Nell'intento di cominciare a raccogliere del materiale e ad elaborare dei criteri per comporre una storia del movimento psicoanalitico in Italia, la redazione di Freudiana ha incontrato Pier Francesco Galli, psicoanalista a Bologna, direttore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane e delle collane: "Biblioteca di psichiatria e di psicologia clinica" di Feltrinelli e "Programma di psicologia, psichiatria, psicoterapia" di Boringhieri. Di questa lunga conversazione riportiamo su questo numero la fase introduttiva, che ha avuto un carattere prevalentemente documentario, mentre nel prossimo numero della rivista trascriveremo la seconda parte che è stata maggiormente centrata su questioni teoriche [La seconda parte non fu mai pubblicata - N.d.R.]. In questa rievocazione degli anni 1950-60 si possono leggere in filigrana i principali problemi che l'interesse per la psicoanalisi fa sorgere ogni volta che la nuova attitudine di ricerca, da esso provocata, tende a riflettersi su se stessa. Va ricordato che nel medesimo periodo in Francia era attivo quel movimento che trovò espressione nella rivista L'Evolution Psychiatrique e che, grazie alle iniziative di Henri Ey, coinvolgeva nel dibattito sullo statuto epistemologico dell'inconscio i principali esponenti della filosofia francese. (Carlo Viganò) I. Gli inizi di un interesse per la psicoanalisiD.: Cominciamo col chiedere a Pier Francesco Galli l'origine: che cosa l'ha condotta a fondare un gruppo e una rivista, Psicoterapia e Scienze Umane? Parlerò a ruota libera, semmai voi mi interromperete con delle domande. Finora non ho mai voluto scrivere sulla storia del discorso organizzativo e sulle sue ragioni: non c'è ancora la distanza storica sufficiente per poterlo fare, molte cose le ho vissute da protagonista o le ho verificate in prima persona, in anni in cui si era pochi e certe questioni risultavano come conflittualità personali. Fino alla fine degli anni 1950 non c'era un movimento, anche la prima metà degli anni 1960 è stato un periodo caratterizzato dalla fondazione del discorso analitico in Italia. Quindi è la prima volta che mi dispongo a rispondere complessivamente alla vostra domanda, anziché parlare di singole cose. Psicoterapia e Scienze Umane è una rivista, cominciata nel 1967. Per me e per chi collaborava con me in quel momento, è stata una delle cose che si son fatte. Il discorso parte da prima. Non si tratta di cose che nascono da motivi o urgenze esterne, è da se stessi che sorge un'urgenza e poi si trovano ragioni per far sì che qualcosa continui, quindi è anche il perché di oggi. Il nostro gruppo originario ha attraversato una serie di crisi, di vicissitudini, di momenti di decisione sul che cosa fare e sul se continuare o meno, di prese di tempo. Il discorso da cui eravamo partiti non era quello di fondare un'associazione, ma di dare delle stimolazioni che rendessero stabile il carattere di movimento attorno alla cosa, piuttosto che assicurare la persistenza della struttura in quanto tale. Per questo motivo, ad esempio, nei momenti di maggior successo numerico abbiamo fatto delle scelte di chiudere un'attività, anziché diventare per esempio la gestione di una scuola di tante persone: a un certo punto erano circa trecento che facevano riferimento ai vari gruppi di formazione, supervisione, studio, verso la fine degli anni 1960... D.: Chiudere in che senso? Abbiamo chiuso il Centro, che aveva sede in Piazza S. Ambrogio 2, per proseguire in una forma diversa. Ma partiamo da più lontano: dal quadro del discorso psicoanalitico e psichiatrico negli anni 1950. All'inizio la denominazione era quella di "Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia". Si trattava di fondare uno spazio per rispondere ad una serie di domande: sulla psicoterapia, sui rapporti psicoanalisi-psicoterapia. Il quadro italiano era tale da escludere organizzativamente la psicoanalisi, essa non aveva alcun peso all'interno delle strutture, soprattutto psichiatriche e aveva un peso culturale