Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica (1953)
(Psicoterapia e Scienze Umane, 1981, XV, 2: 50-79) |
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Questo è il classico articolo di Eissler del 1953 sul "parametro", di fondamentale importanza perché per la prima volta vennero esplicitati, in modo coerente, i criteri per differenziare la psicoanalisi dalla psicoterapia secondo la tradizione della Psicologia dell'Io. Dietro l'influenza delle recenti acquisizioni sul concetto di Io, Eissler cercò di dare una sistematizzazione teorica alle modificazioni che sempre più analisti andavano introducendo nel setting. Queste modificazioni erano state indotte, in parte, dalla maggiore gravità diagnostica dei pazienti a seguito dell'allargamento della applicazione della psicoanalisi e dall'enorme aumento dei pazienti che proprio in quel periodo, a cavallo degli anni '50, bussavano alla porta degli studi degli psicoanalisti americani (lo widening scope di cui parlò Leo Stone nel 1954) , e in parte, con un movimento a feed-back tra teoria e clinica, a partire dalle nuove acquisizioni teoriche della Psicologia dell'Io. Eissler teorizzò, a scopo euristico, un "modello di tecnica di base" (basic model technique): questo è un modello ideale, difficilmente attuabile in pratica, in cui si suppone che l'analista lavori con un paziente che abbia un Io intatto, e in cui gli interventi si limitino solamente all'interpretazione verbale, senza che le regole di base vengano modificate. In questo caso l'Io del paziente è talmente forte che riesce a tollerare ed elaborare i significati trasmessi dalle interpretazioni. Dato che ci si accorse presto, nella pratica analitica con pazienti difficili (inizialmente soprattutto fobici, schizofrenici, delinquenti, ecc.), che questa tecnica di base non poteva essere tollerata da tutti, divenne indispensabile modificarne vari aspetti. Eissler coniò così il termine "parametro di tecnica" per indicare una modificazione della tecnica resa necessaria dalle condizioni deficitarie dell'Io del paziente; queste modificazioni possono includere vari tipi di interventi diversi dall'interpretazione, quali ad esempio la rassicurazione, il consiglio, il ritorno alla posizione vis-à-vis, la prescrizione di un comportamento (come il suggerire l'esposizione a un oggetto fobico), lo stabilire di autorità la data del termine della analisi per mobilizzare eventuali resistenze (queste ultime due tecniche furono praticate da Freud [1914] con l'"Uomo dei lupi"), e così via. Però secondo Eissler - e in questo consiste il suo principale contributo - una tecnica può essere chiamata ancora "psicoanalisi" quando vengono soddisfatti i seguenti quattro criteri: "1) un parametro deve essere introdotto soltanto quando è dimostrato che la tecnica del modello di base non è sufficiente; 2) il parametro non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; 3) un parametro deve essere utilizzato soltanto quando esso porta, alla fine, alla propria autoeliminazione; in altri termini la fase finale del trattamento deve sempre procedere con parametro zero" (p. 111 ed. or.; pp. 54-55 ed. it. del 1981), e 4) "l'effetto del parametro sulla relazione di traslazione non deve mai essere tale da non poter essere eliminato con l'interpretazione" (p. 113 ed. or.; p. 56 ed. it. del 1981). In questo modo Eissler propose una giustificazione razionale della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: per operare una reale modificazione della struttura dell'Io, il parametro eventualmente introdotto deve essere poi eliminato, altrimenti si incorre in un pericolo dell'uso di un parametro (contro il quale acutamente mise in guardia lo stesso Eissler), quello del "sequestro di materiale analitico" come conseguenza dell'introduzione del parametro stesso, in quanto "ogni introduzione di parametro comporta il rischio che venga temporaneamente eliminata una resistenza senza che sia stata adeguatamente analizzata" (p. 127 ed. or.; p. 65 ed. it. del 1981). Quindi, da un punto di vista psicoanalitico, secondo Eissler per "psicoterapia" si potrebbe intendere una terapia basata su parametri non analizzati e non eliminati (di "agiti", potremmo dire), introdotti in modo fisso nel setting (quindi a rigore non definibili "parametri" nel senso dato ad Eissler del termine, ma come vere e proprie "modificazioni" della tecnica; vedi anche Eissler, 1958). Questa terapia potrebbe avere un effetto benefico nel paziente, ad esempio lo rassicurerebbe, ma, non permettendogli di introiettare determinate funzioni (mantenendolo dipendente da certe caratteristiche dell'ambiente per funzionare), né di acquisire l'insight sulle ragioni del benessere ottenuto tramite il parametro stesso, non opererebbe quelle modificazioni strutturali dell'Io che sarebbero l'obiettivo della psicoanalisi (per alcune esemplificazioni cliniche dell'utilizzo di parametri di tecnica, vedi Migone, 1993, 1995a pp. 58-62 [vedi 1992], 1995b, 1999). Dicevamo che la teorizzazione di Eissler è coerente al suo interno. Negli anni successivi, mano a mano che si è diffusa una rinnovata sensibilità verso la prospettiva relazionale in psicoanalisi, da alcuni autori è stata messa in discussione una importante premessa della teoria di Eissler, e precisamente l'assunto secondo il quale la basic model technique, cioè la tecnica di base, debba per forza essere caratterizzata dai criteri "estrinseci" stabiliti dalla tradizione classica (lettino, quattro sedute settimanali, ecc.). Una di queste voci critiche, sicuramente la più autorevole, fu quella dell'ultimo Merton Gill (di cui suggeriamo la lettura dell'importante suo articolo del 1984, e del dibattito avvenuto in rete, a cura di Favero & Migone [1999]), che ha argomentato che ogni tipo di setting evoca un determinato tipo di transfert, per cui non vi può essere la pretesa di conoscere un setting (quello classico) che favorisce l'emergere di un transfert più "puro" degli altri, dato che in ogni caso è il transfert stesso che determina i significati del setting, essendo essi specifici di ogni singolo paziente. In altre parole, la revisione teorica dell'ultimo Gill nega alla tecnica psicoanalitica classica la funzione di "gold standard", sia nel senso di "oro" puro della psicoanalisi (contrapposto al "rame" o "bronzo" della psicoterapia), che di misura a cui rapportare tutte le altre "monete" terapeutiche. Le posizioni dell'ultimo Gill (1984), che segnano una decisa revisione delle posizioni da lui stesso prese 30 anni prima (Gill, 1954) e considerate un fondamentale punto di riferimento, si inseriscono all'interno della tradizione "interpersonale" o "relazionale" in psicoanalisi, che negli anni recenti sta sempre più stimolando un rinnovato interesse anche all'interno della psicoanalisi ufficiale. Da questo punto di vista, ritengo che si possa dire che la revisione teorica di Gill non rappresenti una effettiva novità nella storia delle idee in psicoanalisi, ma semplicemente una piena ripresa (certamente teorizzata in modo molto lucido, preciso e coerente) delle intuizioni di Sullivan, della Fromm-Reichmann e degli altri interpersonalisti o "revisionisti" americani esposte già fin dagli anni '20 e '30, e che costituirono la prima grande frattura della psicoanalisi istituzionale nordamericana. Non è questa la sede per discutere sulle complesse implicazioni teoriche e sociologiche di questi interessanti sviluppi (per una interpretazione, vedi Migone, 1995a, cap. 4). La critica di Gill comunque non riguarda, come si diceva, la coerenza interna del discorso di Eissler, che rimane valido e può essere applicato ad ogni tipo di setting, "ortodosso" o "eterodosso" che sia. Kurt R. Eissler, uno dei più eminenti psicoanalisti del suo tempo, è scomparso a 90 anni a New York il 17 febbraio 1999, il mercoledì delle ceneri. Come ricorda J. Stone nell'obituario di Kurt R. Eissler sul giornale The Independent del 2-3-99, "era nato a Vienna il 2 luglio 1908. Si laureò all'Università di Vienna in Psicologia nel 1934 e in Medicina nel 1937. La sua tesi di laurea in Psicologia fu con Karl Bühler sulla costanza delle configurazioni visive nelle variazioni degli oggetti e delle loro rappresentazioni. Intraprese la formazione psicoanalitica all'Istituto Psicoanalitico di Vienna nel suo periodo di massimo fulgore, assieme a colleghi ed amici quali August Aichhorn, Paul Federn, Richard Sterba e altri, e nel 1938 divenne membro della Società Psicoanalitica Viennese". Quando l'Austria fu annessa alla Germania fuggì negli Stati Uniti, lasciando purtroppo il fratello Erik che poco dopo verrà ucciso in un campo di concentramento. Giunto in America, approdò a Chicago dove superò l'esame dell'American Board of Psychiatry and Neurology, e subito si fece conoscere per il suo vigoroso attacco alle posizioni di Alexander, allora la figura prominente della scuola di Chicago (l'articolo di Eissler del 1950 contro la tecnica di Alexander, French et al. [1946], basata ad esempio sul concetto di "esperienza emozionale correttiva", dal titolo "Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica", è stato tradotto in italiano nel 1984). Poi Eissler si stabilì a New York dove rimase fino al termine della sua vita. Nel 1943 abbandonò la sua pratica psicoanalitica per arruolarsi volontario, e servì come capitano medico nelle forze armate americane. Nel 1952 assieme ad altri colleghi fondò i Sigmund Freud Archives, che diresse per molti anni fino a quando, agli inizi degli anni '80, fu dolorosamente travolto dallo scandalo Masson (per un resoconto dettagliato del caso Masson, vedi Migone, 1995a cap. 14, e 2002). Nei Freud Archives raccolse migliaia di interviste, documenti e lettere di e a Freud, che depositò alla Library of Congress di Washington. In questo lavoro fu molto aiutato da Anna Freud, di cui era stretto amico essendole legato fin dai tempi di Vienna. Eissler diede un aiuto essenziale anche a Ernest Jones nella stesura dei tre volumi della biografia di Freud (Jones, 1953-57), e anche James Strachey per i 24 volumi della Standard Edition, la traduzione inglese ufficiale delle opere psicologiche di Freud. Nel 1952, Eissler istituì l'Anna Freud Foundation, per raccogliere molti finanziamenti americani (detraibili dal fisco) e convogliarli alla Hampstead Child Therapy Clinic di Londra che Anna Freud aveva da poco fondato. Scrisse un centinaio di articoli e una dozzina di libri, che spaziano sugli argomenti più vari: problemi di tecnica psicoanalitica (basti pensare all'articolo del 1950 contro Alexander, prima citato, o a quello del 1953 sul parametro che qui pubblichiamo), trattamento degli psicotici, problema della delinquenza, arte, interpretazione psicoanalitica della storia, ecc. Dotato di una vastissima cultura tipicamente mitteleuropea, si era dedicato anche allo studio psicobiografico di personaggi quali Leonardo (Leonardo da Vinci: Psychoanalytic Notes on the Enigma, del 1962), Goethe (Goethe: a psychoanalytic study, 1775-1786, del 1963, due volumi di ben 1538 pagine), Amleto (Discourse on Hamlet and HAMLET: A Psychoanalytic Inquiry, del 1971), e così via (si veda la bibliografia completa al sito su Eissler curato da J. Stone, editor di Freudpsa E*Archive e autrice anche del già citato obituario su The Independend del 2-3-99; si veda l'obituario scritto da Clifford Yorke su The Guardian del 23-3-99; si veda anche il sito ufficiale su Kurt R. Eissler, http://www.kurteissler.com, curato dall'esecutore testamentario dr. Emanuel E. Garcia, 1525 Locust Street, Floor 19, Philadelphia, PA 19102, USA, tel. 215-9852688, 215-4712000; home: 2120 Race Street, Philadelphia, PA 19103, USA, tel. 215-5684745). Come scrive J. Stone nell'obituario prima citato, pubblicato su The Independent, Eissler era un protagonista della migliore e più seria tradizione "classica", che lo aveva visto impegnato in molte battaglie in difesa del fondatore della psicoanalisi, ma nello stesso tempo, come lui stesso usava definirsi, era "irriverente" nei confronti della rigida ortodossia formale, che a suo parere metteva in pericolo il futuro della psicoanalisi, di cui si sentiva pessimista. La sua personalità lo rendeva una persona per certi versi affascinante: apparentemente timido in pubblico, riservato e a volte schivo coi colleghi, era capace di aprirsi con poche persone rivelando una incredibile umanità, un rapporto personale molto stimolante e uno spiccato sense of humor (a proposito di questo suo articolo del 1953 sul "parametro", ad esempio, conservo ancora una sua lettera in cui mi diceva che "si vergognava per essere diventato così famoso solo per aver inventato una nuova parola del gergo psicoanalitico"). Non era infrequente anche che si lasciasse andare a forti punte di ironia e a momenti di imprevedibilità. A Vienna era stato allievo e amico di Aichhorn, che era molto vicino a Freud (fu in occasione del settantesimo compleanno di Aichhorn, il 27-7-48, che Eissler gli dedicò un libro da lui curato, Searchlights on Delinquency, del 1949). Nel 1965, sempre all'insegna della coerenza teorica e seguendo il pensiero di Freud, scrisse un importante libro, poi tradotto in italiano, in favore dell'analisi laica (Ortodossia medica e futuro della psicoanalisi), schierandosi, pur essendo anche lui medico, contro l'establishment psicoanalitico nordamericano, tutto schierato in senso medico e in favore della esclusione degli psicologi dal training psicoanalitico. Viveva in uno degli ultimi piani di uno di quei bei palazzi in Central Park West, al n. 300, con larghe finestre che guardano su tutto Central Park. Era ormai solo, avendo perso nel 1989 la moglie Ruth Selke, che aveva sposato nel 1936, un'altra nota psicoanalista e fondatrice della prestigiosa rivista The Psychoanalytic Study of the Child. Una delle ultime volte che lo ero andato a trovare, avendomi lui ricordato che la volta precedente era stata due anni prima, lo avevo salutato scherzando dicendogli che allora ci saremo rivisti tra altri due anni, e lui mi rispose che si sarebbe considerato fortunato se fosse stato ancora vivo. Un altro importante interesse nella sua vita, tra l'altro, era stato l'approccio al paziente morente e la tanatologia (lo studio dei vari approcci psicologici, filosofici e religiosi verso la morte, argomento che trattò approfonditamente in un libro del 1955, The Psychiatrist and the Dying Patient, considerato un importante punto di riferimento per gli studiosi del settore). Fu proprio pochi giorni prima della morte che mi aveva scritto dandomi il permesso, che gli avevo chiesto, di pubblicare su Internet alcuni suoi lavori. La pubblicazione di questo suo articolo quindi ha qui anche un significato particolare. L'articolo "Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica" è uscito sul primo numero del Journal of the American Psychoanalytic Association (1953, 1, 1: 104-143). In italiano è stato tradotto sulla rivista Psicoterapia e scienze umane, 1981, XV, 2: 50-79, e in seguito anche nel libro a cura di Celestino Genovese Setting e processo psicoanalitico, Milano: Cortina, 1988, pp. 3-35. Ringraziamo sia la casa editrice Franco Angeli che la casa editrice Raffaello Cortina per i permessi di pubblicazione su PSYCHOMEDIA. Per la pubbblicazione dell'edizione originale inglese, siamo grati al dr. Emanuel E. Garcia, esecutore testamentario di Eissler, che ha pagato per noi i diritti di pubblicazione su PSYCHOMEDIA. In questa edizione su Internet si sono mantenuti i capoversi dell'edizione originale inglese, e le note, la cui numerazione corrisponde a quella originale, sono state introdotte nel testo (questo articolo, così come di tutti gli articoli usciti fin dal 1920 nelle riviste The International Journal of Psychoanalysis, The Journal of the American Psychoanalytic Association, The Psychoanalytic Quarterly, The Psychoanalytic Study of the Child, The International Review of Psychoanalysis, Contemporary Psychoanalysis, Psychoanalytic Inquiry e Psychoanalytic Dialogues è consultabile in un CD-ROM di Psychoanalytic Electronic Publishing [PEP]). Bibliografia Alexander F., French T.M. et al. (1946). Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17: La esperienza emozionale correttiva. Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101. Eissler K.R., editor (1949). Searchlights on Delinquency: New Psychoanalytic Studies. Dedicated to Prof. August Aichhorn on the occasion of his seventieth birthday, July 27, 1948 (managing editor: K.R. Eissler; chairman of the editorial board: Paul Federn). New York: International Universities Press. Eissler K.R. (1950). The "Chicago Institute of Psychoanalysis" and the sixth period of the development of psychoanalytic technique. Journal of General Psychology, 42: 103-157 (trad. it: Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica. Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, XVIII, 3: 5-33 [I parte], e 4: 5-35 [II parte]. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/eiss50-1.htm). Eissler K.R. (1955). The Psychiatrist and the Dying Patient. New York: International Universities Press. Eissler K.R. (1958). Remarks on some variations in psychoanalytical technique. Int. J. Psycho-Anal., 39: 222-229 (trad. it.: Osservazioni su alcune variazioni nella tecnica psicoanalitica. In Genovese C., a cura di, Setting e processo psicoanalitico. Milano: Cortina, 1988, pp. 186-199). Eissler K.R. (1962). Leonardo da Vinci: Psychoanalytic Notes on the Enigma. New York: International Universities Press. Eissler K.R. (1963). Goethe: A Psychoanalytic Study 1775-1786 (Two Volumes). Detroit: Wayne State University Press. Eissler K.R. (1965). Medical Orthodoxy and the Future of Psychoanalysis. New York: International Universities Press (trad. it.: Ortodossia medica e futuro della psicoanalisi. Roma: Armando, 1979). Eissler K.R. (1971). Discourse on Hamlet and HAMLET: A Psychoanalytic Inquiry. New York: International Universities Press. Favero A.M. & Migone P., a cura di (1999). Dibattito sull'articolo di Merton M. Gill "Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione" avvenuto nella Lista "Psicoterapia" di PSYCHOMEDIA (PM-PT) da febbraio a giugno 1999 (Interventi di Adriano Alloisio, Andrea Angelozzi, Tullio Carere, Gaetano DellAnna, Licia Filingeri, Wilfredo Galliano, Tullio Garau, Gaetano Giordano, Renzo Giraldi, Marco Longo, Salvatore Manai, Fabrizio Marcolongo, Paolo Migone, Luca Panseri, Piero Porcelli, Ermete Ronchi, Gian Paolo Scano, Daniele Toffoletto). PSYCHMEDIA, http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/gill-dib-1.htm. Freud S. (1914 [1918]). Dalla storia di una nevrosi infantile (Caso clinico dell'Uomo dei lupi). Opere, 7, 483-593. Torino: Boringhieri, 1975. Gill M.M. (1954). Psychoanalysis and exploratory psychotherapy. J. Am. Psychoanal. Ass., 2: 771-797. Gill M.M. (1984). Psychoanalysis and psychotherapy: a revision. Int. Rev. Psychoanal., 11: 161-179 (trad. it.: Psicoanalisi e psicoterapia: una revisione. In Del Corno F. & Lang M., a cura di, Psicolgia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale. Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157). Edizione su Internet: http://www.publinet.it/pol/ital/10a-Gill.htm. Jones E. (1953-57). The Life and Work of Sigmund Freud (3 volumes). New York: Basic Books, 1953 (vol. I), 1955 (vol. II), 1957 (vol. III) (trad. it.: Vita e opere di Freud. Milano: Il Saggiatore, 1962). Migone P. (1992). Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica? Il Ruolo Terapeutico, 59: 4-14. Migone P. (1993). Riflessioni cliniche sul lavoro del "Psychotherapy Research Group" di San Francisco guidato da Weiss e Sampson. Il Ruolo Terapeutico, 62: 55-58. Edizione su Intenet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt62-93.htm. Migone P. (1995a). Terapia psicoanalitica. Milano: Franco Angeli. Migone P. (1995b). L'elaborazione della fine della terapia come intervento terapeutico. Il Ruolo Terapeutico, 68: 41-44. Migone P. (1999). L'uso del lettino in psicoanalisi: un esempio clinico. Gli argonauti (edizione telematica), http://www.argonauti.it/articoli/migone.htm. Migone P. (2002). Storia dello scandalo Masson. Il Ruolo Terapeutico, 89 (I parte), 90 (II parte), 91 (III parte). Stone L. (1954). The widening scope of indications for psychoanalysis. J. Am. Psychoanal. Ass., 2: 567-594. Effetto della struttura dell'Io sulla tecnica psicoanalitica Kurt R. Eissler
L'argomento di questo lavoro è strettamente collegato al problema che ha occupato la riflessione degli analisti per decenni. Esso rientra nell'ambito del quesito sollevato da Freud il 26 settembre 1922 al VII Congresso Psicoanalitico Internazionale di Berlino: "Qual è la relazione fra tecnica psicoanalitica e teoria psicoanalitica?" [la sua relazione a questo congresso, l'ultimo a cui partecipò di persona, purtroppo non ci è pervenuta]. La domanda di Freud abbracciava una vasta area, di cui una parte soltanto rientra nel contenuto di questo articolo. Il quesito di Freud del 1922 ci interessa oggi particolarmente in relazione alla struttura dell'Io. Durante gli ultimi due decenni si è diffusa una certa sensazione che potrebbe essere formulata nel modo seguente: se la nostra conoscenza della struttura dell'Io fosse completa, sarebbe possibile perfezionare una molteplicità di tecniche, idealmente adattate alle esigenze del singolo disturbo; potremmo quindi garantire una completa padronanza dell'Io su quelle aree nelle quali esso aveva subito delle sconfitte, e assicurare così una completa guarigione. Come tutte le sensazioni, anche questa non riflette adeguatamente la realtà oggettiva, ma è forse corretto dire che una penetrazione approfondita, quasi completa, nella struttura dell'Io moltiplicherebbe l'efficacia clinica delle tecniche psicoanalitiche. Bisogna però sempre ammettere la posizione del pessimista: la completa conoscenza della struttura dell'Io farebbe indubbiamente apparire il compito di modificare quella struttura nelle sue effettive e gigantesche proporzioni e ci indurrebbe quindi a rinunciare modestamente a questi eroici tentativi. Prima di esaminare a fondo l'argomento, vorrei escludere due variabili che hanno un notevole peso sulle tecniche psicoanalitiche. Questa delimitazione consentirà una formulazione più precisa delle questioni fondamentali ed eviterà lo smarrimento che potrebbe generarsi di fronte alla notevole varietà di problemi che si presentano. Le tecniche psicoanalitiche dipendono principalmente da tre variabili: il disturbo e la personalità del paziente, le circostanze attuali della vita del paziente e la personalità dello psicoanalista. Nella trattazione che segue, le ultime due variabili saranno escluse. Si parte dal presupposto che le condizioni di vita del paziente e la personalità dell'analista siano entrambe ideali, cioè completamente favorevoli al processo analitico. Ipotizziamo, quindi, che nessun disturbo del processo analitico sia causato dalle effettive circostanze della vita del paziente o dalla personalità dell'analista. La mancata distinzione di queste variabili ha notevolmente abbassato i livelli di discussione sulla tecnica psicoanalitica [Nota 1: In base al concetto di Freud (1910b) di "analisi selvaggia", si potrebbe realmente parlare, in questo contesto, di discussioni "selvagge" sulla tecnica psicoanalitica]. Naturalmente la realtà clinica è così varia e presenta tante situazioni impreviste da rendere impossibile stabilire una tecnica standard che possa soddisfare tutte le esigenze concrete. Ciò è vero anche per altre specialità. Tutte le regole di asepsi, sebbene accettate, vengono messe da parte in situazioni di emergenza; malgrado ciò, quando opera in condizioni ottimale, il chirurgo segue queste regole fedelmente, ed esse vengono sempre insegnate nelle scuole di medicina riconosciute, benché l'insegnante conosca bene le numerose situazioni in cui non ci sarà occasione di applicarle. Se per le circostanze particolari della vita del paziente può essere necessaria una certa misura tecnica, è un grave errore concludere che questa misura abbia una validità generale solo perché si è rivelata utile in condizioni particolari. Trascurare la specificità delle variabili alle quali una misura tecnica è correlata significa mettere da parte validi standard scientifici. Per dimostrare gli errori in cui si può incorrere quando non si distinguono le variabili della, tecnica, vorrei illustrare un solo esempio. Nel discutere il principio di flessibilità, Alexander, French et al. (1946) citano i consigli tecnici di Freud secondo cui in alcuni momenti del trattamento bisognerebbe spingere i pazienti fobici a esporsi alla situazione che provoca la paura. Alexander utilizza questo espediente tecnico come ulteriore argomento a favore della sua tecnica, consistente nel dare ai propri pazienti abbondanti consigli e incoraggiamenti. Tuttavia, la misura tecnica di Freud, come si vedrà, non si presta affatto alla generalizzazione se la si guarda nella sua reale proporzione e nel suo reale contesto, cioè se viene messa in correlazione con la variabile che ha portato alla sua introduzione. Mi viene in mente un'altra osservazione generale. Ho citato prima la personalità dello psicoanalista come una variabile della tecnica psicoanalitica. Freud ha riferito alcuni dei fattori soggettivi che hanno influito sull'evoluzione della sua tecnica. Ad esempio, spiegando perché egli i vuole che il paziente assuma una posizione supina durante l'analisi, Freud (1913) cita la propria avversione al fatto di essere fissato per diverse ore. E poi continua aggiungendo altre ragioni che lo spingono a preferire la posizione supina. Frieda Fromm-Reichmann (1950, p. 11) parlando della propria deviazione dalla psicoanalisi classica e del suo modo di condurre l'analisi in posizione faccia a faccia, ha citato, a sostegno della propria argomentazione, l'idiosincrasia di Freud. La sua argomentazione è però fuori posto. Un analista può essere un esibizionista e quindi preferire una tecnica faccia a faccia. Qualunque sia la tecnica ideata dal terapeuta, essa può essere usata al servizio del suo principio di piacere. Il valore di una misura tecnica deve basarsi su fattori obiettivi, tanto meglio se poi coincide con il piacere del terapeuta, ma questa coincidenza non è un fattore decisivo nel giudicare e valutare una determinata tecnica. La Fromm-Reichmann richiama l'attenzione su un altro fattore che merita di essere preso in considerazione quando si parla dell'avversione di Freud ad essere fissato per otto ore. Essa afferma che il terapeuta di quei tempi era "portato a condividere l'imbarazzo del suo paziente mentre ascoltava comunicazioni delicate" e questo lo spingeva a preferire la posizione supina del paziente [Nota 2: Il ragionamento della Fromm-Reichmann a favore delle sedute faccia a faccia non può essere qui trattato in modo esauriente; quindi mi limiterò a una affermazione. Se l'autrice voleva identificare Freud con l'affermazione citata come fa pensare il contesto, si sbagliava. Freud (1924b, p. 42 ed. inglese) riferì che aveva usato la posizione supina prima di scoprire l'eziologia sessuale delle nevrosi e che inoltre si era pienamente convinto della correttezza della teoria a seguito delle sedute con i nevrastenici, sulla cui vita sessuale aveva indagato utilizzando una posizione faccia a faccia]. E ragionamento della Fromm-Reichmann, sia esso corretto o meno, porta alla ribalta un gruppo di fattori che io ho deliberatamente escluso dalla precedente enumerazione delle variabili, cioè la situazione storica. Sono stati fatti dei tentativi di mettere in correlazione con la psicoanalisi classica tutti i tipi di fattori storici: mentalità vittoriana e antivittoriana, feudalesimo, puritanesimo ecc. Nessun soggetto può separarsi dal periodo storico in cui vive come del resto non può portarsi al di là del tempo e dello spazio. Per quanto valida possa essere la sociologia della scienza, essa non decide quale scoperta scientifica sia corretta e quale non lo sia. Il punto di vista storico può essere valido per una qualsiasi delle cosiddette moderne innovazioni psicoanalitiche. Consideriamo, ad esempio, la tecnica della distribuzione irregolare delle sedute, che ora viene così spesso proposta. Come è noto, Freud attribuiva grande importanza alla costanza e alla continuità della tecnica - ovvero alla tecnica delle sedute quotidiane -, mentre alcuni psicoanalisti contemporanei ritengono che la frequenza delle sedute dovrebbe essere adattata alle esigenze terapeutiche del paziente, cioè questi dovrebbe essere visto meno spesso quando si vuole aumentarne la partecipazione emotiva e più spesso per attenuarne l'angoscia. La tecnica che ne risulta abitua il paziente a