Il Ruolo Terapeutico, 2006, 102: 72-82
Paolo Migone
Vorrei cogliere l'occasione di due interventi che ho tenuto a dei recenti convegni per parlare del sogno, e più precisamente del modo con cui oggi molti psicoanalisti lavorano sui sogni. Questo modo, come vedremo, mi sembra molto diverso da quello di una volta, e ne vorrei un po' ridiscutere qui (i due convegni in cui ho presentato queste mie riflessioni sono quello intitolato "Per una nuova interpretazione dei sogni", organizzato da Ezio Benelli alla Università di Firenze il 18-19 novembre 2005 [gli Atti sono nella rivista annuale Radure. Quaderni di materiale psichico, pubblicata da Moretti & Vitali], e quello intitolato "Il sogno come strumento di crescita dei gruppi istituzionali", organizzato da Ermete Ronchi del Gruppo di ricerca "Sogno e Istituzione" del Centro Studi e Ricerche COIRAG al Dipartimento di Psicologia dell'Università di Bologna il 4-5 marzo 2006). E' ormai da alcuni decenni, all'incirca dagli anni 1960, che i sogni hanno perso quel posto centrale che avevano nella pratica clinica dello psicoanalista. Si è notato progressivamente uno spostamento di interesse dalla interpretazione dei sogni alla interpretazione del comportamento nella vita diurna, al materiale cioè più vicino all'Io e alla parte consapevole del paziente: sintomi, atti mancati, fantasie, modalità relazionali, ecc. Questo materiale infatti, grazie anche alla sempre maggiore esperienza ed attenzione degli psicoanalisti, è di per sé già molto ricco ed interessante per la comprensione del funzionamento conscio e inconscio del paziente, per niente inferiore al materiale rivelato da quella che Freud definì la "via regia" dell'inconscio, cioè i sogni. Questo spostamento di enfasi ha cause complesse, ma con tutta probabilità è dovuto soprattutto alla diffusione delle conoscenze teoriche e cliniche della Psicologia dell'Io (Hartmann, 1937, 1964; Hartmann, Kris & Lowenstein, 1964; Rapaport, 1959; ecc.), la quale, come è noto, prescriveva di analizzare prima la superficie e poi il profondo, prima l'Io e poi l'Es (non è un caso, a questo proposito, che scuole diverse dalla Psicologia dell'Io, come ad esempio quella junghiana, hanno continuato a privilegiare l'interesse per il lavoro sui sogni). Se si esclude l'intervento dell'Io nel "lavoro onirico" (per la costruzione narrativa del sogno, anche in termini difensivi), i sogni per loro natura bypassano le resistenze e rimangono distanti dall'Io conscio, che non può usufruire facilmente delle interpretazioni, ad esempio sul significato dei simboli onirici. Per gli psicologi dell'Io, il rischio che l'interpretazione dei sogni si trasformasse in una attività "oracolare" era alto, e sicuramente vi poteva essere una forte componente suggestiva (all'opposto quindi di quella che vorrebbe essere la psicoanalisi). Non a caso si assistette a una relativa scomparsa, o per lo meno a una grande diminuzione, dei libri e degli articoli sui sogni, e quei pochi contributi che uscivano non erano sul sogno in quanto tale, ma sull'uso clinico dei sogni (vedi ad esempio Bonime, 1962), sul loro significato nella relazione, sulla gestione di quest'aspetto dell'analisi rispetto ad altre variabili (ad esempio se, come e quando analizzare i sogni con un determinato paziente che presenta una certa struttura del carattere e quindi delle sue difese). Tutti questi sviluppi ovviamente si sono intrecciati con la progressiva crisi del concetto di interpretazione in psicoanalisi, e non solo della utilità della interpretazione in quanto tale (di cui gli psicologi dell'Io, e lo stesso Freud, erano ben consapevoli), ma anche del concetto di "verità" dell'interpretazione, criticata dagli ermeneuti a cominciare da Ricoeur (1965; vedi Migone, 1995a pp. 178-180, 1989). Quello che è interessante è che nei tempi recenti si è assistito a una rinascita dell'interesse verso i sogni, con produzione di articoli, libri, organizzazione di convegni e così via. Questa riscoperta del sogno da parte della psicoanalisi va spiegata, e con tutta probabilità è dovuta da una parte alle nuove acquisizioni delle neuroscienze, e dall'altra a un modo diverso di intendere la clinica psicoanalitica, che è abbastanza diversa da quella concepita dal