Il Ruolo Terapeutico, 2006, 103: 77-93
Paolo Migone
Il 18 aprile 2006, a 77 anni, è morto Mario Tommasini. I colleghi della mia generazione sanno bene chi è, ma i più giovani possono non conoscerlo, per cui voglio dedicargli questa mia rubrica raccontando qualcosa della sua vita e dell'importante ruolo che ha avuto nella psichiatria italiana e anche nella politica dei servizi sociali. Ho avuto la fortuna di conoscerlo e di collaborare con lui in più occasioni, anche perché Tommasini è nato ed ha vissuto sempre a Parma, la città in cui abito. La vita di Mario Tommasini è raccontata in un bel libro di Bruno Rossi appena uscito, dal titolo Mario Tommasini. Eretico per amore (Reggio Emilia: Diabasis, 2006), con una prefazione di Franco Rotelli, che era direttore dei servizi psichiatrici di Trieste e continuatore dell'opera di Basaglia (è poi diventato direttore dell'Azienda per i Servizi Sanitari [ASS] di Trieste), intitolata "Un borgo diventato mondo", e una di Maurizio Chierici, già inviato speciale del Corriere della Sera e poi editorialista dell'Unità, intitolata "Un politico in bicicletta" (il titolo allude al fatto che Mario non aveva la macchina, ma si muoveva sempre in bicicletta nella sua città dove era molto conosciuto e dove era un continuo fermarsi, salutare e chiacchierare con la gente). Sia Franco Rotelli che Maurizio Chierici erano stati amici di Mario per tanti anni, così come Bruno Rossi, già inviato speciale del Corriere della Sera e direttore della Gazzetta di Parma. Mario Tommasini ha avuto una vita abbastanza straordinaria fin da ragazzino, quando era stato partigiano dei GAP e protagonista di imprese rocambolesche. In modo temerario, dopo la liberazione si era anche fatto scudo di fronte a fascisti già messi al muro per essere fucilati, riuscendo a convincere i loro esecutori a risparmiarli. Racconto brevemente alcune tappe della sua vita, anche riassumendo liberamente alcuni passaggi del bel libro di Bruno Rossi, tratto da molte ore di interviste registrate nel corso di alcuni anni. Mario Tommasini era nato da una famiglia povera nei borghi di Parma, dove sei anni prima erano state erette le barricate nell'estremo tentativo (unico in Italia) di opporsi al nascente fascismo. Suo padre era un militante del partito comunista clandestino, e patirà il carcere. Anche Mario verrà arrestato più volte (sia durante il fascismo, che negli anni di Scelba, che nel 1968), e sua moglie Lina, assieme al figlio, lo aveva atteso da sotto le mura del carcere, proprio come aveva fatto, tanti anni prima, sua madre assieme a Mario quando era bambino. Aveva un innato spirito di ribellione, che in modo dirompente e ostinato lo faceva lottare sempre contro l'ingiustizia e in difesa dei più deboli. Era impetuoso fin da bambino: una volta strappò di mano alla maestra la bacchetta con cui lo stava picchiando e le restituì tutti i colpi ricevuti. Era stato espulso dalla scuola, espulso dal campo solare, espulso dalle colonie, da adulto espulso dalla fabbrica. E una volta fu anche "espulso dal carcere", quando aveva organizzato una protesta in difesa di un detenuto comune maltrattato dagli agenti (e per questo ricevette le severe critiche di altri detenuti politici come lui perché le direttive del partito erano di non immischiarsi con i detenuti comuni). Ricordo qui alcune delle sue principali battaglie: la provincializzazione del servizio di trasporto pubblico; lo svuotamento dei brefotrofi, dove venivano rinchiusi, a volte in condizioni penose, molti bambini orfani, trovando per loro delle famiglie adottive; l'impegno in progetti pionieristici assieme a medici del lavoro da lui coinvolti (come Maccacaro e altri) per difendere la salute dei bambini nelle campagne e per le donne in gravidanza (con ad esempio la proposta della "cartella della gestante"); la chiusura delle classi differenziali nelle scuole, dove i ragazzi più svantaggiati venivano segregati, con grosse implicazioni e ripercussioni sul loro sviluppo successivo e possibilità di reintegrarsi; la lotta contro il manicomio, un capitolo questo importante nella storia di Mario quando era assessore provinciale, che lo ha visto lavorare al fianco di Franco Basaglia nel 1968, nell'occupazione del manicomio di Colorno da parte di studenti e infermieri (durata ben 40 giorni!), per la dimissione di circa 1.000 pazienti che hanno trovato alloggio in gruppi-appartamento (circa 150 in città e un'ottantina in provincia), in cooperative e fattorie (importante è stata l'esperienza della Fattoria di Vigheffio, ristrutturata per ospitare un gruppo di ex-pazienti; Tommasini anche convinse il regista Marco Bellocchio a girare a Parma nel 1975 il film Matti da slegare); la lotta per la riabilitazione dei carcerati e per individuare soluzioni alternative al carcere (fonda il movimento "Liberarsi dalla necessità del carcere" e contribuisce alla nascita di cooperative a cui vengono assegnati centinaia di detenuti in affidamento per lavori esterni in semilibertà); lo svuotamento del carcere minorile della Certosa di Parma, con un progetto di reinserimento al lavoro di giovani disabili, progetto che la Comunità Europea fa proprio chiamandolo "Progetto pilota per l'Europa" (sono 225 i giovani che vengono inseriti nel mondo del lavoro); la lotta contro le case di riposo per anziani, che lo ha visto impegnato negli ultimi anni della sua vita, in cui Mario coerentemente ha trasferito il discorso sul