PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> MODELLI E TECNICHE


PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Modelli e Tecniche in Psicoterapia



Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici

di Tullio Carere-Comes

Terza parte: L'asse filosofico



V. Il vertice K

Il vertice K - la posizione che il terapeuta assume quando il suo obiettivo prioritario è la conoscenza - è la sua "casa base": quella cui deve sempre e comunque tornare anche per capire se, come e quando deve lasciarla, in funzione dei bisogni extra-cognitivi del paziente. La necessità di questa posizione è così ovvia da avere per lungo tempo messo in ombra le altre: per la psicoanalisi classica non c’è quasi altro da fare che portare alla coscienza l’inconscio, come il comportamentismo ha l’obiettivo di correggere malapprendimenti e il cognitivismo quello di riconoscere e modificare le convinzioni irrazionali e disadattive.
Che il terapeuta non possa installarsi in permanenza ed esclusivamente in questo vertice è sempre stato chiaro a tutti, a cominciare da Freud:

"Non possiamo evitare di prendere in cura anche dei malati talmente sprovveduti e incapaci di condurre una vita normale che per essi l’influsso analitico non può non combinarsi con quello pedagogico, e anche nella maggior parte degli altri casi accadrà talvolta che il medico sia costretto ad assumere la funzione dell’educatore e del consigliere. Ma bisogna sempre agire con la massima cautela, e il malato non deve essere educato a rassomigliarci, ma piuttosto a liberarsi e a realizzare la sua stessa natura" (Freud, 1918).

Oggi si sa che non a volte, ma regolarmente il terapeuta si trova ad abbandonare la posizione neutrale per agire come un "educatore": come una figura materna o paterna. Anche in tali ruoli, abbiamo visto, produce conoscenza, una produzione che è tuttavia subordinata alle finalità di contenimento e di responsabilizzazione che sono caratteristiche di questi vertici. Passando a descrivere la posizione conoscitiva in senso proprio, riconosciamo in essa un insieme di operazioni che ricorrono in ogni tipo di terapia. Ogni terapeuta che voglia capire qualcosa del suo paziente deve saper oscillare tra una posizione "oggettiva" di osservatore distaccato e una "empatica" di osservatore partecipe; deve ricostruire per via interpretativa ciò che non è direttamente osservabile, ma ha da essere ipotizzato per colmare le lacune nel materiale osservato e renderlo intelligibile; deve infine, se non vuole restare vittima della ybris scientista, riconoscere un limite alla sua attività conoscitiva, oltre il quale si estende un ignoto con il quale dovrà pure rapportarsi.
Contrariamente all’opinione diffusa tra gli psicoanalisti, che la psicoanalisi sia cosa superiore alla psicoterapia, e stia in rapporto a questa come l’oro rispetto a un metallo vile, come credeva il maestro di tutti noi, ritengo che privilegiare, nella terapia, l’analisi rispetto alla sintesi o viceversa, comporti una perdita e uno scadimento rispetto alla visione imparziale e globale che ogni terapeuta dovrebbe privilegiare, in primo luogo nell’interesse di un ascolto impregiudiziale (cap. I). L’operazione cognitiva sarà pertanto esaminata, come le altre, da entrambi i lati.

L’analisi e la sintesi

Sul versante sintetico di questo vertice si colloca il terapeuta in quanto osservatore empatico. Il termine "empatia" ha avuto molta fortuna nella letteratura psicoanalitica degli ultimi due o tre decenni: forse per bilanciare l’eccesso di analisi che a lungo andare in quei circoli si è fatto sentire. Ma l’operazione non è così semplice e senza problemi come a taluno è apparso.
Occorre intanto distinguere un’empatia "cognitiva" da una "materna". Convinto assertore della prima, com’è noto, è Kohut (1971), che ne parla come di una forma di "introspezione vicaria", senza peraltro distinguerla chiaramente dalla seconda, che pure ricorre anch’essa ripetutamente nei suoi scritti. Certamente alla base di entrambe c’è un tipo di percezione basato sull’identificazione, sul "mettersi nei panni" dell’altro per cercare di sentire ciò che lui sente. Questa percezione diventa risposta nel momento in cui faccio sentire all’altro ciò che sento che lui sente: è la risonanza, tanto più fedele quanto più riesco a mantenermi neutrale, sospendendo qualsiasi intenzione che non sia quella conoscitiva. Questa risonanza, peraltro, non è un semplice "vibrare assieme": è anche trasmissione di un contenuto cognitivo, di un significato colto intuitivamente nel momento dell’immersione nel vissuto dell’altro. Si tratta di una risposta di comprensione, che consiste dunque in una risonanza affettiva collegata all’intuizione del suo significato.
Passando al versante analitico dello stesso vertice, il terapeuta prende le distanze da ciò che ha sentito e ne fa oggetto di esame. Qui l’esperienza diventa un materiale da confrontare con altri, tratti dallo stesso paziente in momenti precedenti, da altri pazienti con problematiche simili, da casi descritti in letteratura. Il terapeuta non si accontenta più del significato colto intuitivamente: cerca di coglierne il senso più profondo, l’origine, la derivazione da particolari esperienze, il collegamento con bisogni, desideri, conflitti. Non cerca solo di comprendere, ma anche di spiegare, di trovare i motivi e le cause. In questo fa uso, naturalmente, di tutti gli schemi esplicativi di cui dispone, confrontandoli con il materiale in questione, eventualmente modificandoli o ricombinandoli o inventandone di nuovi.
Ad esempio nel momento dell’immersione empatica avevo sentito, e comunicato al paziente: tu soffri perché non ti senti abbastanza amato. Come mai? Non ho fretta di capirlo. Per il momento è importante restare in questa esperienza assieme al paziente, fargli sentire che sento ciò che lui sente, senza troppa fretta di capire e di fare qualcosa. Dico che questa è una risposta sintetica di vertice K perché trasmetto una conoscenza (l’intuizione detta sopra) e insieme un senso di partecipazione all’esperienza.
Dopo un certo tempo avverto il bisogno di un esame più distaccato di ciò che sta accadendo, e credo che anche il paziente abbia il diritto di attenderselo da me. Comincio a chiedermi allora: perché questa persona non si sente abbastanza amata? Forse non si è sentita abbastanza amata nel suo passato infantile, e ora si aspetta che sia io a darle almeno una parte di ciò che le è mancato? In questo caso, trovo almeno una parziale legittimità nella sua richiesta? Oppure è cresciuta con la convinzione di avere diritto a rifornimenti continui e illimitati di amore da parte del mondo, dal cui centro non concepisce ancora di doversi spostare?
Questa analisi (versante analitico del vertice K) può portarmi a conclusioni diverse. Semplificando, potrei arrivare alla convinzione che questo paziente è stato effettivamente deprivato, nell’infanzia, delle condizioni minime necessarie per la costruzione della capacità di contenere e tollerare gli inevitabili conflitti dell’esistenza; e pertanto la sua richiesta che gli fornisca io questo contenitore "sufficientemente buono", che dunque mi collochi al posto della madre e ne svolga per un certo tempo la funzione basilare, è legittima. In questo caso non mi limiterò più a una risonanza empatica neutra, come è propria del vertice cognitivo, ma passerò a un’empatia di marca materna, che veicola un messaggio di giustificazione, di sostegno, di assunzione da parte mia della completa responsabilità di contenere e tollerare ciò che lui non può ancora fare (in particolare, le frustrazioni dovute ai miei inevitabili fallimenti empatici).
Oppure, la stessa analisi mi può condurre alla conclusione che la sofferenza di questo paziente è riferibile ad aspettative improprie e irrealistiche, che dovranno dunque essere riconosciute come tali e sostituite da altre, più ragionevoli e appropriate alle circostanze. Se il paziente tuttavia manifesta una chiara resistenza ad abbandonare le sue pretese (supponendo che si tratti di resistenza effettiva, cioè del rifiuto di affrontare un esperienza spiacevole da parte di un soggetto che è in grado e ha bisogno di affrontarla), la situazione mi obbliga ad assumere una posizione paterna, dalla quale riportare sistematicamente il paziente a quella realtà che egli cerca di evitare.
Infine, potrei trovarmi di fronte una persona che avendo già raggiunto un buon livello di maturità affettiva, non ha bisogno di essere contenuta né responsabilizzata, essendo di per sé ben motivata a un lavoro di autoconoscenza. In quest’ultimo caso non avrei motivo di spostarmi dal vertice K in cui già mi trovo, nel quale mi installerei stabilmente assieme al mio paziente (ci sarebbero le condizioni per una terapia cognitiva "pura").
Va da sé che le tre eventualità esaminate non si escludono reciprocamente. Al contrario, l’evenienza più frequente è quella del soggetto che in fasi diverse della terapia, e persino in momenti diversi della stessa seduta, occupa l’una o l’altra delle tre posizioni descritte. Non solo, ma nella realtà della relazione è più facile trovare situazioni miste, risultanti dalla combinazione dei tre casi in questione, che situazioni pure, interamente ascrivibili a un solo vertice. Questo vale in generale per ogni intervento terapeutico, e in particolare per quelli di vertice K:

"L’esperienza umana è unitaria. L’affetto e la cognizione non sono due fenomeni completamente separati, ma aspetti differenti di eventi intrinsecamente integrati. Di conseguenza una lettura autenticamente neutrale del paziente richiede una combinazione di entrambi i modi di percezione, empatico e cognitivo. La percezione empatica da sola sfuma troppo velocemente nella proiezione dell’immaginazione empatica. La lettura cognitiva da sola diventa troppo rapidamente analisi selvaggia. E ciascuno dei due elementi da solo permette all’analista di strutturare troppo velocemente i fatti in base alle sue conclusioni a priori. Per una vera neutralità, la musica e le parole debbono essere combinate. Ciascuno dei due fattori, preso separatamente, è fuorviante" (Poland, 1984; corsivi miei: l’espressione lettura autenticamente neutrale equivale esattamente alla posizione che io chiamo vertice K, e i modi di percezione empatico e cognitivo corrispondono ai due versanti, sintetico e analitico, di questo vertice).

Si può estendere e generalizzare l’osservazione di Poland: non solo i due versanti del vertice K debbono essere visti come due aspetti di un’operazione intrinsecamente unitaria, ma tutti e quattro i vertici del campo psicoterapeutico vanno considerati allo stesso modo, come sfaccettature di un’unica opera. Rivediamo la rappresentazione grafica del modello:

Fig. 4. Il quadrato della terapia orientato in senso analitico-sintetico

Questa figura differisce rispetto a quella riportata precedentemente (cap.II) perché è stato aggiunto l’asse sintetico-analitico, che l’attraversa obliquamente. Ora il campo è orientato: da una parte i vertici a prevalenza sintetica (M e O), dall’altra i vertici a prevalenza analitica (P e K). Il campo risulta diviso in quattro quadranti, uno per vertice, e ciascuno di questi è diviso a sua volta in due parti, corrispondenti ai versanti sintetico e analitico di ogni vertice. I due versanti del vertice K, che nella figura appaiono evidenziati, confinano con i quadranti dei vertici M e P: ottiene così evidenza grafica il fatto che le operazioni di vertice cognitivo sfumano da un lato e dall’altro verso quelle dei vertici parentali. Lo schema ha valore orientativo, ma è ovvio che il passaggio da un settore all’altro del campo non è segnato da una linea retta. Ogni atto terapeutico è un’operazione integrata, in cui i diversi vertici e la polarità analitico-sintetica si combinano nei modi più vari.