fondatore della psicoanalisi e che a sua volta risente delle posizioni, sempre più diffuse, della Psicologia del Sé. Ad esempio Fosshage (1983, 1995, 1997), un analista che appartiene all'area della Psicologia del Sé (e conosciuto anche per alcuni libri scritti assieme a Lichtenberg e Lachmann [vedi ad esempio Lichtenberg, Lachmann & Fosshage, 1996]), in vari lavori descrive in termini molto chiari un modo di comprendere i sogni e di usarli clinicamente, diverso da quello tradizionale e sempre più prevalente nel movimento psicoanalitico. Freud scrisse L'interpretazione dei sogni nel 1899, e uscì con la data del 1900, allo sbocciare del nuovo secolo. Lo scrisse quindi molto presto nel suo percorso creativo, agli inizi della costruzione dell'edificio psicoanalitico, e fu l'unico vero suo libro nel senso che aveva un carattere compiuto, con una sua struttura interna coerente e ben organizzata. Tutti gli altri suoi scritti sono in realtà articoli o saggi che affrontano un tema relativamente circoscritto, e ciò non stupisce se si pensa alla difficoltà (o, secondo alcuni, a una vera e propria impossibilità) di una trattazione della psicoanalisi come se fosse una disciplina scientifica come le altre (e coloro che si cimentano nella pubblicazione dei "trattati" di psicoanalisi molto spesso finiscono col produrre opere collettanee, raccolte di saggi di diversi autori e argomenti). Nello scrivere L'interpretazione dei sogni invece Freud aveva ancora l'ambizione della sistematicità, si pensi al famoso "settimo capitolo" che contiene l'esposizione completa della metapsicologia, per decenni utilizzato come fondamento della dottrina (memorabili ad esempio furono i corsi di Rapaport sul settimo capitolo, frequentatissimi). In quel libro dunque Freud aveva fatto l'ipotesi che, tranne alcune eccezioni, i sogni (così come altri comportamenti) fossero essenzialmente motivati dalla soddisfazione di un desiderio (e, per di più, di un desiderio sessuale o aggressivo) che veniva censurato dal "lavoro onirico" con la produzione di un contenuto "manifesto" che nascondeva un messaggio sottostante, parallelo, il contenuto appunto "latente". Questa censura aveva uno scopo difensivo, per permettere la gratificazione di certi impulsi senza però disturbare il sognatore, infatti il sogno poteva essere considerato il "guardiano del sonno". Oggi invece molti analisti rivalutano l'aspetto manifesto dei sogni come immagini che hanno una validità in se stessa, che va rispettata ed eventualmente capita in altro modo. Non si crede più tanto in quella che alcuni hanno chiamato teoria del "doppio binario" (Fossi, 1991, 1994), cioè che vi siano due racconti paralleli, quello del sogno manifesto (mascherato, censurato, simbolizzato) e quello del sogno latente (il racconto "vero" che risulta dalla interpretazione o traduzione del primo). Le immagini manifeste del sogno possono invece non esprimere affatto qualcos'altro ma avere valore in se stesse, e rappresentare semplicemente un modo di elaborare le informazioni attivo durante il sonno, e anche una specifica modalità di funzionamento cerebrale. Durante il sonno i contenuti mentali vengono continuamente rielaborati, e questa è un'attività fisiologica che ha pari dignità, potremmo dire, di quella che avviene durante la veglia. Come hanno dimostrato vari ricercatori sia all'interno che all'esterno della psicoanalisi (tra i tanti, si pensi ad esempio alla Bucci [1993, 1997]), non è vero che il "processo primario", di cui il sogno secondo Freud era la tipica espressione, rappresenta una modalità regressiva di funzionamento e che deve trasformarsi nel "processo secondario" (quello razionale, logico o verbale). Il processo primario deve rimanere tale ed è importante per un ottimale equilibrio psicologico e anche per la sopravvivenza. Non solo, ma in determinati aspetti è ancora più importante di quello secondario, e deve funzionare in sinergia con esso. Assolve semplicemente a funzioni diverse. Sarebbe quindi sbagliato "tradurre" le immagini di un sogno in qualche significato latente dotato di un senso preciso, si rischia in questo modo ridurne la complessità e sminuire le mille altre sue possibili funzioni (a ben vedere, vi è qui una importante somiglianza