manicomio come "istituzione totale", alienante e depersonalizzante, lavorando alla soluzione alternativa di minialloggi indipendenti (il progetto "Esperidi"), soluzione adottata peraltro anche in alcuni paesi del Nord Europa (da segnalare a questo riguardo è l'esperienza di Tiedoli, un paesino dell'Appennino parmense che era abbandonato e che è stato ripopolato - Tommasini aveva anche coinvolto Agosti a girare Gli orti dell'amore, un film sugli "orti sociali" per anziani e pensionati, per cui si era battuto); e così via. Informazioni su Mario Tommasini (molte interviste a persone che lo conoscevano, filmati, links, archivi, ecc.) sono reperibili nel sito Internet della "Fondazione Mario Tommasini", istituita poco dopo la sua morte per ricordarlo e continuare il suo impegno. Nell'elencare queste iniziative e lotte di Mario Tommasini mi rendo conto come non fanno giustizia di tutto quello che andrebbe detto e raccontato di lui. Né è facile per me parlarne, e anche per il coinvolgimento emotivo, essendo ancora vicina la sua morte e tanti i ricordi. Mario, che aveva fatto solo la quinta elementare e di mestiere andava in giro a leggere i contatori del gas, aveva una carica ideale, una lungimiranza e una autentica "cultura politica" che non a caso ha fatto dire ad alcuni che era un "vero intellettuale". Non solo, ma sapeva mantenere una relazione di aiuto come pochi erano capaci, anche tra operatori della salute mentale, riuscendo a non rompere il rapporto interpersonale anche durante momenti difficili. Scrisse di lui Franco Basaglia, con cui ebbe una strettissima e importante amicizia: "Mario, un uomo molto acuto politicamente, è stato il più qualificato assessore all'assistenza con cui io mi sia trovato a collaborare", e lo volle con sé alla Sorbona e in numerose università francesi e spagnole. Con Franco Rotelli, che dirigeva i servizi psichiatrici di Trieste e continuò l'opera di Basaglia, realizzò importanti iniziative in Grecia, Brasile e Repubblica Dominicana. In Francia era stato preso a braccetto da Sartre, in Brasile era stato a tavola con Lula. Nel 1977, anche per alcuni articoli su di lui apparsi su Le Monde, una giuria internazionale gli assegnò il "Premio Schweitzer". I tanti sacerdoti che lo amavano e che avevano collaborato con lui lo definivano un "ateo santo". Era amato da Enrico Berlinguer (che nel 1980 era venuto a Parma per incontrarlo e visitare la Fattoria di Vigheffio, senza neppure passare a visitare la nuova sede del partito comunista), fu chiamato da Romano Prodi a partecipare alla Fabbrica del Programma. La sua lotta politica non guardava ai tradizionali schieramenti politici, ma al raggiungimento di obiettivi precisi per i quali era disposto a costruire tutte le alleanze che potevano essere utili. Non è da stupirsi se la sua autonomia lo portò ad uscire dalle file del partito comunista per formare un suo gruppo col quale portare avanti i suoi progetti. Era stato eletto consigliere provinciale nel 1965, a 36 anni, e nominato assessore all'Ospedale Psichiatrico di Colorno e ai Trasporti. Nel 1980 era stato eletto consigliere comunale e nominato assessore ai Servizi Sociali e alla Sanità del comune. Ma nel 1984 compie un primo strappo, definendo in una intervista il partito comunista come "una chiesa dove esistono dogmi non discutibili", e nel 1985 rifiuta di ricandidarsi alle elezioni comunali, in cui per la prima volta dal dopoguerra il partito comunista, senza Tommasini, perde le elezioni e viene estromesso dal governo della città dove subentra il pentapartito. Alle regionali del 1990 prende oltre 10.000 preferenze, più che ogni altro suo compagno nella regione, secondo solo al già presidente della regione Guerzoni, eppure, per un veto dall'alto, non gli viene assegnato l'incarico di assessore alla Sanità. Tommasini allora fonda il gruppo autonomo Nuova solidarietà, che per cinque anni rappresenta una spina nel fianco della giunta. Nel 1998, con una lista propria denominata Libera la libertà, conquista quasi 20.000 voti, il 18% dell'elettorato. Questa lista si presenta anche nelle amministrative del 2002. Anch'io ho fatto parte di quella lista, e ricordo quel periodo con orgoglio e molte emozioni. Nell'inverno del 2000 avevamo lavorato a un giornale del gruppo, diretto da Maurizio Chierici, Bruno Rossi e Giuseppe Viola, intitolato Noi, di cui uscì un numero unico. L'editoriale di Mario si intitolava "Una rivoluzione d'amore". Tante altre cose potrebbero essere dette su Mario Tommasini, e devo fermarmi. Invito a leggere il libro di Bruno Rossi, prima citato, che fa conoscere meglio, a volte commovendo, questa straordinaria figura di uomo e di politico. Nella rubrica "Tracce" del n. 4/2006 di Psicoterapia e Scienze Umane ho pubblicato, per ricordarlo ai colleghi più giovani, la prefazione di Franco Rotelli al libro di Bruno Rossi, l'ultima intervista che Mario concesse (al giornalista Michele Smargiassi, che uscí su Repubblica il 20-4-2006 dal titolo "Nessun uomo é irrecuperabile"), e la poesia di un amico (B.V.) che gli fu vicino negli ultimi anni della sua vita. Qui voglio riportare alcuni brani del libro di Bruno Rossi, che lo ritraggono come veramente era, nella sua continua voglia di amare e di ribellarsi a chi opprimeva i più deboli. Tra i tantissimi brani che potrei riportare ne scelgo uno in cui si racconta quell'episodio in carcere in cui, andando contro le direttive del suo partito, difende