La neutralità

La differenza tra le operazioni cognitive attuate sull’asse orizzontale e quelle proprie del vertice K sta nel fatto che le prime sono subordinate a intenzioni educative che nelle seconde sono neutralizzate. Neutralità è il termine che forse meglio di ogni altro definisce la posizione del terapeuta in questo vertice. Ma anche questo, come empatia, è un termine problematico.
Una neutralità tecnica è inerente a qualsiasi arte o professione, nel senso che chi la esercita è tenuto a escludere dal suo campo di applicazione tutto ciò che le è estraneo e interferisce con il suo esercizio. Nel caso della psicoterapia la distinzione tra il pertinente e l’estraneo non è così agevole come nei casi in cui la soggettività dell’operatore è ben separata dall’oggettività dell’opera. È vero che il terapeuta può prendere un atteggiamento asettico e impersonale come un chirurgo, ma questa è solo una scelta tra molte altre, e raramente è appropriata. In generale il terapeuta interagisce con il suo paziente in una molteplicità di modi, e porta nella relazione affetti, emozioni, pensieri, valutazioni, scelte. Porta a volte anche emozioni negative: dolore, paura, rabbia. Tutto, incluse le emozioni negative, può essere messo al servizio della terapia, come può essere di ostacolo e rappresentare un’interferenza indebita della soggettività del terapeuta nel processo. Si tratta allora di distinguere le interazioni terapeutiche da quelle non terapeutiche, e di neutralizzare queste ultime. Ma come distinguerle?
La libertà d’azione del terapeuta è limitata in primo luogo dal metodo che applica. Chi non pone limiti alle proprie possibilità d’intervento, non definisce il proprio metodo e non si autodisciplina secondo le regole di questo è giustamente detto "selvaggio". D’altra parte l’autolimitazione troppo rigida è controproducente. Il terapeuta deve sapersi affidare al buon senso e all’intuito del momento per rispondere in tempo reale alle diverse circostanze, anche secondo modalità non previste dal suo metodo: questo è possibile a patto che all’intuizione segua sempre un momento di riflessione, in cui verificare l’effetto dell’intervento estemporaneo.
Del resto l’attenzione continua all’interazione - a ciò che ciascuno dei due fa e dice, e al modo in cui ciascuno intende ciò che l’altro dice e fa - permette di registrare le conseguenze di ogni azione: può accadere, ed è stato spesso notato, che un errore produca effetti terapeuticamente utili, mentre un intervento teoricamente e tecnicamente corretto porti a risultati indesiderati.
Neutralità, dunque, non è una posizione statica, uniforme e impersonale - questa è se mai la caricatura dell’analista ortodosso - ma la capacità dinamica di recuperare in continuazione una posizione neutra: la presa di distanza da ogni motivazione, la messa tra parentesi di ogni preconcezione, la sospensione di ogni giudizio. È la posizione che rende possibile la conoscenza, essendo comune tanto all’osservazione fenomenologica quanto a quella scientifica in senso stretto: e il cultore di scienze umane, come non può non essere il terapeuta, deve saper praticare entrambe (Fornaro,1997-1998), combinandole in un approccio che corrisponde precisamente al vertice K del campo terapeutico, con i suoi due versanti, che sto delineando.
L’opposizione tra scienze naturali e scienze dello spirito, o tra scienza oggettiva ed ermeneutica, introdotta oltre un secolo fa da Diltheye tenacemente sostenuta ancora oggi da una parte e dall’altra della barricata, è insostenibile per la terapia. La contrapposizione tra scienziato e fenomenomenologo è fuori luogo perché il primo deve far uso dell’intuizione nella formulazione delle ipotesi come il secondo deve mettere in funzione il pensiero analitico per disciplinare le sue visioni olistiche e ricondurle alla sobrietà del confronto e del dialogo. Lo scienziato originale e creativo è tale in quanto non pone limiti alla sua fantasia intuitiva nel momento della produzione delle ipotesi: può attingerle anche direttamente dai suoi sogni. Tanto è sfrenatamente libero nel momento sintetico dell’intuizione, altrettanto è severo e rigoroso nel momento analitico del confronto dell’ipotesi con il materiale, dell’argomentazione e della verifica. Dall’altro lato anche per il fenomenologo o l’ermeneuta viene il momento in cui le descrizioni o narrazioni debbono essere riportate al materiale e valutate per la loro capacità euristica, esplicativa e trasformativa.
Sulla necessità di integrare il pensiero intuitivo con quello argomentativo (rispettivamente noetico e dianoetico, nella filosofia antica) si può essere tutti d’accordo1. Ma occorre vedere su quale base possa avvenire questa integrazione.Già gli antichi si erano posti il problema. Che cosa viene prima di nous e dianoia, qual è il fondamento di entrambi? È l’Uno, insegnava Plotino. L’Uno non è un concetto speculativo: è l’assolutamente primo, l’originario, la dimensione che precede e fonda la separazione di soggetto e oggetto, cui è necessario riconnettersi per non smarrirsi in quella separazione. E come fare per operare questa riconnessione? Domanda cruciale, perché per gli antichi la filosofia non è speculazione astratta, ma in primo luogo esercizio e terapia (Hadot, 1987). Il metodo indicato da Plotino è:afele panta, abbandona tutto2. Sospendi, metti tra parentesi ogni cosa. Liberati dalle catene della memoria e del desiderio, dirà Bion. Ma questa sospensione radicale, questo lasciar andare tutto, è possibile solo se fondato sull’Uno - su F in O, nel linguaggio cifrato di Bion.
La necessità di questa fondazione sarà esaminata più oltre. Ma abbiamo già visto (cap. 1) che l’abbandono delle certezze ordinarie, cognitive e affettive, espone a un vuoto inquietante e alla lunga insostenibile, a meno che quel vuoto non sia sentito e vissuto come l’originario, vuoto di realtà ma pieno di infinite potenzialità, al quale è possibile e giusto affidarsi (F in O) come a una sorgente inesauribile di ispirazione.
L’ascolto autentico richiede la sospensione di qualsiasi pregiudizio teorico. Ma nel momento in cui il fondamento teorico dell’operazione terapeutica viene meno, si impone la necessità di trovarne un altro. In mancanza di un fondamento non teorico, cioè della possibilità di soggiornare in uno spazio libero da teorie, è inevitabile che l’ascolto sia condizionato da queste, nel senso che tutto ciò che il paziente dice è destinato a essere inquadrato nelle categorie del già noto: il terapeuta sa che cosa il paziente dirà prima ancora che inizi a parlare.
Come Bion ha mostrato, ma pochi hanno visto, è impossibile liberarsi dalla tirannide del già noto senza un atto rischioso di affidamento all’ignoto. Di conseguenza, se manca F in O è impossibile una vera neutralità. La falsa neutralità che abitualmente si trova al suo posto semplicemente nasconde i presupposti teorici che il terapeuta non può sospendere, perché se l’ignoto non è una dimensione affidabile bisogna assolutamente aggrapparsi a qualcosa di noto per non precipitare nel vuoto.
Se la psicoterapia non è ancora diventata una scienza è perché, come ha mostrato Bernardi (cap. IV), i nostri capiscuola - per non parlare dei loro seguaci - sono tutti tenacemente aggrappati ai loro paradigmi, dei quali sono per di più largamente inconsapevoli. La trasformazione delle teorie in mezzi, per lo più inconsci, di identificazione e di potere, porta alla loro convalida automatica e alla mutazione dello scienziato in chierico.
La terapia ha bisogno di teorie, ma se manca il collegamento con il fondamento non teoretico della teoria, questa è destinata a diventare dogma e schibboleth. Lo stesso si può dire per il versante sintetico. L’empatia (EinfŸhlung) presuppone l’unipatia (EinsfŸhlung; Fornaro, 1993): una trasformazione in O, una perdita temporanea dei confini dell’io, un seppur momentaneo annullamento delle differenze. Chi pretende di entrare nell’altro senza perdersi, restando in tutto e per tutto sé stesso, non fa che proiettare nell’altro le proprie fantasie.
La funzione simbolica (del vertice O: vedi oltre) mette in rapporto con l’incondizionato della cosa in sé, mentre la conoscenza si occupa di cose condizionate e definite. Ciascuna delle due ha bisogno dell’altra: se manca il fondamento ignoto, il noto si assolutizza e nascono idoli, dogmi e credenze. Se manca la ricerca dialogica e razionale, il simbolo si concretizza e si trasforma anch’esso in idolo. Il terapeuta ha fede, ma (in quanto terapeuta) non può essere un credente. Deve aver fede (una fede "filosofica", nel senso di Jaspers [1962]: fede nell’Umgreifende, l’orizzonte onnicomprensivo che richiama l’Uno di Plotino e l’O di Bion), perché non si può curare senza la fede nella potenza autorisanativa inconscia: il terapeuta può negarla solo attribuendo a sé stesso la potenza risanativa, ma questa ybris lo conduce fatalmente all’impatto con la roccia basilare dell’ybris uguale e contraria del paziente. E il terapeuta non può essere un credente, se il credente è colui che crede nella verità delle cose in cui crede, e quindi nella falsità di tutto ciò che le contraddice: qualsiasi credo, religioso o scientifico (cristiano o buddista, freudiano o junghiano), è un modo di saturare o condizionare lo spazio dell’ascolto che crea un inevitabile impedimento a un vero dialogo.

L’interpretazione

Tutti interpretano. Non si può fare a meno di interpretare, cioè di organizzare il materiale dell’esperienza in configurazioni significative. Le interpretazioni possono essere buone o cattive, patologiche o terapeutiche. Una interpretazione (da chiunque fornita e in qualsiasi contesto) è terapeutica se ha un potere liberatorio, se cioè produce un effetto di verità o di realtà o, in senso lato, di guarigione. Questo effetto può essere ottenuto in primo luogo ricostruendo e mostrando a qualcuno un’interpretazione cattiva (errata, nevrotica, folle) in cui è rimasto intrappolato.
Spesso un’interpretazione del genere ha la funzione di proteggere da qualche realtà o verità spiacevole che non si vuole o non si ritiene di poter affrontare, o che è stata rimossa e dimenticata. Sovente non basta mostrare al paziente in che modo si difende da che cosa: occorre anche fornirgli interpretazioni alternative, o aiutarlo a costruirle. Si deve cioè mostrare che una certa esperienza, rifiutata perché ad esempio "ingiusta" relativamente a un determinato insieme di valori e di aspettative, può essere accettata se è riformulata in un diverso orizzonte.
Chi è convinto di avere diritto a determinati riconoscimenti, o di non poterne fare a meno, non abbandonerà questa convinzione, nonostante il carico di frustrazione, rabbia e disperazione che comporta, fintanto che non riuscirà a vedere che è possibile e conveniente farlo; vale a dire finché la prospettiva di diventare una persona che non dipende dall’approvazione altrui non sarà percepita come più desiderabile dell’approvazione stessa. Spetta dunque al terapeuta contrapporre alla visione di un mondo in cui i bisogni sono sempre soddisfatti, i meriti riconosciuti e i torti raddrizzati, quella di un altro mondo in cui i desideri a volte si realizzano e a volte no, ma in cui vale comunque la pena avventurarsi, attrezzandosi al meglio per l’avventura.
Le interpretazioni alienanti debbono essere ricostruite e analizzate dai punti di vista genetico, dinamico ed economico: cioè è importante capire qual è la loro origine, quali forze o interessi le sostengono, che parte giocano nell’economia complessiva del soggetto. In questa analisi il patrimonio di teorie e tecniche accumulato dalle diverse scuole può essere di grande aiuto o di serio intralcio.
Ad esempio alla base di aspettative improprie si possono trovare desideri infantili di vario genere e livello, che debbono essere rintracciati e spesso anche rimessi in scena nella relazione terapeutica per poter essere riconosciuti e superati. Altre volte la componente dinamica non è molto rilevante: una convinzione erronea può essersi installata nella mente di qualcuno semplicemente per una generalizzazione indebita o un condizionamento inavvertito, per pigrizia mentale o scarsa abitudine alla riflessione. In questo caso è molto più produttivo dirigere l’attenzione del paziente sulle sue assunzioni implicite, in modo che possa vederne l’errore e correggerlo. Un terapeuta che avesse un orientamento esclusivamente psicodinamico o esclusivamente cognitivo-comportamentale non potrebbe fare altro che forzare il lavoro nell’unica direzione che conosce, mancando così di riconoscere la specificità del problema da trattare.
Un terapeuta euristico (Peterfreund, 1983) non ha investimenti particolari su alcun modello interpretativo. Ne conosce diversi (a mio avviso dovrebbe conoscere tutti i modelli principali che hanno mostrato di avere valore euristico3, non diversamente dall’idraulico da cui legittimamente ci aspettiamo che conosca tutti i modi principali di riparare un rubinetto), applica di volta in volta quelli che gli sembrano più appropriati alle circostanze e ne verifica sul campo la validità. La verifica segue le regole generali del procedimento scientifico di verifica delle ipotesi: un’ipotesi è buona se permette una buona lettura (cioè sufficientemente coerente e completa) del materiale, se conduce a nuove scoperte e se, in seguito alla sua applicazione, si verificano i cambiamenti attesi.
Il terapeuta stereotipato, al contrario, ha un forte investimento su alcuni modelli interpretativi (freudiani, kleiniani, skinneriani,ecc.). Egli crede di sottoporre le sue ipotesi a verifica: ma, essendo convinto a priori della validità dei suoi modelli (ne va della sua identità professionale), ottiene regolarmente le conferme che ha bisogno di ottenere. In questo non è affatto diverso dai suoi pazienti, che riescono a ricevere costante conferma delle loro convinzioni insane. Come è noto, Popper (1976) fu indotto proprio dall’osservazione di questa malattia cognitiva degli psicoanalisti a formulare il suo principio di falsificazione, che mette l’accento non sulla verifica ma sulla confutazione delle ipotesi. Pensava, in questo modo, di riuscire a neutralizzare i pregiudizi che inficiavano alla base il procedimento di verifica.
Se la proposta di Popper non ha avuto molto seguito è forse perché chiede troppo all’uomo di scienza. Va bene invitarlo a non affezionarsi troppo alle sue congetture, dunque di prendere le distanze dalla sua volontà di convalidarle: ma pretendere che passi dalla parte opposta, e preferisca la confutazione alla verifica, è troppo. La giusta neutralità che si può e si deve chiedere allo scienziato (e al terapeuta nel vertice K) consiste in una messa tra parentesi del desiderio di veder confermate le proprie teorie, ma anche della volontà di vederle confutate, in nome di una concezione troppo rigida, un po’ superegoica, della scienza.
Da una posizione autenticamente neutrale il terapeuta è libero di far uso di qualsiasi ipotesi, attinta in qualsiasi luogo: il giusto distacco (non troppo grande né troppo piccolo) gli permetterà sempre di utilizzarla se contribuisce al processo della terapia, e di scartarla in caso contrario. Ma ricordiamo ancora una volta che è molto difficile, e forse impossibile, mantenere una posizione veramente neutrale, se la volontà di conoscenza non è fondata su una "volontà di ignoto", sulla capacità e volontà di soggiornare in un vuoto di sapere: in mancanza di questa, è pressocché inevitabile che si stabilisca un’identificazione con qualche teoria.

