno dei compiti più delicati della terapia consiste nel discriminare quando un paziente "non può" e quando "non vuole" affrontare una difficoltà. Nel primo caso si ipotizza una condizione di reale incapacità, per debolezza o immaturità dell’io, ad affrontare determinate esperienze: e quindi di effettivo bisogno di protezione, sostegno, offerta di condizioni che favoriscano il rafforzamento e la crescita. Nel secondo caso si ipotizza l’esistenza di un io che è sufficientemente forte e capace di elaborare un conflitto se portato alla sua coscienza, ma "non vuole", cioè resiste a farlo, perché l’impresa comporta dolore e fatica. Da queste due situazioni emergono domande diverse, cui il terapeuta risponde con interventi rispettivamente sul registro materno e su quello paterno. In un caso il terapeuta offre una base sicura, nell’altro propone un laboratorio3.
Le diverse scuole propongono tipi diversi di laboratorio. Le differenze riguardano la scelta degli oggetti su cui lavorare, il loro luogo (interno o esterno alla relazione di terapia), gli strumenti di lavoro.
Per quanto riguarda gli oggetti, uno dei meriti della scuola di Ulm è di aver chiarito che la nozione di un processo psicoanalitico o psicoterapeutico "puro" è fittizia: il processo si organizza sempre intorno a un numero limitato di temi focali, interattivamente determinati e deliberatamente scelti:

"Lo psicoanalista opera una selezione in funzione dei suoi obiettivi tattici (immediati) e strategici (a lungo termine)" (Thomš e Kšchele, 1987, p. 346). "Riteniamo che la sequenza dei foci sia il risultato di un’interazione inconscia tra i bisogni del paziente e le possibilità di cui l’analista dispone" (p. 348). "Identificheremo conflitti nucleari più o meno numerosi, e di differerenti tipi, a seconda del modo in cui dirigiamo l’attenzione, e questo a sua volta dipende dalla nostra teoria" (p. 350).