un detenuto comune, alcuni brani sul suo rapporto con Basaglia e la lotta contro il manicomio e le altre istituzioni totali, e un brano sulla chiusura del brefotrofio. Alla fine metto anche alcune sue foto che lo vedono sorridente dopo la vittoria di una delle sue tante battaglie. Ringrazio l'autore e l'editore per il permesso di pubblicazione. In carcere «Il calendario faceva ovviamente il suo mestiere: continuava a sfogliarsi. Si era agli inizi del 1953. I mesi infuocati dalle polemiche per la legge che prevedeva, per le imminenti elezioni, un "premio di maggioranza", al partito, o alla coalizione di partiti, che avesse ottenuto il 50% più uno dei voti. La "legge truffa", come l'avevano ribattezzata le opposizioni. Alla lotta e all'ostruzionismo in parlamento si erano aggiunti gli scioperi di protesta in tutto il paese. Uno degli incarichi dei dirigenti era di improvvisare comizi davanti alle fabbriche, grandi o piccole che fossero. Tommasini in Viale Fratti: davanti ai laboratori artigiani e a un grande magazzino di frutta. Era salito su una sedia, il suo "podio volante". C'era gente che si fermava ad ascoltare, altra che passava. Sul mezzogiorno era arrivato un "gippone" della Celere. "Con molte cannellate, mi hanno caricato e portato in Questura. Chiuso in una stanzetta, una cella. Rovinato dalla botte, mi hanno tenuto lì per un paio di giorni. Senza mangiare. Poi il trasferimento in carcere. Verso le cinque del pomeriggio". E' da ricordare il dialogo minimo con un agente di custodia, nel corridoio che portava alle celle: "Scusate a che ora si mangia qui?". "Alle cinque". "Ma sono già passate, che cosa posso fare?". "Niente, non mangi". "La miseria! Ma...". "Perché te la prendi tanto per una cena? Mangerai domani". "Perché sono due giorni che non prendo una briciola di pane". "Ma che cosa hai combinato di grave?". "Stavo parlando... sono comunista... stavo facendo un comizio non autorizzato". Il carceriere aveva una borsetta nera, di plastica. Aveva aperto la cerniera e tirato fuori due rosette di pane. "Guarda, è la mia cena. Non è un granché. Cosa vuoi, con la nostra paga: io poi ho moglie e tre bambini. Ma tu hai più fame di me. Prendi". Si chiamava Gennaio, questo agente. Abitava in un borgo vicino. "Avevo chiesto di essere messo in cella assieme a due compagni, Ghiozzi e Romanini. Loro erano già dentro. Mi hanno accontentato. Di solito il rispetto per i detenuti politici era diverso da quello riservato agli altri". Il giorno dopo, nel cortile per l'"ora d'aria", avevano conosciuto un gruppo di giovani comunisti di Reggio Emilia. E con loro non c'era stato accordo quando, disobbedendo alle disposizioni del partito, Ghiozzi, Tommasini e Romanini avevano organizzato quel sit-in nel cortile del carcere in difesa di un "detenuto comune" maltrattato dagli agenti. Racconta Tommasini: "In disaccordo con i compagni di Reggio, ligi alla 'linea' del partito, ci rifiutavamo di lasciare il cortile. Dovevamo difendere quel poveraccio. Se volevano farci sgombrare, avrebbero dovuto portarci via di peso. Ci sembrava di vivere in uno di quei film americani sulle carceri. Da oltre il cancello, era venuto il direttore con due agenti armati a fianco. Aveva il codice in mano. 'Secondo l'articolo tale… le ribellioni, gli ammutinamenti... processo per direttissima... condanne da uno a tre anni'. 'Direttore, in carcere ci siamo già. Ma quando usciremo diremo come trattate questi poveretti'. Rimanevamo seduti. Se uno aveva bisogno del gabinetto, ci andava in ginocchio, per non farsi vedere in piedi. C'era tra i detenuti chi conosceva il codice meglio del direttore, o almeno di quel che il direttore faceva finta di sapere. Ci dicevano che al massimo ci sarebbero toccati sei mesi di carcere". Era arrivato anche il prete assistente del carcere, don Bussoni. Aveva cercato di mediare. Convincere il direttore che le nostre richieste erano giuste. Era suonata la campanella, senza che niente fosse cambiato. Il direttore sembrava deciso a non concedere nulla. I politici continuavano a rimanere seduti nel cortile. A cantare Bandiera rossa e i canti dei partigiani. Forse le parole di conciliazione di don Bussoni, forse l'evidente volontà dei politici di proseguire ad oltranza la protesta, avevano finito per far cambiare parere al direttore. E prete era corso nel cortile: "Il direttore si è impegnato a trattare bene il detenuto malato. Ragazzi, siamo alla vigilia della Domenica delle Palme, vi porterò l'ulivo, vediamo di volerci bene". Quando nel cortile si erano ritrovati tutti, i detenuti "comuni" avevano preso sulle spalle quei politici che avevano protestato per loro. Tutti gridavano. Qualcuno cantava. Il giorno dopo il capo degli agenti era andato ad aprire la cella: "Ghiozzi, Romanini, Tommasini, figli di puttana, raccogliete le vostre robe che ve ne andate, non vi vogliamo qui". Espulsi dal carcere. Per Tommasini era un'altra puntata della storia cominciata da bambino. Espulso dalla scuola, espulso dal campo solare, espulso dalle colonie, espulso dalla fabbrica. Espulso dal carcere. Nel piazzale, davanti a San Francesco, c'era ad attenderli un gruppo di donne. Le mogli, le madri. Forse era stato anche per le loro proteste che si era deciso di lasciarli andare liberi. Tra le donne anche la moglie di Mario, la Lina. Che in braccio aveva il figlio di pochi mesi. Imbacuccato: era una giornata fredda, di vento, con fili di pioggia. Si ripeteva