più in ambito letterario che in ambito professionale. In quegli anni l'opposizione cattolica del periodo precedente aveva stabilizzato un disinteresse verso la psicoanalisi. Sembra impossibile che solo pochi anni fa potesse, per esempio, venire considerato osceno un test proiettivo come il TAT o il Rorschach, eppure ci furono delle denunce verso un noto psichiatra, che operava in una struttura per minori disadattati, per avere adoperato quel test (per "presentazione di oscenità"). Questo per quanto riguarda l'aspetto più superficiale dell'ambito psichiatrico. Però non bisogna dimenticare che in quegli anni, per una via molto più esposta, terra di nessuno, e quindi più capace di recepire contenuti nuovi, si andava strutturando un ambito legato a contenuti psicologici e sensibile al discorso psicoanalitico. Si tratta dei settori dell'assistenza sociale e dei minori, dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia. In Italia venne fatta una scelta precisa in questi settori (dai responsabili delle scuole per assistenti sociali, dal giudice Radaelli, allora responsabile del settore minorile del ministero): quella di far intervenire massicciamente la psicologia e la psicoanalisi. Molti psicoanalisti oggi assai noti si sono fatti le ossa in quelle strutture (tribunali per minorenni, centri psicopedagogici). Questi colleghi cominciarono a uscire dallo stereotipo del trattamento analitico e a formarsi una modalità di intervento strettamente legata alle diverse possibilità che individuavano nello strumento analitico per affrontare i problemi. Certo, avevano ancora poca capacità di teorizzazione, però si accumulava un'esperienza, che portava a scambi e comunicazioni sulle varie soluzioni date ai problemi. Si crearono così le basi per ciò che venne poi: l'interesse per la psicoterapia come portato del discorso psicoanalitico. Io personalmente ritengo che la separatezza della psicoanalisi sia stata più il frutto di un mantenimento di posizioni di ruolo, il mantenere una specificità in modo rigido, senza metterla in discussione. Con tutti gli echi delle polemiche negli Stati Uniti rispetto ai discorsi: esperienza emozionale correttiva di Alexander (1946), terapia breve, trattamenti attivi in relazione all'abbreviamento o al successo, si era di fronte all'esigenza, per la psicoanalisi, di mantenere un discorso unitario ed una coerenza intesa come specificità psicoanalitica. Questa coerenza ritengo che avesse più a che fare con fenomeni sociali di ordine difensivo, che essere un portato della teoria analitica. Oggi, secondo me, disponiamo di molti strumenti teorici che permettono di riassumere e di collegare in un quadro complessivo le esperienze raccolte in quegli anni sia nei campi di cui ho accennato, sia in un altro settore, che ritengo pure di dover ricordare: quello del trattamento di patologia grave, soprattutto di psicotici, attorno a cui cominciavano a essere conosciute in Italia nuove esperienze di altri paesi. Anche di queste oggi si può avere un quadro teorico complessivo di riferimento. A mio parere, però, le premesse per questa riflessione c'erano già allora, c'è stato un ritardo nell'utilizzare le premesse teoriche per definire questo qualche cosa che doveva essere lasciato da parte e considerato non psicoanalisi perché potesse esser fatto. Secondo me il termine "psicoterapia a orientamento psicoanalitico" serve ad autorizzare tutte quelle cose, quei trattamenti, rispetto a cui si ha l'idea che la psicoanalisi sia qualcosa d'altro. D.: Questa autorizzazione da chi era richiesta? Se ho capito lei dice che c'era una posizione di difesa della psicoanalisi ufficiale rispetto a questo allargamento di campo della pratica. Era solo questo a motivare la mediazione della psicoterapia o c'era anche una ragione teorica? Devo dire che da parte di quelli che possiamo considerare gli iniziatori della psicoanalisi in Italia erano quattro persone non c'era questo atteggiamento di difesa, erano persone estremamente disponibili a vari tipi di esperienza. Erano persone mosse da una spinta di curiosità, da una ricerca. La chiusura è venuta dopo, era un fenomeno non solo italiano. Erano fenomeni di parcellizzazione: chiunque aveva trovato un particolare campo di interesse o aperto una nuova esperienza, ne faceva un atto di scuola, anziché inserirlo in un contesto più generale di fondazione teorica. C'era il mancato confronto. Oggi tende a mancare meno il confronto. ci sarà da domandarsi perché. 