L’identità

Una paziente chiede: "Io sento molte voci dentro di me, che dicono molte cose contraddittorie. Ma quale di queste è la mia?". Domanda filosofica che colloca il terapeuta nel vertice K.
L’importanza della sospensione del desiderio e della memoria è inversamente proporzionale alla profondità dell’identificazione in cui il paziente si trova rispetto ai propri vissuti. Quanto più il soggetto è immerso in uno stato ipnotico di identificazione con la propria esperienza e con la galleria di personaggi che costituisce il suo "sé", tanto più i desideri si trasformano in pretese e i giudizi in accuse rivolte a sé stessi o al mondo. Poiché ne derivano conflitti intollerabili, l’identificazione con alcuni vissuti si accompagna regolarmente alla negazione di altri, che spariscono dalla coscienza per ricomparire in forma camuffata altrove (nel mondo esterno, nel soma, nel vissuto altrui).
L’osservazione partecipe del terapeuta riconosce e neutralizza sistematicamente l’esperienza del paziente. In tal modo da un lato gli restituisce la competenza dei vissuti rimossi, scissi e proiettati, dall’altro, attraverso la sospensione di ogni giudizio di valore e di realtà, le pretese sono ridimensionate a desideri e le accuse a valutazioni soggettive. Così il soggetto può riappropriarsi della sua esperienza e iniziare l’elaborazione dei conflitti.
Come sull’asse orizzontale il paziente impara a diventare madre e padre di sé stesso, qui, addestrandosi a neutralizzare la propria esperienza, comincia a diventare sé stesso. Passa infatti da una condizione alienata (ben descritta dalla metapsicologia freudiana, in cui l’io è servitore di tre padroni) a una di libertà, in cui i condizionamenti che portano alla costituzione immaginaria dell’es, del superio e del mondo esterno sono gradualmente dissolti.

Il teatro e il filosofo

Lo schermo offerto alle proiezioni dei pazienti non può mai essere completamente bianco, ma si può decidere di renderlo tanto neutro e impersonale quanto è umanamente possibile: tuttavia una decisione del genere non è opportuna né conveniente. Non è opportuna, perché implicherebbe la scelta di privilegiare a priori un aspetto della terapia (l’analisi delle fantasie inconsce) a scapito di altri che potrebbero essere più importanti per un determinato paziente; sarebbe cioè, come abbiamo già rilevato più volte, una scelta ideologica. Ma non sarebbe nemmeno conveniente, perché le esigenze ignorate del paziente si farebbero comunque sentire e si dovrebbe poi farvi fronte in qualche modo, usando diversi e mal definiti "parametri" che spezzerebbero l’unità del campo terapeutico in una zona ufficiale e una semiclandestina.
Non per questo l’esigenza di mantenere un’immagine sufficientemente neutra deve essere trascurata: ma bisogna chiarirne il significato. Il terapeuta può operare a tutto campo, senza sottrarsi ad alcun ruolo che la relazione gli chieda di impersonare, e tuttavia continuare a offrire al paziente un palcoscenico su cui rappresentare tutto ciò che ha bisogno di mettere in scena. Anzi, il fatto che il terapeuta interagisca esplicitamente in una molteplicità di modi può facilitare la proiezione delle parti che premono per la rappresentazione (Hoffman e Gill, 1988). Il problema naturalmente nasce quando queste proiezioni debbono essere interpretate. Se il terapeuta si è esposto eccessivamente, se si è identificato con troppo realismo nelle parti che il paziente gli ha chiesto esplicitamente o implicitamente di impersonare, gli sarà poi difficile dire: questo non sono io, è solo un prodotto della tua immaginazione.
Il terapeuta può evitare di trovarsi in questa difficoltà se non perde mai di vista che la relazione terapeutica è in primo luogo gioco e rappresentazione: un palcoscenico su cui agiscono due attori, dei quali uno ha la parte del paziente e l’altro quella del terapeuta. Non è detto che il secondo sia più sano o più intelligente del primo, ma è probabile che l’incontro sia comunque proficuo se ciascuno dei due rispetta il ruolo che gli è assegnato. Se il terapeuta non si prende troppo sul serio, non si sente investito di una missione speciale, ma cerca solo di fare al meglio la sua parte, può sempre rispondere al paziente che gli attribuisce azioni o intenzioni criticabili: qualsiasi cosa io abbia detto o fatto, qualsiasi cosa sia avvenuta, quello che conta è come tu e io l’abbiamo vissuta. È questo in ultima analisi il motivo che giustifica la presenza del paziente e del terapeuta in una stanza: si producono delle esperienze e se ne indaga il senso.
Se questa idea della terapia come laboratorio teatrale è tenuta ben presente, almeno dal terapeuta, si evitano identificazioni troppo strette con i personaggi che si avvicendano sulla scena, e le azioni terapeutiche richieste dal processo sono compiute senza accanimento e con la giusta dose di partecipazione e distacco: come ci può attendere dalla neutralità dell’attore. Se questo è il clima della relazione, diventa relativamente agevole interrompere in qualsiasi momento la scena che si sta recitando per esplorarne il senso, anzi i molteplici sensi che regolarmente si intrecciano nell’interazione.
Come si concilia questa idea della terapia come rappresentazione teatrale con l’istanza di autenticità che è stata avanzata sin dall’inizio? Questa esigenza è stata affermata per contrasto con le molte pratiche ideologiche che occupano abusivamente il campo della psicoterapia. Un modello integrato, basato sull’esperienza di ciò che comunemente accade e sull’analisi comparata dei principali metodi, è stato proposto come strumento per orientarsi tra le richieste esplicite e implicite dei pazienti, tra le quali emerge quella di uno spazio teatrale dove mettere in scena drammi interiori e giochi relazionali. A tale richiesta il terapeuta risponde dal vertice K, dove si pone come partner in questa rappresentazione e come specchio in cui il paziente possa vedersi riflesso.
Questo significa che il terapeuta recita nel vertice neutrale e fa sul serio negli altri? È una distinzione impropria. Quando assume il ruolo di una madre, un padre o un mistico, il terapeuta risponde sinceramente a quelle che gli sembrano esigenze autentiche del paziente: ma la cosa ha valore e significato terapeutico solo grazie all’esistenza di un luogo - il vertice cognitivo - cui sempre si deve tornare per esplorare il senso delle azioni compiute altrove. Questa continua oscillazione tra la posizione neutrale e tutte le altre conferisce una qualità particolare e paradossale alla scena terapeutica, un come se che la rende al tempo stesso piena e vuota, reale e immaginaria.
Infine: che cosa hanno in comune la neutralità dello scienziato e la neutralità dell’attore? Esiste una categoria sovraordinata che comprende entrambe? Esiste: è la neutralità del filosofo. Il filosofo è attratto dalla conoscenza certa dell’episteme, e per questa via giunge alla scienza; ma nulla di ciò che è umano gli è estraneo, e per questo è presente in ogni scena: ma non allo stesso modo degli altri. Per la coscienza non riflessiva ogni cosa è quello che sembra, per il filosofo è anche altro, ed è proprio questo altro che lo attrae più di tutto. Come un attore il filosofo entra in ogni parte - perché solo l’identificazione empatica gli permette di capire le cose dall’interno - ma non dimentica mai di essere un attore: un uomo che dà vita a molti personaggi e non appartiene a nessuno (Vegetti, 1983).



VI. Il vertice O

Lo sciamanismo

Secondo la concezione corrente, lo sciamano è un "tecnico del sacro", intermediario tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti, la cui funzione principale è la cura delle anime. Al di là di questa definizione essenziale, le opinioni degli studiosi divergono. Per Eliade "l’elemento specifico dello sciamanismo non è l’incorporazione degli ‘spiriti’ da parte dello sciamano, ma l’estasi che permette l’ascesa in Cielo o la discesa agli Inferni" (1951, p. 529). Al contrario per altri, come Lewis (1971), è proprio il rapporto con gli spiriti l’elemento specifico: chiunque può avere a che fare con loro, ma solo lo sciamano è capace di governarli, cioè di neutralizzarli se sono malvagi e di assicurarsene l’aiuto se sono benevoli.
L’aldilà e i suoi spiriti cessano di essere cose esotiche o anacronistiche se sono visti come modi metaforici di designare quell’ambito di esperienza cui oggi rinviano altre metafore: l’inconscio e i suoi fantasmi.
Il viaggio può essere ascendente o discendente e gli spiriti possono essere buoni o cattivi. Poiché non esiste nulla di negativo che non sia stato prima negato, il mondo degli spiriti malvagi, in quantoprodotto da una negazione, ha un’evidente parentela con il rimosso freudiano. Invece gli spiriti benevoli che stanno in cielo, custodiscono la morale della tribù e hanno una funzione di protezione e di guida corrispondono in parte a quell’ambito psichico che Freud ha chiamato superio, per un’altra parte all’inconscio come è stato inteso da Jung: il luogo di una potenza sorgiva e di un’intelligenza intuitiva capace di ispirare e guidare l’io oltre i limiti della razionalità cosciente.
"In quale misura possiamo legittimamente assimilare lo sciamanismo alla psicoterapia e alla psicoanalisi?". La questione è posta da Lewis (1971, p. 161). La sua argomentazione si sviluppa come segue:

"Per incominciare a cercare una risposta a questa domanda, la cosa più ovvia è guardare più attentamente alla ‘seduta’ sciamanica. La ‘seduta’ è invariabilmente, almeno per una sua parte, una rappresentazione carica di forti emozioni drammatiche, [essa] fornisce un ambiente in cui viene dato libero sfogo all’espressione dei problemi e delle ambizioni che si riferiscono direttamente alle circostanze sociali normalmente frustranti. L’atmosfera, anche se controllata e non così anarchica come potrebbe sembrare, è essenzialmente permissiva e confortante. Ogni cosa assume il tono e il carattere del moderno psicodramma o della terapia di gruppo. L’abreazione è all’ordine del giorno. Gli impulsi e i desideri rimossi, quelli relativi alla costituzione del singolo così come quelli condizionati socialmente, ricevono pieno sfogo pubblico. Non ci si ferma davanti a nulla. Non c’è interesse o pretesa che in questo ambiente sia tanto sconveniente da non ricevere un’attenzione comprensiva. Gli sciamani possono anche prescrivere una ristrutturazione dei rapporti del paziente secondo le migliori tradizioni della moderna psicoterapia".

