Progetto di ricerca per la tutela della salute mentale dello psicoterapeuta
Introduzione a cura del Servizio di Psichiatria e Psicoterapia dellUniversità La Sapienza di Roma (Dir. Prof. Nicola Lalli). La psicoterapia in Italia è disciplinata, a partire dal 1989, dalla "Legge Ossicini". E' noto che questa legge, sollecitata principalmente dalla necessità di sanare la situazione della categoria degli psicologi, è stata oggetto di opposizioni e di critiche. A nostro avviso, mentre da una parte alla Ossicini va riconosciuto il merito di aver posto sul tappeto la questione della psicoterapia, prescrivendo che i titoli necessari al suo esercizio debbano essere rilasciati da istituzioni dello stato o, in subordine, da altre istanze formative soggette a verifica istituzionale, dall'altra bisogna evidenziare che essa ha lasciato irrisolti molti nodi. La sua relativa giovinezza e il carattere prevalente di sanatoria fanno sì che diversi aspetti della professione di psicoterapeuta risultino ancora poco o niente tutelati. Infatti nei tredici anni successivi all'approvazione della legge, sembra che l'attenzione delle istituzioni si sia concentrata esclusivamente sugli aspetti più urgenti da definire: commissioni istituite presso i rispettivi Ordini provinciali, degli psicologi e dei medici, si sono occupate di concedere la legittimazione all'esercizio della psicoterapia ai professionisti che ne avevano fatto domanda e di stabilire i criteri definitivi per le ammissioni future. Al problema della legittimazione dei professionisti ha fatto poi immediatamente seguito quello della legittimazione delle scuole di psicoterapia. E' in qualche misura comprensibile che gli interessi che ruotano attorno alle questioni fin qui menzionate possano avere condizionato il dibattito attorno alla psicoterapia e lo stesso intervento istituzionale, ma forse è ora di evidenziare che, fatte salve tali questioni, tutti gli altri aspetti relativi alla nascita della nuova professione di psicoterapeuta non sono stati oggetto di pari attenzione e allo stato attuale è perfino difficile trovare un referente istituzionale presso il quale sollevarli. Tra tali aspetti ci interessa principalmente evidenziare quello che concerne la salute fisica e mentale del terapeuta. L'interesse per questo specifico argomento nasce dalla considerazione che il problema è in gran parte ignorato, e non solo nel nostro paese. Un autore americano, noto per aver scritto uno dei pochi testi disponibili in italiano sull'argomento, osserva acutamente che, almeno negli Stati Uniti, lo psicoterapeuta nella percezione comune non solo è sano, ma addirittura invulnerabile. La cosa va analizzata con attenzione. Tale idea di invulnerabilità, infatti, appare legata ad aspettative magico-onnipotenti e sembra corrispondere a qualcosa che, al di là di una massiccia idealizzazione della figura del terapeuta, propone una vera e propria negazione della sua realtà umana, come tale vulnerabile da noxae sia fisiche sia psichiche. Queste aspettative magico-onnipotenti non vanno in alcun modo confuse con un aspetto centrale della relazione terapeutica che consiste nella sacrosanta aspettativa da parte del paziente di una "sanità" del terapeuta. La nostra ricerca fa riferimento a un'idea di sanità dello psicoterapeuta come realtà profonda, che non si esaurisce nell'assenza di patologie manifeste. Per sanità del terapeuta intendiamo una situazione di integrità ovvero di un certo modo di essere nei rapporti interumani che implica una sanità della realtà psichica, inconscia, e di più: una strutturazione armonica di inconscio coscienza e comportamento che fa sì che egli possa funzionare da potente fattore terapeutico per un altro individuo che si è ammalato. La sanità del terapeuta è un'idea che si collega strettamente all'altra che nella relazione psicoterapeutica il fattore curativo fondamentale è rappresentato dalla persona del terapeuta, che si pone come "diverso" dal paziente. Il terapeuta sarebbe colui che, non essendo malato, può proporre una relazione sana e trasformativa a chi conosce, o crede di conoscere, solo rapporti malati. Esse trovano le loro basi teoriche nell'idea corrispondente di una sanità originaria dell'inconscio umano. Ovvero di un inconscio originariamente sano, anche se passibile, sotto sollecitazioni esterne, di cadere nella malattia. La sanità del terapeuta, peraltro, è qualcosa che si mette alla prova di volta in volta nella relazione terapeutica e non un dato acquisito una volta per tutte, men che meno da attribuire tout court a chiunque possieda i requisiti per potersi fregiare della qualificazione sociale di psicoterapeuta. L'idea di terapeuta sano è dunque in primo luogo un'idea, che lungi dal rappresentare un'affermazione onnipotente e assoluta, corrisponde a qualcosa che deve essere continuamente verificato nella relazione. L'idea del terapeuta sano intesa in questo senso, conseguentemente non porta a escludere la possibilità che il terapeuta si ammali, anzi è di stimolo all'attenzione nei confronti di eventuali situazioni di malattia che potrebbero essere di pregiudizio all'attività professionale. L'idea del terapeuta invulnerabile per definizione aprioristica rappresenta invece un ostacolo insormontabile all'impostazione del problema della salute del terapeuta su basi concrete. Un'altra concezione, apparentemente opposta a quella del terapeuta invulnerabile, ma di fatto a essa equivalente, è quella per cui il terapeuta è per definizione malato, originariamente malato, come del resto lo siamo tutti. Paradossalmente anch'essa porta agli stessi risultati di scarsa o nulla considerazione per un eventuale situazione di malattia. Si tratta infatti di un'idea religiosa di "ineluttabilità del male" che finisce con il coinvolgere la stessa realtà del corpo, come in tutte quelle situazioni in cui una massiccia alienazione religiosa porta all'alienazione della realtà fisica degli individui e dei loro bisogni. Pensiamo sia utile liberarsi preliminarmente di queste due concezioni per poter approcciare il problema della salute del terapeuta che ci presenta ulteriori, difficili articolazioni. Calandoci nel concreto del problema sociale dello stato di salute di migliaia di professionisti dovremo partire dalla considerazione di situazioni di manifesto disagio o malattia, per poi operare alcuni distinguo: tra malattie fisiche e malattie psichiche e tra malattie manifeste e malattie latenti. Il discorso della sanità inconscia del terapeuta va dunque in qualche modo lasciato sullo sfondo, ma non dimenticato del tutto, poichè senza di esso le considerazioni svolte fino a ora, che definiscono il nostro approccio al problema della salute del terapeuta, potrebbero suonare come perfino ovvie e banali. Dire che è auspicabile che un paziente si trovi davanti uno psicoterapeuta che quanto meno non beve, non si droga, non vive rapporti interpersonali disastrosi, non medita il suicidio potrebbe infatti essere ovvio e banale. Come pure dire che un terapeuta abbia bisogno di un aiuto allorchè si trovi in difficoltà perchè affetto da una malattia fisica o alle prese con momenti della vita di particolare difficoltà. Non sono delle ovvietà, invece quando confrontate con il fatto che questi problemi sono attualmente ignorati. Quanto detto ci permette di inquadrare la nostra proposta di ricerca nel contesto di un processo di uscita dal una sorta di medioevo oscurantista che ha fino ad ora connotato la professione di psicoterapeuta.
Fonti bibliografiche
Enti interessati
Attività di ricerca e di inchiesta Introduzione (http://w3.uniroma1.it/scienzepsi/quespt.html) Questionario interattivo (http://w3.uniroma1.it/scienzepsi/form.html)
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