identica la vicenda di venti e anche più anni prima. Quando davanti al carcere, in un'altra giornata buia, a protestare, a chiedere la libertà dei loro uomini, c'erano le donne dei borghi di allora, e tra loro la madre di Mario. Con lui, di pochi mesi, in braccio. E le due storie si erano concluse nel medesimo modo: con una bronchite del bambino. Lina e Mario erano stati una coppia da sempre. Queste pagine hanno già sfiorato la loro storia. Finita la guerra c'era stato un lavoro in fabbrica anche per lei. Poi, per Mario, il licenziamento dalla Fruges. Lavori di giornata, di occasione: rimedi per portare in casa qualche lira, non per dare realtà al progetto, rimbalzato da una sera all'altra, di sposarsi. Poi le cose avevano comandato di andare oltre le difficoltà. Una vita finita e un'altra che si annunciava. La morte del padre di Mario e la certezza, per la Lina, di essere in attesa di un bambino. Era sfumato anche un progetto per rompere la disoccupazione: emigrare in Venezuela, dove due cugini avevano costruito un'impresa e avevano scritto che un lavoro c'era anche per lui, Mario. Progetto sfumato perché a passaporto, per "ragioni politiche", non era stato concesso» (pp. 134-137). La lotta nel partito «"Per fortuna che nel 1948 abbiamo perso. Io sarei finito in un manicomio. E anche molti di voi ci sarebbero. Un manicomio politico, come in Russia". Dopo la denuncia dei crimini di Stalin fatta da Kruscev, dopo la rivolta operaia in Polonia e l'insurrezione ungherese schiacciata con i carri armati sovietici, dubbi e angosciati ripensamenti si erano insinuati nel popolo comunista e avevano messo in moto un lento, ma radicale rivolgimento negli organi centrali del partito. Ma quelle parole di Mario Tommasini erano sembrate a molti come una bestemmia in chiesa. Un eretico, al minimo: era il giudizio di chi rimaneva sostanzialmente stalinista, chiuso nella vecchia ortodossia delle idee e delle regole. Eretico aveva mostrato di esserlo infinite volte. Contro le burocrazie interne del partito. Anche in minime storie. Per esempio, ancora nel 1953, quando alla sezione Longhi si era alzato a parlare un giovanotto, un "netturbino", raccontando con chiarezza e passione i problemi dei suoi compagni di lavoro e indicando possibili, ragionevoli strade per risolverli. Tommasini aveva proposto subito di affidargli una cellula. "Impossibile" - avevano obiettato molti - "non ha nemmeno la tessera. Gli statuti non permettono di dargli incarichi". Statuti, regolamenti erano parole che non avevano mai fermato Tommasini: e il giovanotto era diventato segretario della cellula. O quando si era scoperto che un iscritto aveva in tasca anche tessere di altri partiti. A norma di regolamento, doveva essere espulso subito. Lui aveva cercato di spiegarsi. Era un poveraccio. Aveva a casa sei figli. Se qualcuno gli dava un lavoro, pur piccolo che fosse, non aveva il coraggio di rifiutare la tessera che il "datore" gli proponeva. "Ma sono comunista. Sono comunista anche per liberarmi da queste umiliazioni". Tommasini gli aveva creduto, aveva battagliato per lui, e l'espulsione non era arrivata» (p. 144). «La gestione della rete [del tram] si era snodata in una complessa storia, tra le amministrazioni comunale e provinciale, da una parte, e i concessionari privati dall'altra. A metà degli anni 1960 era maturata la decisione di togliere l'esercizio ai privati. Decisione obbligata ovviamente a passare attraverso trattative non sempre facili. La SoRiT, cioè l'azienda privata, aveva chiesto 700 milioni di lire per la cessione all'amministrazione pubblica: richiesta alla quale si erano opposti gli assessori, Brunazzi e Tommasini, ed Ercole Ghiozzi della Camera del Lavoro. "Perché tanto denaro pubblico per una impresa in fallimento, con un bilancio ogni anno in passivo?". Una vertenza trascinata mesi. Molti premevano per la soluzione: "Meglio pagare quel che vogliono piuttosto di continuare in questa situazione". Racconta Tommasini: "Un giorno, una persona che curava l'amministrazione del partito viene da me con altri. Mi invitano a prendere un caffè, al Bar Teatro. Chiacchieriamo, in amicizia. Ma nell'uscire, questo amministratore mi dice: 'Guarda, Mario, bisogna firmare l'accordo. La SoRiT darà poi una somma al PCI, una alla DC, una al PSI'. Lo guardo, un po' interdetto. Ma gli rispondo subito: 'Ah sì? Avete fatto bene a dirmelo. Adesso, a quella società, non darò nemmeno un centesimo. Così è stato, la rete è diventata di proprietà pubblica, senza spendere niente. Ma forse sono cominciate lì le mie disgrazie con il partito. Il parco macchine era stato acquistato: con il prezzo concordato tra un nostro ingegnere, un ingegnere della società e il capo officina. Un prezzo conveniente". Molti anni dopo, questo capo officina, Enore Comelli, dirà a Tommasini: "Ho fatto mettere in quadro il contratto: me l'avevi fatto firmare tu"» (p 152). La lotta contro il manicomio e le istituzioni totali «Erano arrivati i giorni [dell'Ospedale Psichiatrico] di Colorno. All'Ospedale Psichiatrico, ma tutto faceva ricordare il vecchio nome di manicomio, Tommasini era arrivato la prima volta in una giornata di nebbia. Aveva spento il motore della "Cinquecento" che gli era stata data dalla Provincia: si era fermato con la mano sulla chiavetta, come se qualcosa gli dicesse di rimettere in moto la macchina, di non varcare il portone, lugubre, che gli stava di fronte. Si era risolto a