PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Area Problemi di Psicoterapia

 

A proposito dell'articolo di Otto Kernberg
 

Nota: Questo articolo (che è al sito http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/kernberg-1.htm) viene pubblicato per concessione della Rivista di Psicoanalisi, dove è stato originariamente pubblicato (1997, XLIII, 1: 91-97). L'International Journal of Psychoanalysis nel 1996 ha inaugurato le sue pagine su Internet. Joseph Sandler presiedeva e coordinava il Gruppo di Discussione, cioè una dicussion list, che ogni due mesi circa ha per oggetto un articolo presentato nell'International Journal of Psychoanalysis, leggibile on line in anteprima rispetto alla pubblicazione su carta. Il primo articolo discusso dalla comunità psicoanalitica virtuale è stato questo articolo di Kernberg uscito nell'ottobre 1996, dal titolo "Trenta metodi per distruggere la creatività degli allievi degli istituti di psicoanalisi" (Int. J. Psychoanal., 1996, 77, 5: 1031-1040), pubblicato anche su PSYCHOEMDIA, sia in italiano che in inglese. Questa discussione di Maria Ponsi e Mario Rossi Monti è la rielaborazione di un intervento fatto in quel Gruppo di Discussione, la cui versione originale, in inglese, è scaricabile dal sito http://www.ijpa.org/archives1.htm.


I candidati della Società Psicoanalitica Italiana (SPI) che muovono i primi passi nell'Istituzione Psicoanalitica sanno che la loro creatività è in pericolo? Che, insieme ai principi della teoria e della tecnica, essi assimilano quelli del conformismo e della soggezione all'autorità? Che da parte dei loro maestri, detentori del sapere psicoanalitico, ricevono molte attenzioni e cure affinché nelle loro menti non alberghino dubbi e idee contrastanti con la dottrina? Se i candidati ancora si illudessero che la loro formazione si svolga all'insegna dello sviluppo dello spirito critico e del confronto fra i molti approcci presenti nel mondo psicoanalitico, allora è bene che sappiano cosa pensa della loro condizione il prossimo Presidente dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale (IPA), Otto Kernberg.

In un brillante e provocatorio articolo pubblicato sul numero 5/1996 dell'Interantional Journal of Psychoanalysis egli elenca ed illustra i ben trenta metodi utili per uccidere la creatività dei futuri analisti: si va dalle numerose tecniche per rallentare la progressione nel Training, all'accentuazione dei rapporti gerarchici e alla valorizzazione dei rituali istituzionali, dal mantenere in ombra la competenza clinica dei membri più anziani, i cui casi non vengono presentati pubblicamente, al non dedicare attenzione alla conoscenza e allo studio delle controversie teoriche e tecniche.

E' da tempo che Kernberg (1985, 1986), occupandosi dei problemi della formazione, va sottolineando il fatto che "troppo spesso gli Istituti di Psicoanalisi sono permeati da una atmosfera dogmatica anziché da una atmosfera di aperta esplorazione scientifica" (1985, p. 56). Paragonando la attuale struttura organizzativa della istituzione formativa psicoanalitica a quella di un seminario teologico e di una scuola professionale, egli sosteneva che - invece - la configurazione più promettente per un Istituto deputato alla formazione è rappresentata da "un modello che accomuni le caratteristiche del college universitario e della accademia d'arte" (1985, p. 60). Da un lato il modello universitario consentirebbe la trasmissione del sapere in una atmosfera di libera indagine scientifica e non in un sistema chiuso dominato dalla segretezza; in esso gli analisti con funzioni didattiche goderebbero di una completa libertà sotto il profilo accademico, sarebbero incoraggiati ad esporsi in un dibattito scientifico aperto ed i candidati a loro volta avrebbero potuto imparare a tollerare l'incertezza e l'ambiguità connaturata ad ogni provvisoria acquisizione di una dottrina scientifica. D'altro lato, il modello dell'accademia d'arte darebbe un decisivo contributo alla abolizione di quella atmosfera di segretezza che ha da sempre circondato il gruppo degli analisti di Training più anziani ed esperti: "I candidati avrebbero avuto l'opportunità di apprendere la tecnica psicoanalitica attraverso la concreta attività clinica svolta dal gruppo degli analisti di Training, così come attraverso la presentazione dei loro casi" (ib., p. 61). In questo modo la prassi secondo la quale la presentazione di materiale clinico da parte dei candidati agli analisti con funzioni di Training si svolge a senso unico nel corso del Training, sarebbe andata incontro ad una importante modificazione, favorendo una comunicazione a doppio senso tra candidati ed analisti con funzioni di Training.