col modo con cui, da molti settori della psicoanalisi contemporanea, tende ad essere concepita oggi anche la terapia: viene argomentato che l'interpretazione, la comprensione, la trasformazione in parole della complessità del comportamento può essere una eccessiva riduzione, se non una distorsione, dei mille processi "impliciti" che avvengono nell'individuo di cui ne verrebbero ridotte le piene possibilità espressive). Ma quali sono allora le funzioni del sogno, secondo questi psicoanalisti che oggi ne rilanciano l'interesse? Esse sono essenzialmente funzioni di crescita, problem-solving, mantenimento, regolazione, e, se necessario, riparazione (cioè guarigione) dei processi psichici allo scopo di favorire sempre un migliore adattamento e funzionamento mentale. Questa visione, che come si può vedere è coerente con la Psicologia del Sé, prevede che il Sé abbia un programma innato di sviluppo, volto alla crescita, all'adattamento e alla socializzazione, in armonia - in condizioni ottimali - con il mondo esterno. Diversa era invece la concezione freudiana, che prevedeva un conflitto innato, una sorta di ostilità con la realtà esterna, sulla quale l'Io aveva bisogno di scaricare determinate energie pulsionali. Appare evidente quindi che è stata soprattutto una riconcettualizzazione del processo primario, e anche della teoria della motivazione (Lichtenberg, 1989), quella che ha permesso questa revisione. Fosshage (1997) ad esempio, coerentemente con queste premesse teoriche, presenta sette princìpi tecnici per lavorare sui sogni, e il terzo principio prescrive che "le immagini del sogno non devono essere tradotte". Per la curiosità del lettore, elenco qui molto sinteticamente le sette regole di Fosshage: 1) ascolto molto attento ed empatico dell'esperienza del paziente durante il sogno; 2) ampliare l'esperienza del sogno del paziente; 3) le immagini di un sogno non devono essere tradotte ma devono essere comprese nel loro contenuto metaforico e tematico; 4) conclusa l'elaborazione dell'esperienza onirica, i temi emersi devono essere collegati alla vita reale del paziente; 5) l'interpretazione del sogno viene costruita da paziente ed analista insieme; 6) il contenuto del sogno non deve necessariamente avere un riferimento diretto col transfert a meno che non sia esplicito, casomai è il processo di comunicare il sogno all'analista, piuttosto che il suo contenuto, quello che può rivelare un significato transferale; 7) i sogni possono essere utili nella psicoterapia di qualunque paziente, indipendentemente dalla sua diagnosi. Sappiamo che le idee portanti della Psicologia del Sé possono essere viste come riedizioni di alcuni concetti di fondo proposti dalla psicologia umanistica molti anni prima: si pensi solo al concetto di self-actualization di un Rogers, o agli aspetti decisamente fenomenologici di questo tipo di psicoanalisi contemporanea (secondo la quale il livello fenomenico - ad esempio il significato manifesto del sogno - non va interpretato ma va accettato in quanto tale e compreso, eventualmente ampliato nei suoi significati). Si pensi anche alla nota concezione di self-state dreams di Kohut (1971 pp. 4-5 e 149, 1977 pp. 109-110, ed. or.), cioè dei "sogni sullo stato del Sé", concezione essenzialmente fenomenologica come del resto fenomenologici possono essere considerati molti aspetti centrali della Psicologia del Sé. Vengono rivalutate anche le intuizioni di Jung, che nella sua concezione del sogno ha anticipato molte delle idee oggi accettate da non junghiani (si pensi al cosiddetto "sogno premonitore", col quale il sognatore, rielaborando esperienze passate, anticipa possibili situazioni di vita per prepararsi al cambiamento o nella speranza di migliorare). Il fatto che la "terza forza" del movimento psicoterapeutico, cioè l'area umanistico-esperienziale, oggi entri prepotentemente in molte teorizzazioni psicoanalitiche rappresenta sicuramente un fenomeno di grande interesse per lo storico delle idee della psicoterapia (si pensi anche al ritorno di una certa fenomenologia che si può intravedere nelle recenti posizioni di Daniel Stern sul "momento presente" [Stern et al., 1998; Stern, 2004] di cui sarebbe interessante discutere, ma non è questa la