vedere il proprio analista a volte raramente e altre volte frequentemente. Una valutazione storica di questa tecnica metterà in evidenza che il modello di vita di molti analisti, e certamente di coloro che sono figure eminenti a livello nazionale, è piuttosto diverso da quello di Freud. Si tratta di personaggi di primo piano sulla scena pubblica, che sono chiamati a Washington come consiglieri del governo, che lavorano in moltissime commissioni, in qualsiasi periodo dell'anno, che tengono conferenze in posti lontani centinaia o migliaia di miglia, che partecipano a convegni, che, insomma, sono impegnati in molte attività extraprofessionali. Possono questi analisti concedersi il lusso di sedute quotidiane per dieci mesi l'anno senza cadere nell'oblio nazionale? Ho citato soltanto le ragioni storiche più evidenti della tecnica delle sedute irregolari, ma ve ne sono altre, più sottili. Un fattore storico può benissimo rappresentare un valido aspetto della ricerca. Ma dobbiamo tenere presente che, anche se i fattori storici possono essere facilmente correlati con le tecniche di un dato periodo, non è questa correlazione che consente di stabilire se la tecnica è corretta o meno. Tutto ciò che è creato dall'uomo è profondamente permeato dal clima storico esistente al momento della sua creazione. Nell'esaminare le scoperte degli scienziati noi osserviamo che, a volte e in determinate circostanze, il clima storico ha portato a un'interpretazione corretta della realtà; in altre ha portato invece a un'interpretazione errata. Poiché è inutile sollevare argomentazioni storiche nel valutare i pro e i contro di una proposta scientifica, ho omesso il fattore storico come una delle variabili della tecnica psicoanalitica che sarà qui trattata. Per ritornare al tema dell'effetto della struttura dell'Io sulla tecnica, comincerò con un esempio clinico in cui la tecnica psicoanalitica può essere applicata con il minimo di complicazioni. E modello di base della tecnica psicoanalitica può essere esaminato con relativa facilità in un. caso di isteria. In quest'ambito noi partiamo dal presupposto - e in questo contesto astratto non ha importanza se il presupposto sia corretto o meno dal punto di vista clinico - che il paziente isterico abbia raggiunto il livello fallico e che il suo lo abbia tutte le potenzialità per svilupparsi in un'organizzazione che può mantenere un adeguato rapporto con la realtà. Il compito della terapia, a questo punto, è di dare al paziente il sostegno necessario per raggiungere il livello genitale e di consentire la realizzazione di quelle potenzialità dell'Io che non erano state sfruttate, soprattutto a causa di esperienze traumatiche. Si indica al paziente la regola fondamentale e lo si informa che egli ha l'obbligo di seguirla. E paziente vi aderisce al meglio della sua capacità, che è del tutto sufficiente per pervenire alla guarigione. Lo strumento con il quale l'analista può realizzare questo compito è l'interpretazione, e l'obiettivo dell'interpretazione è di favorire nel paziente l'insight che eliminerà gli ostacoli che finora hanno ritardato il pieno sviluppo dell'Io. Il problema qui è soltanto quando e cosa interpretare: poiché nel caso ideale l'attività dell'analista si limita all'interpretazione, nessun altro strumento diventa necessario. Per evitare incomprensioni, voglio sottolineare che qui non tratto il problema di cosa sia efficace dal punto di vista terapeutico nell'analisi di una nevrosi. I fattori efficaci dal punto di vista terapeutico sono, naturalmente, di gran lunga diversi dall'interpretazione: fra i molti vi è, ad esempio, la traslazione Sarebbe però un errore considerare la traslazione uno strumento della terapia, in particolare in un caso di isteria: la traslazione è piuttosto una fonte di energia che, se utilizzata in modo appropriato, porta alla guarigione attraverso l'applicazione dell'interpretazione. Bisognerebbe chiarire un altro punto. Vi sono altri fattori terapeuticamente efficaci che possono sembrare strumenti, come, ad esempio, il rifiuto di soddisfare un desiderio, al quale il paziente deve sottostare durante tutto il trattamento; o, più in generale, l'atteggiamento terapeutico psicoanalitico. A mio avviso, questi fattori sono secondari, sono cioè conseguenze inevitabili quando l'interpretazione è il solo strumento di cui l'analista si serve. Analogamente l'"elaborazione" è una tecnica specifica per utilizzare l'interpretazione. Ho tralasciato uno strumento che è indispensabile per la tecnica del modello di base. E' indubbio che nessuno è stato mai analizzato senza che l'analista gli ponesse delle domande nel corso del trattamento psicoanalitico. In realtà, io ritengo che la domanda, come tipo di comunicazione, sia uno strumento fondamentale dell'analisi, quindi indispensabile, ed essenzialmente diverso dall'interpretazione. Purtroppo questo strumento è stato dato per scontato. Attualmente gli studi vertono principalmente sull'uso appropriato delle domande nel corso delle sedute e non nel processo psicoanalitico in sé (F. Deutsch, 1939, 1949). La psicologia della "domanda" in termini di psicologia strutturale non è stata ancora scritta. Tuttavia, anche se questo è un tema stimolante, non lo tratterò ulteriormente in questo lavoro. Passerò invece a un'altra nevrosi, esaminando gli strumenti essenziali minimi necessari nel caso di una fobia, La tecnica da usare in un caso classico di fobia può anche sembrare sorprendente. Il trattamento ha inizio e continua per un lungo periodo come quello di un'isteria, l'analista si serve cioè dell'interpretazione come strumento esclusivo della terapia. Nel trattamento di alcuni casi, però, si arriva a un punto in cui diventa evidente che l'interpretazione non basta come strumento terapeutico e che il materiale patogeno non viene scalfito malgrado l'analisi di tutte quelle resistenze che diventano clinicamente visibili: in altre parole, pur spingendo al massimo l'interpretazione, l'area patogena non può essere penetrata. Anche se vengono interpretate tutte le resistenze e si trasmette al paziente qualsiasi ricostruzione ricavabile dal materiale, e anche se il paziente aderisce idealmente alla regola di base, l'area che costituisce il nucleo della psicopatologia non diventerà accessibile all'analista. In quel momento diventa necessario un nuovo strumento tecnico. Come è noto, questo nuovo strumento è il consiglio o il comando. L'analista deve imporre al paziente un comando: esporsi alla situazione temuta nonostante la paura e indipendentemente da qualsiasi tipo di angoscia che si potrebbe sviluppare durante quest'esposizione. In casi estremi può diventare necessario minacciare di interrompere il trattamento se il paziente non accetta il peso di subire volontariamente l'angoscia. Consigliare al paziente di compiere una certa azione o anche spingerlo indirettamente a farla non rientra nell'ambito dell'interpretazione e configura uno strumento terapeutico che è di tipo completamente diverso. Per facilitare la comunicazione introduco qui il termine di parametro di una tecnica, che è la deviazione, sia quantitativa che qualitativa, dalla tecnica del modello di base, ovvero da una tecnica che richiede l'interpretazione come strumento esclusivo. Nella tecnica del modello di base il parametro è, naturalmente, zero per tutta la durata del trattamento. Diremo quindi che il parametro della tecnica necessaria per il trattamento di una fobia è zero nelle fasi iniziali, come pure nelle fasi conclusive, ma, nella misura in cui l'interpretazione viene sostituita dal consiglio o comando nella fase intermedia, vi è un parametro che può, come nel caso qui citato, essere considerevole, benché temporaneo. La giustificazione dell'inserimento di un parametro nel trattamento della fobia si basa esclusivamente sull'osservazione clinica. Le prime esperienze dimostrano che la tecnica del modello di base porta a una situazione di stallo. Freud si rese conto che, ammesso che le fobie dovessero essere trattate attraverso la psicoanalisi, era necessario deviare dalla posizione tecnica di base, vale a dire quella di non imporre consigli o comandi al paziente dopo avere iniziato il trattamento. parametro che egli aveva introdotto era il minimo, senza il quale non si poteva fare nessun progresso. Il grande vantaggio di questo parametro era dato dal fatto che doveva essere utilizzato soltanto per un breve periodo e che, una volta dimostrata la sua utilità, se ne poteva fare a meno e il trattamento poteva continuare con la tecnica del modello di base. Il parametro introdotto nella psicoanalisi della fobia può servire come modello dal quale dedurre le condizioni ideali che un parametro dovrebbe soddisfare. Formuliamo in via provvisoria i seguenti criteri generali che un parametro deve seguire per poter soddisfare le condizioni che sono fondamentali per la psicoanalisi: (1) un parametro deve essere introdotto soltanto quando è dimostrato che la tecnica del modello di base non è sufficiente; (2) il parametro non deve mai oltrepassare il minimo inevitabile; (3) un parametro deve essere utilizzato soltanto quando esso porta, alla fine, alla propria autoeliminazione: in altri termini la fase finale del trattamento deve sempre procedere con parametro zero. Queste tre condizioni sono idealmente soddisfatte dal parametro che è diventato parte integrante del trattamento analitico dei pazienti fobici. Se adesso passiamo al gruppo successivo di nevrosi, quelle ossessivo-coatte, incontriamo una situazione ancora diversa. Possiamo prendere qui il caso clinico dell'"Uomo dei lupi" come paradigmatico (Freud, 1914) [Nota 3: Per questo paziente sono stare fatte disse diagnosi. Prima dell'analisi alcuni autorevoli studiosi avevano affermato che era affetto da disturbi mentali maniaco-depressivi (Freud, 1914, p. 488). La diagnosi di Freud fu "Esito di una nevrosi ossessiva risoltasi spontaneamente, ma imperfettamente" (ibidem); ma in un altro passo dei testo farebbe pensare che Freud può aver considerato il paziente un nevrotico ossessivo: "essi [i disturbi intestinali del paziente] rappresentavano quella particella d'isteria che troviamo regolarmente alla base di ogni nevrosi ossessiva" (p. 549). Successivamente Freud (1937) riportava il carattere paranoico di alcuni sintomi del paziente. Tuttavia i problemi di tecnica che Freud trattò nello scritto originario rientravano in quelli che generalmente si riscontrano nell'analisi di nevrosi coatte. Non sono d'accordo con Binswanger (1945), che considera la storia iniziale dell'"Uomo dei lupi" tipica della schizofrenia infantile]. A quanto si può vedere, per la maggior parte del trattamento Freud utilizzò la tecnica del modello di base. Verso la fine - "Quando da indizi inequivocabili mi resi conto che era giunto il momento di farlo" (p. 490) - Freud introdusse due parametri. Uno di essi è ben noto: egli stabili un termine per la conclusione del trattamento. Il secondo, raramente citato, mi colpisce come ancora più presuntuoso: "Promisi dunque al paziente la completa normalizzazione della sua attività intestinale" (p. 549). Il paziente deve aver percepito questo come una precisa rinuncia al riserbo analitico e come ammissione e promessa di onnipotenza da parte dell'analista: di qui il reinsorgere della malattia quando l'analista si ammalò e dimostrò di non essere onnipotente (Brunswick, 1928). Questi due parametri sono di ordine differente rispetto a quelli incontrati nel trattamento delle fobie. Essi soddisfano il primo requisito che abbiamo posto per un parametro: sono stati introdotti quando si è dimostrato che la tecnica del modello di base non avrebbe portato alla guarigione del paziente. Non è sicuro che essi soddisfino il secondo requisito, quello di presentare la minima deviazione indispensabile. Sicuramente essi non soddisfano il terzo requisito, in quanto non si autoeliminano, e questo per due motivi: (1) dal momento che il paziente deve essere dimesso entro un certo termine, non vi è tempo per una fase conclusiva durante la quale si dovrebbe usare esclusivamente la tecnica del modello di base; (2) l'altro parametro, la promessa di onnipotenza, va molto al di là della conclusione del trattamento e, nel caso dell'"Uomo dei lupi", sembra sia stato un prerequisito necessario per conservare la salute mentale del paziente durante gli anni successivi all'analisi. Questa deviazione è interessante per altre ragioni: è possibile che l'introduzione di alcuni parametri abbia di per sé un effetto duraturo sulla traslazione del paziente. Le deviazioni dalla tecnica del modello di base vengono a volte proposte con leggerezza da alcuni analisti, in base al presupposto che l'effetto di qualsiasi misura terapeutica possa essere "analizzato" successivamente. Come affermazione generale, ciò è decisamente sbagliato. Purtroppo, non sono stati ancora accertati i limiti oltre i quali le misure terapeutiche creano un danno irreparabile al rapporto di traslazione. A questo proposito si devono considerare le variazioni individuali da un paziente all'altro [Nota 4: Fra i tanti esempi che potrebbero essere citati, ne scelgo uno a caso. Vi sono pazienti nei quali la più lieve deviazione dalla regola di condurre il trattamento m situazione di frustrazione può avere un effetto estremamente dannoso, e l'appagamento di un desiderio banale, come la richiesta di una sigaretta> può danneggiare l'ulteriore andamento del trattamento creando una fantasia fissa inaccessibile all'analisi successiva. Altri pazienti, e credo che siano la maggioranza, sono meno rigidi. Qualunque cosa possa essere evocata in loro in termini di formazione della traslazione attraverso l'appagamento di desideri banali può essere analizzata facilmente e non diventa un impedimento al trattamento ulteriore]. Freud fece una precisa dichiarazione su questo problema quando affrontò il trattamento di reazioni terapeutiche negative: dopo aver descritto il parametro della tecnica che si sarebbe dovuto introdurre per poter effettuare la guarigione clinica in pazienti che presentavano reazioni terapeutiche negative, egli continuò affermando chiaramente ed enfaticamente che quel particolare parametro non era conciliabile con la tecnica psicoanalitica perché avrebbe trasformato una traslazione in una relazione di per sé inaccessibile alle interpretazioni psicoanalitiche [Nota 5: Vedi Freud (1922, p. 512, nota): il contenuto di questa nota è di notevole importanza. L'esame accurato della maggior parte dei libri sulla tecnica psicoanalitica di data recente mostrerà che lo spirito di onestà intellettuale di Freud è andato in gran parte perduto. Le innovazioni tecniche sono introdotte in larga misura e sono supportate dalla semplice giustificazione che l'innovatore ha osservato la successiva scomparsa dei sintomi La domanda "a quale costo e limitazione dell'Io" non viene più posta, mentre l'orgoglio per la presunta superiorità delle conoscenze degli analisti contemporanei fa credere a molti autori che le misure protettive prese da Freud contro l'effetto della personalità dei terapeuta - in situazioni in cui dovrebbe verificarsi un cambiamento strutturale, indotto dal processo analitico - sono diventate superflue]. Quindi bisogna introdurre una quarta proposta per delineare le condizioni che un parametro deve soddisfare perché la tecnica rimanga nell'ambito della psicoanalisi: l'effetto del parametro sulla relazione di traslazione non deve mai essere tale da non poter essere eliminato con l'interpretazione. Ritornando alla tecnica di Freud nel trattamento dell'Uomo dei lupi, voglio di nuovo mettere in evidenza quello che è comunemente noto: nessuna delle innovazioni tecniche in questo caso è diventata pane integrante dell'analisi; per questo tipo di nevrosi coatta, non abbiamo una tecnica che sia paragonabile in adeguatezza o precisione al parametro della tecnica utilizzata nel trattamento delle fobie. Se adesso affrontiamo gli altri due gruppi di disturbi, le schizofrenie e le delinquenze, la situazione diventa infinitamente più complicata. La tecnica della libera associazione non può essere applicata in nessuno dei due gruppi. Nelle schizofrenie, il paziente non sarebbe in grado di cooperare; inoltre, la tecnica potrebbe accelerare le regressioni. Nelle delinquenze, la regola di base è inapplicabile a causa del rifiuto intenzionale e inflessibile del paziente di seguirla. In questi due gruppi, non solo la regola di base è inapplicabile, ma contemporaneamente lo strumento principale dell'interpretazione diventa inutilizzabile e l'insight non può essere trasmesso a questi pazienti tramite l'interpretazione verbale, almeno non nella fase iniziale del trattamento. Quindi i parametri delle tecniche necessarie non possono essere utilizzati per modificare la tecnica del modello di base in alcuni punti, né possono essere introdotti come nuovi dispositivi in alcune fasi, come nelle nevrosi appena citate: nelle schizofrenie e nelle delinquenze tutta la tecnica deve essere modificata in tutti i suoi aspetti essenziali. Tuttavia i quattro criteri appena formulati, che un parametro deve soddisfare perché una tecnica possa essere accettata come psicoanalitica, sono validi anche per questi due gruppi [Nota 6: La quarta condizione, secondo la quale il parametro non deve dare alla traslazione mia direzione duratura, sarà difficile da soddisfare nelle fasi acute della malattia. Se è accaduto che un parametro abbia influenzato la traslazione in un modo che non può essere annullato dall'interpretazione, può diventare necessario cambiare l'analista]. E impossibile dimostrare qui le conseguenze che necessariamente derivano quando la tecnica del modello di base viene adattata alle necessità di disturbi così gravi come sono sempre le schizofrenie e come le delinquenze hanno mostrato di essere in quasi tutti i casi; ma io voglio sottolineare che, nonostante l'affermazione contraria da parte di alcuni analisti, sono convinto che non è stato ancora dimostrato che i pazienti schizofrenici abbiano mai raggiunto uno stato in cui possono essere trattati secondo la tecnica del modello di base. Questo, in una certa misura, coincide con il dubbio circa l'eventualità che i pazienti schizofrenici possano essere "curati" dalla psicoanalisi nello stesso senso in cui noi comunemente diciamo che possono essere curate le nevrosi. Questa affermazione non deve essere intesa nel senso di negare l'efficacia della psicoanalisi nel trattamento dei pazienti schizofrenici Per ritornare alle nevrosi noi abbiamo preso i requisiti minimi di un caso di isteria come modello di base e h abbiamo confrontati con i requisiti minimi di altri disturbi. Per ragioni storiche l'isteria può essere presa come linea di base della terapia psicoanalitica, poiché Freud ha dimostrato la validità della tecnica di base e i concetti fondamentali della psicoanalisi in concomitanza con le sue esperienze cliniche con le isterie. Però vi è anche una ragione intrinseca per cui la psicoanalisi si è evoluta nel corso del trattamento delle isterie. Per il momento vorrei dire che la scoperta della psicoanalisi sarebbe stata enormemente ostacolata, ritardata o addirittura resa impossibile se nella seconda metà del secolo diciannovesimo la nevrosi prevalente non fosse stata l'isteria. Nonostante alcune inesattezze, si può dire che il primo modello psicoanalitico dell'isteria si riferisce a un Io che ha subito quel minimo di danno senza il quale non si sarebbe manifestata alcuna nevrosi. Da questo punto di vista è interessante leggere attentamente la prima pubblicazione di Breuer & Freud (1892-95). Nel lavoro del 1892 venivano attribuite all'Io due differenti funzioni durante lo sviluppo dell'isteria. (a) La maggior parte dei sintomi isterici erano riconosciuti come conseguenza di traumi. Qualsiasi esperienza suscettibile di provocare affetti dolorosi intensi sarebbe potuta diventare un trauma, a seconda della sensibilità dell'Io. Questa sensibilità era il solo fattore attraverso il quale l'Io contribuiva allo sviluppo della malattia, ma niente di più è stato detto in proposito. Il trauma psichico era penetrato nel paziente come un corpo estraneo e provocava - ben protetto nel suo nascondiglio - tutta la varietà della sintomatologia isterica. Questa teoria iniziale si avvicina alla descrizione del processo morboso come un evento in cui una parte della realtà si è introdotta nell'organismo psichico e ha messo da parte per un certo periodo la personalità normale. Partendo da questa interpretazione delle osservazioni cliniche, non era necessario prendere in considerazione la struttura dell'Io. (b) Quella parte della realtà che rimane isolata nel paziente acquista la sua funzione privilegiata dalla mancanza di abreazione affettiva, che sarebbe stata necessaria per assimilarla. Due gruppi di fattori erano ritenuti responsabili della mancanza di abreazione. Innanzitutto, il paziente non abreagiva o perché la natura del trauma non lo consentiva, o perché il paziente stesso non voleva tener conto del trauma, cioè non voleva abreagire. Il secondo gruppo di fattori riguardava lo stato dell'Io nel momento in cui si era verificato il trauma. L'Io era paralizzato da un affetto eccessivamente forte o da uno stato ipnoide e quindi non era in grado di fornire la quantità di lavoro che sarebbe stata necessaria per neutralizzare l'effetto velenoso della realtà, se ci possiamo permettere questo tipo di espressione [Nota 7: Si ha l'impressione che queste teorie iniziali potrebbero aver subito l'influenza dei concetti contemporanei della medicina interna sull'origine dei disturbi infettivi]. Tutte queste spiegazioni avevano un punto in comune: esse non prendevano in considerazione l'influenza dell'Io sul processo morboso; l'Io non vuole o non può funzionare e quindi si crea un'area in cui l'Io estraneo mette le radici e prospera [Nota 8: In verità, uno degli autori deve aver visto al di là di queste concezioni perché a un certo punto egli parla di "una individualità isterica"].Questa mancata considerazione dell'Io si evidenzia anche nella terapia, che si basava su una paralisi dell'Io spinta al massimo, indotta dall'ipnosi. In questa sede non ci preoccupiamo di indagare fino a che punto queste concezioni riflettevano correttamente la realtà clinica, ma ci interessa soltanto notare che nell'isteria era apparentemente possibile studiare il processo morboso indipendentemente dal resto della personalità. Fu quindi elaborata una tecnica che permetteva la concentrazione sulla parte clinicamente più evidente del processo morboso, riuscendo a eliminarla, almeno temporaneamente [Nota 9: Vedi A. Freud (1936)]. Una delle ultime affermazioni di Freud può ora essere messa inconnessione genetica con le prime teorie. In Analisi terminabile e interminabile (1937) Freud riferisce che si può pervenire con relativa facilità alla completa guarigione dei pazienti la cui patologia è provocata principalmente da traumi. In questi pazienti, nonostante la loro sintomatologia, l'Io non è stato alterato in modo rilevante. In considerazione di questa affermazione, si può trarre la seguente conclusione: la tecnica del modello di base, senza correzioni, può essere applicata a quei pazienti la cui sintomatologia nevrotica si manifesta in un lo il cui grado di alterazione non è degno di nota. In altre parole, se ha mantenuto la sua integrità, l'Io sfrutterà al massimo il sostegno che riceve dall'analista sotto forma di interpretazione. L'unico problema tecnico in tali casi è di trovare quell'interpretazione che darà all'Io il massimo sostegno nelle rispettive fasi del trattamento [Nota 10: Svilupperò ulteriormente questo tema m connessione con il concetto di Freud del fittizio Io normale- Non si discuterà qui la questione se tale tecnica, basata principalmente sulle interpretazioni porti all'intellettualizzazione e alla mancanza di partecipazione emotiva da parte del paziente. I lavori di Freud sulla metapsicologia e sulla tecnica della psicoanalisi respingono questo argomento. Vedi anche la critica incisiva fatta da Alexander (1925) al libro di Ferenczi & Rank (1923)]. Per il tipo di fobia presentato all'inizio, questo schema deve essere leggermente modificato. Nonostante la massima assistenza attraverso le interpretazioni, l'Io non può riprendersi dal danno causato dal passato. Ed è questo un fatto che non ci stupisce troppo. Rimane un enigma il motivo per cui un essere umano dovrebbe rifiutarsi di sfruttare al massimo l'insight che gli viene trasmesso. Bisogna ricordare che questo insight comprende non solo la storia della sua malattia ma an che tutte quelle resistenze che si manifestano durante questa fase del trattamento e che ostacolano la sua guarigione. Ciononostante, anche se il massimo insight non è seguito dalla guarigione, il processo di guarigione può avere inizio dopo che il paziente è stato costretto a esporsi proprio a quel pericolo di cui ha tanta paura. Il paziente si comporta come qualcuno che ha a portata di mano tutte le ricchezze del mondo ma rifiuta di prenderle e deve essere costretto a farlo con la minaccia. Naturalmente, noi conosciamo alcune delle ragioni che rendono necessario in tali casi deviare dalla tecnica del modello e chiedere al paziente di esporsi alla situazione temuta. La prospettiva dell'angoscia è un tale deterrente che non può essere superato a meno che il paziente non venga minacciato con un dolore ancora più grande, come quello di perdere un oggetto amato. Ma questo non spiega perché un tale lo possa rinunciare a una resistenza e rivolgersi al materiale patogeno rimosso solo quando viene nuovamente esposto al dolore di un'angoscia temuta. Si deve concludere che quest'Io aveva perso la capacità di adattamento in misura maggiore rispetto all'Io del paziente isterico. L'organizzazione dell'Io nella fobia deve essere notevolmente diversa da quella dell'isteria. A questo punto, è opportuno ricordare che la situazione suddetta non si riscontra in tutti i pazienti affetti da fobie. Alcuni di loro guariscono senza che la guarigione sia loro imposta. Quindi si potrebbe dire che non è tanto la particolare combinazione di sintomi e difese -- cioè la struttura del sintomo - che ha bisogno della tecnica specifica, ma piuttosto l'organizzazione dell'Io in cui quel particolare sintomo è inserito. Dobbiamo anche ricordare che lo schema della tecnica del modello di base non sempre è sufficiente nel trattamento delle isterie; talvolta diventa necessaria una tecnica che somiglia a quella utilizzata per le fobie. A un paziente isterico che consulta costantemente l'internista per il trattamento dei sintomi di conversione, o utilizza mezzi di terapia fisica, si dovrà dire che deve o astenersi da tali fughe oppure decidere di interrompere la psicoanalisi. In questi casi dobbiamo presumere che l'Io sia stato alterato in misura maggiore di quanto non ci si potesse aspettare in base alla descrizione classica della dinamica dell'isteria. D'altra parte, come Freud (1909) ha dimostrato nel caso clinico dell'Uomo dei topi, è possibile avere una nevrosi ossessivo-coatta che regredirà con la semplice applicazione della tecnica del modello di base, e un confronto del caso dell'Uomo dei topi con quello dell'Uomo dei lupi mostrerà che sintomi abbastanza simili possono essere combinati con due organizzazioni dell'Io completamente diverse, una lievemente e l'altra fortemente alterata. Può essere utile dimostrare come un simile meccanismo o sintomo possa contare poco o molto a seconda dell'organizzazione complessiva dell'Io in cui si manifesta. Nel suo saggio su Leonardo da Vinci (1910a), Freud esaminò le circostanze che possono aver causato la relativa mancanza di produttività artistica che diventò sempre più evidente nella vita di Leonardo. La scienza e la ricerca scientifica guadagnarono infatti gradualmente terreno rispetto alle sue realizzazioni artistiche. Freud riteneva che l'esitazione di Leonardo fosse dovuta a una mancata capacità di isolare il lavoro artistico estrapolandolo da un contesto più ampio. La mancata capacità di Leonardo di isolare era in correlazione con un ardente desiderio di esprimere tutto delle associazioni legate all'intento artistico. In contrasto con questo esempio di mancata capacità di isolare, voglio citare un brano di una lettera del 21 novembre 1782 che Goethe scrisse a un amico in un momento in cui era oberato di lavoro amministrativo come consigliere privato alla corte di Weimar: "Io ho completamente separato (esteriormente, naturalmente) la mia vita politica e sociale da quella morale e poetica e in questo modo mi sento nelle migliori condizioni. [ ]. Io lascio separati il consigliere privato e l'altro me stesso senza il quale il