In questo più recente articolo Kernberg continua ad affondare il coltello in quello che indubbiamente ritiene essere un problema assai serio: questa volta - probabilmente per dare più peso alle sue argomentazioni - lo fa a partire sarcasticamente dal presupposto che lo scopo di un Istituto di Training sia quello di inibire la creatività dei candidati. Il "formato negativo" (come egli stesso lo chiama) scelto per illustrare i seri limiti dell'educazione psicoanalitica provoca nel lettore un certo sconcerto. Ma si tratta di un salutare sconcerto, perché in questo modo si viene indotti ad uscire dalla consueta ambiguità ed incertezza su questo argomento per interrogarsi sui danni che una impostazione siffatta della formazione può indurre prima di tutto su gli allievi, e poi, di conseguenza, sullo sviluppo della Istituzione Psicoanalitica e della Psicoanalisi in senso lato.

Che si tratti di un problema importante per il futuro della psicoanalisi, anche in relazione al ben noto tema della sua 'Crisi', recentemente oggetto di riflessione sia da parte dell'IPA che delle Società componenti, è testimoniato dal fatto che sul sito Internet dell'International Journal of Psychoanalysis è stato promosso un Gruppo (virtuale) di Discussione sull'articolo di Kernberg.

Leggendo i trenta punti elencati da Kernberg, non è detto che tutti ci appaiano pertinenti a fronte della specifica esperienza di ognuno di noi. Del resto, è anche ovvio che le strutture di Training delle varie Società Psicoanalitiche - come è risultato ad esempio dagli interventi di J. Canestri e di A. Hayman nel succitato Gruppo di Discussione su Internet - abbiano le loro specifiche caratteristiche, nel bene e nel male, che le differenziano dalle altre.

Tuttavia c'è un aspetto menzionato da Kernberg, in particolare nei punti 22 e 23, che ci è apparso generalizzabile e pertinente anche pensando alla nostra Società Italiana: si tratta delle "caratteristiche paranoiageniche" che pervadono le relazioni interne agli Istituti. La "apprensione paranoide" (paranoid fearfulness) costituisce uno degli ingredienti essenziali che lo psicoanalista respira fin dall'inizio del suo iter formativo. Dogmatismo, atmosfera di segretezza, sapere iniziatico, sottomissione all'autorità, adeguamento al pensare comune sono gli ingredienti ma anche i sintomi di questa atmosfera. Sopportazione della frustrazione, capacità di attendere, pazienza, cautela, umiltà, discrezione, incertezza sono le virtù che il futuro psicoanalista deve coltivare.

La "atmosfera paranoiogenica" si respira all'interno della comunità psicoanalitica ha le sue radici in un fenomeno assai più vasto, costitutivo fin dagli inizi dell'identità della psicoanalisi. Nella sua storia - una storia che è stata perlopiù scritta dall'interno dell'istituzione medesima e che ha talora assunto caratteri mitici - l'assetto paranoicale ha risposto all'esigenza di mantenere coesa l'identità di gruppo degli iniziatori di una disciplina che sarebbe altrimenti andata incontro ad un processo di dispersione. Questo "latente senso di insicurezza", che caratterizzava la psicoanalisi ai suoi esordi e che pervade tutt'ora gli Istituti di psicoanalisi e la professione di psicoanalista, proviene - scriveva Kernberg nel 1985 - dalla natura dell'oggetto essenziale con cui la psicoanalisi ha a che fare, ovvero con "la scoperta dell'inconscio e i particolari effetti che tale operazione provoca sia sui candidati sia sugli analisti di Training" (p. 59).