2. L'assenza di tradizione psichiatrica Parlo sempre degli anni 1950, che per l'Italia erano stati fondanti, perché ci si trovava in assenza di una tradizione psichiatrica. La tradizione psichiatrica dei primi del Novecento si era interrotta, andando nella direzione della neurologia o degli studi a orientamento più organicistico. Nell'università non vi era stimolazione per intelligenze competitive: chi andava a fare il primario psichiatra era quello che non era riuscito in una carriera neurologica, l'ospedale psichiatrico era una specie di seconda scelta e si contavano sulle dita quelli che avevano un interesse prevalente per la psichiatria. Costoro dovevano avere un punto di riferimento all'estero e agivano da isolati. Pensate a una figura come Danilo Cargnello. E poi, fare psichiatria voleva dire prima di tutto conoscere il tedesco: era più una posizione di studio, di curiosità personale, sganciata da una possibilità operativa. Così era per il gruppo - allora - dei giovani di Roma: Giancarlo Reda, Luigi Frighi, Isidoro Tolentino. Si trattava di persone che frequentavano luoghi psichiatrici e poi avevano una curiosità personale, cominciavano a trovarsi tra loro, a fare riunioni... Di questo gruppo faceva parte Franco Basaglia. A Milano molte persone trovarono due punti di riferimento nelle Case di cura Villa Fiorita e Ville Turro, che erano luoghi molto aperti verso la psicoanalisi. Ad esempio, a Villa Fiorita il prof. Virginio Porta, neurologo, accolse la dott.sa Berta Neumann che stava iniziando un'esperienza di terapia della psicosi con la supervisione di Gaetano Benedetti, e il prof. Cesare Musatti - non medico - che faceva esperienza con il Penthotal. A Ville Turro troviamo invece, come medici, Franco Fornari e poi Elvio Fachinelli, che cominciavano a parlare dei casi utilizzando la loro formazione psicoanalitica. C'era poi il campo delle prime tecniche psicologiche dove correva molta psicoanalisi, anche se sulla scorta di problematiche americane si tendeva a fare cose poco sostenibili teoricamente, come separare la problematica dell'Io da quella dell'Es, ad esempio, per limitare alla prima gli interventi. C'erano poi i servizi psicologici industriali dove lavorano persone di formazione psicoanalitica, come Tommaso Senise, Mirella Guarnieri. C'erano insomma molti piccoli gruppi dove l'interesse per la psicoanalisi si veniva a sviluppare. Anche il nostro, allora, fu un piccolo gruppo. Erano gli anni, anche in altri campi, della cultura dei piccoli gruppi. Veniva insomma a scomparire la figura dell'intellettuale isolato, per cedere il posto a una funzione di movimento fatto da piccoli gruppi. Questo è il momento, diciamo, di pre-apertura, che precede quello della diffusione. L'aggregazione avviene sull'estensione dell'esperienza psicoanalitica a spazi e contesti di pratica che le erano preclusi precedentemente. D.: Mi sembra che la tipicità di questa estensione, della ricerca messa in movimento dalla nuova ipotesi psicoanalitica, che l'elemento caratterizzante di questa estensione fosse il vuoto che l'ha preceduta, quello che lei indicava come assenza di tradizione psichiatrica, un luogo psichiatrico senza riferimenti culturali. Non ritiene che un altro dato sia stato lo scarso peso dell'International Psychoanalytic Association in Italia, per cui un riferimento unitario per il dibattito veniva a mancare? Certamente anche, con una precisazione: che il vuoto psichiatrico significava non avere riferimenti culturali diffusi alle spalle. Rispetto allo studio universitario della psichiatria, che aveva