sede: rimando a Migone, 2003, 2004). Per illustrare meglio la funzione adattiva del sogno, Fosshage (1997) racconta una breve vignetta clinica di una sua paziente che aveva una immagine negativa dell'analista, lo riteneva inaffidabile, poco bravo, un ciarlatano e così via. A causa di questo suo vissuto (che aveva origine transferale, causato cioè dal rapporto che la paziente aveva avuto col padre), l'analisi procedeva con fatica. Ad un certo punto però la paziente riportò uno strano sogno in cui l'analista compariva come un uomo integro, affidabile e competente. L'analista allora le chiese se questa immagine corrispondeva all'idea che la paziente ora si era ora fatta di lui, ma la paziente negò decisamente. L'ipotesi dell'analista fu che con questo sogno la paziente stava testando un suo futuro cambiamento, sperimentando una nuova possibilità di vivere il suo analista, stava insomma preparandosi a cambiare immagine di lui. Non potendo ancora permettersi di fare questa esperienza nella vita diurna, riusciva a sperimentarla nel sogno. Di fatto, dopo alcuni mesi la paziente arriverà a provare quella stessa sensazione anche consciamente, e gradualmente a fidarsi sempre di più del proprio analista. Quel sogno quindi, come un "sogno premonitore", aveva anticipato il cambiamento, e ci aveva fatto vedere che una parte della paziente stava già lavorando alla possibilità di migliorare. Un altro autore recente che si è occupato in modo interessante del sogno è Blechner (1998, 2001, 2002, 2005), uno psicoanalista che appartiene alla tradizione interpersonale post-sullivaniana del Wiliam Alanson White Institute di New York e che si è particolarmente interessato alla forma espressiva dei sogni. A quasi un secolo dal libro di Freud sul sogno, Blechner riprende in esame questo argomento e conclude che, contrariamente alla tendenza oggi dominante a relativizzare l'importanza dei sogni, essi costituiscono una preziosa fonte di informazioni, ma non tanto sui contenuti tradizionalmente intesi come inconsci, quanto soprattutto su quella parte della produzione mentale che non è codificata in parole. La traduzione verbale del contenuto onirico necessariamente limita grandemente la loro ricchezza, dato che, anche secondo l'ipotesi di Whorf-Sapir (Whorf, 1956), le parole che conosciamo e usiamo limitano gli stessi pensieri che possiamo avere. Blechner (1998) sostiene che gli psicoanalisti e i ricercatori di laboratorio potrebbero trarre un grande giovamento da un serio scambio reciproco di informazioni, dopo che per troppi anni sono stati divisi da una barriera, barriera invece che non esisteva agli albori della psicoanalisi essendo Freud anche un neurologo, e propone interessanti riflessioni comparative tra i sogni, i danni cerebrali e la psicopatologia. In una revisione della letteratura sul sogno, prende in esame anche le teorie neurobiologiche, e precisamente quelle di Aserinsky, Dement & Kleitman degli anni 1950, di Hobson & McCarley del 1977, di Crick & Mitchison del 1983, di Antrobus del 1991, di Solms del 1997, ecc., e descrive due fenomeni tipicamente onirici nel senso che si manifestano nei sogni e mai nella normale vita diurna. Questi li chiama "disjunctive cognitions" e "inter-objects": le "cognizioni disgiunte" si manifestano in quei sogni in cui ad esempio ci appare una persona che sappiamo con certezza che non è lei (ad esempio un paziente può dire: "ho sognato mia madre, ma non sembrava affatto lei, sembrava la mia amica Giovanna"), e gli inter-objects sono nuovi oggetti, assurdi e inesistenti, in un certo senso a metà strada tra due oggetti di cui sono una sorta di condensazione (ad esempio un paziente può dire: "ho sognato un grammofono ma, non so spiegare come, sembrava anche un ferro da stiro", oppure "ho sognato il pomello di una porta, che per la verità sembrava un gatto"). Ebbene, come si è detto queste strane manifestazioni hanno la caratteristica comune di apparire solo nei sogni, però curiosamente appaiono anche in certe forme di danno cerebrale e di psicopatologia. è per questo motivo che si potrebbe dire che Blechner sostenga che i sogni possono essere una "via regia" non tanto per l'inconscio, quanto per conoscere come funziona il cervello. Un altro autore