Del resto nel 1917 Sigmund Freud scriveva a Groddeck che "chi riconosce che il transfert e la resistenza sono i punti cardinali del trattamento, appartiene ormai senza rimedio alla schiera selvaggia". Questo termine, nella cultura germanica, rimanda immediatamente al mondo degli spiriti ed al Faust di Goethe. Partendo da questa notazione freudiana Jacques Lacan si è spinto - come al solito - fino a posizioni estreme e paradossali arrivando a teorizzare che l'immagine della "schiera selvaggia" è l'unica nella quale una società psicoanalitica possa riconoscersi, l'unica forma ad essa adatta se non si vuole compromettere il patrimonio psicoanalitico:

"Per via degli effetti stessi della psicoanalisi, se essi sono ricercati, qualsiasi gruppo di psicoanalisti porta in sé il principio della disgregazione. La sua stabilità e il suo buon funzionamento proverebbero invece che esso si colloca nella dimenticanza della scoperta freudiana. In tal senso la psicoanalisi è fondamentalmente asociale, e parlare di società psicoanalitica è una contraddizione in termini" (Lacan, 1977, p. 504).

Lacan ci porterebbe a concludere che la disgregazione, la insicurezza di base, la tendenza alla dispersione (e all'irrigidimento e alla degenerazione paranoicale che ne costituiscono il correlato difensivo) sarebbero intrinseci ad ogni gruppo di psicoanalisti e quindi connaturati ad ogni istituzione psicoanalitica. Ma questa chiave di lettura, se da un lato tiene evidentemente conto dell'oggetto specifico della psicoanalisi, dall'altro sembra adottare una sorta di riduzionismo radicale per il quale il rilievo di alcuni problemi si trasforma nella affermazione di una impossibilità di principio (Nicasi, 1981, p. 22). Manca, in questa prospettiva, ogni considerazione che tenga conto della storia della psicoanalisi e delle sue istituzioni. Se si prescinde - come fa Lacan - da considerazioni di ordine storico, i problemi dell'istituzione psicoanalitica vengono trattati come indissolubili da ogni possibile istituzione e non come il prodotto di una specifica fase evolutiva.

Se la tensione essenziale tra dogmatismo e innovazione è caratteristica specifica di ogni impresa scientifica, perché si deve pensare che - nel caso della psicoanalisi - la bilancia debba invariabilmente pendere verso il versante del dogmatismo? La proporzione nella quale questi due ingredienti sono presenti e necessari ad ogni comunità scientifica è invece variabile e fortemente influenzata dalla fase evolutiva in cui si trova ciascuna disciplina. Così un elevato grado di conservatorismo ha senza dubbio svolto una funzione importante nella costruzione e nel mantenimento di una identità psicoanalitica agli albori della psicoanalisi. Ma oggi la proporzione tra dogmatismo e innovazione deve rimanere invariata o non è piuttosto arrivato il momento di pensare a diverse possibilità di rapporto? La conservazione della dottrina, la fedeltà e la continuità nella trasmissione dei precetti teorici sono ancora così necessarie al mantenimento dell'istituzione come lo erano alcune decine di anni fa, oppure non sono ormai che forme di conservatorismo, e cioè - appunto - nient'altro che "trenta metodi per distruggere la creatività dei candidati psicoanalisti"? E', ad esempio, ancora forte come venticinque anni fa l'angoscia che il gruppo degli psicoanalisti più anziani prova nei confronti della possibilità che i nuovi analisti diventino non tanto adulti quanto piuttosto diversi? (Kohut, 1972).