consigliere privato può esistere benissimo. Solo nei miei progetti, finalità e sforzi più intimi rimango misteriosamente leale verso me stesso e quindi lego di nuovo insieme la mia vita sociale, politica, morale e poetica in un nodo nascosto" (Goethe J.W., Das Tagebuch Sopienausgabe, Vol. 5/2, p. 345). Qui l'isolamento - un isolamento abbastanza ampio quantitativamente, che attraversa tutta l'esistenza di Goethe - funziona come un vero e proprio meccanismo di salvataggio. Non posso entrare nei particolari di questo periodo della vita di Goethe: basti dire che si trattò di un periodo estremamente critico e che senza alcune circostanze molto felici egli avrebbe potuto soffrire danni tali da mettere in pericolo il suo futuro di artista. L'isolamento fu uno dei meccanismi che gli consentirono di superare questo periodo nel modo più vantaggioso. Voglio sottolineare che l'isolamento di cui qui parla Goethe è pericoloso, lo si può riscontrare nei casi in cui si è affetti da gravi psicopatologie; ciononostante, il meccanismo che Goethe descrive non può essere classificato clinicamente come elemento di una malattia, Fortunatamente Goethe fece un'altra osservazione che ci chiarisce la ragione per cui l'isolamento non lo portò alla psicopatologia: egli ha citato la sua lealtà verso se stesso e il nodo nascosto attraverso il quale le attività isolate erano di nuovo legate in una unità, vale a dire che il forte isolamento era controbilanciato da una capacità di sintesi insolitamente potente, Questo nodo misterioso di cui parla Goethe è in realtà l'argomento della mia esposizione. Il mio terzo esempio riguarda una paziente la cui intera organizzazione della personalità era intrecciata con gli effetti dell'isolamento, il meccanismo che dominava la sua vita. Per lei il tempo era separato in momenti isolati e i ricordi della sua infanzia erano evocati come sprazzi sconnessi di un passato dell'Io estraneo. Analogamente, le sue varie attività contemporanee erano isolate una dall'altra. e probabilmente anche lo spazio corporeo era disgregato in unità spaziali sconnesse, come si evinceva dalla sua difficoltà a distinguere la destra dalla sinistra. E tempo e lo spazio erano diventati un aggregato. L'isolamento aveva raggiunto il massimo effetto. Come si può facilmente prevedere, su un terreno così fertile si deve manifestare una psicopatologia molto grave. Cosa abbastanza interessante, la paziente non aveva la sensazione di soffrire in relazione a questa parte della sua psicopatologia. Questi tre esempi clinici ci mostrano tre effetti totalmente diversi del meccanismo dell'isolamento [Nota 11: Naturalmente, una tale varietà di effetti potrebbe essere illustrata per qualsiasi meccanismo di difesa, non è valida solo per l'isolamento]: il primo, una carenza nella capacità di isolamento che porta a una carenza nella creatività artistica; il secondo, uno sviluppo che mantiene la continuità di molteplici funzioni; il terzo, un'eccessiva crescita che decompone l'Io in innumerevoli frammenti. Considerata la relativa indipendenza della struttura e del meccanismo dell'Io, si può trarre la seguente conclusione: il comportamento defilo nella situazione della tecnica del modello di base è specifico. E questo è il punto cruciale che consente di determinare se l'Io ha subito o meno un'alterazione. I sintomi o le deviazioni del comportamento non rivelano necessariamente la vera struttura dell'organizzazione dell'Io. Questo fatto si è particolarmente imposto alla mia attenzione durante l'analisi di una paziente che aveva trascorso un anno e mezzo in volontaria clausura. Questa paziente, che a volte era stata ritenuta schizofrenica a causa della straordinaria varietà di modelli di comportamento stravaganti, ottenne un sorprendente miglioramento con una tecnica che, con rare eccezioni, seguiva le regole dell'analisi classica. Con mia grande sorpresa, le numerose caratteristiche stravaganti comparvero per effetto di una tecnica puramente interpretativa e dal labirinto dei sintomi venne fuori un Io relativamente non danneggiato, fortemente interessato e attaccato al mondo. La regola che i sintomi possono essere correlati soltanto vagamente con l'organizzazione dell'Io è valida anche per l'Io che sembra privo di sintomi. Una volta ho avuto l'opportunità di analizzare una persona che nelle due sedute iniziali diede l'impressione di essere relativamente priva di sintomi e di essere bene adattata, cosa che sembrava confermare la sua affermazione di volere il trattamento soltanto per motivi professionali. Dopo diversi mesi il trattamento fu sospeso su richiesta del paziente. La mia impressione fu che il paziente non fosse analizzabile. Il suo acting out, giustificato con il pretesto di doversi adattare alle esigenze della realtà, i meccanismi saldamente radicati che compensavano l'eccessivo timore di castrazione e le sue relazioni oggettuali inconsistenti, non diverse da quelle spesso riscontrate negli schizofrenici, mi fecero decidere per un certo periodo che non avrei mai più cercato di analizzare una persona "normale". Il problema che merita la massima attenzione riguarda il concetto di "alterazione" dell'Io [Nota 12: Hartmann suggerisce in una comunicazione personale l'espressione "deformazione dell'Io" invece di "alterazione dell'Io". Quest'ultima espressione segue la traduzione di Joan Riviere di Analisi terminabile e interminabile di Freud]. Innanzitutto questo concetto deve essere differenziato da quello di "cambiamento" dell'Io. L'Io, come tutte le parti della personalità, cambia continuamente. Esso si arricchisce attraverso nuove percezioni e attraverso l'acquisizione di nuove conoscenze e la formazione di nuovi ricordi; tramite l'azione dei meccanismi di difesa, esso cerca di scartare parte di queste nuove acquisizioni Le costellazioni della realtà in continuo cambiamento e l'incessante ritmo dei processi biologici gli fanno affrontare un'infinita variazione di compiti. E corretto dire che, mentre due sezioni trasversali dell'Io non sono mai identiche, l'Io è però sempre lo stesso. Questa proprietà è comune alla maggior parte degli organismi, che possono mantenere la loro identità e costanza attraverso i cambiamenti che si verificano continuamente e rapidamente. Tutti questi cambiamenti -- principalmente cambiamenti di contenuto -- non aggiungono nulla alle alterazioni dell'Io. Alcuni di questi cambiamenti, però, possono in determinati quadri di riferimento essere considerati come alterazioni. Ad esempio, nello stato di sonno si verifica una profonda - forse la maggiore possibile - riorganizzazione dell'Io. Se lo stato di sonno è considerato come preparazione per il ritorno a uno stato temporaneamente abbandonato, caratterizzato da una serie di indici costanti, allora esso sarà chiamato cambiamento dell'Io. Se, però, noi esaminiamo i processi di pensiero - che sembrano enormemente alterati durante il sonno rispetto ai processi di pensiero dello stato di veglia - o le leggi del lavoro onirico o gli spostamenti di investimento che si verificano durante il sonno, allora l'Io addormentato sarà classificato come Io fortemente alterato. Mettendo da parte il problema piuttosto particolare se le fluttuazioni degli stati dell'Io imposte biologicamente debbano essere chiamate cambiamenti o alterazioni, si può dire che un lo, se non è normale, è stato alterato. Ma che cos'è un lo normale? Freud rispose a questa domanda mentre cercava di ideare una scala concettuale che permettesse la classificazione di tutte le possibili alterazioni dell'Io da un punto zero (il fittizio Io normale) a un massimo assoluto (l'Io psicotico). Secondo la definizione di Freud (1937), un lo normale è quello "in grado di garantire una fedeltà incrollabile all'alleanza del lavoro analitico" (p. 522) e, poiché un simile lo è una costruzione teorica, egli l'ha chiamato fittizio lo normale (fiktives Normal-Ich). Secondo la mia valutazione, un simile Io sarebbe quello che reagirebbe adeguatamente alla tecnica del modello di base prima descritta. Sarebbe un lo - e, secondo me, è questo il punto cruciale - non caratterizzato da specifiche difese, atteggiamenti, funzioni o da qualsiasi altra proprietà strutturale, ma caratterizzato esclusivamente da un certo modo di comportarsi nell'insieme della situazione di trattamento analitico [Nota 13: Questa definizione presuppone condizioni ottimali sia per quanto riguarda il modo in cui l'analista conduce il trattamento sia per quanto riguarda le condizioni esterne in cui il trattamento ha luogo]. Secondo la definizione di Freud, il fittizio Io normale è un Io che collabora incondizionatamente alla terapia psicoanalitica. Esso si arrende, per così dire, alla voce della ragione e risolutamente sfrutta al massimo l'aiuto offertogli durante il trattamento. Questa descrizione del fittizio lo normale (benché non lo si incontri mai nella realtà clinica) introduce un nuovo concetto nella psicoanalisi. L'intera complicata questione del comportamento normale viene quindi estrapolata dai contesti in cui è stata finora dibattuta. Non si tratta più di vedere se una persona si è adattata o meno alla realtà, se ha integrato o meno i sistemi dei valori correnti, se ha raggiunto o meno il dominio sui suoi bisogni biologici. L'intero problema della sintomatologia è nato spazzato via in un colpo solo, e tutte le definizioni statiche correnti della normalità sono state sostituite da una nuova definizione dinamica. La separazione fatta da Freud dei concetti di "normalità" e "salute" e la loro ridefinizione hanno costituito dei grandi passi avanti e dovrebbero facilitare la comunicazione. Qui Freud ha gettato le basi di una metapsicologia della tecnica psicoanalitica in termini strutturali [Nota 14: Per un'analisi del concetto di salute mentale dal punto di vista della Psicologia dell'Io, vedi Hartmann (1939)]. Quindi un Io normale è un Io che, nonostante i sintomi, reagisce alla terapia giusta con la scomparsa dei sintomi stessi. Questo concetto implica che anche l'Io normale può ammalarsi. L'Io del bambino, a causa della sua debolezza, non può contribuire a costruire le difese e nella maggior parte dei casi non può evitare la formazione dei sintomi. In realtà, la definizione di Freud implica che determinate circostanze la nevrosi è un fenomeno "normale". Una volta piantato il seme del disturbo psicopatologico nella personalità del bambino, l'Io adulto successivo non ha altra scelta, sotto certe pressioni, che ripiegare sul processo di adattamento precedente (Hartmann, 1939). La scoperta che, in alcuni dei suoi aspetti più importanti, anche l'Io è inconscio, aumenta la plausibilità di questa descrizione. Però, un Io che sia stato costretto a ripiegare su soluzioni inadeguate può aver mantenuto la sua normalità se è ancora dotato della capacità di trarre profitto da un aiuto appropriato. Se si parte dal presupposto che il trattamento psicoanalitico sia la terapia psicologica più esauriente perché il suo obiettivo è quello di dare all'Io tutte le conoscenze e tutto il sostegno necessario per riacquistare la piena capacità, allora la psicoanalisi diventa la sola procedura attraverso la quale si può valutare la "normalità". In termini più generali, il concetto del fittizio Io normale presuppone che si sia sviluppata una nevrosi infantile a causa dell'incapacità infantile dell'Io di padroneggiare i compiti impostigli dalla realtà esterna e interna. Tuttavia, nonostante queste soluzioni nevrotiche che sono state imposte all'Io del bambino, lo sviluppo e la maturazione dell'organizzazione dell'Io non sono stati essenzialmente ritardati o danneggiati. A causa dell'eredità dell'infanzia, l'Io adulto non ha acquisito la sua piena libertà, ma quando si trova in una situazione in cui può ricevere l'assistenza necessaria, lotta contro questa eredità, e le potenzialità dell'Io, che non sono state danneggiate dai traumi passati, raggiungono la piena realizzazione: in altre parole, una delle caratteristiche significative dell'Io essenzialmente non danneggiato dai traumi, o da fattori costituzionali o da fissazioni arcaiche della libido, è la sua capacità di reagire alle comunicazioni razionali verbali che non contengono altro che interpretazioni [Nota 15: Vedi A. Freud (1945) per una brillante applicazione clinica di questo problema teorico]. Penso che questa concezione dell'Io normale sia sostanzialmente conforme a un profondo pensiero espresso da Goethe (probabilmente in collegamento con un'esperienza di impotenza): "Soltanto quando è malato il sano viene messo alla prova" (Die Krankheit erts bewähret den Gesunden). La malattia diventa quindi l'inevitabile accidente della vita, è cioè una manifestazione della vita stessa, e l'esclusivo quadro di riferimento della salute è la reazione dell'Io alla malattia. All'altra estremità della scala si trova l'Io dello psicotico con il quale è impossibile l'alleanza analitica (Freud, 1937). Non c'è quasi niente da dire circa questa estremità della scala, a parte un'osservazione storica: quando Freud cominciava a delineare la massima alterazione dell'Io, aveva forse in mente la confusione allucinatoria acuta da lui così spesso utilizzata come prototipo della psicosi [Nota 16: Vedi Freud (1894) e anche Freud (1923), dove egli chiama "amenza di Meynert" la confusione allucinatoría acuta, la fonna di psicosi più estrema e impressionante]. In realtà, durante la fase acuta di una psicosi, la psicoanalisi nella sua forma consueta non è di nessuna utilità terapeutica. In questo stadio l'Io è almeno temporaneamente "alterato" in modo tale da rendere impossibile l'intervento psicoanalitico diretto [Nota 17: Questa osservazione non impedisce comunque l'uso di misure psicoterapeutiche di tipo diverso]. Nel caso di confusione allucinatoria acuta, l'Io ottiene tutte le soddisfazioni di desiderio da se stesso anche nello stato di veglia. La tensione viene eliminata dalla allucinazione della gratificazione istintuale. L'Io falsifica la realtà secondo i propri desideri e quindi può fare a meno della realtà. L'analista ha perso ogni possibilità di approccio perché l'Io è diventato inaccessibile, impegnato esclusivamente nel suo asservimento all'Es. Poiché l'Io normale è fittizio, è evidente che nella realtà chnica elementi dell'altro estremo sono sempre fortemente interconnessi [Nota 18: Penso che le varietà cliniche