PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Area Problemi di Psicoterapia (a cura di Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 2: 121-133, 3: 125-131, 4: 107-113; 2003, XXXVII, 1: 127-133, 2: 107-113

Prima parte

Un caso di vaginismo: il caso Anna
 
Piero Porcelli

Prima parte: Piero Porcelli, "Un caso di vaginismo: il caso Anna". Interventi di: Paolo Moderato & Francesco Rovetto; Paolo Migone; Chiaretta Busconi; Alessandra Mizzi & Marcella Vida; Enrico Landini

Seconda parte: Interventi di: Giovanni Liotti; Furio Lambruschi; Maria Pia Roggero Kluzer; Chiara Simonelli; Davide Déttore; Tullio Carere-Comes; Fabio Vanni; Piero Porcelli; Nella Guidi; Sergio Benvenuto


Nota: Viene qui pubblicato un interessante caso clinico pubblicato da Piero Porcelli nella rubrica "Casi clinici" del n. 2/2002, pp. 121-129, della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, dove si vede molto bene la differenza di impostazione tra un approccio psicodinamico e un approccio comportamentale, con tutte le relative problematiche teoriche e cliniche. Nel dibattito, che è continuato per più di un anno (cinque numeri della rivista), vi sono stati 14 interventi: i due interventi scritti da autori scelti appositamente dalla redazione per la loro diversa impostazione (rispettivamente di Moderato & Rovetto, ad impostazione cognitivo-comportamentale, e di Migone, ad impostazione psicoanalitica), e altri 12 interventi. Viene qui pubblicato alla fine anche un intervento di Sergio Benvenuto, più lungo, che non fu pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane ma fu fatto inizialmente circolare in una lista privata di discussione, quella della sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration (SEPI-Italia), e che poi appare, assieme allo stesso caso clinico e a vari interventi, in inglese nella rivista Journal of European Psychoanalysis, diretta dallo stesso Benvenuto. Ringraziamo gli autori e gli editori per il permesso di pubblicazione.  (Paolo Migone)

Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 2: 121-129

Piero Porcelli, "Un caso di vaginismo: il caso Anna"

Anna è una ragazza di 28 anni, sposata da qualche anno e senza figli. Viene inviata insieme al marito per consultazione al Servizio dall'ambulatorio del Reparto di Ostetricia e Ginecologia con diagnosi di vaginismo funzionale. Si era rivolta al ginecologo per la prima volta in vita sua per capire come mai non riusciva ad avere figli. Nel corso della visita ginecologica ha scoperto "di essere ancora quasi vergine": il ginecologo non è riuscito nell'esplorazione a causa dei fortissimi dolori che accusava non appena venivano scostate le labbra. Dopo alcuni esami, effettuati con enorme difficoltà, il ginecologo concludeva con una diagnosi di vaginismo primario di natura funzionale. Da quel giorno le è crollato il mondo addosso. E' molto confusa, angosciata per la frustrazione della mancata maternità e per la sensazione di profondo fallimento anche nei confronti dei familiari che premono insistentemente chiedendole "quando arriva il figlio", oltre che molto arrabbiata verso il marito da cui si sente delusa e tradita. Lei ha sempre creduto che loro avessero avuto normali rapporti sessuali mentre ora scopre, anche dopo la confessione che le ha fatto il marito, che lui non l'aveva mai penetrata, tranne una volta, la prima notte di nozze, ed in modo anche superficiale per gli intensi dolori della moglie.

I genitori di Anna, attorno ai 50, sono di estrazione contadina. Ha una sorella di poco più grande di lei che è sempre stata brava ed assennata, bravissima a scuola, sposata da qualche anno e anche lei senza figli, emigrata, continua a studiare all'università. La sorella rappresenta una sorta di ideale per Anna, colei che è riuscita a realizzare le comuni ambizioni adolescenziali verso cui Anna ha sempre  teso ma con un costante senso di arrancare. Di fronte alle limitazioni imposte dal padre autoritario e "di mentalità all'antica", entrambe si sono sempre date da fare. Ad esempio, il padre non voleva che andassero a scuola e loro lavoravano in campagna d'estate per comprarsi i libri. La sorella è diventata ribelle, tenace, combattiva. Lei invece ha stretto i denti, più accondiscendente, introversa, incapace di ribellarsi all'autorità paterna. Ancora oggi, la sorella non bada alle pressioni dei genitori per un figlio mentre lei si sente in colpa. Poi le loro strade si sono divise: Anna è adesso orgogliosa della sorella, del suo lavoro, della sua volontà di continuare a studiare. Lei ha messo nel cassetto il sogno di andare all'università e si adegua al lavoro stagionale in campagna o presso aziende di trasformazione alimentare. Il marito lo ha conosciuto nella prima adolescenza, primo e unico uomo della sua vita. Per scelta, non hanno avuto rapporti sessuali pre-matrimoniali ed è sempre stata lei a gestire il matrimonio, dalle scelte importanti alla vita quotidiana, in modo molto direttivo, convinta che il marito sia più immaturo di lei e quindi poco affidabile. Lavora dalle 7 di mattina a pomeriggio inoltrato, compresi i fine settimana spesso, a causa della deperibilità dei prodotti agricoli, e quindi è costretta ad alzarsi prima dell'alba e ad andare a letto tardissimo per sbrigare le faccende domestiche, dormendo non più di 4-5 ore per notte, oltre a coltivare in proprio un piccolo frutteto ed aiutare la madre nelle faccende di casa. E' in sostanza lei a vedere i problemi, ad affrontarli, ad aggredirli, a risolverli. Dice di essere "cresciuta da sola e precocemente": la madre ha iniziato a soffrire di un disturbo bipolare, non ha prestato molta attenzione ai figli dal punto di vista affettivo, lei è stata quella che in casa ha supplito le "mancanze" funzionali della madre, già dall'età di 5 anni.

Il marito è coetaneo di Anna, ed ha una storia molto simile alla sua. E' l'ultimo dei figli maschi, ha una madre tuttofare che ha contribuito ad alimentare lo stereotipo culturale del maschio a cui deve essere servito tutto in casa. I fratelli nel tempo hanno messo su piccole imprese artigianali come quelle del padre. Anche lui ha tentato la strada dell'autonomia dal padre ma gli è andata male. Anche le sue ambizioni, come quelle di Anna, sono naufragate ed oggi è costretto al lavoro dipendente come operaio. Si descrive come permaloso e introverso, facilmente irritabile e, di fatto, del tutto dipendente dalla moglie la quale, effettivamente, è la persona che affronta i problemi in casa. Anche per il problema attuale, è lei ad aver preso l'iniziativa e lo ha costretto a consultare prima un ginecologo e poi me. Anna è stata la sua prima e unica donna. Lui si è accorto subito del problema della moglie, fin dalla prima notte di nozze, ma non ha mai fatto nulla, neanche parlare con lei. Si è accontentato in questi anni di avere rapporti sessuali parziali: scarsi e rapidissimi preliminari, contatti genitali senza penetrazione per non far soffrire la moglie, eiaculazione precoce. La moglie credeva che i rapporti sessuali fossero questi e non s'è resa conto di nulla fino alla visita ginecologica. Non sa di preciso perché non le ha mai detto nulla, probabilmente per non creare altri problemi, per non farla soffrire, per evitare di essere ferito nell'orgoglio maschile. Nessuno dei loro familiari è a conoscenza dei problemi di Anna.

Dopo aver effettuato 5 colloqui preliminari (di cui due con la coppia – uno iniziale ed uno finale, uno con il marito e due con Anna), nel colloquio finale viene discussa con entrambi la possibilità di una psicoterapia. Il marito si dichiara subito indisponibile per motivi di tempo, dice, non potendo chiedere permessi continuamente sul lavoro. Anna invece è determinata a risolvere il problema e dice di poter organizzarsi con il lavoro senza problemi, recuperando le ore di permesso per la seduta, in tarda mattinata. Nel formulare il contratto terapeutico, chiarisco ad Anna che può usufruire di un'unica impegnativa del medico di base per 8 sedute settimanali di psicoterapia, con una spesa quindi minima. Per motivi organizzativi e di limiti logistici del Servizio, non è possibile effettuare terapie di lunga durata, per cui le psicoterapie hanno la durata fissa di 8 sedute corrispondenti al massimo prescrivibile in un'unica impegnativa della AUSL, che possono essere prolungate per non più di ulteriori 8 sedute di una seconda impegnativa. Prima di accettare, Anna mi chiede se penso di poter risolvere il suo problema. Mi mostro fiducioso ma Anna mi gela dicendomi che lei è scettica e che non capisce come faccio io ad essere ottimista, ma si dichiara pronta ad iniziare. Durante tutto il periodo della psicoterapia, il marito ha partecipato complessivamente a 5 sedute.