come strumento testi dei tipo detto "il gozzanino", cioè un libretto sulle principali sindromi psichiatriche scritto dallo stesso Mario Gozzano, autore di un trattato di neurologia, gli anni 1960 portarono una vera ventata psicologico-psicoanalitica. D.: Ci sembra ora di poter formulare un primo elemento che per la storia della psicoanalisi italiana può essere determinante: in un quadro di grossolano positivismo caratterizzante l'insegnamento dell'università, dove, ad esempio, nell'istituto di Clinica delle malattie nervose e mentali, un professore fece togliere la parola "mentali", l'importanza del freudismo e della fenomenologia viene a sommarsi all'importazione americana di psicologia. Queste acquisizioni non suscitano tanto una polemica tra psichiatri e psicoanalisti, quanto una immistione dello psicologico nel campo; medico-psichiatrico (che nella cultura tedesca era già avvenuta alla fine del XIX secolo). Sono d'accordo su questa ricostruzione: non vi è realizzazione di una ricerca interdisciplinare, ma solo un fenomeno di aggregazione culturale che viene a riempire un vuoto. Dunque certamente non c'era un atteggiamento difensivo da parte della psicoanalisi: semplicemente non vi era un movimento caratterizzato da una specificità psicoanalitica, la Società Psicoanalitica Italiana (SPI) si andava formando allora ed erano quattro persone, con conflittualità interne (Cesare Musatti, Emilio Servadio, Nicola Perrotti e Claudio Modigliani). Dal punto di vista professionale non era ancora un'attività autonoma, aveva le caratteristiche del secondo lavoro: la psicoanalisi come professione ce la siamo trovata tra le mani dopo, inaspettatamente, direi quasi. Bisogna anche considerare quello che fu un luogo di formazione importante, e cioè la Svizzera, dove si era molto sviluppata una tradizione di psichiatria di impostazione psicoanalitica. Ad esempio, una delle prime comunità terapeutiche d'Europa fu fondata da Fabrizio Napolitani (fratello di Diego), formatosi a Kreuzlingen. 3. La psicoanalisi italiana di fronte al problema dell'istituzione D.: Mi sembra di individuare una contraddizione a questo punto: la psicoanalisi ha avuto l'effetto di suturare delle falle nel campo psichiatrico, stimolando questa ricerca molto recettiva, ma non è stata in grado di suturare se stessa, di darsi un corpus unitario, di aprire la via a una ricerca di tipo psicoanalitico, non ha saputo mettersi alla prova nel suo stesso campo. Sono d'accordo, con una precisazione: non è stato un fenomeno di integrazione nella psichiatria, ma un fenomeno di allargamento della psicoanalisi. Certo, e lo vedremo poi considerando gli anni successivi, è mancato l'effetto di ritorno su se stessa della psicoanalisi. E' prevalso così il fenomeno dell'applicazione del noto, del recepito, piuttosto che una riflessione capace di aprire a una ricerca. Si aperse un grosso mercato, mentre l'aspetto della ricerca fu di nuovo legato strettamente all'attività isolata e alla curiosità di qualcuno. E fu lo psicanalismo. E' tale l'afflusso di ricordi che rischio di risultare prolisso, ma di nuovo, per parlare della mia esperienza devo partire da prima. Parto da quel luogo di aggregazione culturale che fu l'Istituto di Psicologia dell'Università Cattolica, ad esempio con le riunioni settimanali: nel 1954, per la prima volta viene invitato Gaetano Benedetti, psichiatra al Burghölzli, italiano emigrato dalla Sicilia, che si era formato lì come psichiatra e che si avvicina al discorso della psicoanalisi delle psicosi, assieme a Christian Müller, attualmente direttore dell'Ospedale di Céry a Losanna. Il centro di questa elaborazione fu una città estremamente significativa per la storia della psicoanalisi: Zurigo. In questo luogo, importante anche per il movimento junghiano, si formò a partire dalla psichiatria della Daseinsanalyse attorno alla figura di Médard Boss (che è sempre stato membro della società psicoanalitica) un'importante estroflessione psicoterapeutica, che portò alla fondazione della Federazione