interessante e molto piacevole alla lettura è Lippmann (2000a), anch'egli appartenente alla stessa tradizione a cui appartiene Blechner, in cui si può vedere molto bene il diverso modo con cui oggi molti analisti, soprattutto appartenenti alla tradizione interpersonale, utilizzano i sogni. I sogni hanno perso quasi completamente il loro significato di trasmissione di conoscenza o di "verità" sull'inconscio, ma vengono usati prevalentemente nella relazione: quello che è importante è come, perché e quando il paziente li racconta, e soprattutto, in termini relazionali, il modo con cui il terapeuta sa ascoltarli, sa contenere ad esempio quella che a volte è la loro incomprensibilità senza il bisogno di capirli o interpretarli a tutti i costi. In questo lavoro pare che il terapeuta divenga un maestro di vita, che insegna al paziente a gestire il sogno così come qualunque altra parte di sé poco comprensibile, piacevole o a volte inquietante. Divertente è ad esempio un lavoro di Lippmann (2000b) in cui elenca i vari "stili nevrotici" dell'analista nel momento in cui incontra il sogno del paziente: l'analista, compulsivo, ossessivo, isterico, narcisista, schizoide, depresso, e così via. Possiamo immaginare i modi diversi, a volte anche divertenti, con cui il paziente vede analizzare i propri sogni a seconda dei tratti di personalità del proprio terapeuta. Infine vorrei accennare a quei sogni che si possono definire paradossali, cioè a una problematica che da molto tempo è conosciuta ai clinici ma che recentemente è stata sollevata da un articolo, e poi anche da un libro, di Quinodoz (1999, 2002), e sulla quale vi è anche stato un dibattito nella discussion list dell'International Journal of Psychoanalysis (Williams, 1999). Per esemplificare questa problematica, almeno come io la vedo e come anche l'ho discussa in quel dibattito, vorrei brevemente raccontare il caso di una mia paziente che sognava tutte le notti di essere lasciata dal ragazzo. Questo incubo era paradossale perché lei sapeva benissimo che il suo ragazzo non l'avrebbe mai lasciata. Interrogata su quando era iniziato questo incubo, rispose che era iniziato circa 8 mesi prima, e non capiva perché. Le chiesi allora se per caso lei aveva avuto sempre un rapporto molto sicuro con quel ragazzo, e lei rispose che assolutamente non era così, infatti in passato lui non si sentiva sicuro del loro rapporto e quasi quotidianamente le diceva che avrebbe potuto lasciarla, la qual cosa la terrorizzava perché gli era molto legata. Le chiesi allora come mai il ragazzo ad un certo punto era cambiato, e quanto tempo fa. Lei rispose che una volta era successa una determinata esperienza tra di loro per cui lui aveva capito che lei era la donna della sua vita e che non l'avrebbe mai lasciata, e la paziente sentiva che questa cosa era vera, per cui da allora lei non ebbe più paura della separazione e stette sempre bene con lui. A questo punto ovviamente non rimaneva che da chiederle quando era successo questo episodio, ma lei non ricordava la data; insistetti un po', e finalmente riuscì a ricostruire che era successo 8 mesi prima. Con nostra sorpresa, scoprimmo quindi che lei aveva incominciato ad avere gli incubi proprio dal momento in cui fu rassicurata dal ragazzo, cioè i brutti sogni erano incominciati, paradossalmente, quando aveva incominciato a stare bene. Fin qui il dato clinico: come interpretarlo? E' ovvio che sarebbe assurdo pensare, seguendo alla lettera l'ipotesi freudiana che i sogni sono l'espressione di un desiderio (e non è da escludere qualcuno possa arrivare a farla), che lei con questi sogni esprimesse il desiderio di essere lasciata dal ragazzo, anche perché la paziente si diceva certa, senza alcuna ambivalenza, del suo desiderio di restare con lui. Quella che va spiegata poi non è solo l'insorgenza degli incubi proprio subito dopo l'instaurarsi di una condizione di sicurezza, ma anche l'assenza di quegli stessi incubi quando stava male. Per motivi di spazio non posso qui esporre tutte le argomentazioni con cui arrivai alla mia ipotesi, e che discussi anche in quel dibattito sull'International Journal, che in breve fu la seguente. Durante il lungo periodo di sofferenza in cui il ragazzo minacciava di