Prima fase di rapida evoluzione sintomatologica

Anna è una persona con un carattere molto forte, molto concreta, i cui comportamenti sono orientati verso la massimizzazione dell'efficacia. Ha una elevata stima di sé, è pienamente convinta di sapere le cose essenziali e di saper fare ciò che è più opportuno fare date le circostanze. Ha un elevato bisogno di successo e non tollera fallimenti, lamentele, recriminazioni, rimproveri. E' effettivamente molto capace e intelligente ed accentra fondamentalmente le decisioni. Anche sul lavoro, le colleghe si rivolgono tutte a lei per i loro problemi mentre lei non parla mai dei suoi con nessuno perché sa che solo lei può risolverli. Questa elevata efficienza delle funzioni di adattamento le serve inconsciamente sia ad incrementare l'autostima che a coltivare la fantasia di essere molto apprezzata dagli altri. Pertanto, per la natura del sintomo e soprattutto per favorire l'alleanza terapeutica, decido di adottare la classica tecnica comportamentale di desensibilizzazione sistematica attraverso l'esposizione graduale allo stimolo ansiogeno. Oltre alle prove di efficacia di questa tecnica nel vaginismo, mi sembra sia quella più corrispondente al bisogno di Anna di avere il controllo non solo del processo terapeutico ma anche dei suoi risultati, e quindi quella che ha più probabilità sia di garantire una buona alleanza di lavoro che di sostenere la sua motivazione.

Durante le prime sedute evidenzia tutte le sue resistenze: il problema è troppo grosso e non è superabile, è arrabbiata con il marito perché le ha nascosto tutto con il suo comportamento superficiale e immaturo, io prendo la situazione troppo alla leggera e non mi rendo conto della gravità, lei sa quali sono i suoi problemi e io non le insegno nulla di nuovo, non sa come fare per giustificare le due ore di permesso settimanali al datore di lavoro per venire in seduta. Io le propongo sostanzialmente di iniziare a lavorare e poi verificare le difficoltà man mano. Anna inizia a fare a casa gli esercizi di rilassamento ma incontra grossissime difficoltà, come era prevedibile. Si organizza in modo molto efficiente (riesce a ritagliarsi un po' di tempo a casa quando non c'è il marito, ha finito le varie faccende, può staccare il telefono, ha comprato un CD di musica new age per creare l'atmosfera) ma non riesce a rilassarsi. Ci mette circa 2 ore per rilassarsi mentalmente ma il corpo non risponde, è rigido. Appena si rilassa, però, e inizia a toccarsi, ha subito reazioni acute molto intense: senso di panico, paura, pianto, dolori pelvici fortissimi, dolori alle gambe che poi continuano per tutto il giorno successivo (tenendo conto che deve stare in piedi a lungo sul lavoro). Qualche giorno dopo la terza seduta, ricevo una telefonata allarmata del marito, spaventatissimo. Anna ha fatto da un'ora gli esercizi di rilassamento ma ha le gambe paralizzate, non le muove, non ha più sensibilità, mi chiede cosa è successo, se deve portarla al pronto soccorso. Parlo con lei al telefono per un po', la tranquillizzo, Anna si calma, inizia a star meglio. Mi dirà che, dopo l'episodio di conversione, ha avuto l'interno delle cosce dolorante per tutta la settimana.

Alla seduta successiva è molto depressa. Si sente male, non sa se continuare o meno con la terapia, non sta cambiando nulla, anzi le cose vanno anche peggio. Ma il punto è un altro. Anna si è resa conto che il problema è suo, che il problema è lei. Aveva sempre attribuito tutta la colpa al marito contro cui si era arrabbiata ma adesso si rende conto che non riesce ad avere rapporti sessuali perché non riesce a rilassarsi e non riesce a rilassarsi perché c'è qualcosa che non va dentro di lei. Ne è prova ciò che è successo: si era spaventata perché pensava che le stessi facendo del male e aveva ordinato al marito di telefonarmi sentendosi paralizzata, con le gambe dritte e rigide come stoccafissi. Poi si è angosciata perché parlando con me al telefono si è calmata, e quindi c'è un problema da qualche parte dentro di lei. Considero l'episodio (sia quello isterico che questo depressivo) un "test al terapeuta" secondo i concetti del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss e Sampson, una sfida al pathogenic belief secondo cui "se non sono brava, tu non mi vuoi più". Le dico allora che si è bocciata da sola ed adesso è scontenta di se stessa; però io so che lei è una persona in gamba e che sono certo che in qualche modo riusciremo a trovare il bandolo della matassa. E' una sorta di riassunto del mio atteggiamento generale nei suoi confronti: analizziamo i risultati che ottiene con gli esercizi di rilassamento ma nel contempo presto grande attenzione ai segnali attraverso cui Anna mi comunica in modo sottile che sta gradualmente mollando le resistenze ed inizia a fidarsi di me

Dopo questo episodio, la situazione clinica ha una rapidissima evoluzione. Anzitutto, alla seduta successiva, Anna arriva per la prima volta truccata, pettinata, ben vestita; insomma con un aspetto decisamente più femminile. Inoltre, gli esercizi stanno andando molto meglio. Ci mette sempre meno tempo a rilassarsi (dalle 2 ore dell'inizio agli attuali 20-30 minuti) ma ha difficoltà di ręverie: inizialmente non visualizza nulla, uno schermo nero vuoto; poi riesce a visualizzare una scenografia d'ambiente, distesa di mare, spiaggia, prato verde; infine riesce a visualizzare una persona (un attore che le piace molto o il marito) ma senza di lei, come se stesse guardando un film, senza entrare in scena. Inizia quindi a masturbarsi ma ad un certo punto deve bloccarsi mentre si sta eccitando perché deve correre in bagno a fare pipì.

Man mano che passa il tempo, i miglioramenti diventano sempre più importanti. Anna decide di dedicare a se stessa l'intero giorno in cui ha la seduta: si alza tardi, fa colazione con calma, va dal parrucchiere, fa gli esercizi con tranquillità. Parliamo molto in seduta di come sia stato sempre difficile per lei mettere il proprio piacere al primo posto nelle priorità, di come si sia dedicata a sé solo se e quando avanzava tempo. Adesso riesce a visualizzare direttamente le persone, senza i passaggi preliminari dello "schermo nero" e della "scenografia". Durante la masturbazione, riesce quasi ad arrivare all'orgasmo (che non ha mai provato) ma deve fermarsi subito prima perché avverte ansia intensa e tremori alle gambe, che restano doloranti per ore. Inizia anche ad inserire gradualmente prima uno e poi due dita in vagina, chiedendo anche al marito di farlo con le sue dita. Insieme, provano una penetrazione graduale (coito non esigenziale) che Anna può controllare poiché può bloccare i movimenti del marito quando decide lei. Per la prima volta, non prova dolore (ma neanche piacere) alla penetrazione. Ciò nonostante, l'atteggiamento generale di Anna resta molto duro nel rapporto. Mentre constata che ci sono dei progressi, continua anche a pensare che non va bene, che il problema non si risolverà mai, che non capisce come mai io la pensi in modo diverso, che nessuno la comprende né l'aiuta e le viene incontro, che il marito non collabora affatto (ad esempio, gli esercizi di penetrazione svaniscono per la sua eiaculazione precoce). Ad ogni seduta, si ripete questa specie di "gioco delle parti": lei distruttiva e pessimistica, io ottimisticamente sostengo i risultati raggiunti, confrontandoli con la situazione alla settimana precedente o all'inizio della terapia, rimarcando ogni volta la mia fiducia nelle sue capacità e nel suo impegno.