Internazionale di Psicoterapia Medica, verso la fine degli anni 1950 (i non medici potevano solo essere soci aderenti). Benedetti in questa città poté cogliere diversi contributi che legò in quell'interesse che allora era l'onda montante della psicoanalisi: la terapia delle psicosi, che lo portò anche ad andare in America da Frieda Fromm-Reichmann e alla scuola di Harry Stack Sullivan (la Washington school of psychiatry). Tutte persone di formazione psicoanalitica e che escono dalla società psicoanalitica, avendo tra loro in comune il dato di occuparsi di patologia grave (in America nella società psicoanalitica tradizionale - la American Psychoanalytic Association - si lavorava esclusivamente a livello ambulatoriale con nevrotici). Il volume che pubblicammo nel 1961 da Feltrinelli, La moderna concezione della psichiatria di Sullivan (1940), è frutto di un lavoro iniziato negli anni 1930. Questa circolazione si collega con quella di cui ho già parlato nel settore minorile, oggi si direbbe di psicoanalisi infantile, allora non si poteva nemmeno nominarla. Si sviluppava così quello che io continuo ancora a chiamare il potenziale intrinseco non ancora espresso della psicoanalisi, non qualcosa d'altro, ma un qualcosa che motivi diversi contribuivano a tenere represso. Quindi Benedetti parla a Milano di qualcosa di inedito: il delirio, come entrare nel delirio, e venne accolto come un discorso serio. Lì io decisi il mio trasferimento a Basilea per andare a studiare con Benedetti. Erano anni in cui nei gruppi di lavoro era possibile avere il contributo di diversi indirizzi ed esperienze: si lavorava rispetto al caso, a quello che si faceva e al tentativo di giustificarne il perché. Non si poneva il problema di un'appartenenza di gruppo. L'11-15 settembre 1960 organizzammo al Centro di Cultura "Maria Immacolata" del Passo della Mendola un incontro, come Istituto di Psicologia della Università Cattolica, di cui allora facevo ancora parte, rivolto agli psichiatri italiani [gli Atti furono pubblicati col titolo Dinamismi mentali normali e patologici. Milano: Vita e Pensiero, 1962; vedi anche gli atti della Giornata di studio del 30 ottobre 1965, che sono in rete - N.d.R.]. Vi fu una convergenza di tutti i nomi rappresentativi della psichiatria italiana e vennero fatte esposizioni di contributi esclusivamente psicologici o psicoanalitici. Segnò la caduta della barriera culturale posta dai cattolici e l'introduzione di un nuovo stile di lavoro, ad esempio per la prima volta si parlò di lavoro in équipe in psichiatria. Queste novità mi portarono a fondare un gruppo: assieme ad altre tre persone: la dott.sa Berta Neumann, la dott.sa Mara Selvini (ci si era conosciuti tramite Benedetti) ed Enzo Spaltro. Dovete tenere presente anche un'altra cosa: in quegli anni gli studi di psicologia sociale in Italia erano ignorati, mentre alcuni di noi li conoscevano. Queste conoscenze ci permettevano di fare, ad esempio, delle previsioni su dei fenomeni sociali e quindi di intervenire con delle tecniche specifiche, che erano scientifiche. Quindi, mentre in quegli anni assistiamo al crollo della pubblicazione di letteratura psicoanalitica, ad esempio del pregevole lavoro di Astrolabio, viene progettata da me, con l'aiuto di Benedetti, la "Biblioteca di psichiatria e di psicologia clinica", da Feltrinelli, iniziata nel 1958. Il primo libro fu Storia della psichiatria di Zilboorg (1941). Era un progetto organico, si trattava di proporre un ventaglio di letture ampio ed articolato: la prima proposta era di trenta titoli, che furono poi i primi trenta volumi, pubblicati in sette anni. Fu la scommessa di Feltrinelli, non solo editoriale, ma anche culturale. D.: Come si poneva per lei il rapporto con le strutture ufficiali della psicoanalisi? Non si poneva. Io nel 1958 vidi, a Basilea, il libro di Michael Balint del 1956 (Medico, paziente e malattia) e subito pensai di proporlo per la collana di Feltrinelli nel 1961 e ne feci un'introduzione: infatti rispondeva al progetto