entrare. Mezz'ora, un'ora. Tommasini non lo ricorda. Ha in mente il tumulto che gli era cresciuto dentro, camminando in quei cameroni. Un tumulto ben visibile in volto se il primario gli aveva detto: "Assessore non le conviene stare qui, vedo che non si sente bene, venga un'altra volta". Racconta Tommasini: "Era vero, mi veniva da vomitare. Avevo visto un carnaio, malati nudi, donne con le vestaglie senza nemmeno la cintola, uomini seduti per terra, con la testa tra le mani, altri che camminavano strascicando, come se i piedi non volessero andare in nessuna direzione, vetri rotti, sporco dappertutto. Avevo sentito che un malato si era da poco impiccato". Tommasini era uscito, aveva avviato la "Cinquecento", preso la strada per Parma: "Continuavo a dirmi: no, non ce la faccio, domani mi dimetto. Però, contro questa voglia di scappare combatteva un desiderio opposto. Ed era questo che, alla fine, quando ero quasi arrivato in città, sentivo che stava vincendo. Perché devo dimettermi? Perché devo abbandonare quella gente? Là dentro avevo visto anche gente conosciuta tanti anni prima e scomparsa, senza che avessi mai saputo il perché. Gente anche del mio quartiere. E molti che erano stati partigiani o che avevo visto nelle giornate più dure delle battaglie sindacali e politiche. Moreschi, per esempio. Mi tornava in mente quand'era insanguinato accanto ad Attila Alberti. Posso davvero abbandonarli? Ma, poi, sono davvero matti?". Il giorno dopo Tommasini era ancora a Colorno. Davanti al direttore, ai medici (quattro per 1.300 ammalati), la superiora delle suore, i sindacati interni. La pietà per i malati, l'indignazione, la rabbia avevano tracimato ogni possibile diga della "diplomazia", del "garbo". Aveva detto, anzi gridato che quello non era un ospedale, era un lager e che i sistemi chiamati "terapia" erano nazismo. La superiora aveva avuto uno svenimento, il direttore aveva cercato una difesa, con ragioni anche vere: come poteva far fronte più seriamente alle difficoltà, grandissime, di quell'ospedale con soltanto quattro medici e mezzi scarsi per non dire nulli? A quell'esplosione era seguita sulle pagine della Gazzetta di Parma una protesta dei liberali: come si permette un letturista del gas attaccare un luminare della scienza come il professor Urbani? La conclusione era ovvia: una richiesta di dimissioni dell'assessore. Anche nel partito comunista le voci contro Tommasini erano in netta maggioranza. Era stata convocata la commissione federale. Primo Savani, già sindaco di Parma e presidente della Provincia non aveva avuto parole tenere: Tommasini si era comportato come un elefante in un negozio di cristalleria, l'ospedale aveva avuto profonde migliorie dal 1951, da quando era stato preso in carico dall'amministrazione socialcomunista, prima i malati dormivano sulla paglia, mangiavano per terra, c'era un'alta mortalità. Pochi si erano schierati con Tommasini: Ghiozzi, Brunazzi, Luigi Conti, Armando Grandi. Quelli che per la loro irruenza (e per la voglia di modificare le cose) erano chiamati "i Brutos". L'appuntamento segnato da attese diverse era il Consiglio provinciale. Come si sarebbe difeso Tommasini? Ma molti già prevedevano: attaccando. In ansia, però, lui lo era più di tutti. Quando la riunione stava già per cominciare, era corso al Bar Teatro. "Mi dà un cognac?". "Un cognac? Ma Tommasini, non l'ho mai vista bere". "Beh, oggi mi serve. Io ho la quinta elementare e dovrò vedermela con medici, ingegneri, avvocati. Tutti hanno una cultura che io non ho…". Aveva concluso: "Però io ho una cultura di cose che loro non conoscono". A dargli la parola era stato il presidente Righi, socialista. Mario aveva atteso un attimo: "E' la prima volta che parlo in Consiglio provinciale. Non vi farò un discorso teorico. Lascerò stare le ideologie che possono dividerci. Vi dirò soltanto dei fatti. Quel che i miei occhi hanno visto a Colorno. Mi direte voi se la situazione che ho incontrato è umana. Se è o non è un nostro dovere, umano, intervenire". E davanti ai consiglieri erano sfilate le immagini crude, reali, drammatiche degli orrori dell'ospedale. "Il direttore lavora giorno e notte. Non diamo a lui la colpa. La colpa, forse, diventerà nostra se non l'aiutiamo. E non aiutiamo le persone chiuse là dentro nel diritto ad essere uomini". Tra gli infermieri, se molti erano radicati nelle abitudini e avrebbero voluto che niente cambiasse, altri erano consapevoli dell'urgenza di cambiare le cose. Tra questi, Laura Campanini. Una persona di grande, intelligente umanità. Al Consiglio provinciale, prima sorpresa. Ad alzarsi era stato un consigliere del Movimento Sociale, il professor Moisè: "Io sono fascista. Non mi va molto venire ad ascoltare i discorsi che si fanno qui. Ma ogni volta che l'assessore Tommasini porterà l'argomento dell'Ospedale Psichiatrico, io verrò e sarò con lui. Perché ha ragione. Finalmente vedo un comunista che lotta per una causa giusta". Poi, passando davanti al banco della Giunta, aveva detto sorridendo: "Tommasini, ti ho creato problemi?". "Sì, professore, bombén, molti". "Beh, tu va avanti così". Seconda sorpresa. Il Consiglio si era chiuso con un ordine del giorno, votato all'unanimità, che invitava l'assessore ad adoperarsi per "umanizzare l'Ospedale Psichiatrico". Certo, aveva ragione Savani nel dire che già dal 1951 erano stati introdotte misure umanitarie nell'ospedale. E avrebbe avuto ragione chi, guardando alle