La conclusione di Lewis è che "lo sciamano non è meno di uno psichiatra, è di più", perché la cura dei disturbi mentali è solo una delle sue competenze:

"La psichiatria, e in particolare la psicoanalisi, come Jung avrebbe ammesso molto più liberamente di quanto voglia fare la maggioranza dei freudiani, rappresenta forme di sciamanismo limitate e imperfette. I loro fini sono gli stessi: mantenere l’armonia tra uomo e uomo, tra uomo e natura".

Uno psicoanalista freudiano potrebbe ribattere agevolmente che nella seduta sciamanica ha luogo il tipo di psicoterapia che è sempre stato esercitato, con poche varianti, dai tempi più antichi fino a Freud. Ciò che manca, in quella pratica, è precisamente ciò che Freud vi ha introdotto: l’analisi delle resistenze e del transfert. L’obiezione deve essere accolta: è del tutto corretto affermare che il genio di Freud ha rivoluzionato una pratica che era rimasta sostanzialmente immutata per millenni.
Per quanto riguarda le regioni del mondo degli spiriti ridefinite come rimosso e superio, Freud ha introdotto un metodo decisamente superiore all’approccio basilarmente catartico e suggestivo delle antiche pratiche: per questi aspetti non abbiamo più bisogno di scomodare gli sciamani. L’ultima dimensione, abitata da potenze capaci di guidare e guarire, è invece rimasta fuori, è il grande rimosso della psicoanalisi freudiana. Tuttavia il rimosso ritorna sempre in un modo o nell’altro. Ha cercato di tornare una prima volta con Jung, per ricongiungersi al filone principale della psicoterapia moderna. Ma il ricongiungimento non è avvenuto; né, bisogna dire, Jung ha fatto molto perché avvenisse. Al contrario, ha popolato il suo "inconscio collettivo" di tali e tante entità archetipiche da mettere a dura prova anche i meglio disposti. Jaspers, non certo sospettabile di freudismo, ha scritto dell’opera di Jung: "È come se l’intero mondo dei miti, dei simboli e delle speculazioni si mutasse in una palude" (1962, p.236). Se Freud e Jung fossero riusciti a mettersi d’accordo, una psicoterapia integrata sarebbe nata già da molto tempo. Invece sta nascendo solo ora, grazie ad altri ritorni del rimosso. In particolare grazie a Bion, che non a caso è stato definito uno sciamano4.

Psicoanalisti e sciamani

Bion ha recuperato la modalità "mistica", cioè diretta, non mediata dall’intelletto né dall’istituzione, di porsi in rapporto con la verità, che è tipica dello sciamanismo - ma lo ha fatto dalla posizione altamente sofisticata di uno psicoanalista kleiniano:

"Coniugando il pensiero mistico con le finalità dell’investigazione scientifica, Bion si propone di collocare la psicoanalisi in una dimensione intermedia tra la cultura occidentale e quella orientale, che superi la parzialità e le impotenze di entrambe" (Vegetti Finzi, 1986, p. 352).

L’inconscio che interessa Bion non è più il rimosso freudiano, ma l’inconoscibile, l’elemento originario di cui tutto ciò che può essere detto è una trasformazione. La conoscenza trasforma la cosa, e l’oggetto conosciuto è il prodotto di un’operazione conoscitiva, non la cosa in sé:

"Dico che O è inconoscibile non perché non reputi la capacità umana all’altezza del compito, ma perché K, L o H [la conoscenza, l’amore e l’odio] sono inadeguati a O. Essi sono appropriati a trasformazioni di O, non a O". (Bion, 1965, p. 194). Fornaro (1990a) commenta: O è "fondamento, inizio, ma anche fine, per lo meno nel senso di ciò per cui occorre comunque ripassare al fine di un’effettiva crescita; è fonte di vita, di creatività, di assoluta novità, ma anche di follia se non trova il ‘contenitorÈ, la forma adeguati. È ovvio che Bion (1970) espressamente finisca con l’attribuire carattere divino a quell’area, che come punto O si pone alla radice del nostro essere. Proprio per questo O è ineffabile, non perché esso sia una sorta di scatola nera, non è inconoscibile perché l’uomo non è all’altezza, ma per una ragione di principio: poiché fonte di ogni essere, qualunque concettualizzazione, quale messa in forma, è trasformazione di quell’area, e non è quell’area; in altri termini, ogni dire di essa è sempre parziale, sempre la tradisce, perché non è più quell’essere stesso".

Bion ha impiegato il simbolo O per indicare la dimensione originaria e generativa dell’inconscio, o più esattamente dell’ignoto. O è un simbolo della totalità dell’esistenza, dell’orizzonte onnicomprensivo e della matrice di tutti i fenomeni. L’uomo, in quanto parte di questa totalità, non può conoscerla, perché la parte non può conoscere il tutto. Solo un atteggiamento di apertura e sintonizzazione è appropriato, e Bion ha usato la formula F (fede) in O per indicare questo atteggiamento. O sta per totalità e per origine: come luogo della potenza generativa e rigenerativa, ospita la potenza inconscia di guarigione che il terapeuta deve cercare di attivare. In questa visione l’esistenza del singolo ricava il suo senso dall’insieme di cui è parte, e la sua salute dipende da una giusta connessione con l’origine.
Sulla stessa linea di ricerca si è mosso Fornari, che ha "riscoperto" l’anima come luogo originario dell’uomo (1984). Questa riscoperta è inserita in coordinate di stampo naturalistico, in quanto l’anima è spiegata come una fantasia, è anzi la "fantasia primaria", il residuo fantasmatico dell’esperienza del feto nel grembo materno. Poiché si suppone che in quella condizione il nascituro si senta pienamente soddisfatto e beato nell’unione col suo mondo, unicamente intento a creare sé stesso senza alcuno sforzo, la traccia di quell’esistenza primaria, cioè l’anima, avrebbe caratteristiche divine, e si costituirebbe come nucleo originario, come "primo motore immobile", di tutta l’esperienza successiva.
Più importante di questa spiegazione naturalistica5 è la funzione che Fornari assegna all’anima nella terapia: in quanto fantasia o rappresentazione simbolica dello stato originario, essa deve essere riaccesa o riattivata, perché solo questa esperienza dell’origine permette di risvegliare la fiducia, la speranza, la volontà e la forza di guarire. Questo processo di recupero dell’origine, di "reinfetazione e rinascita" presenta molti punti di contatto con la bioniana "trasformazione in O", ed è ricollegabile al processo di morte e rinascita che occupa una posizione centrale in ogni tipo di sciamanismo. Ciò che Fornari riscopre, con l’anima, è il principio di ogni pratica sciamanica: l’identificazione profonda con lo stato originario rigenera, rinnova e risana.
Fornari ha preso a prestito dal linguaggio della religione il termine "transustanziazione" per indicare il trasferimento di sostanza affettiva da una scena del passato a una situazione presente (1979, p. 70). La relazione terapeutica riattiva vissuti infantili, che a loro volta riattivano il vissuto prenatale. È questa la "sostanza primaria" che dall’origine si trasferisce al presente: non si tratta semplicemente di un ricordo carico di desiderio che ha l’effetto di distorcere l’esperienza attuale, ma di una potenza affettiva sostanziale, portatrice di una vis medicatrix, di una capacità autentica di risanare e rigenerare. Siamo di fronte a un evento che è certamente imparentato con il transfert classico, ma che modifica e anzi capovolge il senso della terapia freudiana. Ciò che emerge dal passato non è più una fantasia inattuale che deve essere riconosciuta e alla fine abbandonata in vista dell’adattamento alla realtà; è invece il nucleo più profondo del nostro essere, cui è necessario riconnettersi per guarire dall’alienazione e dalla perdita di senso cui l’oblio dell’origine ci ha destinato.
Beninteso il paziente porta nella relazione di terapia anche pretese e sogni di ricongiungimenti impossibili, che debbono essere freudianamente interpretati e mostrati nella loro inattualità. Tuttavia, questo lavoro analitico avrà maggiori probabilità di successo se il terapeuta saprà discriminare - come hanno saputo fare Jung, Bion e Fornari - l’illusione da estinguere dalla sostanza da salvare. A questa sostanza si può alludere con metafore naturalistiche - la gravidanza e la nascita - o spiritualistiche - la nascita del Messia - o con le metafore che si preferiscono. Essa può essere realizzata simbolicamente con modalità non metaforiche, ma metonimiche, come nel caso di alcune tecniche meditative orientali (Fornari, 1985, p. 124). La "transustanziazione" può avvenire nella relazione di terapia o fuori di essa, nel contesto di altre relazioni affettive o attraverso esercizi particolari e con l’uso di simboli appropriati.

Il sacrificio

Se il "sacro" è l’origine perduta, il "sacrificio" è ciò che consente di riconnettersi ad essa. Un sacrificio che non apra alla dimensione dell’origine è solo una rinuncia che può essere subita per necessità o convenienza, ma che rimane priva di efficacia trasformativa sulla domanda essenziale.
Mentre dal vertice paterno il terapeuta chiede rinunce in nome dell’adattamento alla realtà convenzionale, dal vertice O chiede sacrifici in nome di un processo rigenerativo. Ma perché proprio la terapia dovrebbe recuperare una dimensione sacrificale, in un mondo che sembra averne perduto il senso? Perché è la logica stessa della relazione terapeutica a richiederlo. Ricordiamo che il principio ispiratore della terapia autentica è l’ascolto delle domande reali generate dalla logica interna del processo, e non dall’apparato teorico e tecnico del terapeuta. Come ha mostrato per primo Freud (1937), nella terapia a lungo termine si arriva quasi invariabilmente a una "roccia basilare", al rifiuto ribelle e ostinato perciò che si presenta come perdita irreparabile, mancanza incolmabile o limite invalicabile. Ma come è possibile che un soggetto si arrenda? Come può rinunciare alla pretesa che le sue perdite siano risarcite, le rivendicazioni accolte e il vuoto d’amore riempito, se non vede nell’esperienza catastrofica della perdita di sé un passaggio obbligato per la conquista di sé? Con le parole di Zarathustra:

"Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Del cammino del creatore).