culturale di portare il contributo della psicoanalisi nella sfera più ampia delle pratiche mediche e sociali. Esso incontrò l'opposizione di Musatti, che parlò di rischi che si correvano: era la stessa opposizione che trovò Balint in Inghilterra, dove Balint dovette porre la condizione che il metodo venisse usato esclusivamente per i medici e non tra gli psichiatri. Noi fummo i primi, col "Gruppo Milanese" e l'intervento di Silvano Arieti e Gaetano Benedetti, a osare l'impiego del metodo Balint nella formazione di gruppi di psichiatri. [sui gruppi Balint, si veda anche la rubrica "Tracce" del n. 3/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, dove vi è anche la relazione tenuta da Michael Balint alla Giornata di studio del 30 ottobre 1965 - N.d.R.] D.: Qui cominciarono i conflitti con la SPI... Sì, ma questa era praticamente inesistente, era composta da quattro persone e in conflitto tra loro: due contro due. Non era nemmeno autonoma nel formare degli analisti (ce ne vogliono almeno tre: un analista e due supervisori). Nonostante, quindi, l'estensione dell'interesse per la psicoanalisi e il fatto che vi fossero ormai diversi analizzati, la SPI non era in grado di fare nuovi membri. Dovette poi intervenire, più tardi, l'International Psychoanalytic Association, con un "prestito" di tre analisti della Società Psicoanalitica Svizzera, che tennero sotto tutela la SPI dal 1962 al 1967. [questi tre analisti erano Raymond de Saussure, Paul Parin, e Fritz Morgenthaler, e i dettagli di quella esperienza furono poi raccontati da Parin in un articolo pubblicato sulla rivista tedesca Psyche, 1984, 38: 627-635 - N.d.R.] D.: Come mai non vi è stato un avvicinamento, una cooptazione da parte della SPI di coloro che nel frattempo si erano formati all'estero? Ce ne furono, ma qui ognuno ebbe la sua storia; preferisco parlare del fenomeno generale. Ricordo ad esempio un documento della SPI in cui si voleva impedire ai propri aderenti di frequentare i corsi del nostro Centro, anche come docenti. Ma il problema rimaneva la grossa rivalità esistente,tra gli iniziatori e lo stallo in cui la situazione rimase per tutti gli anni 1950 e i primi anni 1960. D.: Questa rigidità nell'applicare le regole e la difficoltà ad avviare un funzionamento (i tre, i quattro, ecc.) era un problema analitico, andava psicoanalizzato... Non sono d'accordo, è stato anzi un problema molto psicoanalizzato, divenne fonte di un forte psicanalismo interno. Anche Lacan, cui voi vi riferite, aveva cercato di mettere in evidenza tutte le contraddizioni legate al tema della formazione e del riconoscimento: solo, lo ha detto tardi, le premesse di ciò che è avvenuto c'erano da prima. E' un interrogativo: perché le formulazioni arrivano così in ritardo? La nostra posizione qual era? Ci parevano, questi, fenomeni strani, di cui non ci importava nulla. Non eravamo contro una SPI, anche se così si era recepiti, il che ci costringeva poi a polemiche e scontri. D.: Mi sembra che la vostra posizione, pragmatica, di disimpegnarvi da queste conflittualità, sia stata après coup un riportare la questione nell'ambito della psicoanalisi, non quello che lei stigmatizzava come psicanalismo, ma un riportare la questione sul suo terreno proprio, la cosa psicanalitica. Quando, paradossalmente, il funzionamento aveva portato ad uno schematismo di automantenimento, cioè fuori dalla cosa. (Trascrizione a cura di Carlo Viganò)
Riassunto. In questa intervista, fatta
da Carlo Viganò a Pier Francesco Galli nei primi anni 1980, vengono discussi
alcuni aspetti dello sviluppo della psicoterapia e della psicoanalisi in Italia
negli anni 1950-60. In particolare, Pier Francesco Galli accenna alla storia
della rivista
Psicoterapia e Scienze Umane, da lui fondata nel 1967 all’interno del
Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, e ai rapporti con le
istituzioni psicoanalitiche. Oltre allo stesso Pier Francesco Galli, del gruppo
fondatore facevano parte Berta Neumann, Mara Selvini Palazzoli ed Enzo Spaltro.