cose del passato remoto, avesse concluso che già nell'Ottocento la condizione dei "matti" aveva conosciuto qualche miglioramento. All'inizio di quel secolo a Londra, come in altre città europee, i malati di mente erano esposti al pubblico, dietro pagamento, come bestie rare. Un documento del 1815 informa che i visitatori di un manicomio inglese erano stati l'anno precedente 96.000: i "furiosi" erano mostrati per un penny, ogni domenica. In Francia, prima della Rivoluzione, lo spettacolo dei "grandi insensati" era una delle distrazioni domenicali della borghesia. Scrittori come Mirabeau si indignavano: "Questi poveri esseri sono mostrati come bestie per la curiosità del primo tanghero che vuole spendere un soldo". Michel Foucault scrive che "alcuni carcerieri erano molto reputati per la loro abilità nel fare eseguire dai folli mille giochi di danza e di acrobazia, ricompensandoli con qualche colpo di frusta". A Parma i malati di mente erano stati trasferiti nel 1873 dagli Ospizi Civili al manicomio di Colorno. Esservi ricoverati era facile. "Chiunque ritenesse un individuo 'pericoloso a sé o agli altri' - spiega un fascicolo dell'amministrazione provinciale - poteva chiederne l'internamento tramite un certificato medico presentato al pretore". E ancora: "Meandri, stanze, porte, finestre, anfratti... tutto rigorosamente sbarrato, sigillato, murato". Alcuni medici, anche allora, avevano protestato contro queste segregazioni spacciate per necessità terapeutiche. Ma le loro voci si erano perse, "segregate" anche loro, per lasciare spazio alla sola funzione concreta dei manicomi: quella di essere una delle valvole di sfogo dei problemi sociali. "Seppellire chi era in un qualche modo diverso"» (pp. 152-156). «"Di Basaglia sapevo ben poco. Voci, più che altro. E le parole del professor Minguzzi. Anche questo Basaglia era un professore. Ma non sembrava rassomigliare agli altri. Diceva, da quel che avevo sentito, che se il malato si trattava diversamente, anche la malattia si modificava. Gli avevo telefonato a Gorizia, al suo ospedale. E mi aveva dato appuntamento a Padova. Lui doveva andare in quella città e avremmo potuto parlarci. Dove? Mi aveva fatto il nome di un caffè". E caffè era il più famoso di Padova, il Pedrocchi. Si erano seduti a un tavolino e Tommasini gli aveva raccontato delle esperienze che si stavano facendo a Colorno. "Da quanto tempo ti occupi di questi problemi?". "Da pochi mesi, professore". "Dammi del tu. Raccontami". Tommasini aveva parlato di un progetto di impianti sportivi, di laboratori. La Provincia aveva un grande appezzamento di terreno, avrebbe voluto aumentare i posti letto, da 1.200 a 2.400. Raddoppiarli. "Ma da quel che ho potuto capire non mi sembra che sia questa la strada da seguire. Anzi, al contrario. Cercare di portar fuori qualche malato". Basaglia non diceva niente. Al massimo, rideva. "Eppure quello spilungone, asciutto, sui quarant'anni e l'aria di ragazzo, mi affascinava". Alla fine, mi aveva detto: "Senti, vieni a Gorizia appena puoi. Stai con noi un paio di giorni, guardi le cose. E parliamo con calma". Al ritorno aveva riferito dell'incontro al professor Fabio Visentini. Lui aveva conosciuto Basaglia. "Assessore, facciamo una cosa. Andiamoci assieme, a Gorizia". E così era stato. "Appena dentro il parco, mi sembrava di essere entrato in un altro mondo. Nessuna distinzione tra malati, infermieri, dottori. Niente camici bianchi. Ognuno andava dove voleva. Qua e là riunioni di gente che discuteva. Tutti potevano prendere la parola. E parlavano di tutto. C'era chi veniva da fuori, a fotografare. Anche nell'ufficio di Basaglia c'era pieno di gente. Chi entrava, chi usciva. Magari qualche giornalista, qualche infermiere, di sicuro qualche matto. E dicevo la parola sorridendo. Il professor Visentini indicava uno o un altro: e quello chi sarà? Professore, ne so meno di lei. Era molto colpito. E io cominciavo a sentirmi a casa". Basaglia, salutandoli, aveva proposto: "Andiamo a mangiare". "Dove?". "Con i matti". E la sera, la cena al Nova Goriza. "Quel che ci spiegava Basaglia ci incantava. Una gioia che non so ridire". Il modo di guardare alla malattia mentale veniva rivoluzionato. "Non si trattava soltanto di umanizzare il manicomio: era la sua esistenza stessa che veniva messa in discussione, nella teoria e nella pratica. Mi sembrava di sognare". L'entusiasmo di Tommasini era condiviso dal professor Fabio Visentini, che in un suo libro Diario di un cittadino psichiatra scriverà: "Nell'apprendere che (Basaglia) aveva lasciato l'università per un ospedale di provincia ne fui rattristato. Ma quando venimmo insieme a Mario Tommasini a Gorizia, a visitare l'ospedale dove lavorava, non rimpiansi quel suo abbandono. L'impressione che ne ricevetti fu di assistere a una straordinaria scoperta terapeutica". A dirigere l'ospedale di Gorizia, dopo l'esperienza fatta come assistente alla Clinica Neurologica dell'Università di Padova, Basaglia era arrivato sulla fine del 1961. Aveva 37 anni. L'ospedale era un manicomio gestito con metodi tradizionali. Un mondo chiuso da confini invalicabili. Celle d'isolamento, catenacci, griglie, grate. Per gli "agitati" una gamma di costrizioni fisiche che andava dalle gabbie intorno al letto alle cinghie, alle camicie di forza, alla "strozzina", estremo rimedio alle situazioni di emergenza, che consiste nel gettare sulla testa del malato un lenzuolo bagnato e