Seconda fase di stallo terapeutico

Durante un esercizio a casa, si è insolitamente e profondamente rilassata, la mente vagava senza direzione, le immagini si accavallavano. A un certo punto ha rivisto il viale di campagna della sua casa natale, lei si avvicina a un capanno adibito a deposito per attrezzi da lavoro e là ha rivisto delle ombre, e si è subito ridestata in preda al panico. E' sicura di aver già vissuto quella scena da piccola, ha rivisto nella scena particolari del luogo che aveva completamente dimenticato e che adesso non ci sono più, ha chiesto anche conferma ai genitori. Non ricorda cosa è accaduto o cosa ha visto in quel capanno quand'era bambina. Ricorda solo che era un pomeriggio d'estate, caldo torrido, gli adulti a fare la pennichella dopo pranzo e lei, forse con qualche cuginetto o con la sorella (ma la sorella oggi non ricorda affatto l'episodio), si avvicina al capanno. Qui si fermano i ricordi. Si è spaventata, si chiede cosa può essere successo. Sono perplesso anch'io. L'ipotesi di essersi spaventata perché ha scoperto qualcuno che stava consumando là un rapporto sessuale è plausibile. E' anche possibile però che possa essere la comunicazione transferale di sentirsi traumaticamente sedotta da me, dopo tutti i suoi resoconti dettagliati della masturbazione e dei tentativi di coito con il marito, facendomi sentire un voyeur che la spia nella sua camera da letto. O potrebbe essersi instaurata una relazione causale retrospettiva. Quel capanno le faceva paura da bambina, non sa se era rimasta chiusa dentro al buio, terrorizzata. E' pertanto possibile che Anna si sia spaventata del profondo e mai provato rilassamento (non dimentico che lei trova terribilmente ansiogeno lasciare il controllo delle situazioni, in generale) e che abbia associato inconsciamente questo spavento attuale a quello provato quand'era bambina, amalgamando insieme le immagini ed i ricordi. Non sono certo del significato da attribuire a questo episodio. Quest'immagine non si presenterà più nel corso del trattamento, e sono rimasto fino alla fine con il dubbio sulla sua interpretazione.

Poco tempo dopo, a circa 3 mesi dall'inizio della terapia, a metà del secondo ciclo di 8 sedute, l'evoluzione positiva del trattamento improvvisamente si blocca, ed anzi regredisce nettamente. L'occasione è fornita da un episodio acuto di eccitazione maniacale della madre, grave come non lo aveva avuto da almeno 15 anni. La madre viene ricoverata per 15 giorni in un SPDC e successivamente trattata in day hospital presso una casa di cura. Al solito, è lei che si offre spontaneamente per aiutare la famiglia a gestire la situazione: accudire la madre, lavarle la biancheria, lavare i vestiti del padre, preparare da mangiare, governare la casa dei genitori. Il tutto in aggiunta al lavoro sia fuori che dentro casa sua. E' stanca, preoccupata. Contemporaneamente il marito si ingelosisce del troppo tempo che Anna dedica alla sua famiglia di origine, sconvolgendo un po' i ritmi del loro abituale ménage. Litiga anche con la sorella che la accusa di voler fare la primadonna come sempre in casa, fungendo da mammina al padre che invece potrebbe vedersela benissimo per conto suo.

La situazione torna ai livelli iniziali. Anna fa distrattamente gli esercizi a casa, quando trova un po' di tempo, ma è con la mente altrove. Non si rilassa, anzi torna a sentire dolori vaginali, tornano i tremori alle gambe, non va oltre lo "schermo nero" durante le visualizzazioni. Una sera, durante una ennesima lite, il marito la prende di forza, le grida che si è stancato di aspettare, degli esercizi, di essere considerato un bambino deficiente da lei, e la penetra provocandole gli stessi dolori che provava quando ha iniziato la terapia. Nel corso delle sedute non collabora più. Non oppone resistenza deliberata, ma è profondamente demotivata: non protesta né mi accusa di qualcosa; semplicemente non funziona nulla, dice, è tutto perso, è tutto inutile; d'altronde lei lo sapeva già dall'inizio che non ci si poteva cavare nulla. Mi sento anch'io un po' come lei: ciò che stava funzionando non funziona più, ciò che pensavo di controllare nel processo terapeutico non è più controllabile. Anna è distratta da altre questioni, collabora pochissimo, lo stress ambientale è elevato. Tuttavia, alcuni segnali restano importanti. Ad esempio, Anna continua a venire in terapia anche quando non fa gli esercizi o ha avuto una settimana pesantissima ed è stata occupata da mille altre cose. Oppure inizia a farmi dei piccoli regali: primizie di frutta e verdura del suo orto raccolte da lei o anche del pane fatto in casa insieme alla madre dopo le dimissioni. Il punto importante mi sembra non tanto che mi faccia dei regali ma che mi porti delle cose coltivate o fatte da lei mentre lei non produce più nulla sul piano del miglioramento sintomatologico. Potrei interpretare questi regali come fenomeni transferali, ma non lo faccio con lei. Temo di sovrapporre il mio linguaggio al suo, di darle la sensazione che mi stia difendendo dal mio senso di impotenza come terapeuta più che di cogliere la sostanza della sua comunicazione del tutto non intenzionale. Decido di lasciare a lei un ampio margine di manovra all'interno del rapporto e quindi anche di farmi controllare attraverso un suo codice di comunicazione.

Accetto pertanto i suoi regali e rinnovo continuamente la fiducia sui progressi fatti fino ad allora e attualmente bloccati. In un certo senso, voglio comunicarle che non do' per perso nulla, che restiamo insieme a fronteggiare questa situazione senza dubbio molto critica. Ma allo stesso tempo voglio recuperare le sue capacità produttive di controllo degli eventi, costringerla a lavorare con le funzioni dell'Io su un piano più adattivo, dividere le responsabilità del processo e dei suoi esiti ognuno per la propria parte. Poiché siamo alla fine del secondo ciclo di sedute prescrivibili, in modo fermo e risoluto le ricordo i termini del contratto terapeutico iniziale (2 cicli di 8 sedute) e le comunico che mi sono organizzato per prolungare eccezionalmente la terapia di un terzo ciclo di 8 sedute. Il che significa che abbiamo altri due mesi circa per risolvere la situazione: o dentro o fuori. Non abbandono lei (per altri due mesi) né la terapia (cioè non mi rassegno al fallimento) ma pongo realistici limiti di tempo all'interno del quale ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità. Vedo la sua espressione molto colpita dalle mie parole: non replica, annuisce ma vedo nettamente tutto il suo disorientamento.

Terza fase di risoluzione della terapia

Alla seduta successiva, si presenta con un umore torvo, con uno strano cappello ed occhiali neri che non toglie. Mi accusa di averla abbandonata, di essere stato scorretto con lei, di averla illusa di poter risolvere il suo problema, di essere un bugiardo, minaccia di denunciarmi alla direzione sanitaria. Ha fatto lite con il marito, ma stavolta definitivamente: è andata via di casa, è andata a vivere con un uomo molto più grande, vedovo, molto ricco, che la corteggiava da tempo e lei non l'ha mai detto a nessuno. Non si toglie gli occhiali perché ha gli occhi gonfi di pianto ed un occhio pesto per le botte ricevute dal marito. Non verrà più in terapia ma deve dirmi che le ho fatto del male con il mio comportamento e soprattutto vuol sapere perché le ho detto che la abbandono.

Resto sinceramente allibito dal suo tono e dalla situazione creatasi. Mi chiedo se ho sbagliato tutto clamorosamente ma non riesco a trovare errori clamorosi in ciò che ho detto o fatto. Le chiedo scusa se le ho dato l'impressione di volerla abbandonare e se sono stato poco chiaro sui termini del contratto. Le dico che mi spiace molto e che è vero che sono stato duro ma è stato proprio perché credo in lei che ho dovuto agire in una situazione di stallo della terapia. Di colpo, cambia espressione, toglie gli occhiali e sorride. Mi dice che è uno scherzo, una messinscena per capire se il mio era un atteggiamento provocatorio per scrollarla dal blocco degli ultimi mesi o se realmente volevo mollarla. Dopo la seduta scorsa, è stata male per giorni, rimuginando sul motivo del mio atteggiamento così duro e risoluto, ed ha anche pensato di smettere il trattamento. Ha riflettuto che stava mettendo alla prova la fiducia nei miei confronti e che questa poteva anche essere la ragione per cui non riesce a rilassarsi con il marito: lui non le dà fiducia, è un bambino, non lo sente come un uomo che la protegge e le dà sicurezza. Improvvisamente si è sentita sollevata: questo pensiero nei confronti del marito non la disturbava, non le ha fatto più paura. Si è sentita leggera, allegra, tutto è sembrato così semplice. Qualche ora dopo, in campagna con suo marito per alcuni piccoli lavori di potatura, ha sentito una fortissima e mai provata attrazione fisica per lui, gli è andata vicino, gli ha chiesto di abbracciarla, di tenerla. Si sono lasciati andare reciprocamente, hanno fatto l'amore con penetrazione quasi completa sull'erba, senza preoccuparsi se li stava osservando qualcuno. Adesso è ovviamente pronta ad andare avanti con la terapia, felice del risultato ottenuto.