lasciarla, la paziente aveva subìto un trauma che aveva lasciato una traccia, una cicatrice emotiva dentro di lei. Durante quel periodo la paziente non faceva brutti sogni (o li faceva ma non poteva permettersi di ricordarli) perché già doveva fronteggiare costantemente nella vita diurna una situazione difficile. Gli "incubi" erano già le sue giornate, non c'era bisogno di averne altri anche nel sonno, e poi forse doveva risparmiare le sue energie per lottare quotidianamente contro quel dolore. Una volta raggiunta una condition of safety (Sandler, 1960), poté finalmente lasciarsi andare e permettersi di provare tutte quelle emozioni dolorose che prima aveva dovuto reprimere perché era in uno stato di pericolo, di difesa. I sogni rappresentavano quindi un modo per far riemergere queste emozioni, per rielaborare questo lutto, un po' come avviene nel Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD) nel quale ad esempio il soldato si ammala, a volte anche gravemente, quando torna a casa, non in guerra dove combatte per difendere la sua vita. I flash-back, gli incubi, i ricordi improvvisi e dolorosi, la depressione, ecc., avvengono dopo, nei mesi e anni seguenti, non al fronte. C'è una abbondante letteratura al riguardo (si pensi ad esempio all'aumento di suicidi e di depressioni non in guerra ma quando "scoppia la pace"). E' un esempio questo anche del noto fenomeno del "pianto al lieto fine", tanto studiato da Weiss (1952), concetto dal quale è partito per costruire nei decenni seguenti, assieme a Sampson e agli altri colleghi del San Francisco Psychotherapy Research Group, la control-mastery theory (Weiss, 1993; Weiss et al., 1986; Weiss & Sampson, 1999), secondo la quale il pianto al lieto fine è una metafora della psicoterapia stessa: la psicoterapia sarebbe una condizione di sicurezza in cui il paziente può finalmente "piangere", "regredire", a volte stare anche molto male, ma sulla base di una maggiore forza che controlla questa "regressione al servizio dell'Io" (Kris, 1952) e che permette di ricordare eventi dolorosi che prima avevano dovuto essere rimossi (non posso qui elaborare ulteriormente queste riflessioni, e per brevità rimando a Migone, 1993, 1995a pp. 196-197, 1995b; Migone & Liotti, 1998). Tante insomma sono le riflessioni e le ipotesi che si possono fare sui sogni, e a volte è affascinante vedere quale intelligenza inconscia essi rivelino. Come esempio tra i tanti, mi viene in mente la sorpresa che ebbi una volta di fronte a un caso di "lavoro onirico" che si presentò come un rebus. Una mia paziente sognò che stava pulendo con una scopa il pavimento, con un certo nervosismo ed in fretta, ed il pavimento che stava scopando era fatto di terra battuta; fuori c'erano dei soldati che erano appena entrati in paese e che avevano detto alla popolazione che tutti avevano solo cinque minuti per prepararsi e lasciare le proprie case, altrimenti sarebbero stati uccisi in massa. Né io né la paziente inizialmente sapemmo cosa dire di questo sogno, solo alla fine della seduta mi venne in mente in modo improvviso la soluzione, come quella di un rebus, e anche la paziente ne fu sorpresa. Occorre però dire qualcosa su questa paziente per mettere il lettore nelle condizioni di tentare di risolvere questo rebus da solo. Era il periodo della guerra nella ex-Jugoslavia, e lei abitava in un paese che era vicino all'aeroporto da cui ogni giorno partivano gli aerei NATO per andare a bombardare. La paziente era terrorizzata da quella guerra, spesso mi parlava di quello che leggeva sui giornali, dell'inquietante rombo quotidiano degli aerei sopra a casa sua, e ovviamente queste paure, come accade sempre, erano intrecciate a significati transferali di cui sarebbe lungo parlare qui. Queste informazioni sarebbero già sufficienti per risolvere il rebus di quel sogno, ma quando lei me lo raccontò, all'inizio di seduta, non ci venne in mente niente. Misi quindi da parte il sogno, come in genere si fa in questi casi, e parlammo d'altro. Verso la fine della seduta, improvvisamente, mi venne spontanea la soluzione del rebus, che le dissi subito, interrompendo quello che mi stava dicendo: "pulizia etnica". In effetti il tema degli stupri e degli omicidi di massa che avvenivano