chiuderglielo al collo per farlo svenire. Il giornalista Fabrizio Dentice dell'Espresso, visitando Gorizia all'inizio del 1968, aveva visto tutto questo radicalmente trasformato: "Ora l'ospedale, che accoglie 550 pazienti, è tutto aperto, le divisioni fra i reparti sono state abbattute, in fasi successive, dagli stessi degenti; i mezzi di costrizione sono esclusi, e per dare una pillola a un paziente, o fargli una puntura, bisogna prima persuaderlo ad accettarla. Chi vuole lavorare, lavora e ha un compenso. Aboliti gli orari, la maggior parte della giornata passa in riunioni cui tutti sono liberi di intervenire o meno. Vi si discutono iniziative e problemi della comunità, e problemi personali". Dentice aveva anche notato: "Altri sarebbero contenti di avere instaurato, in luogo di un regime reclusorio, un regime di libertà, con una parvenza di vita democratica. Ma Basaglia e la sua équipe lo sono fino ad un certo punto: temono più che mai l'equivoco di una finta libertà e di una finta democrazia di cui il malato si appaghi, come il bambino di un giocattolo. Il malato appagato sarebbe la contraddizione di tutta la loro guerra alla istituzione psichiatrica: sarebbe un malato integrato nel sistema che vogliono scardinare". Parlando di quel che continuava ad accadere nei manicomi italiani, Michele Tito scriveva sulla Stampa: "Ogni giorno duecento 'sconfitti' varcano le soglie dei manicomi. Portati a forza, indotti con l'inganno o consenzienti, sono uomini e donne in preda al terrore. Affrontano l'ignoto. La loro 'carriera morale' non dipende dal loro male, dipende dalla sorte. In alcuni ospedali rimangono uomini e hanno speranza di guarire; in altri l'ospedale rimane il carcere 'chiuso' che riflette le paure ataviche del mondo che lo circonda, e non c'è speranza". "Ergastolani senza condanna", secondo una espressione di un'altra giornalista, Mariella Crocillà. E lo stesso Franco Basaglia, in una introduzione che sintetizzava l'iniziale significato dell'esperienza, scriveva: "Noi neghiamo la disumanizzazione del malato come risultato ultimo della malattia, imputandone il livello di distruzione alle violenze dell'asilo, dell'istituto, delle sue mortificazioni e imposizioni; che ci rimandano poi alla violenza, alla prevaricazione, alle mortificazioni su cui si fonda il nostro sistema sociale". Basaglia incontrava contestazioni dure, feroci: ma possiamo anche dire ovvie. Incontrava anche fraintendimenti. Si infuriava quando sentiva dichiarare che secondo lui "la malattia mentale non esiste". Quando il suo discorso articolato, complesso, veniva banalizzato "come se la malattia psichiatrica fosse una invenzione". Non mancava, soprattutto nei giornalisti, la tentazione di ironizzare. In una trasmissione televisiva un cronista intervistava un gruppetto di giovani che andavano "a trascorrere le vacanze in mezzo ai matti". Erano volontari che si andavano a mettere a disposizione proprio dell'ospedale di Gorizia. Alcuni medici della squadra di Basaglia avevano accompagnato sulle montagne verso Tarvisio molti ospiti dell'ospedale. Una iniziativa in tutta evidenza lodevole, ma che appariva "stralunata" agli occhi di chi era abituato a pensare ovvio, necessario l'orrore del manicomio. E "stralunati" anche quei giovani che andavano in vacanza, "matti tra i matti"» (pp. 165-168). «Per Tommasini era cominciato una specie di pellegrinaggio. A Gorizia, appena poteva. E Basaglia era venuto a Parma, nel 1967, per un dibattito. Racconta Mario: "Pensavo che gli istituti assistenziali fossero una necessità. Per i matti il manicomio, per i bambini abbandonati il brefotrofio, per gli anziani soli l'ospizio. Con Basaglia ho imparato tutto. Ho imparato a rifiutare queste soluzioni, cercarne altre. Ho capito il vero scopo di queste istituzioni: accantonare i problemi sociali più scottanti. L'assistenza era un alibi. E che assistenza, poi". Abbattere l'istituzione manicomio. Il pensiero articolato di Basaglia coincideva perfettamente, come la tessera di un mosaico, con i sentimenti e le intuizioni libertarie di Tommasini. "Bisognava liberare i malati dall'istituzione manicomio". Un comandamento che non poteva rimanere a lungo teorico: doveva tradursi in pratica. Un esempio, già nelle cronache del 1967. L'amministrazione provinciale aveva ragazzi ciechi, sordomuti, handicappati in diversi istituti fuori provincia ai quali pagava rette "non indifferenti". A Sospiro di Cremona, tra gli altri centri. La proibizione ad entrare nell'istituto di Sospiro era rigorosa. Perfino per gli assessori di quella Amministrazione che, appunto, pagava le rette. Tommasini e un assistente sociale erano riusciti, tuttavia, sfruttando una serie di circostanze favorevoli a penetrare in quell'edificio chiuso peggio di un carcere. "Ricordo che trovammo in una stanza una trentina di ragazzi nudi, coperti solamente da uno straccio che arrivava all'ombelico, in mezzo a venti centimetri di piscio e feci: una cosa rivoltante. Lo ebbi la forza di non dire niente ma andai di volata dal presidente della provincia, Righi". Il 5 dicembre Righi aveva guidato, con Tommasini, una commissione provinciale a Sospiro. Con loro c'era un giornalista della Gazzetta di Parma, Nicola Pressburger. Dalla sua cronaca leggiamo: "Uno stanzone è chiamato 'reparto sudici'. Qui sono ammassati a decine ragazzi e uomini che passano le loro giornate tutti insieme, a piedi nudi sul pavimento di mattonelle, vestiti di una sola camicia. 