Ho ripensato molto a questa seduta, successivamente. Non mi era mai successo che un paziente recitasse in seduta in questo modo allo scopo di verificare un suo dubbio su di me. Non so bene come inquadrare il comportamento di Anna: lei non era in malafede e il suo comportamento non lo si può definire né come scena isterica né come acting-in perché è stato progettato accuratamente, è completamente consapevole, non aveva nulla di "pulsionale". E soprattutto la messinscena è stata consequenziale ad uno slancio emotivo di intimità con il marito che, a sua volta, è stato consequenziale ad una consapevolezza profonda di sé molto vicina a ciò che si definisce insight. Credo che la motivazione di base del comportamento di Anna sia stato finalizzato ad un ulteriore, macroscopico "test al terapeuta" per verificare definitivamente se poteva fidarsi della fiducia nei miei confronti nonostante lei mostrasse esattamente il contrario di ciò che ci si aspetta da una persona in gamba ed efficiente. E' stata quindi la drammatizzazione scenica di un test effettuato separatamente, in solitudine, grazie al quale Anna ha potuto accettare il marito e lasciarsi andare a sentimenti di tenerezza nei suoi confronti. 

Dopo questa seduta, la sintomatologia dolorosa è progressivamente migliorata in modo significativo. Gli esercizi le hanno consentito di poter avere rapporti sessuali normali, con un lieve dolore sopportabile solo durante la penetrazione più profonda. In seduta, Anna riflette a lungo sul rapporto con il marito, su se stessa, sul suo passato. Dice che adesso è pienamente consapevole che il sintomo sessuale è stato solo l'aspetto più evidente di qualcosa di più importante che ha dentro, che ha altri problemi psicologici più seri e che vorrebbe affrontarli adeguatamente quanto riuscirà a trovare il sostegno economico per una psicoterapia più lunga e più approfondita. La questione non è urgente e quindi non si pone un problema nell'immediato. Ma sa che dovrà affrontare questi problemi quando si sentirà pronta. Anche il rapporto con il marito sta cambiando. Dedicano più tempo a loro, fanno passeggiate romantiche sul mare la sera, lei è diventata tenera nel fargli le coccole. Però è il marito adesso che si inibisce alle avances della moglie, diventa impacciato, ha vergogna. Anna riflette su tutte le occasioni in cui lui si è mostrato bloccato: ad esempio, la decisione di non fare il viaggio di nozze negli Stati Uniti come lei voleva perché lui aveva paura di andare in un grande paese straniero da soli, senza neanche conoscere la lingua. Lei però adesso è più attenta a ciò che vuole, a ciò che più conta, al tempo da dedicare a sé e meno al lavoro, alla madre, agli altri. Non prova più rabbia verso il marito, è solo amareggiata di aver impostato un rapporto in cui gli fa da mamma tuttofare (una per tutte: è lei che sceglie i suoi vestiti) mentre lui continua a fare il bambino capriccioso ed esigente, proprio com'è il rapporto fra lui e sua madre.

Nelle sedute finali, a cui partecipa anche il marito (così com'è avvenuto anche in precedenza, in alcuni periodi, con il consenso di entrambi), cerco di essere il più chiaro possibile nello scindere il problema rispetto all'inizio della terapia. Tecnicamente, il sintomo è risolto: hanno rapporti sessuali normali per cui possono provare, se vogliono, a concepire un figlio. Questo aspetto è diventato completamente diverso da altri di fondo: la personalità di Anna e la difficoltà del marito a diventare autonomo dal bisogno di sentire una guida esterna di garanzia alle spalle. La qualità del loro rapporto di coppia dipenderà ora da come continueranno a crescere, ciascuno per i propri problemi ed insieme come coppia o futura famiglia a tre. La consapevolezza è che il vaginismo non rappresenta più un ostacolo che consentiva loro di evitare di affrontare i propri problemi di intimità.

All'ultima seduta, Anna, dopo avermi ringraziato con il marito, mi consegna una lettera che poi troverò molto bella e commovente. A circa un anno dalla fine del trattamento, la situazione resta molto positiva per Anna, la quale mi telefona di tanto in tanto. Il sintomo dolorifico è scomparso del tutto, lei si sente benissimo, sta vivendo esperienze positive e piacevoli. Anche i rapporti con il marito sono abbastanza migliorati. Non riesce a restare incinta, nonostante i ripetuti tentativi. Ma questo non le importa molto: sono una coppia normale che ha problemi ad avere figli, come ce ne sono tante.

Continuo a chiedermi che tipo di psicoterapia è stata fatta con Anna, il che costituisce anche la ragione che mi ha spinto a pubblicare questo caso. La mia formazione è di tipo analitico ma le tecniche usate in questo caso sono molto più vicine ad una terapia cognitivo-comportamentale. Se la psicoanalisi viene identificata con la tecnica usata, certamente non è stata una terapia ti tipo psicodinamico. Non sono però certo che la questione sia correttamente impostata in questo modo. Se la psicoanalisi viene intesa non come insieme di tecniche ma come analisi dei significati all'interno del rapporto terapeutico, allora credo che questa sia stata una psicoterapia analitica. Sono quindi grato ad Anna per avermi fatto riflettere sulla mia identità professionale di psicoterapeuta.

Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 2: 129-131

Intervento di Paolo Moderato* e Francesco Rovetto**
* Professore di Psicologia Generale, Università di Parma, Presidente dell'Associazione di Analisi e Terapia Cognitivo-Comportamentale (AIAMC), Past President dell'European Association of Behaviour and Cognitive Therapies, Borgo Carissimi 10, 43100 Parma, Tel. 0521-034811, E-Mail <moderato@unipr.it>
** Professore di Psicologia Clinica, Università di Parma, Borgo Carissimi 10, 43100 Parma, Tel. 0521-034811, E-Mail <rovetto@unipr.it>

Vi sono due piani su cui può essere valutato il caso. Uno specifico e uno più generale sulle conseguenze epistemologiche prodotte dall'uso di diverse terapie. Proveremo a toccarli brevemente entrambi. 

In primo luogo ci ha colpito la motivazione della scelta della tecnica di desensibilizzazione sistematica motivata "soprattutto per favorire l'alleanza terapeutica". Ci sfugge la relazione. In ambito cognitivo-comportamentale il problema dell'alleanza terapeutica e dell'adesione alle prescrizioni è molto sentito ma la scelta di questa tecnica non ci sembra critica rispetto all'obiettivo, non in questo caso almeno, in cui non c'è alcun cenno a una fase di "attribution", cioè all'ipotesi esplicativa sulla genesi storica del problema di cui, visto il seguito del caso, ci sembra si senta la mancanza.

Si osservi poi questo passaggio del resoconto: "Anna ha fatto da un'ora gli esercizi di rilassamento ma ha le gambe paralizzate (…). Ma il punto è un altro. Anna si è resa conto che il problema è suo, che il problema è lei. Aveva sempre attribuito tutta la colpa al marito contro cui si era arrabbiata ma adesso si rende conto che non riesce ad avere rapporti sessuali perché non riesce a rilassarsi e non riesce a rilassarsi perché c'è qualcosa che non va dentro di lei." Qui si possono fare due osservazioni. La prima riguarda la metodica del rilassamento: in molti casi si riscontra una grande difficoltà ad insegnarlo (di questo non v'è cenno) e a raggiungerlo, con effetti paradossali come quelli descritti. La spiegazione, forse non cercata adeguatamente, ma in ogni caso trovata, può essere proprio la seguente: "E' pertanto possibile che Anna si sia spaventata del profondo e mai provato rilassamento (non dimentico che lei trova terribilmente ansiogeno lasciare il controllo delle situazioni, in generale)". Le persone che hanno paura di "perdere il controllo" (e l'analisi familiare è corretta anche se forse insufficiente) hanno nel rilassamento risposte opposte e paradossali: sono disponibili comunque delle contromisure (ad esempio la scelta di un training di rilassamento rispetto a un altro, l'utilizzo o meno di un certo tipo di immagini e così via).

La seconda osservazione riguarda la scelta dell'unità di analisi. La terapia cognitivo-comportamentale, mutuandola dalla terapia di coppia alla Master e Johnson, per intenderci, che nonostante il tempo rimane un punto di riferimento almeno come paradigma, considera come unità di analisi per l'intervento terapeutico non la persona ma la coppia. Qualunque disturbo del comportamento sessuale, per definizione, presuppone l'intervento sulla coppia non sul singolo: la patologia è nella coppia non nel singolo, si tratti di eiaculazione precoce o di vaginismo. E guarda caso abbiamo proprio un eiaculatore precoce (vittima o carnefice o entrambi?) come controparte psicologica del nostro soggetto ("gli esercizi di penetrazione svaniscono per la sua eiaculazione precoce").