in quella guerra l'avevano molto colpita, e naturalmente questo si era intrecciato con certe sue problematiche che avevano a che fare con la sessualità e l'aggressività. Il sogno, che conteneva vari altri elementi che dovevano essere approfonditi, rappresentava comunque una condensazione che in modo abbastanza sorprendente mescolava immagini, parole e metafore, e mostra quanto possa a volte essere sofisticato il lavoro onirico. Le considerazioni che potrebbero essere fatte sul modo con cui la psicoanalisi contemporanea utilizza i sogni sarebbero così tante che necessariamente mi sono limitato ad alcune riflessioni estemporanee senza alcuna pretesa di sistematicità, parlando delle idee di alcuni autori che ho conosciuto o di cui per caso mi è capitato di leggere gli scritti. Ma vorrei terminare raccontando un episodio che può servire a dare l'idea di alcuni dei problemi teorici sottostanti al modo di intendere il lavoro terapeutico coi sogni basato sulla Psicologia del Sé (Migone, 2005). Nel 2002 assistetti alla presentazione da parte di Jim Fosshage delle sue idee sulla revisione della teoria freudiana del sogno, a cui ho accennato, di fronte ad un uditorio particolare. Si trattava dell'incontro annuale, ad inviti, del Rapaport-Klein Study Group, cioè di un gruppo di ricercatori selezionati, tra i più importanti protagonisti del dibattito psicoanalitico, che hanno il piacere di incontrarsi per tre giorni all'anno proprio per discutere e potersi criticare vicendevolmente senza peli sulla lingua. Ebbene, dopo che Fosshage finì di esporre le sue idee sul sogno, vari colleghi gli dissero che certamente erano molto interessanti, ma che l'impianto di tutto il suo discorso si basava su una premessa non dimostrata, e cioè che il sogno avesse uno scopo, una funzione appunto "organizzativa" o ristrutturante, utile all'organismo, e questa premessa teorica poteva considerarsi in un certo senso "ideologica", cioè derivata dalla appartenenza di Fosshage al movimento della Psicologia del Sé. Come si può infatti dimostrare che il sogno ha sempre questa funzione organizzativa? Volendo anche fare riferimento alla teoria evoluzionistica, non tutte le funzioni dell'organismo sono adattive, alcune potrebbero essere rimaste come vestigia di epoche precedenti e non avere più una funzione utile. In altre parole, per un ricercatore bisogna distinguere le ipotesi, spesso suggestive, dai fatti dimostrati, e in linea di principio non si può escludere - sembrava dicessero questi colleghi che criticarono Fosshage - che molti sogni possano essere dovuti semplicemente al caso o comunque a fattori a noi ancora sconosciuti (non si dimentichi che molti membri del Rapaport-Klein Study Group sono impegnati nella ricerca empirica, al gruppo fanno o hanno fatto parte infatti ricercatori quali Beatrice Beebe, Sid Blatt, Wilma Bucci, Mauricio Cortina, Morris Eagle, Aaron Esman, Larry Friedman, Merton Gill, Stanley Greenspan, Adolf Grünbaum, Irwin Hoffman, Bob Holt, Phil Holzman, Frank Lachmann, Joe Lichtenberg, Les Luborsky, David Shapiro, Howard Shevrin, Herb Schlesinger, Don Spence, Frank Sulloway, Paul Wachtel, Jerry Wakefield, Bob Wallerstein, Drew Westen, Peter Wolff, ecc.). Ho voluto ricordare questo episodio per dare l'idea della complessità dei problemi e delle diverse posizioni che tutt'ora si confrontano nel dibattito psicoanalitico sul sogno. Bibliografia Bion W.R. (1975). A Memoir of the Future. The Dream. Rio de Janeiro: Imago (trad. it.: Memoria del futuro: il sogno. Milano: Cortina, 1993). Blechner M.J. (1998). The analysis and creation of dream meaning: interpersonal, intrapsychic, and neurobiological perspectives. Contemporary Psychoanalysis, 34, 2: 181-194. Blechner M.J. (2001). The Dream Frontier. Hillsdale, NJ: Analytic Press. Blechner M.J. (2002). The dream frontier. Journal of the American Psychoanalytic Association, 50, 3: 1007-1014. Blechner M.J. (2005). The grammar of irrationality: What psychoanalytic dream study can tell us about the brain. Contemporary Psychoanalysis, 41, 2: 203-221. Bolognini S., a cura di (2000). Il sogno cento anni dopo. Torino: Bollati Boringhieri. Bonime W. (1962). The Clinical Use of Dreams. 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