Primo punto: non esiste un processo terapeutico puro, determinato solo dal libero fluire delle associazioni del paziente e dall’attenzione fluttuante del terapeuta. Al contrario, il processo risulta da una selezione di temi focali, in parte inconscia e in parte cosciente. Secondo punto: il paziente contribuisce alla scelta dei foci, ma, secondo Thomš e Kšchele, solo in modo "inconscio". La posizione di questi autori, che in generale è abbastanza aperta e anticonformista, qui è invece in linea con l’ortodossia psicoanalitica. Il contributo del paziente è solo "inconscio": certamente, se non gli si permette di contribuire diversamente. Se al paziente sono comunicate all’inizio le regole del trattamento che dovrà impegnarsi a seguire e non gli è lasciata la possibilità di proporne delle modifiche (che sarebbero immediatamente interpretate come resistenze) né di contribuire a definire cammin facendo gli obiettivi a breve e lungo termine (pretesa che sarebbe nuovamente interpretata come resistenza, dal momento che il suo compito è unicamente quello di associare liberamente), non gli rimane altra strada che suggerire "inconsciamente" al terapeuta i temi su cui più gli preme lavorare. I pazienti hanno spesso una grande capacità di adattamento ai desideri del terapeuta. Se capiscono che questi apprezza molto le produzioni inconsce, e molto meno quelle coscienti, lo accontentano, e la terapia procede; ma procederebbe anche meglio se il contributo cosciente fosse apprezzato e utilizzato almeno quanto quello inconscio.
"In ogni seduta si crea inevitabilmente una situazione in cui è necessario decidere la direzione da prendere", scrivono Thomš e Kšchele (ibid, p. 352). Proprio così: ma se questa decisione spetta unicamente al terapeuta, il paziente viene deresponsabilizzato. Se al contrario si stabilisce il principio che al paziente è consentito in qualsiasi momento di rinegoziare gli obiettivi e le modalità del trattamento, si rende sin dall’inizio il paziente corresponsabile dell’andamento della terapia, in ogni sua fase e aspetto. Il principo non è contraddetto dalla decisione del terapeuta di assumere un ruolo prevalentemente materno anche per periodi prolungati, alleggerendo quindi il paziente della maggior parte o di tutte le responsabilità, lasciandogli eventualmente solo quella di presentarsi alle sedute e di saldare il conto: sarebbe un errore imporre al paziente un atteggiamento più responsabile quando il suo bisogno principale, per come è da lui manifestato e percepito dal terapeuta, è di immergersi in una relazione di stampo essenzialmente materno, per poter ricominciare di lì un processo che sembra aver subito un arresto in fasi molto precoci. Ma sarebbe ugualmente un errore tenere il paziente dall’inizio alla fine in uno stato di dipendenza infantile senza lasciargli e senza stimolare la facoltà di contribuire responsabilmente alla regolazione del rapporto4.
Naturalmente, una volta stabilito il principio della partecipazione responsabile del paziente, questi potrebbe servirsene per mettere in discussione ogni cosa in ogni momento, impedendo di fatto lo svolgimento di qualsiasi lavoro: è ovvio che il diritto di avere voce in capitolo può essere utilizzato come una resistenza, ma è altrettanto evidente che non necessariamente è così. Il terapeuta non dovrebbe avere il monopolio della decisione di cosa sia o non sia resistenza, soprattutto non dovrebbe servirsene per definire come tale qualsiasi tentativo da parte del paziente di modificare le regole del gioco o di essere preso sul serio quando propone un tema di lavoro. Nei trattamenti sterotipati può invece succedere che il desiderio espresso dal paziente di affrontare una tematica della sua vita di relazione attuale sia sistematicamente frustrato dall’analista che ha deciso di lavorare sul transfert, o forse anche di spingerlo verso la nevrosi di transfert; o, viceversa, che il tentativo del paziente di analizzare un problema di rapporto con il terapeuta sia disatteso da quest’ultimo che, avendo ricevuto una formazione comportamentale, non considera meritevole di attenzione la vicenda interpersonale che si sviluppa tra lui e il paziente. Tuttavia anche autori del campo psicoanalitico hanno visto che il lavoro sul transfert può essere utilizzato congiuntamente, dal terapeuta e dal paziente, come resistenza per non affrontare difficoltà maggiori che risiedono altrove (Jacobs, 1986). Similmente nel campo comportamentale è stato osservato che

"nonostante i dinieghi dei primi comportamentisti, i fenomeni di transfert e resistenza accadono nel corso delle terapie del comportamento e dovrebbero, e anzi in alcuni casi debbono essere interpretati se si vuole che la terapia del comportamento abbia successo" (Rhoads, 1984).

Questo significa che è possibile praticare della psicoterapia autentica nonostante la prevalente identificazione con un approccio particolare (analitico, comportamentale o altro). Del resto anche un terapeuta che abbia adottato un modello integrato avrà ugualmente, e inevitabilmente, maggiore familiarità con certi approcci che con altri. Non si tratta di inseguire una fantasia onnipotente di competenza totale, ma di creare un clima di dialogo in cui i modi del paziente e del terapeuta di vedere e affrontare i problemi possano essere messi a confronto, in un contesto in cui ciascuno dei due possa imparare dall’altro: contesto creato dalla rinuncia da entrambe le parti, ma per cominciare da parte del terapeuta, alla pretesa che le proprie convinzioni teoriche e tecniche siano necessariamente superiori a quelle dell’interlocutore, con la conseguente disponibilità a mettere sistematicamente in gioco le une e le altre.
La scelta del dialogo non comporta da parte del terapeuta la proposizione di un rapporto fittiziamente paritario. La responsabilità maggiore nella conduzione della cura rimane del terapeuta, ma non è esercitata per chiedere obbedienza e sottomissione, bensì per ottenereche l’altro a sua volta si assuma la propria. È questa la funzione essenziale del ruolo paterno, quando è esercitato correttamente. Se invece la responsabilità rimane tutta da una parte sola, ed è unicamente il terapeuta a stabilire le regole del gioco e a scegliere i temi da mettere a fuoco, non possiamo parlare di vertice paterno, ma di paternalismo: la deformazione del ruolo paterno che si ha quando l’altro non è coinvolto, per la parte che gli compete, in ogni scelta che lo riguarda, ma si decide per lui, per il suo bene.