dell'alterazione dell'Io non possono dissolversi completamente in combinazioni varie di questi due estremi ma richiedono una terza componente, il cui estremo è il criminale: l'analista non può stabilire con esso nessun tipo di alleanza per la quale sia idealmente adatto il fittizio Io normale]. Come disse Freud, "Ogni persona normale è appunto solo mediamente normale, il suo Io si avvicina a quello dello psicotico per un tratto o per l'altro, in proporzione maggiore o minore, e la misura della lontananza da uno e della vicinanza all'altro degli estremi della sede sarà assunta provvisoriamente a criterio di ciò che abbiamo così approssimativamente definito 'alterazione dell'Io'" (Freud 1937, p. 518). Questo modo di vedere la normalità sommariamente abbozzato da Freud sembra coincidere eccezionalmente bene con le opinioni avanzate dai moderni biologi e fisiologi. Nel descrivere la varietà di significati che ha il concetto di normalità in biologia, Ivy (1944) cita il punto di vista statistico non arbitrario, che sostiene "che non esiste una netta distinzione fra 'normale' e 'anormale' per un gruppo o addirittura un individuo. [ ] Riconosce che esistono gradi diversi di normalità e anormalità. [ ] Consente una diagnosi assoluta di anormalità soltanto quando si verifica la morte" (Ivy, 1944). Freud stabili una successione dalla psicosi allucinatoria acuta al fittizio Io normale e quindi fissò, a un'estremità della scala, un punto di "diagnosi assoluta di anormalità" da cui vari gradi di normalità e anormalità portano a un fittizio Io normale, all'altra estremità. Nel tentativo di chiarire i significati che il concetto di normalità dovrebbe avere in fisiologia, Ivy fa un'importante osservazione circa i processi fisiologici della malattia. I processi difensivi, egli dice, come la febbre o la leucocitosi, sono normali anche se i loro effetti possono essere anormali. I processi difensivi "sono le normali risposte fisiologiche a un insulto. Il processo in questione è una risposta statisticamente e fisiologicamente normale. La risposta, però, può in alcuni casi produrre effetti anormali e quindi è fisiologicamente anormale" (Ivy, 1944). In questo caso. il problema della "malattia normale" è risolto differenziando il processo dalla risposta, la quale porta talvolta a effetti anormali. Ad esempio, l'effetto anormale di un aumento della temperatura corporea viene visto nell'eventuale disturbo di "altre funzioni e margini di sicurezza", quando la febbre raggiunge un certo grado. Allo stesso modo, secondo il quadro concettuale di riferimento di Freud, i sintomi psicogeni devono essere visti come conseguenze logiche e inevitabili dell'impatto della realtà esterna e interna sull'Io del bambino, ancora debole perché ancora immaturo: i sintomi possono perciò essere i segni di un Io fondamentalmente sano. La "risposta fisiologicamente normale" diventerebbe quindi anonnale se portasse a un'alterazione dell'Io. I concetti di Freud - (1) il fittizio Io normale, definito dalla risposta nella situazione della tecnica del modello di base; (2) la scala che porta per gradi a uno stato di assoluta incapacità di rispondere all'alleanza analitica; (3) la possibile molteplicità di alterazioni dell'Io a cui deve corrispondere una molteplicità di tecniche - offrono, secondo il mio punto di vista, un sistema che è idealmente flessibile e magnificamente adattabile all'attività clinica effettiva. Questi concetti, il cui valore euristico è enorme, dovrebbero portare a una qualche razionalizzazione nelle discussioni psicoanalitiche sulla tecnica e quindi pene fine alle argomentazioni contemporanee, la maggior parte delle quali si basano esclusivamente su punti di vista utilitaristici. Gli elementi pratici dell'opportunità porteranno sempre a deviare il rigido corso che la pratica dovrebbe seguire in base alla teoria, tuttavia la psicoanalisi perderà la sua credibilità come scienza se i problemi della tecnica saranno trattati esclusivamente dal punto di vista dell'opportunità. Mi rendo conto che forse seguo troppo rigorosamente un pensiero di Freud, insistendo sul fatto che la linea di base della tecnica psicoanalitica è quella che usa un solo strumento tecnico, cioè l'interpretazione. A sostegno della mia tesi, ripetute, esperienze cliniche mostrano che vi è un gruppo di pazienti per il cui trattamento non è necessario quasi niente in più dell'interpretazione per indurre il processo di guarigione e portare l'Io all'obiettivo terapeutico. L'esperienza clinica mostra anche che questo gruppo ha in comune un fattore strutturale importante: un lo relativamente intatto. Inoltre, si può dimostrare che l'introduzione di un ulteriore strumento, uno strumento che avrà un ruolo preminente nella tecnica analitica, è resa necessaria da un difetto strutturale dell'Io. Siamo quindi autorizzati a classificare le strutture della personalità secondo le tecniche richieste per trattare adeguatamente le loro carenze. Questo aspetto giustifica a fatto di assegnare un posto speciale a una tecnica puramente interpretativa [Nota 19: Non è questa la sede per discutere l'epistemologia dell'interpretazione. Per una trattazione completa dell'interpretazione, vedi il lavoro di Bernfeld (1932), e anche quello di Waelder (1939)]. E' noto che l'uso appropriato dell'interpretazione è difficile e complicato. Ma questo strumento è così importante che qualsiasi proposta di variazione o integrazione dovrebbe essere esaminata con la massima cura. L'introduzione di parametri, anche così semplici come quelli necessari in alcuni casi di fobia, comporta pericoli che non devono essere sottovalutati. Ogni parametro aumenta la possibilità che il processo terapeutico ne risulti falsato, in quanto esso può offrire all'Io del paziente la possibilità di sostituire un cambiamento strutturale con l'obbedienza. Il termine "obbedienza", non del tutto preciso, viene usato qui per indicare tutti quei miglioramenti che un paziente può presentare sotto la pressione della terapia ma che non si basano su una eliminazione dei conflitti corrispondenti. Spesso un paziente preferisce manifestare un comportamento di adattamento invece di un cambiamento strutturale [Nota 20: Questa è una delle tante ragioni per cui m psicoterapia. si ha così frequentemente l'opportunità di avere strabilianti successi clinici e per cui una tecnica psicoanalitica appropriata deve sempre affrontare una resistenza di gran lunga superiore a quella che devono affrontare le altre tecniche]. Ogni introduzione di parametro comporta il rischio che venga temporaneamente eliminata una resistenza senza che sia stata adeguatamente analizzata. Quindi dopo aver rimosso un ostacolo attraverso un parametro, il significato che questo parametro ha avuto per il paziente e le ragioni per cui è stata necessaria la sua scelta, devono essere esaminati in modo retrospettivo, vale a dire che l'interpretazione deve diventare di nuovo lo strumento esclusivo per correggere il turbamento che è stato provocato dall'uso del parametro. A questo punto devo sottolineare energicamente che nell'usare il termine "interpretazione" io presuppongo sempre l'uso appropriato di questa tecnica. Naturalmente sarebbe assurdo ritenere che qualsiasi tipo di interpretazione o il semplice atto di interpretare siano sufficienti. Ancora una volta, non è questa la sede per analizzare quale possa essere una tecnica interpretativa appropriata; è però necessario mettere M guardia contro la rapida introduzione di parametri col pretesto che le interpretazioni non sono state di nessuna utilità. Grande è la tentazione di coprire, con l'introduzione di un parametro, la propria incapacità di usare in maniera appropriata la tecnica interpretativa. Data la massima importanza che si deve attribuire all'alterazione dell'Io come ostacolo alla terapia psicoanalitica e quindi alla guarigione bisogna sollevare il problema della causa dell'alterazione dell'Io. E' di nuovo Freud che ci dà la risposta delineando il duplice effetto - protezione oppure distruzione - che i meccanismi di difesa possono avere sull'Io: "I meccanismi di difesa servono allo scopo di tenere lontani i pericoli. t incontestabile che, raggiungono questo risultato e c'è da dubitare che l'Io possa, nel corso dello sviluppo, rinunciare completamente a essi; ma è altresì certo che questi stessi meccanismi possono trasformarsi in pericoli. Talora risulta che l'Io ha pagato un prezzo troppo elevato per i servizi che questi gli hanno reso" (Freud, 1937, p. 520; vedi anche A. Freud, 1936). E Freud suggerisce di considerare l'effetto deleterio delle difese sull'Io come alterazioni dell'Io. Voglio illustrare brevemente quest'effetto con un esempio clinico. Una bambina di tre anni fu svegliata una mattina dalla mamma, la quale, con in braccio la sorellina appena nata, le disse: "Guarda, Mary, questa è Marguerit. Non è graziosa?". Mostrando tutti i segni della gioia, la bambina riconobbe che Marguerit era davvero graziosa. Ventotto anni dopo, durante la sua analisi, Mary descrisse l'episodio commentando che la madre le era piombata addosso con incredibile rapidità, e lamentandosi poi del fatto che la madre non aveva nessun motivo di presumere che lei sapesse che Marguerit fosse il nome di una bimba. Quindi disse che non aveva potuto fare altro che mostrare la stessa emozione di sua madre e che per far fronte alla situazione "richiesta" da lei aveva dovuto raccogliere un'incredibile quantità di energia. Al momento dell'analisi la paziente riferì che di solito dopo un giorno di lavoro di responsabilità, svolto con soddisfazione dei suoi superiori, ritornava a casa in uno stato di completa spossatezza. Però non era sfinita a causa del suo lavoro, bens' perché doveva raccogliere un'incredibile quantità di energia per mostrare l'emozione richiesta dal suo ambiente. Dire buongiorno ai colleghi, "tenere testa al ragazzo dell'ascensore" quando faceva qualche banale osservazione sul tempo, assorbiva la sua energia. Era necessario per lei raccogliere costantemente le proprie forze quando si trovava in compagnia di altri per poter far fronte in modo appropriato alle rispettive realtà sociali. Mary avrebbe senz'altro preferito sedersi su una sedia a dondolo, nella sua stanza, e tenersi la testa fra le braccia. Qui vediamo che la difesa realizzava il suo obiettivo in modo ideale nella bimba facilitandone il comportamento sociale. Ma la storia di questa paziente può servire come esempio del fatto che il bambino relativamente privo di sintomi è spesso il più danneggiato. Tutta la gelosia, la rabbia terribile per la slealtà e il rifiuto della madre venivano esclusi dalla coscienza e sostituiti dall'ammirazione e dall'affetto, per la neonata, socialmente accettabili [Nota 21: Tralascio in questa descrizione la grave angoscia che la paziente soffrì da piccola e descrivo soltanto l'effetto che la difesa ebbe sul suo comportamento esteriore di bambina]. La sorellina diventò subito la preferita della paziente; che trascorreva allegramente tutto il suo tempo libero con la nuova compagna, sviluppando con sorprendente rapidità spiccati atteggiamenti materni. Nessuno dei suoi ricordi indicava un disturbo del comportamento o segni esteriori di ambivalenza nei confronti della bimba. Il risultato ideale della difesa deve essere però esaminato in concomitanza con l'effetto catastrofico che ha avuto sull'organizzazione dell'Io. Sembra che la difesa abbia divorato l'Io come la crescita di un cancro divora gli organismi che lo ospitano. Nell'Io schizofrenico si è verificato un elevato grado di alterazione. Il singolo meccanismo di difesa e i modelli individuali dei meccanismi di difesa non aiutano l'Io ma sono distruttivi; essi opprimono l'Io in misura tale da portarlo costantemente sul punto di rompere le relazioni con la realtà. Ciò appare in assoluta contraddizione con quello che viene di solito descritto come il processo fondamentale della schizofrenia, cioè la sottomissione dell'Io all'Es. Indubbiamente, nella maggior parte delle fasi della psicosi schizofrenica, l'appagamento dei desideri dell'Es ha un ruolo importante, ma la funzione di difesa non era cancellata nel diagramma metapsicologico della psicosi tracciato da Freud: "Che le paramnesie, le formazioni deliranti e le allucinazioni in moltissime forme e casi di psicosi presentino un carattere particolarmente penoso e vadano congiunte alla produzione di angoscia, è un indice del fatto che l'intero processo di trasformazione si svolge lottando contro forze che gli si oppongono strenuamente. Possiamo costruirci il processo in base al modello a noi meglio noto della nevrosi, nella quale constatiamo come si produca la reazione angosciosa ogniqualvolta la pulsione rimossa ha un soprassalto, e come l'esito del conflitto sia costituito comunque solo da un compromesso che non dà luogo a un soddisfacimento completo. Presumibilmente nella psicosi la parte della realtà che è stata rigettata torna continuamente a imporsi alla vita psichica, così come fa nella nevrosi la pulsione rimossa, ed è per questo che i risultati sono gli stessi in entrambi i casi" (Freud, 1924, p. 42). Qui uno degli scopi difensivi è chiaramente descritto. L'Io dello psicotico deve difendersi costantemente contro la percezione, il riconoscimento e l'ammissione della realtà oggettiva. Come l'Io può rinviare il risveglio reagendo allo stimolo di risveglio con un sogno di risveglio, così lo psicotico può prevenire l'intrusione della realtà oggettiva attraverso il mantenimento della realtà che egli stesso ha creato. la sogno di risveglio richiede un minimo di investimento e l'Io non alterato soffre il dolore di aver respinto la realtà quando, risvegliandosi, paga il prezzo per essersi eccessivamente abbandonato al desiderio di dormire. L'Io psicotico deve raccogliere un'enorme quantità di energia per poter alimentare costantemente la propria realtà, e l'incessante lotta contro il dolore che sarebbe riattivato dalla percezione della realtà oggettiva si traduce a sua volta in dolore. In uno studio approfondito Katan (1950) descrive chiaramente la funzione difensiva di una delle allucinazioni di Schreber, durante la quale egli vedeva piccoli uomini scendere sulla sua testa e poi perire dopo un breve periodo di esistenza [vedi Freud, 1910c]. Schreber raggiungeva, nella sua psicosi, uno stadio in cui poteva masturbarsi