Nietzsche ha recuperato e rivalutato la nozione di sacrificio, che nella cultura occidentale è stata troppo spesso corrotta e utilizzata come copertura per un impulso di negazione della vita alimentato da paura e debolezza. Con Nietzsche il sacrificio torna ad essere ciò che era nelle sue origini sciamaniche6, l’atto dell’uomo che vuole tramontare per compiersi.
La stessa psicoterapia è resa possibile da un sacrificio iniziale: quello che, sospendendo la memoria e il desiderio, apre lo spazio per un vero ascolto. Questa sospensione, ha mostrato Bion, implica l’affidamento a un vuoto di sapere (F in O), e non è possibile senza di esso. La polarità bioniana K « O è per molti aspetti sovrapponibile alla polarità freudiana primario-secondario. L’io di Freud usa gli strumenti conoscitivi del pensiero verbale (processo secondario) per imbrigliare e dominare gli impulsi primitivi e caotici del processo primario. Il movimento della crescita e della civiltà è unidirezionale, dalla pulsione inarticolata al linguaggio: "dov’era l’es deve venire l’io". Fidarsi dell’inconscio per Freud sarebbe stato un non senso, come fidarsi della giungla: il selvatico va addomesticato e l’inconscio interpretato, non c’è altro senso al di fuori di questo. Per Bion, invece, il movimento è bidirezionale. In primo luogo ogni conoscenza K è una trasformazione della cosa originaria O, che in quanto tale resta per sempre inconoscibile; in secondo luogo il soggetto, dopo essersi liberato dell’illusione di avere "legato" O mediante K, deve continuamente liberarsi di K per ritornare a O come al proprio fondamento, per rigenerarsi e dare inizio a nuove trasformazioni.
Bion indica la necessità di sacrificare proprio quella decisione che per Freud dà senso a tutto il processo: la volontà di dominio dell’io sull’es, il tentativo di catturare l’ignoto con le reti della memoria e del desiderio. Come scienziato, Freud deve cercare di sottrarre la maggior estensione possibile di territori all’ignoto, per metterli sotto la giurisdizione della scienza. Bion è un mistico e uno sciamano, e nell’ignoto vede soprattutto una dimora, la casa originaria. Non si tratta di scegliere tra l’uno e l’altro punto di vista, ma di riconoscere che entrambi sono necessari allo psicoterapeuta.
Che la prassi psicoterapeutica abbia dei tratti in comune con l’operazione scientifica, è cosa ovvia e accettata da tutti. Che in essa si ritrovino alcuni aspetti delle pratiche primitive da cui è derivata, è cosa tutt’altro che ovvia per la coscienza contemporanea: qual è l’evidenza che ci permette di affermarlo? La necessità di un vertice generativo deriva dall’eccedenza della domanda rispetto alle risposte che il terapeuta può dare dagli altri vertici della relazione. Si pone, in questa, una domanda originaria, una domanda dell’origine, rispetto a cui ogni risposta di tipo neutrale-scientifico, oltre che parentale, è inadeguata.
Cerchiamo di localizzare questa domanda. Una condizione di mancanza di fiducia in sé stessi, nelle proprie capacità, o nella vita in generale si ritrova, in misura variabile, nella generalità dei casi. In terapia la fiducia aumenta gradualmente imparando a risolvere problemi specifici, o attraverso l’esperienza di una relazione affidabile, grazie all’interiorizzazione di un "nuovo oggetto". Ciò che è acquisito in tal modo è necessario e insufficiente. Una persona può avere risolto alcuni problemi, ma non tutti. Una crescita continua può avvenire solo se le soluzioni trovate e gli adattamenti raggiunti sono rimessi in gioco più e più volte, ma questo richiede una fiducia di base nel gioco. In mancanza di questa, un arroccamento conservativo sulle posizioni acquisite è inevitabile, a meno che la sfiducia non sia mascherata da atteggiamenti disfida.
Analogamente, se la fiducia è stata ottenuta grazie all’interiorizzazione di un "oggetto buono", cioè di una buona relazione con il terapeuta che ha permesso di compensare relazioni infantili non sufficientemente buone, l’oggetto interiorizzato, anche se ottimo, è sempre un oggetto con tratti definiti, mentre l’esistenza non è un oggetto, né ha tratti definiti e prevedibili. Una persona ben adattata, se non si arrocca difensivamente, incontrerà sempre qualcosa cui non è adattata; allo stesso modo il soggetto che ha dentro di sé un buon oggetto si imbatterà in situazioni che scuotono o distruggono la sua fiducia in quell’oggetto. Nessun adattamento e nessun oggetto, che per definizione sono limitati, possono fornire una base sicura per la fiducia nella vita, che è illimitata.
In sintesi: la salute mentale è un prodotto della capacità di andare oltre qualsiasi adattamento, oggetto o pensiero, per ritornare alla cosa in sé, alla vita allo stato originario, da cui trarre energia e ispirazione per sempre nuovi cambiamenti, progetti, giochi e avventure. Ma questo andare oltre presuppone un lasciare andare, la "trasformazione in O" richiede che l’attaccamento a qualsiasi oggetto K sia continuamente sacrificato. Già Meister Eckart insegnava che ciò che rende possibile la generazione è il distacco7. Esso consiste nella decisione di prendere le distanze da qualsiasi identificazione di sé, rinunciando ad abitare il mondo delle immagini; e di allentare la presa su qualsiasi oggetto, esterno o interno, senza per questo sciogliere il legame con l’oggetto, ma solo l’eccessivo attaccamento ad esso. Questa operazione non implica l’annullamento delle immagini e degli oggetti, che mantengono le funzioni che hanno sui rispettivi piani: al contrario, è il soggetto che, privato del suo supporto immaginario e oggettuale, viene annientato in quanto soggetto che si identifica con quel supporto, per essere rigenerato sul piano dell’esistenza autentica. Attraverso il distacco il vecchio uomo muore, e sulle sue ceneri il "padre" (la potenza generativa) eternamente genera il "figlio" (il soggetto che riconosce la sua filiazione da quella potenza).
Dovrebbe essere ovvio, ma forse non è superfluo ricordare, che il sacrificio sciamanico, o distacco in senso eckartiano, presuppone che in primo luogo sia visto e superato il distacco patologico (schizoide) di comune e quotidiana osservazione, prodotto dal timore dell’abbandono o del soffocamento da parte degli oggetti rispetto ai quali sussiste un attaccamento che è stato semplicemente negato. Il vero sacrificio non proviene da paura o calcolo, ma dall’identificazione con la vita oltre il legame con qualsiasi oggetto, e dall’intelligenza che fa vedere la necessità di accettare e persino volere ogni perdita che segni il percorso di un’esistenza.

La funzione simbolica

Fornari ha impiegato il termine di "transustanziazione" (v. sopra) per indicare il trasferimento di sostanza affettiva da una scena del passato a una situazione attuale, e ha identificato nel vissuto prenatale la "sostanza primaria" che dall’origine si trasferisce in tutte le situazioni affettive successive. Abbiamo visto che questa identificazione non deve essere presa alla lettera: il vissuto prenatale non significa, ma simbolizza l’origine. Qual è la differenza tra significazione e simbolizzazione?
Il segno è una cosa che sta per un’altra cosa. Il rapporto tra le due cose può essere naturale o convenzionale, tra di esse può esservi o meno qualche affinità, ma ciò che caratterizza la significazione è il modo diretto, chiaro, transitivo in cui una cosa sta al posto di un’altra: la parola sedia sta per l’oggetto sedia, il fumo sta per il fuoco, la ciminiera sta per il pene. L’ultimo esempio viene spesso, ma impropriamente, indicato come una simbolizzazione: la semplice somiglianza tra due oggetti o immagini non fa ancora un simbolo8. La relazione tra simbolizzante e simbolizzato differisce da quella tra significante e significato: tanto questa è chiara e netta, tanto quella è indiretta, indistinta e intransitiva. Non esiste una "situazione originaria" chiaramente distinguibile dalla situazione prenatale, quindi non c’è un significato che passa intatto nel significante (intransitività). Non c’è una cosa che sta per un’altra: l’origine non è una cosa definita, che possa essere rappresentata direttamente e transitivamente da un’altra. Lo stesso vale, ad esempio, per la bellezza: non esiste una cosa che possa stare per la bellezza, ma esistono cose belle: una cosa bella non è un segno, è un simbolo della bellezza. Nello stesso senso si può dire che ogni volto è simbolo della vita (Ben Jelloun, 1997). La bellezza, la vita e l’origine sono degli universali, che come tali non possono essere significati ma solo simbolizzati (Todorov, 1977).
Il simbolo è dunque il modo in cui un universale (il bello, il giusto, il vero, l’originario) si rappresenta, prende una forma esperibile e si incarna. Come esistono molte cose che simbolizzano la bellezza, ma nessuna può pretendere di rappresentarla in modo esclusivo, così esistono molte esperienze che simbolizzano l’origine, ma nessuna di queste è la "cosa originaria" cui tutte le altre debbano subordinarsi. Il vissuto prenatale simbolizza l’origine, ma anche una relazione d’amore o una relazione di terapia lo fanno. È errato dire che la relazione di terapia simbolizza il vissuto prenatale, mentre è corretto dire che entrambe le situazioni sono simboli dell’origine. Le religioni istituzionalizzate si fondano spesso sul fatto che un simbolo del sacro, o dell’origine, cessa di essere riconosciuto come simbolo e viene reificato, diventa la cosa o persona sacra da venerare in quanto tale. Questa attitudine a mettere la cosa al posto del simbolo si ritrova anche in molte scuole di psicoterapia che si istituzionalizzano allo stesso modo, producendo testi sacri, liturgie e guerre contro gli infedeli. Per questo motivo ogni psicoterapeuta dovrebbe curare in modo particolare la formazione della propria capacità simbolica.
Perché la relazione di psicoterapia si costituisce tanto spesso come un luogo simbolico dell’origine? Perché, eccettuati i casi in cui la domanda è e rimane circoscritta a un problema particolare, tutte le mancanze, perdite o frustrazioni che stanno alla base della sofferenza psichica rinviano alla mancanza originaria, al paradiso perduto. Indebolendo le difese, il terapeuta riattiva il dolore e quindi anche la domanda originaria divenendone automaticamente il destinatario, come l’etologo si vede immediatamente assegnato il ruolo di madre dalla piccola oca che, rompendo l’uovo e venendo al mondo, non vede altri che lui.
Una volta che la situazione simbolica si è costituita, che farne? Ponendosi in un vertice materno, il terapeuta accoglie come parzialmente legittima la richiesta imperiosa del paziente: ora che hai rotto il mio guscio, sarai tu mia madre. Le risposte di contenimento e di base sicura offrono delle alternative relazionali all’autocontenimento difensivo e alle false sicurezze sintomatiche, e quindi un’esperienza emotiva correttiva. Tuttavia, ritenere che una risposta di vertice materno possa saturare la domanda fondamentale, significherebbe ancora una volta confondere la cosa con il simbolo: cioè il ruolo materno, definito dalle sue competenze specifiche, con la madre in quanto simbolo dell’origine. Le risposte empatiche e di contenimento sono atti concreti, e non simbolici; hanno il significato preciso ed esplicito di creare un clima relazionale che compensi alcune insufficienze patite nell’infanzia e favorisca la crescita. Alla domanda simbolica, invece, spetta una risposta diversa. Come la madre può essere un simbolo dell’origine, anche il terapeuta può esserlo: entrambi possono rappresentare l’unità e la pienezza perdute. Se vuole dare una risposta alla domanda simbolica, il terapeuta deve assumersi questa rappresentanza, nei modi che vedremo tra breve.
Dal vertice paterno il terapeuta invita il paziente ad accettare la mancanza e farsene una ragione, in nome del principio di realtà. Poiché la domanda dell’origine si esprime nella forma del desiderio, di un impulso erotico al ricongiungimento con una figura genitoriale, il terapeuta in questo vertice si pone come sbarramento sulla via del ritorno, incarnando la proibizione dell’incesto. Questo divieto è un momento necessario del processo di separazione-individuazione, ma in sé non ha alcun potere di trasformazione sul desiderio originario. È impensabile che questo possa "risolversi" nell’adattamento a una realtà inesorabilmente deludente. Al contrario, il desiderio proibito continuerà a interferire con ogni livello di adattamento raggiunto, finché non gli sarà aperta una prospettiva di integrazione. Èpossibile intendere questa dicendo che l’incesto deve essere proibito sul piano concreto, ma permesso, e per certi aspetti anche incoraggiato, sul piano simbolico9. In effetti solo l’apertura sul registro simbolico fa sì che la chiusura alla soddisfazione concreta possa essere realmente accettata, e non solo subita.
Infine dal vertice cognitivo, in cui si pone in quanto osservatore partecipe, il terapeuta rispecchia ciò che vede e sente, aiutando il paziente a installarsi lui stesso in una posizione di autoriflessione e a superare così il livello dell’adesione immediata al vissuto. Il raggiungimento di una distanza osservativa, in cui è neutralizzata l’identificazione con il desiderio, è il presupposto per la sua trasformazione, ma non è in grado di portarla a compimento. Il processo di elaborazione simbolica richiede il passaggio per un’esperienza che non sia solamente osservata e analizzata, ma attivamente prodotta da entrambi i partner della coppia terapeutica, che si impegnano in prima persona in un progetto alchemico di fusione della materia grezza del desiderio e creazione (in entrambi) di un "uomo nuovo", che non si colloca certo in una dimensione asettica e priva di contraddizioni, ma assume queste in una prospettiva di senso:

"È all’immaginazione simbolica che è affidata la possibile trasformazione dell’individuo, il costituirsi di questo non tanto al di fuori della conflittualità - soluzione impossibile e in fondo regressiva - quanto in una conflittualità produttrice: la tensione creatrice che non abolisce né la fatica né il dolore, ma li configura in un senso" (Trevi, 1986, p. 120).

Il mistico e l’artista

Alla domanda originaria si possono dare risposte riduttive ogenerative. Le prime negano la sua specificità e legittimità, e cercano di ricondurla alla competenza degli altri vertici della relazione ed esclusivamente a questa. Le seconde si fondano sul riconoscimento che la domanda dell’origine è in sé legittima e deve poter trovare risposta sul piano simbolico che le compete. Per rispondere a questa domanda il terapeuta deve, in termini bioniani, operare in sé stesso una trasformazione in O:

Il terapeuta "deve centrare la propria attenzione su O, l’ignoto e l’inconoscibile", anzi deve diventarlo, deve lui stesso "diventare infinito grazie alla sospensione della memoria, del desiderio e della comprensione" (Bion, 1970, p. 40 e 65).