Piccoli mostri

In che modo, nella pratica, il paziente può essere reso corresponsabile della conduzione della cura, in ogni sua fase? Vediamo intanto in che modo non potrà mai esserlo. Thomš e Kšchele forniscono l’esempio schematico di un disturbo isterico:

"In un caso non complicato, il conflitto primario è nell’area del conflitto edipico positivo. Nello stesso tempo, tuttavia, il disturbo può implicare l’area edipica negativa (F 2 ), o temi anali (F 3 ) e orali (F 4 )"( Thomš e Kšchele, ibid, p. 351).

Se i nodi tematici o foci del processo terapeutico sono definiti "conflitto edipico positivo e negativo, temi anali e orali", si fa uso di un modo di concettualizzare e di un linguaggio che rendono sicuramente impossibile il dialogo non solo con il paziente, ma tra gli stessi psicoanalisti. Il paziente non avrebbe modo di entrare in un discorso fondato su tali categorie, e infatti l’individuazione dei foci così definiti rimane di competenza esclusiva dell’analista, che si tiene per sé le sue ipotesi. Ma un linguaggio come quello riportato tradisce un paradigma sottostante. Uno psicoanalista uruguayano, Bernardi (1989), ha osservato che le teorie di Freud, Klein e Lacan possono essere considerate dei paradigmi nel senso di Kuhn, in quanto includono elementi non soltanto cognitivi ma anche affettivi, come valori e fantasie. Esaminando come questi autori, o i loro seguaci, trattano uno stesso materiale (il caso dell’Uomo dei lupi), Bernardi giunge alla conclusione che questi paradigmi sono incommensurabili, cioè

"irriducibili l’uno all’altro, poiché non c’è alcun accordo tra di essi sulle premesse generali (che non condividono) o sull’esperienza (che non è vista allo stesso modo)".

I dati sono selezionati, organizzati e interpretati in modi diversi, in funzione degli assunti di base propri di ciascuno di questi autori. Fin qui niente di male, nessuno è una tabula rasa di fronte all’esperienza. Il fatto è che

"la selezione del materiale avviene, senza che l’analista se ne renda conto, come risultato delle assunzioni precedenti. Per questo egli può credere e assicurare i suoi lettori che tutto ciò che egli mette in evidenza è in evidenza anche nel materiale originale".

Questa mancanza di consapevolezza degli psicoanalisti nei confronti delle proprie fantasie teoriche dà luogo alla produzione di entità mentali, i paradigmi, che se da un lato sono strumenti utili per la strutturazione dell’esperienza, dall’altro la distorcono così seriamente da essere paragonati da Bernardi a

"piccoli mostri da fantascienza annidati nella mente dell’analista, capaci di crescere illimitatamente se trovano le condizioni adatte". E queste condizioni di solito si trovano: "Possiamo dire che scegliamo la teoria che preferiamo? Sembra piuttosto che adottiamo un modo di pensare senza sapere affatto come, mossi forse dalle fantasie inconsce ammassate nel corso delle analisi didattiche, delle supervisioni e dei seminari".

La situazione nel campo psicoanalitico, secondo Bernardi, è seria ma non disperata: bisognerebbe restituire agli strumenti di conoscenza il posto che loro compete, percorrendo a ritroso il cammino che li ha resi "mezzi di identificazione e di potere". Per far questo occorrerebbe sviluppare un’analisi comparata delle diverse teorie e un linguaggio descrittivo "che ci permetta, più di quanto faccia la teoria, di parlare di ciò che non comprendiamo nel materiale".