Tra le iniziative di Pier Francesco Galli vi fu la fondazione di collane di
libri presso gli editori Feltrinelli (87 volumi) e Bollati Boringhieri (circa
350 volumi), che servivano a introdurre la cultura psicoterapeutica in Italia in
un momento in cui l’Università era ancora impreparata in questo settore. (Questa
intervista è stata pubblicata nella rivista Freudiana, 1984, 4: 109-116).
[PAROLE CHIAVE: Psicoterapia e Scienze Umane, storia della
psicoterapia in Italia, istituzioni psicoanalitiche, storia della psicoanalisi
in Italia, formazione psicoanalitica] Bibliografia Alexander F., French T.M. et al. (1946). Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17: La esperienza emozionale correttiva. Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm). Balint M. (1956). The Doctor, his Patient and the Illness. London: Pitman Medical Publishing (trad. it.: Medico, paziente e malattia. Milano: Feltrinelli, 1961). Galli P.F. (1962). Fondamenti scientifici della psicoterapia. In: Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia (a cura di), Problemi di psicoterapia. Atti del I Corso di aggiornamento (Museo della Scienza e della Tecnica, Milano, 11-14 dicembre 1962. Relazioni di Gaeta-no Benedetti, Silvano Arieti, Pier Francesco Galli, Franco Fornari, Ugo Marzuoli, Berta Neumann & Virginio Porta, Mara Selvini Palazzoli, Leonardo Ancona, Virgilio Melchiorre, Tommaso Senise, Silvia Montefoschi, Enzo Spaltro, Fabrizio Napolitani). Milano: Centro Studi di Psicoterapia Clinica, 1962, pp. 69-80 (pp. 80-89: Discussione con interventi di Da-nilo Cargnello, Pier Francesco Galli, Leonardo Ancona, Silvano Arieti, Elvio Fachinelli). Anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 2: 203-212 (Discussione: pp. 212-220). Vedi anche: P.F. Galli, Tecnica e teoria della tecnica in psicoanalisi tra arcaico e postmoderno. Psicoterapia e Scienze Umane, 2006, XL, 2: 153-164. Galli P.F. (1965). La psicoterapia in Italia. Relazione letta alla Giornata di studio del 30 ottobre 1965. In: Centro Studi di Psicoterapia Clinica, a cura di, La psicoterapia in Italia. La for-mazione degli psichiatri. Atti delle giornate di studio del 30-10-1965 e del 11-12-1966. Milano: Centro Studi di Psicoterapia Clinica, 1967, pp. 5-21 (pp. 22-56: interventi di Pier Francesco Galli, Mario Moreno, Franco Basaglia, Antonino Jaria, Franco Giberti, Giuseppe Maffei, Dario De Martis, Piero Leonardi, Edoardo Balduzzi, Giorgio Zanocco, Antonino Lo Cascio, Cesare Musatti, Cornelio Fazio). Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/ psu/1965.htm. Galli P.F. (1967). Psicoterapia e scienza. Psicoterapia e Scienze Umane, I, 2/3: 1-5. Edizione su Internet: http://www.pol-it.org//ital/riviste/psicouman/scienza.htm. Galli P.F. (1984). Editoriale. Psicoterapia e Scienze Umane, XVIII, 4: 3-4. Galli P.F. (1984-85). Conversazione su "La tecnica psicoanalitica e il problema delle psicoterapie". Il Ruolo Terapeutico, 1984, 38: 6-10 (I parte), e 1985, 40: 3-8 (II parte). Galli P.F. (1986a). Poscritto. Psicoterapia e Scienze Umane, XX, 3: 369-378. Galli P.F. (1986b). Chi fa veramente psicoterapia in Italia? (conversazione con P.F. Galli a cura di S. Benvenuto). 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