Difficile dire qualcosa sull'impiego della tecnica: non vi è alcun accenno alle modalità di assessment di situazioni specifiche di disagio, né alle modalità di costruzione della gerarchia, né alle modalità di presentazione della stessa. In assenza di dettagli diamo per scontato la padronanza completa e corretta della tecnica anche se il terapeuta appartiene a un orientamento diverso.

Infine alcune considerazioni generali. Da quanto abbiamo cercato brevemente di mettere in luce, molta acqua è passata sotto i ponti dalle prime formulazioni di terapia comportamentale alle moderne posizioni. La nascita di ogni nuovo paradigma presuppone la rottura traumatica da quelli precedenti: Questo vale per Freud, per Eysenck e Wolpe, per Picasso, per Galilei, per Schoenberg. E gli esempi sono innumerevoli. La prima fase del nuovo paradigma si caratterizza per la contrapposizione totale al vecchio: vedi Watson nei confronti dell'introspezionismo o Freud nei confronti della psichiatria descrittiva, o le campagne elettorali dei nostri partiti che prima estremizzano certi programmi e poi li addolciscono dopo che hanno vinto le elezioni. La fase successiva è quella della realtà operazionale, dove le affermazioni ideologiche-partitiche si attenuano, le distanze si assottigliano. Ora le distanze tra quelle che Eysenck chiamava nel 1965 le terapie psicodinamiche e la nouvelle terapia comportamentale degli anni sessanta si sono molto ridotte (per brevità, vedi: Moderato P., A behavior analyst in the land of behavior therapy, or the evolution of behavior science. In E. Sanavio, editor, Behavior and Cognitive Therapy Today. Oxford: Pergamon, 1998; Moderato P. & Ziino M.L., Dall'essere al divenire ovvero l'evoluzione del paradigma comportamentista. In P. Di Blasio, a cura di, Contesti interattivi e modelli di sviluppo. Milano: Cortina, 1995).

Ciò che rimane di diverso sono le diverse visioni del mondo sottostanti a ogni terapia: le differenze sono sul piano metateorico più che sul piano della tecnica. Le prime sono inconciliabili, le seconde molto meno. Pochi analisti di buon senso ed adeguata preparazione prenderebbero in cura pazienti schizofrenici deliranti senza una concomitante terapia farmacologica o negherebbero l'utilità dei sali di Litio per un bipolare grave, e tutto ciò mantenendo una loro coerenza teorica e metodologica. D'altra parte, nella Appendice del DSM-IV si fa riferimento ai meccanismi di difesa del paziente come un ulteriore asse diagnostico capace di completare i cinque assi ufficiali. I meccanismi di difesa sono stati descritti ed ampiamente usati da terapeuti di indirizzo dinamico, ma senza troppe violenze possono essere descritti in chiave accettabile anche a terapeuti cognitivo-comportamentali, come avviane nel DSM-IV.

La psicoanalisi, soprattutto negli ultimi anni, non ha tanto sottolineato la sua efficacia come terapia, ma ha sostenuto con forza il suo valore e quindi anche la sua utilità in un processo di analisi delle proprie dinamiche interiori. Nel caso della coppia con vaginismo, esisteva una patologia su cui la terapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata ben efficace. Esistevano vincoli terapeutici ben definiti (8, massimo 16 sedute) che imponevano un approccio efficiente ed efficace ed esistevano forti esigenze di comprendere le proprie dinamiche personali e relazionali. Molto appropriatamente, a nostro avviso, lo psicoanalista ha usato le sole tecniche che potevano produrre risultati in un periodo terapeutico tanto breve. Come sempre accade applicando strategie efficaci (siano esse cognitivo-comportamentali, psicoanalitiche o quant'altro), si rompono i circoli viziosi che mantengono nel tempo la patologia. Il paziente impara a vedere se stesso, il suo mondo e il suo futuro con occhi diversi. Un terapeuta cognitivo-comportamentale, o ad indirizzo psicodinamico, ben sa che la terapia non si conclude con la remissione del sintomo ma che occorre aiutare il paziente a comprendere cosa e come possa essere la sua vita senza la difesa operata dalla malattia e come gestire eventuali ricadute. Tutto ciò si chiama ristrutturazione cognitiva e relapse prevention, cioè prevenzione delle ricadute. Le fasi di stallo e di apparente ricaduta in questo caso hanno infatti dato modo al terapeuta di procedere con l'ultima, decisiva, fase della terapia.

Probabilmente molte altre cose dovrebbero essere fatte, sia leggendo il caso in chiave analitica, sia leggendolo in chiave cognitivo-comportamentale. Tuttavia, la condizione diversa vissuta dai due coniugi e la modificazione dei rapporti tra la paziente e la sua famiglia di origine potrebbero già avere attivato un circolo virtuoso che potrà favorire la comparsa della gravidanza e un'ulteriore autonomia. In fondo il mondo si è evoluto in migliaia di anni senza psicologi, psicoanalisti, psichiatri, psicofarmaci e psicoterapie formalizzate. Spesso la via della semplicità è quella vincente. I progressi già notevoli della situazione della paziente potranno poi essere completati in seguito, e forse, per questo, non sarà indispensabile una psicoterapia formalmente condotta.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 2: 131-133

Intervento di Paolo Migone
Via Palestro 14, 43100 Parma, Tel./Fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

Questo resoconto clinico ci permette di formulare delle ipotesi precise sulle dinamiche psicologiche che con buona probabilità sono responsabili del netto miglioramento avvenuto. Dati i limiti di spazio, commenterò solo alcune delle dinamiche tra quelle che a me sembrano più significative; infine accennerò alla questione che il terapeuta pone nell'ultimo paragrafo riguardo alla identità della terapia qui praticata.

La paziente dice di essere "cresciuta da sola e precocemente", e viene descritta come una persona efficiente, una grande lavoratrice, "molto forte, molto concreta… capace e intelligente… accentra fondamentalmente le decisioni… è in sostanza lei a vedere i problemi, ad affrontarli, ad aggredirli, a risolverli", e così via. Si può insomma ipotizzare il caso di una "parentified child", come si sul dire, cioè una donna "che in casa ha supplito le 'mancanze' funzionali della madre già dall'età di 5 anni" (la madre inoltre ha disturbi psichici), e quindi ad assumere ruoli forti e di controllo perché per determinate esperienze di vita la debolezza e la passività erano associate a situazioni di pericolo. E' questa donna che poi presenta il sintomo del vaginismo, una difficoltà appunto a "lasciarsi andare" con il marito, non a caso un uomo dipendente, immaturo, che lei accudisce come un figlio.

Ebbene, è proprio su questo sfondo che avviene la prima interessante mossa del terapeuta, quella di prescrivere a questa donna una tecnica comportamentistica di desensibilizzazione, basata su esercizi, sforzi e lavoro quotidiano allo scopo di abbattere il sintomo. A una donna "i cui comportamenti sono orientati verso la massimizzazione dell'efficacia" viene prescritta una tecnica basata sulle "prove di efficacia" (corsivi miei), cioè sulla Evidence Based Medicine, una tecnica seria, non le solite chiacchiere dello psicoanalista. A prima vista questa potrebbe sembrare una mossa controterapeutica, in quanto il modello offerto dal terapeuta è simile al pattern transferale, e quindi potrebbe rinforzarlo. Offrire invece subito alla paziente un modello opposto, cioè non prescriverle alcun compito ma invitarla a "lasciarsi andare", mostrale nei fatti come sia possibile vivere una esperienza alternativa a quella a cui è abituata (ad esempio invitandola ad osservare la regola aurea della psicoanalisi, le associazioni libere), potrebbe in se stesso essere un intervento terapeutico che spiazza la paziente. Ma il terapeuta, per farla sentire più a suo agio, ha voluto avvicinare questa paziente appositamente con le armi che lei conosce bene. Non nasconde di aver agito in questo modo ad arte, per avere "più probabilità sia di garantire una buona alleanza di lavoro che di sostenere la sua motivazione". La sua è stata una tecnica seduttiva, si potrebbe dire, nel senso che empaticamente ha risposto nel modo migliore ai suoi bisogni, ben sapendo che al momento era questo che dava maggiori garanzie di agganciarla, e dopo essere entrato nel suo mondo avrebbe potuto dolcemente condurla fuori da esso. Un altro modo di descrivere questa mossa, e volendo usare una metafora a volte usata dai sistemici, il terapeuta ha usato la tecnica del judo, che utilizza la forza dell'altro, la sua spinta, per farlo cadere, per trascinarlo dove vogliamo noi. Ritengo che questa sia stata una tattica intelligente e sofisticata. Ma non si può escludere che sarebbe stato possibile ottenere gli stessi risultati semplicemente rassicurando la paziente (che non a caso diffidava della utilità di una cura basata sulle parole) e invitandola a muoversi in seduta proprio all'opposto di come si muoveva nella vita, cioè eliminando obiettivi da raggiungere, sforzi, e lavoro. Prescriverle in modo per certi versi paradossale questi nuovi obiettivi (tale paradossalità è infatti implicita nella tecnica delle associazioni libere), assegnarle questo nuovo "compito" che doveva eseguire così bene come solo lei sapeva fare, potrebbe essere vista essa stessa come una tecnica "comportamentale". Chi non ha occhi ingenui sa benissimo che una terapia può funzionare anche in questo modo, come peraltro Eysenck sottolineava, a ragione, nella sua lettura behavioristica della psicoanalisi (vedi Psicoter. sci. um., 4/1993, p. 118).