senza erezione ed emissione. "L'allucinazione si verifica al posto dell'eccitazione. [...] Nell'allucinazione, l'eccitazione sessuale non si verifica affatto e invece dell'idea di morire di Schreber troviamo l'idea degli altri uomini che perdono le loro vite" (Katan, 1950, p. 34). Attraverso l'allucinazione, l'Io prevedeva il pericolo e lo allontanava. La caratteristica sorprendente, però, è che una fantasia, o un sogno a occhi aperti, o un pensiero fuggevole dello stesso contenuto (anche se di solito meno strano), si può manifestare nel nevrotico allo stesso fine e con lo stesso effetto di risparmiare a se stesso angoscia o eccitazione. In realtà, ci si potrebbe addirittura spingere a dire che un lo relativamente privo di sintomi può mantenere l'organizzazione funzionale con un pensiero fuggevole di questo tipo. Tuttavia, in Schreber, il processo difensivo che portava all'allucinazioine si imponeva sull'Io totale, assorbiva tutte le sue funzioni e prendeva pieno possesso dell'apparato visivo. E' lecito dire che in quel momento l'Io non poteva fare altro che allucinare o, in altre parole, che il processo di difesa si era diffuso a danno del resto dell'Io. Nel caso dell'allucinazione di Schreber, il contenuto contro cui la difesa era diretta (desideri omosessuali passivi) non era diverso da quelli che si riscontrano molto spesso nei nevrotici, se è esatta la ricostruzione di Katan. Talvolta, però, i contenuti che lo schizofrenico cerca di allontanare sono assolutamente sorprendenti. La paziente schizofrenica di cui ho parlato prima mi aveva assicurato per anni che in lei c'era solo odio, che avrebbe voluto vedere uccise le persone con le quali aveva a che fare e che era incapace di sentire qualsiasi interesse o desiderio per gli esseri umani. Quando, però, cominciò a raccontarmi le fantasticherie che riempivano la sua niente durante l'ora che le occorreva per addormentarsi - fino ad allora aveva riferito soprattutto i sentimenti e le fantasie che aveva quando si trovava in compagnia degli altri -, fui stupito di sentirla parlare di una fantasia in cui si occupava di una ragazza che conosceva, paralitica e affetta da disturbi mentali. Con grande abilità e tatto mi fece familiarizzare, attraverso la sua fantasia, con la ragazza e si preoccupò di organizzarle il trattamento e la cura. A parte gli elementi narcisistico-erotici che indubbiamente vi si riscontrano, in quel sogno a occhi aperti si esprimevano un vero calore umano e un reale affetto. Indubbiamente, la paziente aveva tenuto rimosse le proprie inclinazioni sociali e le sue elaborate fantasie di uccidere servivano anche a negare la sua socievolezza [Nota 22: Non so se sia corretta la mia descrizione della rimozione delle tendenze sociali da parte della paziente. Uno dei suoi problemi era di voler essere diversa da sua madre. Poiché la madre era socievole, la paziente doveva aggiungere a ogni manifestazione di amicizia la sensazione che si trattasse soltanto di finzione. Il sentimento di odio rappresentava per lei l'ultima ancora di salvezza per sentirsi sicura di non essere identica alla madre]. Questa costellazione paradossale non è essenzialmente diversa da quella descritta da Freud (1938): "Ho in mente un caso di paranoia cronica, nel quale dopo ogni attacco di gelosia un sogno portava a conoscenza dell'analista la raffigurazione corretta, assolutamente priva di elementi deliranti, della causa immediata del male. Venne in luce in questo modo un'interessante contrapposizione: di solito dai sogni del nevrotico riusciamo a intuire la gelosia che è estranea alla sua vita vigile, in questo caso, invece, trattandosi di uno psicotico, il delirio che dominava la vita diurna fu rettificato attraverso il sogno" (Freud, 1938, pp. 628-629). Si possono citare diversi fattori responsabili del fatto che l'Io diventi vittima del proprio apparato difensivo. Io penso che tutti i meccanismi di difesa siano inizialmente alimentari dall'energia che non è stata neutralizzata, proprio come i primi processi di pensiero del bambino sono più vicini al processo primario che a quello secondario. Nel corso dello sviluppo, i meccanismi di difesa sono soggetti a un processo che è paragonabile al passaggio dai processi di pensiero primari a quelli secondari L'energia che essi consumano è delibidizzata e privata dell'aggressività primaria. L'Io schizofrenico non raggiunge questo risultato [Nota 23: Seguo qui i punti di vista di Hartmann (1950) circa l'efficaca dei meccanismi di difesa]. Le sue difese sono guidate dalla passione e dalla distruzione. L'uso dell'energia distruttiva sembra spiegare perché l'Io schizofrenico è originariamente un Io masochistico o autodistruttivo; l'uso delle energie libidiche inoltre spiegherebbe perché alcuni schizofrenici, in certe fasi del loro disturbo, possono sostituire tutta la gratificazione sessuale con i processi difensivi [Nota 24: Vedi Katan (1950)]. Nell'Io integro l'intero apparato dei meccanismi di difesa opera nel confronti della stimolazione interna allo stesso modo in cui la barriera allo stimolo opera per prevenire l'eccessiva stimolazione da parte degli stimoli esterni. Nello schizofrenico l'apparato di difesa non possiede la fermezza necessaria per questa funzione. Quindi l'Io è costretto a reagire nella sua totalità senza essere capace di incanalare adeguatamente le domande interne o esterne che minacciano di sommergere l'intero Io. Il mondo - sia quello esterno che quello interno - piomba sempre con incredibile rapidità sullo schizofrenico. I meccanismi di difesa diventano particolarmente visibili quando scompare la pittoresca sintomatologia schizofrenica acuta ed emerge la sottostante organizzazione dell'Io. Si può allora osservare l'eccessiva pretesa che lo schizofrenico avanza nei confronti della funzione sintetica (Nunberg, 1931). Si può anche vedere la sua incapacità di sostenere l'impatto delle contraddizioni interne e la sua lotta disperata per un lo depurato da sentimenti contraddittori, cioè per un lo piacere depurato, a solo stato dell'Io conosciuto quando eravamo completamente tutt'uno con noi stessi, uno stato accessibile e desiderato dall'adulto principalmente durante il sonno. Il fatto che i meccanismi di difesa dello schizofrenico siano ancora attivati dall'energia istintuale, e la sfruttino, riduce enormemente l'apparente contraddizione, che ho citato all'inizio, fra le due formulazioni metapsicologiche: (1) che nella schizofrenia l'Io perde terreno a vantaggio dell'Es; (2) che l'lo è divorato dalle proprie difese. La grande maggioranza dei pazienti schizofrenici sottoposti a osservazione clinica è in una fase in cui le difese sono ancora operanti, ma indipendentemente da una organizzazione dell'Io comprensiva e globale e senza il suo controllo; tuttavia, poiché questi meccanismi di difesa lavorano in stretta collaborazione con l'Es a causa delle condizioni energetiche, è anche corretto parlare di invadenza dell'Es nei confronti dell'Io. L'ipotesi che nella schizofrenia l'apparato difensivo sia mantenuto in movimento dall'energia che non è stata desessualizzata o neutralizzata non deve essere confusa con un'altra asserzione psicoanalitica, cioè che molti meccanismi di difesa possono portare a gratificazioni istintuali nonostante la loro funzione difensiva. Il grado di gratificazione, naturalmente, varia. Noi siamo abituati a riscontrare questa coincidenza fra gratificazione e difesa nel sintomo nevrotico, ma si verifica la stessa cosa con i meccanismi di difesa [Nota 25: Vedi fra gli altri, Waelder (1936) e Nunberg (1932, p. 94 ed. inglese). La relazione quantitativa fra gratificazione e difesa è torse completamente diversa nel sintomo e nel meccanismo di difesa]. Ciò non vuol dire, però, che un meccanismo di difesa - che, a parte l'effetto come strumento di controllo degli istinti, porta a una parziale scarica dell'energia dell'Es si esso stesso assorbito dall'energia dell'Es. Penso che a questo punto si debba distinguere con particolare precisione fra la realizzazione di un meccanismo di difesa nell'ambito della personalità e l'investimento del meccanismo di difesa di per sé. La proiezione porta sempre al trasferimento di un contenuto dall'interno all'esterno della personalità, ma un confronto fra le proiezioni sporadiche, nevrotiche, in un caso di isteria e le proiezioni stabili, rigide in una psicosi paranoide mostra che i fattori energetici sono completamente diversi. L'ipotesi che tali differenze si basino anche sulla differenza fra le energie usate dai meccanismi, facilita, secondo me, la comprensione dell'alterazione dell'Io che si riscontra nella schizofrenia. In ogni caso, è importante tener presente l'affermazione di Freud secondo cui i meccanismi di difesa rappresentano soltanto una delle difficoltà da superare nell'analisi. Se l'effetto dei meccanismi di difesa si è risolto in una alterazione dell'Io, l'analisi affronterà difficoltà ancora maggiori, per cui si rendono necessarie delle deviazioni dalla tecnica del modello di base. Purtroppo non abbiamo ancora un quadro concettuale di riferimento per descrivere queste alterazioni dell'Io, anche se lottiamo costantemente con esse nella maggior parte dei pazienti che si sottopongono all'analisi Freud paragonò le alterazioni dell'Io a "lussazione o restrizione" [Nota 26: Vedi Freud (1932, p. 321 ed. inglese): le parole in tedesco sono Verrenkung e Einschränkung. Vedi anche A. Freud (1936, p. 184): "La rimozione diventa quindi la base della formazione di compromesso e della nevrosi. Le conseguenze delle altre tecniche difensive non sono meno serie ma, anche quando assumono una forma acuta, si mantengono più entro i confini dei normale. Si manifestano nelle innumerevoli trasformazioni distorsioni e deformazioni dell'Io, che possono in parte accompagnare e in parte sostituire la nevrosi"], ma la loro metapsicologia è stata a stento stabilita [Nota 27: Per un tentativo in questa direzione, vedi A. Freud (1936, pp. 100-113, particolarmente p. 111, ed. inglese)]. Osservando un paziente, noi guardiamo i meccanismi di difesa e la loro interazione. Vediamo le singole funzioni, come giudizio e percezione, e notiamo la loro influenza reciproca. Osserviamo alcuni dei risultati, come l'identificazione e le proiezioni, ma non siamo in grado di percepire l'organizzazione dell'Io che si trova alla loro base, il misterioso "nodo" di cui parla Goethe e che rende l'essere umano qualcosa di più di un aggregato dei suoi meccanismi di difesa e delle sue funzioni. E davvero un supplizio di Tantalo conoscere un problema, osservare la sua manifestazione nella realtà clinica, ma non essere in grado di elaborare il quadro concettuale adeguato che sarebbe necessario per la sua soluzione. Poiché l'alterazione dell'Io si presenta in maniera molto evidente nelle schizofrenie, si è costretti a ritornare a questo gruppo di disturbi per discutere le possibilità e i limiti della psicoanalisi nel cimentarsi con questo settore della psicopatologia [Nota 28: Vedi Freud (1915-17 pp. 357-373, e 1932 pp. 82-112, ed. inglesi) per le osservazioni circa le psicosi in generale e la schizofrenia in particolare come fonti per entrare nega struttura dell'Io]. Nonostante la nostra grande ignoranza, c'è un'affermazione che può essere fatta con certezza. I parametri necessari nella psicoanalisi della schizofrenia saranno molto ampi e numerosi. La differenza più notevole riguarda, naturalmente, la tecnica essenzialmente differente utilizzata per trattare la traslazione [Nota 29: Per un confronto delle tecniche nel trattamento delle nevrosi e delle psicosi, vedi Waelder (1925)]. Nella maggior parte delle nevrosi la traslazione si sviluppa spontaneamente, e il problema tecnico consiste nel convertire la traslazione in un aiuto al processo analitico attraverso l'interpretazione, mentre in alcune fasi del trattamento dello schizofrenico la traslazione deve essere provocata attraverso l'azione, il gesto o le parole, e per lunghi tratti il problema tecnico principale consiste nel manipolare la situazione terapeutica in modo da effettuare, quantitativamente e qualitativamente, la giusta concrezione della traslazione. Nel discutere i parametri imposti dall'alterazione dell'Io prevalente nella schizofrenia, bisogna citare un compito terapeutico che non trova posto, o ne ha soltanto uno subordinato, nel trattamento delle alterazioni dell'Io nevrotico. Lo schizofrenico deve acquisire una capacità (le il nevrotico possiede appieno, a meno che non ne sia stato temporaneamente privato durante un attacco violento di un impulso emozionale acuto. Mi riferisco alla capacità di creare una distanza mentale fra se stesso e i fenomeni della mente, siano essi correlati con la stimolazione esterna o con quella interna. E una prerogativa dell'uomo possedere la capacità, in sé antitetica, di sentirsi tutt'uno con le proprie esperienze e nello stesso tempo elevarsi al di sopra. di esse. Ciò che ora può essere un'esperienza che abbraccia completamente i confini della propria coscienza può diventare in qualsiasi, momento un contenuto di osservazione, giudizio, valutazione. Lo schizofrenico, invece, ha perso questa capacità in relazione ad alcuni contenuti, anche se la funzione di per sé non è distrutta. Almeno a un settore della sua vita egli è così saldamente legato da non essere capace di elevarsi al di sopra della sua sfere Questa carenza è uno dei più importanti indici della profonda alterazione che ha subito l'Io dello schizofrenico [Nota 30: Per una descrizione e analisi di questo problema, vedi i pensieri consequenziali circa una tipologia della psicopatologia come viene presentata da Waelder (1934). Vedi anche Freud (1932, p. 48 ed. inglese) e Sterba (1934)]. Uno schizofrenico ha detto una volta con solennità : "Potrei credere che lei o il mondo intorno a me non esistete piuttosto che ipotizzare che le voci che sento non sono reali". Lo schizofrenico ha perso la capacità di distinguere fra il possibile e il reale in alcuni settori della realtà [Nota 31: Ho preso questa formulazione da Waelder (1934, p. 477 ed. inglese)]. Questa incapacità di sollevarsi al di sopra del contesto dei fenomeni, almeno a un certo punto, richiede che la tecnica di trattamento degli schizofrenici sia essenzialmente diversa da quella dei nevrotici se si estende il trattamento all'alterazione dell'Io. t strano notare che questo problema tecnico, che è il più tipico del trattamento degli schizofrenici, non sia quasi citato nella letteratura contemporanea sulla psicoterapia della schizofrenia [Nota 32: Fromm-Reichmann (1950) sembra affermare che non vi sia essenzialmente differenza fra la tecnica di trattamento degli schizofrenici e quella dei nevrotici: un punto di vista che, a mio avviso, è sostenibile soltanto se il campo dell'azione terapeutica è limitato alle relazioni interpersonali dei paziente senza tener conto dell'alterazione dell'Io]. L'analista affronta in questo caso un compito di dimensioni enormi, che non può essere qui esaminato in maniera approfondita. Si può soltanto dire che talvolta, se si riesce a dimostrare allo schizofrenico che il sintomo è un derivato delle sensazioni corporee, si può raggiungere un punto in cui egli può estendere la propria facoltà di oggettivazione anche a questo settore della sua psicopatologia. Nella descrizione che segue, ho scelto a caso due parametri che hanno abbastanza regolarmente un ruolo nel trattamento degli schizofrenici: l. la costruzione di obiettivi; 2. la riduzione della sintomatologia. 