Tra gli psicoanalisti riuniti a Roma nel 1989, nella vana ricerca di un "terreno comune", il mito della Torre di Babele è stato evocato con una certa frequenza5. Se un linguaggio e un modo di pensare "paradigmatico" conducono all’impossibilità di intendersi tra gli stessi psicoanalisti, è in primo luogo nella relazione con il paziente che questo abito mentale dovrebbe essere abbandonato e sostituito con un pensiero (e un linguaggio) più semplice, di tipo descrittivo, come suggerisce Bernardi: vicino all’esperienza e atto a descriverla. Un terapeuta non potrà mai dire al paziente: "Le propongo di lavorare nell’area edipica positiva", ma potrà dire: "Penso che potremmo esplorare il rapporto che lei ha con sua madre". Il paziente non potrà obiettare: "D’accordo, ma credo che dovremmo dare un po’ di attenzione anche all’area anale", bensì: "In questo momento mi preoccupa soprattutto il mio rapporto con il denaro".
Se paziente e terapeuta condividono un linguaggio descrittivo in cui ciascuno può esprimere il proprio punto di vista e indicare le proprie priorità, diventa possibile negoziare di volta in volta un accordo. In tal modo il terapeuta che si pone in un vertice paterno chiama il paziente a una collaborazione che parte dalla definizione e dalla scelta dei temi, e procede verso la selezione degli strumenti di lavoro.
Per un terapeuta di formazione analitica qualsiasi modalità di intervento attivo è in contraddizione con l’atteggiamento di neutralità che in quell’ottica dovrebbe essere sempre privilegiato. D’altra parte oggi nessuno pensa più che un terapeuta possa essere uno specchio terso o uno schermo bianco, e tutti ammettono che la relazione di terapia è in effetti un’interazione: ma rimane pur sempre una notevole differenza tra l’azione discreta e appena percettibile di un analista, come quella descritta più sopra a proposito del silenzio, e l’interventismo marcato di un comportamentista che assegna compiti e ne sorveglia l’esecuzione. È chiaro che la prima lascia molto spazio per l’investimento nella relazione di fantasie e affetti, mentre la seconda ne lascia molto meno. In un caso il cambiamento è atteso principalmente dall’elaborazione di un’esperienza affettiva, nell’altro da azioni ed esercizi. Per lo più gli analisti evitano di impegnare i loro pazienti o sé stessi in azioni definite, nella convinzione che, una volta ottenuti i giusti insight, i comportamenti non potranno che adeguarsi. Dall’altro lato i comportamentisti, quando non considerano la coscienza un fenomeno irrilevante, mostrano di ritenere che l’unica comprensione che conta è quella che si ottiene attraverso l’esercizio e la pratica di comportamenti precisi e programmati. In tal modo gli steccati che le scuole erigono per proteggere le rispettive identità impediscono di vedere quanto l’azione possa favorire la comprensione e viceversa. È così insuperabile il fossato che separa le due pratiche?
; Può non esserlo, se si coglie il nesso circolare che lega l’esperienza e il comportamento. Un cambiamento nell’esperienza induce nuovi comportamenti, ed è ciò che si attendono gli analisti; reciprocamente, nuovi comportamenti inducono cambiamenti nell’esperienza, e su questo puntano i comportamentisti. Ma se la conoscenza favorisce l’azione e l’azione la conoscenza, non sarebbe più logico e proficuo inserirsi in questo movimento circolare, piuttosto che muoversi a senso unico? Come nella vignetta clinica che segue.