Dopo questo inizio la terapia procede bene, con un paio di crisi regressive (una delle quali caratterizzata anche da un episodio di conversione "isterica"), crisi che sono la norma nelle psicoterapie e che qui dal terapeuta vengono lette alla luce della control-mastery theory del San Francisco Psychotherapy Research Group di Weiss & Sampson (vedi l'articolo di Weiss e il saggio-recensione su Psicoter. sci. um., 2/1993). In una psicoterapia le crisi e i temporanei peggioramenti non sono quasi mai un segno negativo, anzi, sono la prova che il paziente, come si suol dire, si muove. Il pericolo maggiore è che stia fermo nella fissità della sua patologia. E' al processo che si guarda, e gli alti e bassi sono tipici di tanti processi di miglioramento. Tra l'altro, è proprio dopo la prima di queste crisi, quella dopo il superamento di un "test" transferale, che la paziente fa il primo significativo passo avanti. Ma non è possibile qui commentare i tanti passaggi di questo interessante caso clinico (come ad esempio il riaffiorare di un ricordo infantile - altro segno indiretto di un miglioramento del funzionamento globale dell'apparato difensivo), per cui passo a discutere il quesito posto nell'ultimo paragrafo.

La domanda che viene posta è la seguente: dato che è stata usata a tutti gli effetti una tecnica "comportamentale" (quella per il vaginismo), come si fa a dire che questa è una terapia psicoanalitica? Questa domanda viene ritenuta dal terapeuta così importante che è stata quella che lo "ha spinto a pubblicare questo caso". Non si può non rimanere meravigliati e non pensare che sia una domanda provocatoria, considerata la sofisticazione di questo terapeuta che emerge chiaramente dal suo resoconto. Ritengo che la domanda alluda alla sfortunata tradizione di classificare le psicoterapie secondo il loro aspetto descrittivo, come se fosse possibile trattare la psicoterapia così come il DSM-III (e successive edizioni) ha trattato la psichiatria. Se questa operazione è di per sé problematica per la psichiatria, figuriamoci per la psicoterapia. Eppure non cessiamo di stupirci (ed ecco perché secondo me con falsa ingenuità viene posta la domanda) del fatto che spesso l'istituzione psicoanalitica non sia riuscita a fare di meglio che impostare il problema in questo modo, arenandosi in secche concettuali. Tra i tanti esempi, si vedano i vani sforzi di un Wallerstein di differenziare psicoanalisi da psicoterapia (ad esempio ai due congressi di Roma dell'International Psychoanalytic Association [IPA] del 1969 e 1989), o un Sandler (allora anche lui presidente dell'IPA) quando disse che spesso si risolve il problema definendo, tautologicamente, psicoanalisi la terapia praticata dagli psicoanalisti, e, circolar­mente, psicoanalisti coloro che praticano la psicoanalisi (e, potremmo aggiungere, comportamentismo quello praticato dai comportamentisti e così via all'infinito in un gioco di specchi - anzi, mi correggo, vi è un punto fermo: la appartenenza istituzionale, poco importa se nessuno si accorge che ciò implica la perdita dello statuto scientifico della disciplina). Ma si pensi anche a un Luborsky, che col suo manuale del 1984 (Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Torino: Bollati Boringhieri, 1989) ha tentato, per così dire, di emulare Spitzer nel costruire una sorta di DSM-III della psicoanalisi arrivando a contraddizioni interne - cosa di cui si è ben reso conto quando ha dovuto ammettere che la stessa suddivisione (che regge tutto l'impianto del manuale) tra tecniche "supportive" ed "espressive" non era possibile sulla base del solo criterio descrittivo (dato che, ad esempio, la interpretazione, intervento espressivo par excellence, rinforza l'Io e quindi è supportiva; vedi Psicoter. sci. um., 2/1990, p. 128). E si pensi ancora alla recente proposta di un Kernberg (Int. J. Psychoanal., 6/1999), quando era anche lui presidente dell'IPA, di "una concezione integrata di tre modalità terapeutiche psicoanalitiche": "psicoanalisi standard", "psicoterapia psicoanalitica", e "psicoterapia supportiva psicoanaliticamente fondata (psychoanalytically based)". Pare che le esigenze istituzionali facciano dimenticare persino le implicazioni della Psicologia dell'Io che assegnava, già ben più mezzo secolo fa, un preciso ruolo al lavoro sulle difese. Ad esempio, se si è supportivi quando un paziente può permettersi un atteggiamento espressivo, si fa una terapia supportiva o una cattiva psicoanalisi? (per brevità, rimando al dibattito su quel lavoro di Kernberg sull'Int. J. Psychoanal., 2/2000, che è anche al sito Internet http://ijpa.org/archives1.htm, e al cap. 4 del mio libro Terapia psicoanalitica dove presento la proposta di Gill che a mio parere risolve coerentemente questa annosa questione classificatoria, non a caso utilizzando criteri non descrittivi ma intrinseci, cioè legati alla teoria).

Fatte queste considerazioni che possono servire a inquadrare il problema della identità di una tecnica, rispondo alla domanda sul tipo di terapia qui praticata: ritengo che sia psicoanalitica (o comunque psicodinamica in senso lato), in quanto l'intervento sul vaginismo non mirava banalmente alla dilatazione meccanica di un organo, ma era anche attento all'impatto di quell'intervento sulla relazione. Anzi, l'intervento comportamentale è stato usato intenzionalmente anche per agire ad altri livelli (ad esempio per "garantire una buona alleanza di lavoro"), quindi nell'ipotesi teorica, giusta o sbagliata che sia, che l'eliminazione del sintomo potesse essere raggiunta ugualmente, o forse meglio, intervenendo a monte su determinate variabili di personalità (il "lasciarsi andare"), ipotesi questa di tipo dinamico che non è necessariamente prevista da un approccio comportamentale in senso stretto.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 3: 125-127

Intervento di Chiaretta Busconi 
Viale Madonna del Piano 22, 29018 Lugagnano PC

E' sempre molto arduo per me commentare casi clinici, percorsi che hanno coinvolto pazienti e terapeuti, intrecci umani, modalità relazionali, senza provare almeno in parte, la sensazione di "profanazione", di intrusione in un'intimità arcana e segreta. Per questo mi accingo ad entrare, spero con sufficiente delicatezza, in alcuni anfratti della mente di Anna, facendomi guidare dalle mani esperte e sicure del suo terapeuta che, con coraggio e spirito di avventura, non si è lasciato scoraggiare dalle costrizioni di un setting particolarmente svantaggioso per le limitazioni temporali, le resistenze inizialmente fortissime verso la mentalizzazione del problema e le circostanze socio-ambientali sfavorevoli.

Ritengo questo caso di notevole interesse per due aspetti: uno puramente clinico, tanto da risuonarmi come il sesto caso degli "Studi sull'isteria" di Freud, l'altro metodologico relativo alla tecnica terapeutica adottata: cognitivo–comportamentale, come esecutività, ma psicodinamico in quanto a chiave di lettura della relazione terapeutica e all'assetto mentale del terapeuta. In considerazione dei risultati ottenuti, mi sembra che l'utilizzo di quella tecnica abbia favorito la gradualità della presa di coscienza della componente psichica del problema da parte della paziente, oltre ad accelerare la remissione della sintomatologia da conversione (il vaginismo), ma il background psicoanalitico del terapeuta ha rappresentato, a mio parere, il tessuto sul quale si è confermato tale risultato. Certamente l'aspetto che più mi ha colpita e nel contempo affascinata è l'insorgenza di una conversione in itinere, in corso di trattamento; questa mi è risuonata come reazione transferale di tipo isterico: il terapeuta–padre desiderato sessualmente e rifiutato, ammirato ed invidiato, rispettato e sbeffeggiato, temuto e sfidato sembrano i poli del conflitto isterico di Anna, precocemente instauratosi e riportato ora nel transfert.