Caratteristico della struttura paranoicale è produrre forti barriere rispetto agli scambi con l'esterno: ciò che sta fuori è sentito prima di tutto come una minaccia alla propria identità. Ne è un esempio importante quell'atteggiamento di sospetto e diffidenza, per non dire di rifiuto, con cui larga parte dell'establishment psicoanalitico guarda al faticoso organizzarsi della ricerca empirica in psicoanalisi. Sono ancora molti a ritenere che la psicoanalisi possa continuare ad auto-proclamarsi scientifica senza misurarsi con lo studio dei processi e degli esiti del trattamento, senza assumere le procedure di controllo e verifica proprie delle discipline scientifiche. Che un confronto di questo tipo possa essere problematico è fuori di dubbio: non si può che guardare con cautela alle drastiche operazioni di riduzione indotte dalla ricerca empirica sulla enorme complessità dei dati con cui opera uno psicoanalista. Ma dobbiamo essere così pessimisti da vedere in ciò "il declino e la possibile caduta dello spirito della psicoanalisi" - come avverte Green (1966, p. 14) in un recente, lucido scambio di opinioni con Wallerstein? Un atteggiamento improntato a diffidenza e sospettosità rivela il timore - anzi, la convinzione - che l'identità psicoanalitica possa uscire sconfitta da questo confronto: il risultato di questo atteggiamento isolazionista è un ulteriore rinforzo dei meccanismi di difesa paranoicali.

La tendenza all'isolamento, alla chiusura dell'orizzonte culturale della psicoanalisi si avverte anche in altri ambiti. Dopo essersi proposta - in qualche fase del suo sviluppo - come strumento omni-esplicativo nel campo della storia, dell'arte, della linguistica, ecc., la psicoanalisi tende oggi invece spesso a chiudersi in uno sdegnoso isolamento proprio nei confronti di quegli indirizzi di ricerca e di quelle discipline dell'area psicologico-psichiatrica con cui sarebbe più importante il confronto.

Questo tipo di assetto tuttavia non ha oggi più tanto ragion d'essere e la sua conservazione attiva costituisce una sorta di fossile. Un fossile che è però, sfortunatamente, assai vitale e presente all'interno della comunità psicoanalitica. La sensazione e soprattutto la speranza è tuttavia che dietro meccanismi di difesa di tipo paranoicale - retaggio di un'identità incerta e precaria - sia possibile trovare una disciplina più solida, meno impaurita di prendere contatto, dialogare e reggere il confronto con ciò che sta "al di fuori" di essa. In questo senso la crisi della psicoanalisi non può che essere affrontata rinunciando all'arroccamento in difese che hanno fatto il loro tempo e accettando di mettere in discussione tutte quelle certezze che hanno sempre più il sapore della fede religiosa. Con la consapevolezza - per parafrasare quanto scriveva Anna Freud nel 1966 - che tutto ciò è altrettanto superato "quanto lo sarebbe il tenere gli uffici religiosi nelle catacombe perché sono il luogo dove erano costretti a riunirsi i primi cristiani" (1979, p. 970).

Se ciò non avvenisse dovremmo con sconforto prendere atto che anche per la comunità psicoanalitica vale ciò che scriveva Max Planck (1956) a proposito della fisica quando sosteneva che una nuova verità scientifica non si fa strada perché convince i suoi oppositori ma perché essi prima o poi muoiono.


Bibliografia

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Kohut H. (1972). Thoughts on narcissism and narcissistic rage. The Psychoanalytic Study of the Child, 27: 360-400 (trad.it.: Pensieri sul narcisismo e sulla rabbia narcisistica. In: Kohut H., La ricerca del Sé. Torino: Boringhieri, 1982, cap. 5, pp. 124-162).

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Wallerstein R.S. (1996). Psychoamalytic research: where do we disagree? International Psychoanalysis. The Newsletter of the International Psychoanalytical Association, 5 (1): 15-17.


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