Angela è una giovane signora che si lamenta per la freddezza e l’indifferenza del marito, riferendo diversi episodi a dimostrazione di ciò che afferma e riportando continuamente questo tema al centro dell’attenzione. Un esempio tipico dell’interazione è questo: il marito è assorbito da uno dei suoi hobby; Angela si avvicina e cerca di coinvolgerlo in un dialogo; il marito risponde a monosillabi o non risponde del tutto; Angela sospira e ritorna alle sue faccende. Il terapeuta osserva che il marito ha un gioco troppo facile: se Angela vuole ottenere qualcosa deve essere più combattiva. Vengono esaminate alcune azioni che potrebbero scuotere l’imperturbabilità del coniuge, dalla rottura di piatti all’abbandono del tetto coniugale. Stimolata e incoraggiata a farlo, Angela decide di lottare con decisione per fare funzionare il suo matrimonio. Alla prima occasione dichiara al marito di non essere più disposta ad accettare il suo comportamento. Lui tace. Lei si alza ed esce di casa. Il marito la rincorre e ammette che forse è il caso di parlare.Così la situazione ha un primo sblocco, cui ne seguono altri, con due risultati. Primo, si instaura una comunicazione accettabile tra i coniugi. Secondo, ora che ha ottenuto ciò che voleva, Angela lascia cadere completamente l’argomento e dirige la sua attenzione sul rapporto con il terapeuta, verso il quale, riconosce lei stessa, prova i sentimenti intensi e ambivalenti che da bambina provava per il padre. Solo adesso è pronta e motivata a lavorare su questo nodo.

Al terapeuta può essere chiaro sin dall’inizio che il problema principale non è là dove il paziente crede che sia, ma il punto è che la cosa deve diventare chiara anche a lui. Non è detto che la via migliore per fare comprendere una cosa sia ripeterla fino alla noia. Nel caso riportato un tipico insight ("il problema è nel rapporto con mio padre, che ripeto qui con lei") non è stato ottenuto per via interpretativa, ma per via indiretta, applicando una classica tecnica comportamentale: il training di assertività. E non è stato ottenuto lavorando sul "transfert", ma su uno scenario esterno, e su un altro problema. Uno psicoanalista non avrebbe usato questi mezzi, mentre un terapeuta del comportamento si sarebbe probabilmente accontentato del risultato raggiunto e non avrebbe creato il clima relazionale adatto per la messa in scena del dramma più profondo. La libertà di passare dall’uno all’altro registro ha permesso invece di lavorare inizialmente sul bersaglio più superficiale con mezzi appropriati, in questo caso di tipo comportamentale; la risoluzione del problema ha consentito a un’insoddisfazione più profonda, prima coperta e confusa con l’altra, di emergere; su questa si è potuto quindi lavorare con mezzi nuovamente appropriati, ma questa volta di tipo analitico.
Wachtel (1985), che ha studiato i molteplici modi in cui le tecniche analitiche e comportamentali possono essere applicate in modo sinergico per spezzare i circoli viziosi in cui l’esistenza nevrotica è imprigionata, è giunto a una conclusione che può essere pienamente condivisa: i risultati migliori si ottengono quando, con l’esperienza, si mettono a punto delle modalità di intervento discrete, strutturate non rigidamente e poco invasive, che consentono una integrazione ottimale tra l’applicazione di tecniche attive e lo stile più fluido e coinvolgente che è tipico delle terapie analitiche.

L’analisi e la sintesi nel vertice P

Il vertice materno, che accoglie e contiene, è per essenza sintetico, mentre il vertice paterno, che distanzia e distingue, è essenzialmente analitico. Abbiamo visto d’altra parte che il vertice M include un momento analitico, in quanto anche in esso si produce conoscenza, grazie all’attività definita holding interpretativo o interpretazione empatica: quell’atto conoscitivo che non parte dal riconoscimento di una resistenza, ma dal prendere dentro di sé e parzialmente elaborare ciò che l’altro non è ancora in grado di contenere, e che offre comprensione e giustificazione piuttosto che smascheramento ed esame di realtà.
Analogamente riconosciamo nel vertice P un momento sintetico, in quanto il terapeuta non si rivolge in primo luogo alla coscienza, all’inconscio o ai processi neuronali superiori, ma alla persona in quanto entità globale e al soggetto inteso come agente responsabile che la rappresenta. Schafer, tra gli analisti contemporanei, si è assunto il compito di riportare continuamente l’attenzione sul soggetto in quanto agente della propria esperienza. Questa funzione è implicita in ogni psicoterapia, ma è utile che sia resa esplicita per liberarla dall’azione contraria esercitata dalle teorizzazioni metapsicologiche:

"È necessario sottolineare l’idea della persona come agente unitario e ripetere che il termine unitario non implica delle azioni perfettamente coordinate o l’assenza di azioni contraddittorie - di ciò che siamo soliti chiamare conflitto. Si parla di agente unitario per evitare di postulare l’esistenza di un apparato mentale al quale vengono poi attribuite, come componenti, una moltepicità di istanze agenti più o meno indipendenti. Non appena si ricorre all’idea di una molteplicità di istanze agenti, si resta inevitabilmente coinvolti in una visione meccanicistica della psicologia umana: non importa più molto, allora, se queste componenti vengono definite strutture mentali diverse (Es, Io e Superio) o sé diversi o frammenti di sé. Nella concezione meccanicistica la vita delle persone è vissuta dalle loro parti, che agiscono più o meno autonomamente, ciascuna a seconda della propria natura (ad esempio il crudele Superio o il sé megalomane); è come se ciascuna di queste parti fosse una specie di persona che persegue un unico scopo e che, nella migliore delle ipotesi, accetterà qualche compromesso. È questa la concezione espressa in sintesi dalla metapsicologia freudiana" (Schafer, 1983, p. 142).

Questo spostamento dell’attenzione, che restituisce al soggetto la competenza e la responsabilità della propria esperienza, produce i suoi effetti su due punti di ingorgo: la nevrosi del paziente e l’ideologia del terapeuta. Il primo, che percepisce la propria vita come determinata da fatti e forze oggettive indipendenti dalla sua volontà, sarà indotto a riflettere sulla propria percezione e a riconoscere in essa non una semplice registrazione della realtà, ma una costruzione cui egli stesso contribuisce in modo decisivo con le proprie valutazioni e scelte. Il secondo imparerà a riconoscere i "piccoli mostri" che il processo di formazione ha seminato nella sua mente e riuscirà ad ascoltare il paziente con mente almeno relativamente sgombra.
L’adozione di un linguaggio dell’azione è appropriata nel vertice paterno, ma non dovrebbe essere generalizzata indiscriminatamente. Spence (1982) ha rilevato che ne può derivare un effetto "superegoico": nei termini del nostro modello integrato, chiamare un soggetto ad assumersi le sue responsabilità prima che sia pronto a farlo equivale a porsi in un vertice paterno quando un accoglimento di tipo materno corrisponderebbe meglio alla domanda.
Quando un terapeuta impegna il paziente al rispetto della "regola fondamentale" o di qualsiasi altra, può spiegarne o meno il significato e l’utilità, ma non si aspetta che il paziente l’accetti perché persuaso dalla spiegazione. L’esperto in un’arte propone strumenti e procedimenti collaudati dall’esperienza; chi ne fa uso deve fidarsi, e giudicherà dai risultati. L’appello alla fiducia è un punto essenziale dell’atto terapeutico: chiede una decisione responsabile che comporta l’assunzione di un rischio, e si colloca pertanto sullo stesso versante sintetico del vertice paterno. Chi è chiamato risponde: eventualmente con un rifiuto, che è comunque una scelta.

La paziente tace, dichiara che non ha niente da dire e non prova nulla, o produce intellettualizzazioni e discorsi superficiali. Viene invitata a fare qualche respiro profondo e a riferire ciò che sente. La paziente rifiuta e dice: "Se lo facessi dovrei mettermi a nudo di fronte a lei, e non ho nessuna intenzione di farlo".