Questa operazione, in quanto apre uno spazio di ascolto impregiudiziale, è fondativa della relazione psicoterapeutica. Oltre a questo, in quanto conduce il terapeuta a identificarsi con O, quindi a "diventare infinito", apre un vertice particolare della relazione, il vertice generativo o simbolico, nel momento in cui il terapeuta trasforma sé stesso in un simbolo dell’origine in risposta alla domanda originaria del paziente.
Per caratterizzare meglio questa posizione ricorriamo a un’altra formulazione di Bion:

"ogni pensare e tutti i pensieri sono veri quando non c’è il pensatore" (p.159)10.

Il pensatore è il soggetto che non rinuncia a identificarsi con il grappolo di ricordi e desideri in cui consiste il suo sé. La prima osservazione da fare è che un pensiero vero richiede il sacrificio del pensatore, dell’ego che condiziona, distorce e falsifica il pensiero. Non si accede alla dimensione simbolica senza un sacrificio, e questo ne evidenzia la radice sciamanica. La seconda osservazione è che l’origine, quando non è intesa concretamente e ingenuamente in senso ontogenetico o filogenetico, coincide con la verità, è la verità originaria, il nucleo o piano essenziale da cui deriva e cui ritorna ogni ente. Questa verità si rivela quando non c’è il pensatore, quando si toglie di mezzo colui che vorrebbe afferrarla e possederla. Il terapeuta a volte deve trasformarsi in un mistico, ha ricordato Bion: aprendosi alla verità che lo oltrepassa, ne diventa un testimone e un portavoce.
Il terapeuta può cercare di rispondere alla domanda fondamentale delle persone affidate alle sue cure, e conquistarsi la loro fiducia, se dimostra di sapere qualche volta superarsi per impersonare la vita stessa. Per tenere questa posizione bisogna evitare una doppia trappola: quella di identificarsi troppo con il ruolo, come accade al terapeuta che immagina di essere un guru o un sapiente, e quella di non identificarsene affatto, in un eccesso di modestia o timidezza incompatibile con la funzione terapeutica. Se la posizione è corretta il terapeuta si lascia ispirare dal suo inconscio, ma subito dopo recupera la posizione neutrale e sobriamente sottopone le sue intuizioni al vaglio della critica e del confronto dialogico.
Può accadere, e non di rado accade, che una situazione bloccata si rimetta in movimento se il terapeuta riesce a inventare qualcosa di completamente nuovo e imprevisto: un gesto, una battuta, un espediente, una storia. La sorpresa, la freschezza dell’invenzione derivano dalla capacità del terapeuta di uscire dagli schemi e dalle teorie, e di essere sufficientemente rilassato e ricettivo per lasciarsi ispirare dal suo genius. Nel vertice generativo il terapeuta, oltre che mistico, può essere anche artista. Va da sé che non basta avere delle trovate per essere un artista. Come fa notare Binswanger (1955), l’arte si distingue dal dilettantismo - nella nostra arte come in ogni altra- per la serietà e il rigore di chi la pratica. Solo chi conosce bene e padroneggia i materiali e gli strumenti con cui opera può sperare di produrre creazioni nuove e originali.
L’immaginazione simbolica del terapeuta stimola e risveglia quella del paziente, e insieme inventano una storia. La funzione narratologica della psicoterapia moderna ha il suo antecedente nella funzione mitopoietica dello sciamano, la capacità di costruire miti e narrare storie. Nello schema delle fiabe tradizionali, che riproducono la struttura dei racconti iniziatici (Propp, 1946), il protagonista è colpito da una sventura o un abbandono. Comincia quindi un viaggio con ardue prove che potrà superare se sarà giusto e valoroso e saprà ottenere l’aiuto degli spiriti benevoli che non mancano mai di assisterlo. La perdita iniziale può essere accettata grazie a una prospettiva di riscatto e reintegrazione che si realizzerà al termine del cammino maturativo. Le rinunce più dolorose possono essere accettate a patto che abbiano un senso, e questo senso possono riceverlo da una storia in cui molte cose insensate se prese singolarmente vanno al loro posto quando sono inserite in un processo di crescita e di costruzione dell’identità.
Spesso una terapia di lunga durata può essere narrata come una storia di ricerca del regno perduto o del vero sé. Se questa prospettiva manca, è difficile che il dolore dell’esistenza sia riscattato da un senso. Se l’inconscio è soltanto un rimosso, abitato da impulsi infantili e perversi, la terapia non può consistere che nello sforzo di portarlo alla coscienza: una lotta immane e votata allo scacco, perché sin dall’inizio mancano i presupposti per una riconciliazione.
Il lavoro di vertice generativo può cercare i suoi simboli dentro e fuori la stanza della terapia. Ritroviamo qui la linea di demarcazione che attraversa tutto il campo psicoterapeutico, tra chi ritiene che tutto il lavoro significativo debba essere fatto all’interno della relazione, e chi privilegia il lavoro svolto all’esterno di questa. Abbiamo già osservato che non esiste un motivo che stia dalla parte del paziente per scegliere a priori un ambito piuttosto che l’altro, ma ne esistono molti per preferire l’uno o l’altro a seconda dei casi. Alcuni pazienti non fanno investimenti simbolici sulla relazione di terapia, ma li fanno o sono predisposti per farli altrove. Per queste persone la relazione con il terapeuta è troppo povera di elementi suggestivi capaci di risvegliare l’immaginazione simbolica; hanno bisogno di qualcosa di più tangibile, come un farmaco (inteso come placebo) o un santuario. Qualsiasi giudizio di valore, al riguardo, sarebbe fuori luogo. Se un oggetto ha il potere di attivare la fiducia e la speranza di una persona, vuol dire che quella persona ha bisogno di quell’oggetto.
Non si può fare a meno della vis medicatrix, o funzione inconscia di auto guarigione. Se il terapeuta non dispone dei mezzi simbolici per risvegliarla, questi debbono essere trovati da qualche altra parte. In tal caso il terapeuta ha il compito di incoraggiare la ricerca dei simboli adatti, e assisterlo in questa che procede come ogni altra per tentativi ed errori, messe alla prova e verifiche.

L’angoscia

Se diciamo che nel vertice O il terapeuta riveste i ruoli del mistico e dell’artista, diamo l’idea di qualcosa di raro ed eccezionale, che potrà riguardare alcuni momenti di alcune terapie, ma non sembra essere cosa di tutti i giorni. In che senso invece possiamo dire che il vertice O ha a che fare con la prassi quotidiana, ordinaria, di ogni psicoterapeuta?
È un dato indubitabile che un essere umano può conoscere e controllare solo una piccola frazione dei fattori che condizionano la sua esistenza. L’io cosciente è una minuscola zona precariamente illuminata e mal delimitata, continuamente in pericolo di essere travolta e risucchiata da forze immani e innumerevoli. D’altra parte queste forze così minacciose per il sé sono le stesse che lo hanno generato e continuano ad alimentarlo, di modo che il soggetto individuale si trova nella situazione paradossale di un figlio che rischia in ogni momento di essere divorato dalla propria madre, che pure lo ha messo al mondo e continua a nutrirlo.
L’animale può vivere spensierato perché non sa di dover morire. L’uomo lo sa, e tutte le perdite, le menomazioni e le minacce glielo ricordano in continuazione. Come è possibile convivere quotidianamente con la morte senza essere attanagliati dall’angoscia? Si possono erigere barriere razionalizzanti, la certezza della fine può essere allontanata con attività frenetiche, i progressi della scienza consentono una certa misura di controllo sui processi della malattia e dell’invecchiamento. La stessa psicoanalisi, se promette di sconfiggere l’angoscia portando alla coscienza le fantasie infantili che la producono, è arruolata in questo esercizio massiccio di negazione.
È vero che il terapeuta, invece di portare il paziente ad affrontare l’angoscia di base, può aiutarlo a rafforzare le sue difese o a costruirne di nuove e più sofisticate. Sembra anzi che la maggior parte degli psicoterapeuti operi all’interno di un paradigma razionalistico (Civita, 1990), che come tale non ha nulla da dire su ciò che per essenza non può essere conosciuto. Tuttavia, il fatto che molti terapeuti adottino un atteggiamento difensivo nei confronti dell’angoscia fondamentale non significa che questa difesa sia in ogni caso legittima.
Supponiamo che un terapeuta voglia prendere sul serio la richiesta esplicita o implicita di un paziente che suona pressappoco così: "mi sta bene risolvere questo o quel problema, liberarmi dagli attaccamenti infantili ai miei genitori, dal risentimento per la loro mancanza di empatia e da tutti i condizionamenti che ho accumulato nel corso della mia vita: ma tutto questo non mi serve, se continuo ad aver paura della morte e di tutto ciò che l’anticipa e l’annuncia". Esiste un modo di rispondere a questa richiesta di aiuto rimanendo all’interno di un paradigma materno, paterno o scientifico?
La morte è un evento che la madre non può contenere, il padre non può sconfiggere e lo scienziato non può spiegare. Solo il paradigma mistico è abbastanza vasto da comprendere la morte e tutte le sue varianti minori -mancanza, abbandono, perdita. Ricordiamo ancora Nietzsche:

"Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!"

L’essenza del paradigma mistico consiste in un capovolgimento del modo abituale di pensare: la perdita di sé non solo non è temuta, ma è voluta, perché è intesa come passaggio necessario per un rinnovamento profondo. L’annientamento può essere accettato e voluto perché il nulla cui il soggetto è consegnato è un nulla solo dal punto di vista del senso comune, rappresentato dai paradigmi parentali e scientifico. Dove il senso comune non vede niente, l’occhio di Zarathustra vede la dimensione generativa dell’essere, che incessantemente crea, riassorbe e ricrea tutti gli enti. Il soggetto che si identifica troppo con l’ente (F in K) è terrorizzato dall’essere che costantemente minaccia di annientarlo. Il soggetto che si identifica con il vasto mare dell’essere (F in O) vede gli enti come tante maschere che possono essere indossate e smesse. Questa visione della vita come gioco appare crudele e disumana dai vertici del senso comune, ma autentica e "oltreumana" dal vertice generativo11.
Perché il richiamo all’"oltreuomo" non sembri, al pari di quelli al mistico e all’artista, troppo lontano dalla prassi psicoterapeutica corrente, ricordiamo che il tema della mancanza incolmabile o della perdita irreparabile occupa una posizione centrale nella maggior parte delle terapie di lunga durata. Ciò che in ogni caso lo segnala è il sentimento dell’angoscia, il cui trattamento si impone in qualsiasi relazione terapeutica.

Imparare a sentire l’angoscia, ha scritto Kierkegaard, è "un’avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l’angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta" (Il concetto dell’angoscia, cap. 5).