1. L'obiettivo vano cui rende il trattamento analitico è rappresentato implicitamente, anche se vagamente, nella mente del nevrotico. Lo schizofrenico è invece privo di un tale obiettivo integrato ed elaborato, e occorre quindi fornirgli un diagramma dell'Io non alterato. Poiché spesso il paziente non sa come funziona un simile Io, spetta all'analista offrirgli il quadro di riferimento, che il più delle volte può essere completamente nuovo per il paziente [Nota 33: Comunicazione personale di Edith Jacobson]. Qualcuno sosterrà certamente che tali misure non rientrano nell'ambito, della psicoanalisi ma in quello dell'educazione. Tuttavia io mi chi do se questo parametro ci porti necessariamente al di fuori della psicoanalisi. L'educazione è essenzialmente una tecnica che cerca di costringere l'Io ad assimilare l'Io estraneo o, in altre parole, a convertire l'Io estraneo nell'Io sintonico [Nota 34: Mi rendo conto dell'insufficienza di un'affermazione così ampia e vaga, ma per chiarirla sarebbe necessario elencare le sue numerose eccezioni]. Il parametro che ho brevemente delineato riguarda invece la ricostruzione di un Io vitale, un obiettivo a cui un tempo il paziente aveva aspirato, anche se probabilmente non l'aveva mai raggiunto. L'educazione cerca sempre di inculcare dei valori, mentre questo parametro è essenzialmente separato da qualsiasi sistema di valori, anche se, evidentemente, quando non venga usato con criterio, può essere alterato dalla tacita applicazione dei sistemi di valori. L'educazione limita sempre l'Io in qualche modo, nonostante la concrezione di contenuto che essa offre. Questo parametro, invece, non deve mai portare a un processo restrittivo all'interno dell'Io. In altre parole, i processi di ricostruzione avviati con questo parametro devono gettare le basi per l'educazione successiva dell'Io. Quindi sarei portato a dire che questo parametro è essenzialmente estraneo all'educazione. 2. Uno dei compiti più difficili è trovare, e dimostrare al paziente, quale funzione o funzioni dell'Io sono state compromesse e in che modo. Le disfunzioni che si possono vedere clinicamente in superficie non sono, naturalmente, quelle primarie. Un delirio si può verificare a seguito di un danneggiamento di funzioni dell'Io completamente diverse. Per poter annullare l'alterazione dell'Io bisogna includere nel trattamento la funzione specifica che è stata turbata e riportarla all'attenzione del paziente [Nota 35: Vedi anche Waelder (1925)]. Questo parametro coincide parzialmente con quello che si può utilizzare nell'analisi di un nevrotico. Nel nevrotico, però, il parametro non andrà di solito al di là dell'interpretazione, mentre nel trattamento dello schizofrenico riguarda uno strumento che è essenzialmente al di là della portata dell'interpretazione. La funzione compromessa deve essere isolata dall'interazione con le altre, e il paziente deve imparare a studiare il modo in cui quella particolare funzione si modifica sotto l'impatto di condizioni specifiche. Se la funzione compromessa viene trattata mentre è ancora legata alle altre, invece che isolata, l'interpretazione avrà molto meno successo. In un caso clinico, le distorsioni della realtà che apparivano come veri deliri basati sulla proiezione si rivelarono aggiunte e conferme di alcuni deliri che la paziente aveva prodotto su sé stessa. La sintomatologia complicata poté alla fine essere ridotta a una certa sensazione corporea di noia su cui si era basato il delirio. Le distorsioni della realtà erano soltanto una formazione secondaria prodotta dalle esigenze (e dalla paura) della paziente di trovare confermato da prove esterne quello che aveva precedentemente considerato vero in relazione a un processo che apparteneva alla realtà interna. Voglio cercare di delimitare il più possibile il problema che, secondo me, costituisce oggi la questione principale della teoria e della pratica psicoanalitica. Esso ha le radici in una tematica che Freud trattò per la prima volta nel 1920, in Al di là del principio di piacere e che è stata ripresa e approfondita da Alexander (1927), prima di essere trattata (ancora una volta da Freud in Analisi terminabile e interminabile (1937), quando parlò della resistenza contro la scoperta delle resistenze. Queste resistenze secondarie diventano ben visibili nel corso del trattamento psicoanalitico quando l'analista cerca di far focalizzare la coscienza del paziente su quelle resistenze che allontanano gli impulsi dell'Es [Nota 36: Per la stratificazione delle difese, vedi Gero (1951)]. Allora diventa straordinariamente evidente che l'Io alterato è fortemente riluttante non solo a prendere coscienza dei contenuti dell'Es, ma anche a prendere coscienza di alcuni di quei processi e contenuti che si manifestano entro i propri confini [Nota 37: Vedi Freud (1925, pp. 25-27 ed. inglese). Helene Deutsch (1939, p. 11 ed. inglese) descrive la gratificazione narcisistica che alcuni pazienti traggono dalle loro difese. Ciò naturalmente riduce la motivazione a rinunciare a queste difese]. Tuttavia queste resistenze secondarie sono attive anche al di fuori della situazione analitica, proprio come le resistenze primarie (dirette contro l'Es) sono costantemente attive benché diventino evidenti principalmente nella situazione psicoanalitica. Qual è la funzione di queste resistenze secondarie? Mentre le primarie proteggono l'Io contro il dilagare dell'Es, le resistenze secondarie impediscono l'estendersi delle difese primarie [Nota 38: Vedi Rapaport (1951, p. 692 ed. inglese) per l'effetto del ritardo nella formazione della struttura psichica]. Anch'esse vorrebbero impossessarsi del massimo territorio, come vorrebbero fare le pulsioni eternamente insaziabili dell'Es. In condizioni normali - cioè, in un Io integro - esse utilizzano l'energia neutralizzata e sono pienamente occupate dal lavoro contro l'Es. Nell'Io alterato, invece, si rivolgono anche contro l'Io. In casi estremi, le difese secondarie vengono spazzate via, e non vi è nessuna barriera contro la crescita cancerosa di cui ho parlato prima in senso figurato. Un esempio clinico può illustrare in che modo le resistenze secondarie si rendano evidenti nel trattamento. Un paziente di intelligenza superiore, con insolite forti fissazioni pregenitali ma con un'attività psicosessuale genitale ben conservata, riempiva lunghi tratti della sua analisi con lagnanze ripetitive su problemi banali riguardanti sua moglie. Egli non sembrava rendersi conto del fatto ovvio che la discrepanza fra l'intensità delle sue lamentele e la banalità del loro contenuto richiedeva una discussione e una spiegazione. Un giorno riferì, alquanto bruscamente, che gli piaceva che la moglie facesse proprio le cose di cui si era sempre lamentato e che egli sapeva manovrare segretamente le situazioni in modo da far agire sua moglie proprio nella maniera che egli aveva considerato così odiosa e che gli dava l'occasione di essere freddo e scortese con lei. Quando gli fu spiegata la natura sadica, aggressiva di questo impulso, il paziente l'ammise, e addirittura riconobbe che lo sapeva già da diverso tempo, mostrando in effetti una certa conoscenza della strana tecnica sadica con la quale manovrava la moglie spingendola nella situazione di vittima inerme senza darle l'opportunità di difendersi. L'impulso sadico era stato allontanato attraverso il diniego e la trasformazione nell'opposto, poiché il paziente cercava di dimostrare a sé stesso e all'analista che egli non era crudele, ma che meritava compassione a causa dei difetti della moglie. Cercai di dimostrare al paziente che le sue continue lagnanze servivano anche allo scopo di placare i suoi sensi di colpa. Quanto più riusciva a gratificare il proprio sadismo nel modo mascherato, che egli usava in maniera così esperta, tanto più doveva presentarsi il giorno dopo come ferito e trattato ingiustamente dal destino per il fatto di avere sposato una partner che egli giudicava insoddisfacente. Questa interpretazione non fu accettata dal paziente. Non riusciva a capirla, non riusciva a seguirmi e insisteva sulla validità delle proprie lagnanze, pur avendo ammesso che era egli stesso a indurre segretamente la moglie a quell'azione di cui puntualmente si sarebbe lamentato con me il giorno successivo. Qui ci troviamo di fronte alla situazione paradossale di un paziente che accetta l'interpretazione di un impulso dell'Es e ne ammette l'esistenza, ma mostra un'eccessiva resistenza contro l'interpretazione del corrispondente meccanismo di difesa. Vi sono diverse ragioni per quest'ultimo tipo di resistenza. Le lagnanze del paziente venivano fatte con molta emozione; la difesa era stata parzialmente investita dall'energia istintuale; inoltre, in alcuni casi è discutibile se per l'Io sia più facile rinunciare alla gratificazione di un impulso dell'Es o alla difesa. A mio parere, questo paziente era arrivato a un punto in cui avrebbe più facilmente rinunciato alla gratificazione sadica e acquisito il controllo su questa forza piuttosto che sacrificare la sensazione di essere trattato ingiustamente dal destino. In realtà, vi è una certa saggezza nel paradosso. Finché il paziente persiste nella difesa che consiste nel mantenere il ruolo di vittima, vi è speranza che forse in futuro possa permettersi gratificazioni sadiche. Invece, una volta eliminata questa difesa, la sua coscienza non tollererebbe che egli goda di piaceri sadici camuffati. In questo caso, la difesa offriva gratificazioni masochistiche che radicavano il meccanismo nell'Io con particolare solidità. Ho l'impressione che di solito sia il masochismo dell'Io che rende eccessivamente difficile l'interpretazione dei meccanismi di difesa. L'Io sembra sentirsi particolarmente sicuro quando si raggiunge la gratificazione masochistica in un processo che evita naturalmente un'altra pulsione. In base alle ben note caratteristiche della patologia della rimozione, si può tranquillamente presumere che la patologia delle resistenze secondarie assuma una di queste due forme: essere investita troppo o troppo poco. Io suggerirei che forse l'alterazione dell'Io nevrotico appartiene al primo gruppo e quella dell'Io psicotico al secondo gruppo. Non è probabile, però, che la realtà clinica segua delle linee tracciate così nettamente. In ogni caso, nel paziente appena citato, si può osservare l'eccessiva crescita di un meccanismo di difesa benché l'alterazione dell'Io non fosse dei tipo schizofrenico. Un Io meno alterato avrebbe ricevuto l'interpretazione con un certo sollievo e la resistenza contro l'interpretazione dell'impulso dell'Es sarebbe stata molto più acuta. Le difese secondarie, che svolgono il loro lavoro principale in modo sotterraneo e che possono essere valutate prevalentemente attraverso lo studio del loro effetto sulle difese primarie, sono probabilmente parte di una speciale organizzazione all'interno dell'Io e - a seconda di queste difese secondarie - l'alterazione dell'Io può essere o non essere modificata dalla psicoanalisi. Non vi è dubbio che l'alterazione dell'Io nevrotico, come quella riscontrata nella fobia, può essere modificata dalla psicoanalisi. In alcune nevrosi ossessivo-coatte di lunga data, questa possibilità è invece incerta. Anche se le tecniche sono state ideate per eliminare, almeno temporaneamente, i sintomi schizofrenici acuti, è molto discutibile se l'alterazione che l'Io schizofrenico presenta in maniera così evidente possa essere modificata dalla psicoanalisi. Le tecniche psicoterapeutiche che più comunemente vengono applicate nel trattamento degli schizofrenici non aggiungono sostanzialmente nulla alla nostra conoscenza e comprensione della schizofrenia, poiché la maggior parte di esse non tengono conto del fatto clinico che il problema della terapia della schizofrenia è essenzialmente quello di eliminare un'alterazione dell'Io. Molti psicoterapeuti si occupano dello schizofrenico per dimostrare il loro coraggio psicoterapeutico. Essi non esiteranno ad applicare qualsiasi strumento psicoterapeutico finché questo non darà loro la speranza di costringere lo schizofrenico a venir fuori dalla sua condizione acuta. Fino a quando tali sforzi saranno notevolmente inframmezzati da interpretazioni pseudoanalitiche, queste tecniche devono essere chiamate psicoanalisi "selvaggia". A mio parere, il concetto di parametro e l'adesione alle quattro regole che ho citato ci possono impedire di cadere nell'analisi selvaggia, che è particolarmente allettante nel caso della schizofrenia. In generale, penso che si possa dire che la fonte più promettente di conoscenza della struttura dell'Io si troverà in un'esatta descrizione e in una giustificazione - entrambe in termini metapsicologici - di qualsiasi deviazione dalla tecnica del modello di base ogniqualvolta tale deviazione diventi necessaria. Bibliografia Alexander F. (1925). Review of Ferenczi S. and Rank O., "The Development of Psychoanalysis Internat. Ztschr. f. Psychoanal., 11: 113-122. Alexander F. (1927). The Psychoanalysis of the Total Personality. New York and Washington: Nerv. and Ment. Dis. Publ. Co. Alexander F., French T.M. et al. (1946). 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