Il suggerimento di respirare profondamente è sufficiente per spazzare via in un attimo tutta la cortina di impedimenti e pretesti dietro la quale la paziente nascondeva i suoi sentimenti. Il "non posso" è messo da parte e sostituito da un più onesto "non voglio", con il quale essa da un lato si assume la responsabilità del rifiuto e dall’altro lo attenua in quanto, per la via traversa di una negazione, ammette che ciò che soprattutto teme è di trovarsi scoperta e vulnerabile nella relazione con il terapeuta.
La nevrosi si maschera spesso dietro una dichiarazione di incapacità. Dicendo "non voglio" il soggetto getta la maschera. Dal "non voglio" al "voglio" il passo è non di rado, ma non sempre, più breve: basta capire la convenienza di farlo. È dal "non posso" al "non voglio" che il passaggio è più difficile, ma a volte una semplice richiesta può aprire una via che all’approccio interpretativo resta sbarrata.
Responsabilità significa capacità di rispondere, dove la risposta si contrappone alla reazione, atto automatico e inconsapevole. La capacità di rispondere si sviluppa, come ogni altra funzione, in quanto viene esercitata praticamente: questo è l’esercizio proposto dal terapeuta quando chiede al paziente di fare qualcosa.
La componente analitica del vertice paterno include tutte le operazioni conoscitive che hanno lo scopo di mettere il soggetto di fronte a tutto ciò che preferirebbe evitare, ma con cui gli conviene fare i conti. La distinzione rilevante, qui, è con le operazioni conoscitive messe in atto dal vertice cognitivo. In questo, come vedremo, il terapeuta neutralizza o sospende l’identificazione con ogni desiderio e giudizio e assume la posizione dell’osservatore partecipe, imparziale rispetto a qualsiasi obiettivo che possa emergere o venire concordato. Nel vertice paterno, al contrario, il desiderio è ben presente, ed è strettamente affine al desiderio di un padre che ha a cuore la crescita di un figlio. Mosso da questo desiderio, il terapeuta segue con sollecitudine i movimenti del suo paziente, rivolgendogli le richieste da cui si attende una risposta evolutiva (versante sintetico) e dirigendo la sua attenzione su tutte le difficoltà e contraddizioni che l’altro istintivamente cerca di schivare (versante analitico).
Un intervento cognitivo o interpretativo può essere formulato quasi con le stesse parole dai diversi vertici, ma ciò che ne muta interamente il significato è l’intenzione del terapeuta. Questa traspare dalla scelta delle parole, dall’atteggiamento e dal tono di voce, ma prima ancora influenza in modo decisivo il processo di selezione del materiale. Il padre non vuole che il figlio rimanga troppo a lungo prigioniero di illusioni infantili, né che protragga più del necessario la permanenza nello spazio protetto e garantito dalla madre. D’altra parte non vuole nemmeno strapparlo troppo bruscamente alla sua base sicura, ma cerca di accompagnarlo con gentilezza e fermezza in un cammino in cui le prove da affrontare siano graduate e proporzionate alle sue forze. Se questa fase della crescita per qualsiasi motivo non è stata completata, si può sempre sperare che lo sia in un momento successivo, a patto che qualcuno subentri nel ruolo paterno per fornire l’influsso formativo che è mancato. Se lo psicoterapeuta si trova ad essere destinatario di questa domanda, non può sottrarsi all’obbligo di rispondervi come meglio può.



Note

1 Interventi di questo tipo si collocano in una zona di confine tra il vertice M e il vertice N. Li consideriamo qui, come appartenenti al vertice M, se attribuiamo all’intenzione di contenimento un’importanza prevalente rispetto all’intenzione di rispecchiamento e risonanza. Certamente anche il rispecchiamento e la risonanza hanno di per sé effetti di contenimento: ma le operazioni del terapeuta nel vertice M sono caratterizzate da una sollecitudine, una volontà di prendere dentro di sé, che non si trova nel vertice N e che fa una differenza determinante soprattutto con quei pazienti che tollerano male o non tollerano affatto un terapeuta troppo neutrale.