Sentire l’angoscia nel modo giusto : è la chiave fondamentale. Il modo giusto, scrive Kierkegaard, è prenderla come una scuola. Se siamo disposti a imparare, la sua presenza ci condurrà immancabilmente al luogo di tutto ciò che, nel mondo e in noi stessi, ha acquisito per noi valore di insostituibile sicurezza. I legami affettivi, il nostro corpo, le immagini e gli oggetti esterni e interni, tutto ciò che ci identifica e fa di noi quello che siamo: nulla di tutto questo è al sicuro, tutto è precario e può essere spazzato via in ogni momento. Anche quando la minaccia non è attuale, l’angoscia ce ne ricorda la possibilità.
La scuola che Kierkegaard ci invita a frequentare inizia là dove tutte le altre hanno esaurito il loro compito. Abbiamo imparato a procurarci le esperienze parentali riparative di cui abbiamo bisogno nelle relazioni di terapia, di coppia o altrove. Siamo in grado di elaborare cognitivamente mancanze e lutti. Abbiamo costruito un sé ragionevolmente compatto ed equilibrato. Abbiamo un buon repertorio di tecniche, manovre ed espedienti per tenere a bada l’ansia. Non può bastare?
Potrebbe, se non fosse per il fatto che tutto questo edificio può crollare in un momento, in ogni istante. Tutto ciò che è finito è destinato a finire. Lo sappiamo bene, ma non ci pensiamo. La fine è rinviata a un imprecisato futuro, è banalizzata nel si muore, in questo momento non ci riguarda realmente, possiamo continuare a vivere tranquillamente (Heidegger, Essere e tempo, ¤51). Perché mai dovremmo toglierci questa benda dagli occhi, se ci aiuta a sopravvivere? Nessun problema, fintanto che non sappiamo che è una benda. Ma quando lo scopriamo, è più difficile. Non è facile dire "io sto mentendo a me stesso", e continuare a farlo.
Se permettiamo all’angoscia di smantellare tutte le nostre certezze, una per una; se rinunciamo a combatterla, deponendo l’arsenale di mezzi ansiolitici chimici, fisici, mentali e spirituali con cui sappiamo tenerla a bada (ma facciamo attenzione, avverte Kierkegaard: si rischia il suicidio), arriviamo al punto in cui diviene del tutto chiaro che l’unica salvezza dalla fine di tutto ciò che è finito sta in ciò che, non avendo avuto inizio, non può finire (come esortava Nisargadatta, il tabaccaio di Bombay: cerca in te stesso colui che non è mai nato). In quel momento avviene quell’apertura che Jaspers chiama fede filosofica e Bion F in O, e che a differenza dei credo religiosi non è affatto consolatoria, dato che non promette, se mai esclude, la permanenza dell’io individuale, come di qualsiasi altro ente del mondo fenomenico12.
È impressionante la rapidità e l’efficacia con cui certi protocolli di terapia cognitivo-comportamentale riescono a controllare e quasi estinguere la sintomatologia ansiosa (v. ad es. Dell’Erba, 1997). In prospettiva, ogni terapeuta integrato dovrebbe essere in grado di applicarli. Con questa differenza, rispetto a chi li assume come metodo standard: la questione se l’ansia sia un nemico da combattere o un insegnante da cui imparare non è data per risolta dall’inizio. Il fatto che il paziente chieda - giustamente - di essere liberato dall’ansia nel modo più rapido, economico e indolore non produce di per sé l’obbligo, per il terapeuta, di fornire la risposta più tranquillizzante nel tempo più breve. Se così fosse, la somministrazione di benzodiazepine sarebbe d’obbligo per tutti. Il primo dovere del terapeuta, invece, è quello di riflettere e far riflettere (vertice K) sul significato, i motivi e le cause dello stato ansioso. Se il livello dell’ansia è tale da ostacolare questo lavoro, o creare comunque serie difficoltà nella vita del soggetto, è ovvio che bisogna ricorrere in primo luogo a un farmaco (settore FT del campo psichiatrico).
Se l’ansia appare riconducibile a deficit relazionali almeno in parte suscettibili di essere compensati, è questo che si deve tentare di fare, nella misura del possibile; se invece il disturbo sembra imputabile a ignoranza di conflitti, condizionamenti o idee erronee, sono questi che debbono essere portati alla coscienza del soggetto e affrontati in un ambito, interno o esterno alla relazione terapeutica, idoneo alla loro correzione. Sarebbe fuorviante impostare il lavoro in chiave esistenziale prima di aver adeguatamente esplorato i livelli gerarchicamente più bassi e adottato in quella sede i provvedimenti più appropriati; come sarebbe riduttivo mantenere l’attenzione sempre e soltanto a quei livelli, ignorando i segnali di un disagio più essenziale, in cui si esprime, se pure confusamente, la percezione dell’insuperabile precarietà dell’esistenza.
Non è impensabile, già oggi, la figura di uno psichiatra completo, capace di muoversi con sufficiente competenza in tutti i settori del suo campo, e in particolare in tutti i vertici del settore psicoterapeutico. Certo non è realistico pretendere questa completezza da ogni terapeuta; non è nemmeno detto che sia un bene augurarsela, quando forse a molti sarebbe meglio chiedere che imparino a fare una cosa sola, e a farla bene. Ma da tutti noi, indistintamente, dovremmo pretendere una conoscenza generale del campo di cui ci siamo ritagliati un settore: di modo che, quando si renda necessario l’uso di un farmaco, possiamo eventualmente dire al paziente: io non te lo posso dare, ma ti mando da questo mio collega che te lo darà; e quando sia emerso un disagio esistenziale, se non siamo in grado di affrontarlo noi stessi, analogamente possiamo dire: ti mando da quest’altro collega, che meglio di me s’intende di queste cose.
Il terapeuta che fosse non solo privo di competenze di vertice O, ma anche incapace di riconscerne la necessità, potrebbe trovarsi nella posizione denunciata da Binswanger:

"Non è sempre giusto imputare all’ammalato il fallimento della cura non intendiamo riferirci ad una colpa derivante da errori tecnici, ma a quella ben più grave costituita dall’incapacità di accendere e di ridestare nell’ammalato la ‘scintilla divina’, quella scintilla che può essere accesa o ridestata soltanto nell’autentica comunicazione da esistenza a esistenza, e la cui luce e il cui calore sono in fondo le uniche forze in grado di liberare l’uomo dal suo isolamento cieco, dall’idios kosmos (come dice Eraclito) - cioè da un mero vivere nel proprio corpo, nei propri sogni, nelle proprie inclinazioni private, nel proprio orgoglio e nella propria superbia -rendendolo capace di partecipare al koinos kosmos, alla vita dell’autentica koinonia o della società, rendendolo cioè illuminato e libero" (Binswanger, 1955, p. 149)

La sintesi e l’analisi

Nel vertice O (generativo, esistenziale) il versante sintetico è naturalmente predominante, dal momento che l’operazione propria di questo vertice è quella di ristabilire un contatto vitale con la matrice, l’inconscio, il protomentale o comunque si voglia intendere la dimensione originaria. La funzione simbolica è sintetica per eccellenza, se il simbolo è ciò che connette la parte con il tutto, un oggetto o un’immagine particolare con l’universale: la parte non è segno, ma simbolo, quando il tutto non è significato, ma ospitato, trasmesso o incarnato dalla parte. Sappiamo che la relazione terapeutica tende di per sé a caricarsi di valenze simboliche che possono sprigionare la loro potenza trasformativa a patto che il terapeuta sappia accoglierle e coltivarle, e non le fraintenda come semplici manifestazioni di onnipotenza infantile.
Anche in questo vertice, tuttavia, dobbiamo considerare un versante analitico-cognitivo. Il paradosso per cui un processo di conoscenza può avvicinare all’ignoto si chiarisce se consideriamo che il funzionamento della nostra mente è regolato dalle istruzioni contenute nel nostro "dialogo interno" (Meichenbaum, 1977), cioè nel flusso continuo di verbalizzazioni automatiche e per lo più inavvertite.
La celebre sentenza di Epitteto "gli uomini non sono turbati dagli eventi ma dalle loro opinioni sugli eventi" contiene in nuce tutta la terapia cognitiva. Il nostro potere sugli eventi è minimo, ma quello sulle nostre opinioni è pressocché illimitato.Cambiando le nostre opinioni, id est il nostro dialogo interno, ciò che incessantemente diciamo a noi stessi, possiamo cambiare il nostro stato d’animo.
La sentenza citata sopra è riportata molto spesso dagli autoricognitivisti, a differenza di altre, tratte dallo stesso Manuale, come questa:

Tu non dèi cercare che le cose procedano a modo tuo, ma voler che elle vadano così come fanno, e bene starà (traduzione di Giacomo Leopardi).

Non devi volere la tua volontà, dice Epitteto, ma la volontà di Zeus. Questo elemento di fede nell’ignoto, simbolicamente impersonato da Zeus, non è casuale o accessorio nel creatore della terapia cognitiva. Cambia le tue opinioni sugli eventi, dice Epitteto, e lascia che gli eventi seguano il loro corso, quando non puoi fare nulla per modificarlo. La premessa fondamentale di ogni lavoro cognitivo è che sia bene concentrarsi sulla correzione delle proprie opinioni, lasciando che per il resto le cose vadano come devono andare. La terapia cognitiva, se non si basa su di un’illusione di onnipotenza del sapere, ha come premessa necessaria la consapevolezza dei limiti del nostro potere di conoscere la realtà e di agire su di essa. La conoscenza trasforma solo una piccolissima sfera dell’ignoto, che continua ad avvolgerci da ogni parte. È possibile accettare questi limiti (non subirli, né chiudersi difensivamente in essi), solo se con l’infinito che circonda da ogni parte il finito, lo genera, lo sostiene e a tempo debito lo riassorbe in sé, siamo in buoni rapporti: come Plotino con l’Uno, Epitteto con Zeus, Eckart con il padre, Nietzsche con il dionisiaco, Jaspers con l’Umgreifende, Bion con O.

Tutto va bene, al di là delle banalizzazioni diffuse dai profeti del pensiero positivo, è un’autoistruzione complessa, che include almeno tre sottogruppi di significati.
Primo: se l’evento è piacevole, me lo godo.
Secondo: se è spiacevole, vedo che cosa mi può insegnare (abbastanza spesso gli eventi dolorosi segnalano errori cognitivi o comportamentali, conflitti irrisolti o contraddizioni che possono essere diversamente affrontate).
Terzo: se dall’evento non ricavo alcuna indicazione di errori o problemi (come dalla perdita di una persona amata o da un torto immeritato) rimane l’insegnamento-base degli stoici (la scuola di Epitteto): non confidare in nulla di ciò che ti può essere tolto (e dunque confida in ciò che nessuno ti potrà mai togliere; e se non sai cos’è o dov’è, cercalo).
La memorizzazione e la meditazione di semplici regole, come ad esempio le tre su esposte, è indubbiamente un esercizio cognitivo; e tuttavia ha l’effetto di favorire un atteggiamento di fiducia a prova di ogni evento, e quindi appartiene al vertice O del campo terapeutico.



Note

1 Nel dibattito che ha avuto luogo sulla mailing list Psicoterapia di Psychomedia sul lavoro di Fornaro pubblicato su POL.IT (1997-1998), Manai e Angelozzi si sono trovati completamente d’accordo con Fornaro sulla necessità di integrare i due approcci. Ma come questa integrazione possa avvenire, su quale base e fondamento, non è emerso chiaramente, anche se Bion è stato spesso citato. Forse, prima ancora che a Bion, si sarebbe potuto ricorrere a Jaspers, visto che di lui si parlava: non tanto per la sua psicologica comprensiva, quanto per la sua "fede filosofica" che ha anticipato F in O di Bion. Torna al testo

2 Sono le parole con cui si conclude il terzo libro della V Enneade. Vedi il commentario di Beierwaltes (1991). Torna al testo

3 Procedimento euristico: procedimento non rigoroso con cui si prevede un risultato che dovrà poi essere convalidato formalmente (Dizionario Italiano Sabatini Coletti). Torna al testo

4 La definizione è di D.G. Brown (1985), citato da Fornaro (1990b), secondo il quale è una "definizione felice". Torna al testo

5 Nell’opera di Fornari si trovano, accanto a ripetute affermazioni di orgogliosa appartenza a una corporazione scientifica, numerosi passi in cui l’argomentazione scientifico-naturalistica appare come nient’altro che un faticoso tributo pagato nel tentativo di far accettare la sostanza più vera del suo pensiero. Come scrive Silvia Vegetti Finzi: "Il valore del suo pensiero non risiede certo nella scientificità intesa secondo i canoni neopositivistici, quanto nell’aver rappresentato i grandi temi della verità e del bene in modo aderente alle speranze e ai timori della nostra epoca. La dimensione in cui il suo pensiero si dispiega è quella del mito come rivelazione del senso essenziale e complessivo del mondo, capace di suscitare un’adesione profonda che si colloca al di là delle contingenze storiche.Egli stesso ne era consapevole [quando] affermava (in un testo reso noto pochi giorni dopo la sua morte): ‘Nella definizione dello statuto della propria verità, la psicoanalisi si trova più a dipendere dalla verità del mito che non da quella della filosofia e della scienza: ma per farla accettare in era scientifica, la deve vestire di scienza’" (1986, p. 368, corsivo mio). Torna al testo

6 Secondo Eliade (1974, p.53), "tutte le esperienze che decidono della vocazione del futuro sciamano comportano lo schema tradizionale di una cerimonia iniziatica: passione, morte e resurrezione". Torna al testo

7 Eckart, Trattati e prediche, p. 173. Torna al testo

8 Nell’uso corrente il termine "simbolizzazione" è spesso impiegato come sinonimo di "significazione". Dall’uso corrente si distacca l’uso filosofico della parola, inaugurato da Goethe, adottato dall’estetica romantica e affermatosi nell’uso moderno, particolarmente in Jung (Todorov, 1977; Trevi, 1986). Torna al testo