L'autorizzazione che il padre–terapeuta offre ad Anna a riavviare la conquista della propria sessualità, bloccata forse sul nascere nell'era della comparsa dell'Edipo, rimette in moto un processo che si era evoluto nel quadro isterico, con il quale Anna si era presentata alla consultazione. Aspetti fallici ormai integrati nel carattere, quali l'intraprendenza, l'operosità, l'attività sono probabilmente copertura di una tale angoscia di castrazione ed invidia del pene da negare l'esistenza del taglio, della fessura, dell'orifizio vaginale simbolo di assenza del pene (e non presenza celata di un mondo tutto da esplorare).

Il vaginismo potrebbe rivelarsi come l'estrema difesa-barriera verso l'accettazione di una femminilità che può essere intesa, in questo contesto, solo come castrazione. Fare l'amore, dunque, con un marito debole, vinto, a sua volta "castrato", significa non essere posseduta, non identificarsi con la madre edipica creatrice, non essere penetrata e dunque coesistere, rispecchiandosi, con un alter ego dotato di un pene poco potente, poco eccitante, sterile: esattamente come quello che Anna, bambina in fase fallica, aveva fantasticato di possedere e la cui fantasia non ha mai abbandonato. Il grande male che la penetrazione le procura è il male emotivo, convertito, che la ferita ancora sanguinante della castrazione le procura.

Secondo Freud nella Conversione l'affetto passa dallo psichico al fisico, senza che nella mente ne rimanga traccia. L'affetto, incapsulato nel soma, mantiene così la mente sgombra da sofferenza penosa. "Una volta comparsi, sia la traccia mnestica che l'affetto che aderisce alla rappresentazione non possono più venire cancellati. Questo compito può tuttavia essere approssimativamente assolto quando si riesca a rendere debole, da forte che era, la somma di eccitamento di cui essa è gravata…" (Inibizione Sintomo Angoscia, 1925). Attraverso la conversione "la somma dell'eccitamento (l'affetto) viene trasformato in qualcosa di somatico… La conversione si realizza a carico di quella innervazione motoria o sensoria che risulta più o meno strettamente connessa con l'esperienza traumatica…". Così sintomi somatici che ne conseguono "hanno un collegamento fin dalla loro origine con traumi dei quali divengono simboli, nell'attività della memoria" (Studi sull'Isteria, 1895). Così anche per Anna, il vaginismo è simbolo di una ferita lacerante lasciata dalla perdita del pene nella fase fallica.

Mi sono chiesta quanto la breve storia di questo incontro terapeutico abbia ripercorso geneticamente la storia della bambina Anna. Mi è piaciuto raccontarmela, seguendo un filo freudiano, così: Anna è secondogenita, ha prima di lei una sorella energica, ribelle, che Anna vive con ambivalenza: l'apprezza e l'invidia. La mamma, per la sua malattia ciclotimica, è imprevedibile, incoerente, non ha mai rappresentato probabilmente un ancoraggio simbiotico sicuro, un faro d'orientamento emotivo. La fase fallica può quindi essere particolarmente appesantita da ricerca di autonomia e da attività autoerotica prolungata. La scoperta della "castrazione" è per Anna traumatica, si rivolge al padre non per accettare la sua "ferita", ma per prendergli, strappargli il suo pene. Diventa attiva, forte, il perno della famiglia, si sostituisce a lui. In adolescenza la recrudescenza di pulsioni pregenitali ed edipiche è talmente forte che Anna si aggrappa per "identificazione" al primo uomo fragile e collusivo che incontra e, grazie ad una modalità narcisistica, se ne invaghisce e lo sposa. Il prezzo, attraverso la rimozione e la conversione, è la sepoltura della sessualità, della libido erotica, della femminilità. Il corso degli eventi la mette in contrasto con le aspettative sociali della maternità, evoluzione sana della femminilità. Il meccanismo del vaginismo non regge più sotto l'incalzare della richiesta esterna, la conversione si estende quindi anche sulle gambe paralizzate e sul male interno alle cosce, come un ultimo estremo tentativo di un fallo forte, ancoraggio isterico al passato. è molto interessante notare come il passaggio dell'emozione nella mente ("c'è qualcosa che non va dentro di me") veicoli la rimozione e dia il via, nel contempo, alla possibilità di un riassetto generale del mondo rappresentativo di Anna.

Mi sembra che l'attitudine psicoanalitica del terapeuta, la lettura intrapsichica dei conflitti, silenziosa ma empatica, abbiano offerto ad Anna la chiave per aprire, se lo vorrà o se potrà, la porta verso il lungo percorso dell'appropriazione della piena sessualità femminile, che parte non da una ferita sanguinante, non da una mancanza, ma da una fessura, da un'angusta apertura che conduce verso un mondo di veli, di sfumature, di sorprese creative, che solo una soddisfacente e conquistata individuazione può regalare ad una donna.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 3: 127-129

Intervento di Alessandra Mizzi* & Marcella Vida** 
* Settore di Psicologia Clinica Sociale e di Comunità, AUSL di Reggio Emilia, Via Amendola 2, 42100 Reggio Emilia
** Servizio di Sessuologia, Dipartimento di Psicologia, Università di Bologna, Via Berti Pichat 5, 40127 Bologna

Premessa necessaria alle osservazioni di commento al caso clinico proposto, è l'esplicitazione dei nostri riferimenti, teorici e metodologici, che si riferiscono ad una terapia delle disfunzioni sessuali che chiamiamo Psicoterapia Mansionale Integrata (PMI). Vogliamo, in particolare, porre l'accento sulla natura psicoterapeutica dell'intervento che si caratterizza per un uso privilegiato delle mansioni, che sono integrate con strumenti e mezzi derivati anche da altre tecniche, in un insieme strutturato che tiene conto della pluralità dei fattori psicologici che sostengono le disfunzioni sessuali. Secondo lo schema teorico per noi convincente, la risposta sessuale è da considerare realtà unica ed insieme complessa, nella quale sono riconoscibili componenti di natura emotiva, cognitiva, comportamentale e relazionale. "I disturbi sessuali sono da vedere come una modalità esistenziale, una maniera d'essere che coinvolge tutta la persona intesa come unità psicosomatico-relazionale, messa in atto a fronte di una situazione emotivamente significativa capace di determinare(…)  un equilibrio disadattivo" (Rifelli Moro, 1995, p.26)  Chi soffre di un disturbo sessuale vive il disagio di avvertire con consapevolezza ciò che sta accadendo non riuscendo, però, ad intervenire efficacemente sul proprio agire in linea con la percezione che ha di sé come persona. 

L'attenzione alla risposta fisiologica, il pensiero critico, giudicante la reazione disadattiva, costituiscono il meccanismo psicologico conosciuto come spectatoring che, quando non si possiedono strumenti per modificare la realtà e il proprio agire, crea una spirale ascendente di tensione emotiva e di ripetute risposte sessuali disfunzionali. Tale circolo vizioso può essere spezzato dal gesto terapeutico che porta alla consapevolezza l'agire sessuale, nelle sue componenti sia fisiche, che psichiche, che relazionali, per proporre una visione integrata del disturbo, collocato nella persona intesa nella sua globalità, superando la distinzione tra sintomo e causa. Poiché, infatti,  si tratta di consentire il manifestarsi di una modalità esistenziale integrata, o più integrata, per il paziente, il recupero di una disfunzione sessuale si pone come evento esperienziale capace di coinvolgere il sentire, il pensare e l'agire, e quindi anche le cause che la sostenevano.