2 Osserva ancora Wachtel: "L’immagine del terapeuta che non dà risposte contingenti, che è in grado di comunicare ‘considerazione positiva incondizionata’ indipendentemente da ciò che il paziente sta dicendo o facendo, probabilmente non è molto realistica. Truax (1966), per esempio, in un’analisi molto citata delle registrazioni su nastro di una terapia condotta con successo da Rogers, ha trovato elementi che suggeriscono che persino questo vigoroso avversario del rinforzo condizionato risponde in modo differenziato a diversi tipi di affermazioni del paziente, e che quei tipi di affermazione che sono seguiti da risposte empatiche o accettanti del terapeuta tendono ad aumentare di frequenza" (Wachtel, 1977, p. 251).

3 Nel vertice paterno il laboratorio è il luogo in cui il paziente è chiamato ad affrontare tematiche spiacevoli, a fare fatica, ad affrontare privazioni e rinunce, e soprattutto a confrontarsi con le resistenze che oppone a tutto questo. La metafora del laboratorio può essere applicata anche al vertice cognitivo, nel quale tuttavia è meno appropriata, dal momento che qui, per definizione, il bisogno del paziente non è quello di un aiuto a confrontarsi con una realtà spiacevole o temuta, bensì quello di un dialogo finalizzato alla conoscenza liberatoria di sé.

4 Il libro Differential therapeutics in psychiatry di Frances, Clarkin e Perry (1984) comincia con queste parole: "Questo libro si basa su una lezione che abbiamo ricevuto da due gruppi di insegnanti: i nostri pazienti e i nostri figli. La lezione è che non si ha mai molto successo nel formulare dei programmi per un’altra persona, a meno che questa non si senta genuinamente inclusa nel processo della decisione".

5 In una delle comunicazioni prepubblicate proposte come base di discussione per i lavori congressuali di Roma, Aslan (1989) descrive lucidamente il seguente stato di fatto: "Ci troviamo in una babele psicoanalitica dove: (1) le stesse paroledesignano concetti differenti; (2) gli stessi concetti sono designati da parole differenti; (3) esiste una quantità di parole che hanno valore solo all’interno di un dato quadro di riferimento". Nel suo intervento, Wallerstein (1990) ribadisce la sua tesi: le teorie psicoanalitiche generali, o metapsicologie, sono da intendersi come grandi metafore tra le quali è inutile cercare un terreno comune, perché sono fuori della portata dell’impresa scientifica, non sono confrontabili né falsificabili. Un terreno comune invece esiste, secondo Wallerstein, nella pratica clinica e nella teoria clinica che la sostiene. Tuttavia il tentativo di unificare la teoria clinica incontra le stesse difficoltà dei tentativi analoghi che riguardano le teorie generali. A Wallerstein risponde Roy Shafer (1990): "Nella situazione clinica non bisogna lasciarsi ingannare dal contenuto manifesto. Nella ricerca di un terreno comune in questo congresso incontriamo un altro tipo di contenuto manifesto ambiguo, precisamente le parole che compongono i vocabolari tecnici e teorici. Ad esempio, per i fini presenti le parole analisi del transfert possono essere prese come contenuto manifesto. Sia analisi che transfert sono parole ingannevoli, perché analisti di uguali e differenti convinzioni le usano in associazione con concezioni troppo differenti dello sviluppo infantile; della psicopatologia; della ripetizione e delle sue basi, funzioni e modi; dell’uso del controtransfert nel definire il transfert; della cosiddetta relazione reale con l’analista; dei modi e gradi appropriati di attività analitica; e così via. La diversità di uso è stata sin troppo evidente in questo congresso, come lo è nella nostra letteratura, nei seminari clinici e nel lavoro di supervisione. Lo stesso si può dire di altre parole chiave come resistenza e regressione. Di conseguenza, convenire che noi analizziamo il transfert equivale a poco più che convenire che usiamo le stesse parole per qualsiasi cosa facciamo".


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