9 Nel primo capitolo de La riscoperta dell’anima (1984) Fornari interpreta la fantasia della paziente di rapporto sessuale col padre-analista come una modalità di ritorno alla situazione originaria. Questo ritorno al luogo dell’origine, che è rappresentato con la metafora naturalistica della situazione uterina, è visto da Fornari come un evento carico di potenzialità terapeutica per la sua capacità di produrre una "riaccensione d’anima". Il processo è dunque sovrapponibile a quello analogo che Bion indica come "trasformazione in O". Torna al testo

10 Cfr. Nietzsche: "Un pensiero viene quando è ‘lui’ a volerlo, e non quando ‘io’ lo voglio; cosicché è una falsificazione dello stato dei fatti dire: il soggetto ‘io’ è la condizione del predicato ‘penso’". Al di là del bene e del male, Adelphi, 1968,p. 21. Torna al testo

11 È spietata la visione dell’ente come maschera, è compassionevole la visione dell’ente come creatura: i due modi corrispondenti di simbolizzare l’essere sono il giocatore e il creatore. In effetti i due registri simbolici sono complementari. La spietatezza è appropriata nei confronti della pretesa dell’ente di avere un valore in sé, indipendentemente dalla sua derivazione dall’essere. Può apparire spietato ricordargli che egli in sé è nulla, dal momento che è solo una delle infinite forme dell’essere, ma l’altra faccia della durezza è la compassione se in pari tempo gli si ricorda che il suo valore è supremo, dal momento che l’essere si manifesta in lui. Torna al testo

12 Ma il vero sentimento religioso, ammoniva il teologo Schleiermacher (1799), consiste precisamente nel sentimento e nell’intuizione dell’infinito, non nel tentativo di eternare tutto ciò in cui siamo identificati nel mondo finito, a cominciare dal nostro io: operazione questa essenzialmente antireligiosa, anche se estesamente praticata dalle religioni istituzionali dell’Occidente. Torna al testo

(Febbraio 1998)



Bibliografia

Aslan, C.M. (1989). Common ground in psychoanalysis. Int. J. Psa., 70,12-15.

Balint, M. (1947). L'analisi didattica, Guaraldi, Rimini, 1974.

Balter, L., Spencer, J.H. (1991). Observation and theory in psichoanalysis: the self psychology of Heinz Kohut. Psichoan. Q., 60, 3, 361-395.

Beierwaltes, W. (1991). Autoconoscenza ed esperienza dell’unità. Vita e pensiero, Milano, 1995.

Beitman, B.D., Goldfried, M.R., Norcross, J.C. (1989). The movement toward integrating the psychotherapies: an overview. Am. J. Psychiatry , 146,2, 138-147.

Ben Jelloun, T. (1997). Il razzismo spiegato a mia figlia. Bompiani,1998.

Bernardi, E.R. (1989). The role of paradigmatic determinants in psychoanalitic understanding. Int. J. Psa., 70, 2, 341-357.

Binswanger, L. (1955). Per un'antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano, 1970.

Bion, W.R (1962). Apprendere dall’esperienza. Armando, Roma,1979

- - (1965). Trasformazioni. Armando, Roma, 1973.

- - (1970). Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1973.

Bowlby, J. (1988). Una base sicura. Raffaello Cortina, Milano, 1989.

Civita, A. (1990). Osservazioni sul "Trattato di psicoanalisi" curato da A. A. Semi. Gli argonauti, 45,139-148.

Cooper, M.A. (1984). Psychoanalysis at one hundred: beginnings of maturity.J. Am. Psa. Assn., 32, 245-268.

Corradi Fiumara, G. (1985). Filosofia dell'ascolto. Ed. universitarie Jaca, Milano.

Cremerius, J. (1986). Alla ricerca di tracce perdute. Il "movimento psicoanalitico" e la miseria dell'istituzione psicoanalitica. Psicoterapia e scienze umane, 1987, 3, 3-34.

- - (1989). Analisi didattica e potere. Psicoterapia e scienze umane,3, 3-28.

Dell'Erba, G.L. (1997). Il trattamento psicologico breve nel Disturbo da Attacchi di Panico. Appunti di Psicologia. http://www.caen.it/psicologia

Deshimaru, T. (1978). La pratica della concentrazione. Ubaldini, Roma,1982.

Di Chiara, G., Flegenheimer, F (1985). Identificazione proiettiva. Nota storico-critica. R. Psicoanalisi, 31, 233-246.

Eckart, Meister. Trattati e prediche, Rusconi, 1982.

Eigen, M. (1985). Toward Bion’s starting point: between catastrophe and faith. Int.J. Psa., 66, 321-330.

Eliade, M. (1974). Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi. Edizioni Mediterranee, Roma.

Ellis, A, Grieger, S. (1977). Handbook of rationale-emotive therapy. Springer, New York.

Engel, G.L. (1980). The clinical application of the biopsychosocial model. Am. J. Psychiatry, 137, 535-544.

Epitteto (120 d.C.). Il manuale. Trad. di Giacomo Leopardi. Mondadori, Milano, 1994.

Fornari, F. (1979). I fondamenti di una teoria psicoanalitica del linguaggio. Boringhieri, Torino.

- - (1984). La riscoperta dell’anima. Laterza, Roma-Bari.

- - (1985). Affetti e cancro. Cortina, Milano.

Fornaro, M. (1990a). Biopsicologia e scienza: per una nuova lettura di Wilfred R. Bion. Gli argonauti, 44, 37-60.

- - (1990b). Psicoanalisi tra scienza e mistica. L’opera di Wilfred Bion. Studium, Roma.

- - (1993). Kohut: il metodo e le illusioni dell’empatia. Psicoterapia e scienze umane, 3, 87, 109.

- - (1998). Freud e Jaspers, II parte, POL.IT, http://www.cityscape.co.uk

Frances, A., Clarkin, J., Perry, S. (1984). Differential therapeuticsin psychiatry. The art and science of treatment selection. Brunner/Mazel, New York.

Freud, S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. O.S.F., 6. Boringhieri, Torino.

- - (1918). Vie della terapia psicoanalitica. O.S.F, 9. Boringhieri, Torino.

- - (1925). La responsabilità morale per il contenuto dei sogni. O.S.F, 10. Boringhieri, Torino.

- - (1926). Inibizione, sintomo, angoscia. O.S.F, 10. Boringhieri,Torino.

- - (1937). Analisi terminabile e interminabile. O.S.F., 11. Boringhieri, Torino.

Gadamer, H.G. (1965). Verità e metodo, Fratelli Fabbri, Milano, 1972.

Galimberti, U. (1979-1987). Psichiatria e fenomenologia. Feltrinelli, Milano.

Gill, M. (1984). Psychoanalysis and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psa., 11, 161-179.

Gislon, M.C. (1988). Il colloquio clinico e la diagnosi differenziale. Bollati Boringhieri, Torino.

Glover, E. (1952). Research methods in psychoanalysis. Int .J. Psa.,33, 403-409.

Grinberg, L. (1976). Teoria dell’identificazione. Loescher, Torino, 1982.

Guidano, V.F., Liotti, G. (1979). Elementi di psicoterapia comportamentale. Bulzoni, Roma.

Hadot, P. (1987). Esercizi spirituali e filosofia antica. Einaudi,Torino, 1988.

Heidegger, M. (1927). Essere e tempo. Longanesi, Milano, 1976.

Hoffman, I.Z., Gill, M.M. (1988). Clinical reflection on a coding scheme. Int. J. Psa., 69, 55-64.

Jacobs, T.J. (1986). On countertransference enactments. J. Am. Psa.Ass.,34, 289-308.

Jaspers, K. (1962). La fede filosofica di fronte alla rivelazione. Longanesi, Milano, 1970.

Jung, C.G. (1946). Psicologia della traslazione. Opere, vol 16.Boringhieri, Torino.

Kierkegaard, S. (1844). Il concetto dell’angoscia. In Opere, Piemme, Casale Monferrato, 1995.

Kohut, H. (1971) The analysis of the self. Trad. it. Narcisismo e analisi del Sé. Boringhieri, Torino, 1976.

- - (1984). How does analysis cure? The University of Chicago Press, Chicago and London.

Langs, R. (1986). Diventare uno psicoanalista comunicativo. Psicoterapia e scienze umane, 2O, 3, 273-277.

Laplanche, J., Pontalis, J.B. (1967). Enciclopedia della psicanalisi. Laterza, Bari, 1973.

Lewis, I.L. (1971). Le religioni estatiche. Ubaldini, Roma, 1972.

Meichenbaum, D. (1977). Cognitive-behavior modification. Plenum, New York.

- - (1985). Cognitive Behavioral Therapies. In S. Lynn & J. Garske (Eds.),Contemporary psychotherapies: models and methods. Ch. E. Merril, Columbus, OH.

Meissner, W.W. (1984). Psychoanalysis and religious experience. Yale University Press, New Haven.

Nietzsche, F. Così parlò Zarathustra. Adelphi, Milano, 1976.

- - Al di là del bene e del male. Adelphi, Milano, 1968.

Peterfreund, E. (1983). Il processo della terapia psicoanalitica. Astrolabio, Roma, 1985.

Piaget, J. (1959). The language and thought of the child. Routledge and Kegan Paul, London.

Poland, W.S. (1984). On the analyst’s neutrality. J. Am. Psa.Assn., 32, 283-300.

Popper, K. (1976). La ricerca non ha fine. Milano, 1976.

Propp, A. (1946). Le radici storiche dei racconti di fate.Boringhieri, 1972.

Rhoads, J.M.(1984). Psychoanalysis contrasted with psychodynamic and behavior therapies, in Arkowitz H., Messer S.B. (ed), Psychoanalytic therapy and behavior therapy, Plenum, New York and London.

Rogers, C.R., Kinget, M. (1965). Psicoterapia e relazioni umane .Boringhieri, Torino 1970.

Schleiermacher, F. (1799). Sulla religione. Discorsi a quegli intellettuali che la disprezzano. Queriniana, Brescia, 1989.

Shafer, R. (1983). L'atteggiamento analitico. Feltrinelli, Milano,1984.

- - (1990). The search for common ground. Int. J. Psa., 71, 49-52.

Spence, D.P. (1982). On some clinical implications of action language. J. Am. Psa. Assn., 30, 169-184.

Sandler, J. (1992). Reflections on developments in the theory of psychoanalytic technique. Int..J.Psa., 73, 189-198.

Speziale-Bagliacca, R. (1991). The capacity to contain: notes on its function in psychic change. Int..J.Psa., 72, 27-33.

- - (1993). A proposito del genere dell’analista: una glossa a margine. Psicoterapia e scienze umane, 3, 125-128.

Spinelli, A. (1987). Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia. Il Mulino, Bologna.

Stevenson, J., Meares, R. (1992). An outcome study of psychotherapy for patients with borderline personality disorder. Am J Psychiatry,149:358-362.

Thöma H, Kächele, H. (1987). Psychoanalytic Practice. Springer, Berlin.

Todorov, T. (1977). Teorie del simbolo. Garzanti, Milano, 1991.

Treurniet, N. (1993). What is psychoanalysis now? Int..J.Psa., 74,873-892.

Trevi, M. (1986). Metafore del simbolo. Raffaello Cortina, Milano.

Vegetti, M. (1983). La saggezza dell’attore. Problemi di etica stoica. aut-aut, 195-196, 19-41.

Vegetti Finzi, S. (1986). Storia della psicoanalisi, Mondadori, Milano.

Wachtel, P.L. (1977) Psychoanalysis and behavior therapy. Basic books, New York.

- - (1985). Integrative psychodynamic therapy. In S. Lynn & J. Garske(Eds.), Contemporary psychotherapies: models and methods. Ch. E. Merril, Columbus, OH.

Wallerstein, R.S. (1985). How does self psychology differ in practice? Int..J.Psa., 66, 391-404.

- - (1986). Forty-two lives in treatment. Guilford Press, New York London.

- - (1990). Psychoanalysis: the common ground. Int. J. Psa., 71, 3-20.

Winnicott, D.W. (1965). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando, Roma,1970.

Zapparoli, G.C. (1988). La psichiatria oggi. Bollati Boringhieri,Torino.


PM --> HOME PAGE ITALIANA --> ARGOMENTI ED AREE --> NOVITÁ --> MODELLI E TECNICHE