Nel caso descritto non si hanno molti elementi per comprendere come Anna leggesse il suo disturbo sessuale che viene descritto, piuttosto, attraverso il ginecologo (vaginismo primario di natura funzionale), il marito ("non volevo farti soffrire") e i genitori (che vogliono un figlio da Anna). Le parole di Anna potrebbero essere: scoprendo di essere ancora quasi vergine… mi è crollato il mondo addosso: viene riferita rabbia nei confronti del marito, ma non emerge né un proprio autentico desiderio, né la volontà di perseguire un'identità di donna adulta, elemento, quest'ultimo, collegabile alla dispercezione della penetrazione. Le ulteriori osservazioni, a proposito della sua relazione con la famiglia di origine, permettono di collegare l'aspettativa di Anna, di risolvere il disturbo, al desiderio di corrispondere alle attese della famiglia di origine e, pertanto, al mantenere invariata l'immagine di sé, piuttosto che intervenire sulla propria identità nonché sul rapporto di coppia.  La terapia proposta deve sì preoccuparsi della sua accettabilità, ma anche della sua compatibilità con le aree problematiche evidenziate, al fine di evitare collusioni con i contenuti del paziente e, tali osservazioni, vogliono proporre gli aspetti critici della scelta del terapeuta, pur in sé legittima, di prendere in carico la sola paziente. Nel nostro orientamento teorico, pur non escludendo, la Psicoterapia Mansionale Integrata, una proposta terapeutica che riguardi il singolo, avrebbe visto la coppia come riferimento privilegiato, non solo per la problematicità, legata, in questo caso, agli aspetti diagnostici, e prognostici, ma per il fatto di vedere, nella relazione con la coppia, lo spazio in cui possono essere meglio presi in considerazione, e più dinamicamente utilizzati, i significati emotivi e relazionali del gesto sessuale anche grazie al fatto di poter più efficacemente gestire gli elementi di seduzione sempre possibili nel transfert terapeutico.

Per il modo particolare in cui può essere vissuto il terapeuta sessuale, riteniamo opportuno, a questo punto, soffermarci sui particolari mezzi del cambiamento che sono la relazione terapeuta-paziente e l'alleanza terapeutica. Riteniamo che, per i fantasmi che suscita," il terapeuta sessuale possa rappresentare qualcosa di più di un padre-madre buono e generoso che si preoccupa del figlio-figlia bisognoso di aiuto (… ) può essere vissuto come una divinità particolarmente temibile e insieme adorabile, che non si cura dei tabù, enfatizza il piacere e condanna il dovere. Una divinità trasgressiva (…) che, al contrario del Super-Io giudicante e repressivo, ha il fascino e la pericolosità di un Super-Io indulgente e permissivo, incurante delle norme. La seduzione, la dipendenza, l'offerta di amicizia possono essere allora le difese che i pazienti adottano per limitare i pericoli e per entrare in possesso dei poteri che il terapeuta detiene" (Rifelli, Moro, 1995, p. 107)  Nel percorso terapeutico, il contratto costituisce lo spazio per ridefinire questo potere e, insieme con ciò, ridefinire la posizione dei pazienti come attori sulla scena della terapia. In questo scenario la mansione viene proposta, e intesa, non come strumento di per sé in grado di produrre un cambiamento, come potrebbe fare un esercizio riabilitativo, né come potente gesto del terapeuta, ma come occasione esperienziale, di espressione di contenuti di sé: il paziente si manifesta nella interpretazione e rappresentazione della mansione, ha modo di evidenziare a se stesso il suo modo di essere disadattivo, di diventarne consapevole e, con ciò, di acquisire gli strumenti per una più soddisfacente integrazione. La preoccupazione del terapeuta, circa la possibilità che siano intervenuti elementi di seduzione, sembra ben posta, in quanto il processo terapeutico appare, in effetti, aver risentito di elementi suggestivi, verosimilmente ancora presenti, pur a terapia terminata, tenuto conto del legame, mantenuto dalla paziente, attraverso i contatti costanti. Le risposte paradossali della paziente, pur sostenute da insight significativi, fino alla guarigione del sintomo, giustificano, inoltre, l'interrogarsi del terapeuta sulla nuova identità di Anna successiva alla terapia: la direzione intrapresa sarà verso una maggiore apertura o, piuttosto, verso un'identità più fallica, che sarebbe da vedere come non troppo diversa dalla "fortezza" proposta dal sintomo vaginismico? Ci identifichiamo con il terapeuta nella misura in cui, a nostra volta, non ci accontentiamo della remissione del sintomo per sottoporre a critica il nostro intervento, nonché i mezzi e gli strumenti terapeutici utilizzati.


Psicoterapia e Scienze Umane, 2002, XXXVI, 3: 129-131

Intervento di Enrico Landini 
Psicoterapeuta sessuologo, Via Casoli 4, 42100 Reggio Emilia

Prima di procedere con il commento al caso vorrei fare una premessa generale sul senso e sul significato delle disfunzioni sessuali. La differenza tra una risposta sessuale adeguata e una inadeguata non attiene a più o meno definiti paradigmi di efficienza, ma riguarda la capacità dell'individuo di mantenere o no una integrazione tra gli aspetti organici, psicologici e relazionali che ogni persona colloca alla base della consapevolezza di sé come essere sessuato. Venendo meno questa capacità di equilibrio ed integrazione, per ragioni che possono essere di natura educativa, comportamentale o relazionale, la disfunzione sessuale rappresenta una risposta psicosomatica che sfugge al controllo dell'individuo. Ecco perché il recupero della disfunzione si pone come evento capace di coinvolgere il sentire, il pensare, l'agire.

Mi è sembrata necessaria questa premessa perché ha una conseguenza diretta sul modo di procedere quando ci si trova di fronte ad una domanda di aiuto nell'ambito della sessualità, sia per quanto riguarda l'anamnesi che la terapia. Infatti, la lettura della domanda sessuologica rappresenta una fase essenziale di ascolto e comprensione delle cause che possono avere originato una determinata disfunzione in quella persona o coppia. Questo prima di tutto per permettere una precisa diagnosi della disfunzione e in secondo luogo per valutare l'opportunità di una terapia individuale, con la coppia, della coppia.

Per venire al caso di Anna, allora, credo che tutto questo non sia avvenuto in maniera adeguata e corretta. Ne riferisco al fatto che sia stata formulata una diagnosi di vaginismo in presenza di un quadro sintornatologico che evidenziava forti manifestazioni di dolore sia nei tentativi di penetrazione che di visita ginecologica. E' allora più corretta una diagnosi di dispareunia, una disfunzione che assume un quadro clinico e terapeutico completamente diverso. Se infatti, come ha scritto G. Ribelli, «il vaginismo è una reazione globale di paura, dove la penetrazione sembra ridursi ai suoi soli significati aggressivi e violenti e la donna è consapevole del pericolo fantasticato e si trasforma fin dall'inizio in una fortezza», nella dispareunia la difesa scatta al segnale del dolore. E' per queste ragioni che il vaginismo appartiene alla dimensione dell'agire mentre la dispareunia a quella del sentire. Questa distinzione ha importanti conseguenze sul piano della cura nel senso che l'utilizzo di un evento comportamentale (come la prescrizione) per attivare il processo terapeutico è sicuramente consigliato nel primo caso mentre nel secondo risulta di più difficile attuazione.

Un altro elemento utile, che meritava maggiore attenzione, è l'affermazione che Anna «ha sempre creduto che lei e il marito avessero avuto rapporti sessuali normali». Francamente mi sembra un'affermazione poco credibile e sarebbe stato interessante approfondirla sia per quanto riguarda gli aspetti culturali ed educativi (per conoscere il valore e il significato che viene dato alla sessualità e come spiega la mancanza di conoscenza in questo campo) sia per quanto riguarda il rapporto che Anna ha con il proprio corpo e con la dimensione del piacere. E' da notare come infatti non sia stata l'assenza di piacere a spingere Anna a consultare, ma la mancanza di un figlio e le insistenze dei parenti a farlo, quasi ad indicare la funzione riproduttiva come fondamentale alla sua identità di donna. Poteva essere utile approfondire il rapporto di Anna con i segnali della fecondità (ad esempio le mestruazioni) per capire quanto il progetto figlio rappresentasse o meno una motivazione alla terapia.

Infine alcune considerazioni sull'iter terapeutico proposto e sull'esito del caso. E opinione sempre più condivisa, almeno nell'ambito sessuologico, che in presenza di disfunzioni sessuali la semplice proposta di mansioni o prescrizioni di per sé non sia sufficiente ad attivare processi di cambiamento stabili e duraturi. Il compito a casa è lo strumento per affrontare in terapia gli ostacoli di natura psicologica o relazionale che producono una risposta sessuale inadeguata. Credo che nel caso proposto abbia influito notevolmente, sull'esito finale, l'abilità del terapeuta nel sapersi conquistare la fiducia della paziente.


Prima parte: Piero Porcelli, "Un caso di vaginismo: il caso Anna". Interventi di: Paolo Moderato & Francesco Rovetto; Paolo Migone; Chiaretta Busconi; Alessandra Mizzi & Marcella Vida; Enrico Landini

Seconda parte: Interventi di: Giovanni Liotti; Furio Lambruschi; Maria Pia Roggero Kluzer; Chiara Simonelli; Davide Déttore; Tullio Carere-Comes; Fabio Vanni; Piero Porcelli; Nella Guidi; Sergio Benvenuto