'Non sono persone umane queste - dice un medico - somigliano a un branco di maialetti. Non possiamo fare diversamente, non possiamo vestirli: in poco tempo sporcherebbero tutto, bisognerebbe cambiarli dieci-venti volte al giorno'. Abbandonati ai loro movimenti disordinati, questi esseri vegetano lì, saltellano con i piedi arrossati e gonfi". "Questi poveretti che loro chiamavano 'sudici' - dice Tommasini - era gente emarginata, violentata, priva di qualsiasi aiuto. Nessuno diceva loro: lavati, tagliati le unghie, fatti la barba. I 'sudici' diventavano sempre più tali. Ricordo che il consigliere liberale Alpi, con gli occhi rossi per la commozione e la rabbia, diceva: 'E allora uccideteli'. Un paradosso, per gridare a quei dirigenti: vergognatevi". Per togliere i ragazzi da quell'orrore fu preparato in fretta un appartamento, dove prima viveva il direttore dell'Azienda del gas. In venti giorni i muratori avevano fatto i lavori necessari e si era cominciato a ritirare i ragazzi. Da Sospiro, ma anche da Ficarolo, da Fidenza, da altri istituti. Parlando in pubblico della situazione, Tommasini aveva accennato alla storia di un ragazzo, Massimiliano: nell'istituto era stato dichiarato sordomuto, ma dopo un mese dalla sua "liberazione" aveva preso a parlare normalmente. Nell'indicare da quale istituto fosse stato preso il ragazzo, Tommasini si era sbagliato. Al momento non ricordava se da Sospiro o da Ficarolo. E per questo fu denunciato e processato. Dopo molti rinvii, il processo si era concluso con l'assoluzione: quel che era stato detto di un istituto e dell'altro corrispondeva alla verità. Come in molte altre occasioni era stato accanto a Tommasini l'avvocato Aldo Cremonini (sindaco di Parma tra il 1975 e il 1980). Racconta Tommasini: '"Volevo che i ragazzi trovassero un ambiente non soltanto pulito, ma bello: per tentare anche con questo di far dimenticare l'inferno dal quale erano arrivati. Al presidente Righi dissi che mi sarebbe piaciuto un arredamento con i mobili eleganti di Gabba. E andai da Gianni Gabba. Spiegai la situazione. Ma voglio, gli dissi, i lettini più belli, gli armadi più belli, i comodini... E lui completò: 'Ti do anche i lampadari'. 'Ma mi fai uno sconto'. Lui tirò fuori una fattura: 'Mi date la metà di quel che ho pagato'". Il manicomio era stato "occupato". Da parte del movimento studentesco. "Riteniamo la medicina come è insegnata e applicata oggi una istituzione classista, e su questo vogliamo sensibilizzare l'opinione degli studenti e del pubblico", erano le parole di uno degli organizzatori dell'occupazione, lo studente Raffaele Frau. "Per noi il discorso sulla psichiatria è un momento di un discorso politico generale". La decisione di occupare il manicomio di Colorno era stata presa nell'ufficio dell'assessore Tommasini. Presenti Franco Basaglia (in partenza per gli Stati Uniti), il medico Antonio Slavich (il primo a trasferirsi da Gorizia a Parma) e tre studenti: Frau, Tradardi, Terzano. Incontri, dibattiti: dentro e fuori l'ospedale. Si legge sul settimanale L'Espresso del 16 febbraio 1969: "Gli occupanti rispondono con volantini e manifesti ai benpensanti locali che l'altra notte sono venuti a gridare davanti al portone e a strappare i cartelli che dicono 'No al manicomio dei poveri', 'Se l'ospedale psichiatrico serve a curare le malattie mentali, i malati ricchi dove sono?'". A una assemblea all'interno del manicomio aveva assistito un inviato dello stesso settimanale, Fabrizio Dentice. Nel suo articolo si legge: «A un tavolo minuscolo dal piano di formica rossa, uno studente con un maglione color cannella presiede la riunione, dà e toglie la parola. Intorno, seduti e in piedi, stanno una settantina di uomini e donne di varia età: infermieri, anziani e giovani, studenti, due medici. Gli infermieri sono turbati, divisi. Quattro giorni di occupazione li hanno messi in crisi: si sono sentiti esposti all'opinione pubblica e a se stessi, criticati, discussi, stimolati, responsabilizzati. Per la prima volta molti di loro hanno sentito contestata l'istituzione in cui operano: chi reagisce attaccandosi aggressivamente al suo ruolo tradizionale, chi si è già persuaso che deve rifiutarlo, cercarsene un altro. Ora hanno voluto questa assemblea-incontro con gli studenti per accusarsi e difendersi, chiarirsi le idee; ed è come se avessero sollevato il coperchio di una pentola a pressione. Una donna dai capelli bianchi (una infermiera) che deve essere stata molto bella grida: 'Sono qui dentro da 28 anni e ho sempre sbagliato. Ho sbagliato perché facevo quel che mi dicevano di fare. Non ho mai contestato e adesso ho capito. Di fronte ai malati ho fatto la parte dell'aguzzina. Io li legavo perché il medico mi diceva di legarli o di mettergli i polsini. Poi quando s'erano calmati veniva il medico e li liberava. Il malato dice: il medico mi ha slegato, ma non sa che è stato lui a farlo prima legare. Il medico passa, guarda e se ne va: dedica a ogni malato 45 secondi e noi restiamo con i nostri problemi legati agli ordini, senza discuterli...'. 'Con certi medici non si riesce mai a parlare. Non hanno tempo. Scrollano le spalle infastiditi. Eppure bisognerebbe riunirci, discutere'". Anche il rettore dell'università aveva partecipato a una assemblea. La città, per decenni (ma sarebbe più esatto dire da sempre) si era mostrata indifferente alla realtà nascosta dentro la parola "manicomio", adesso cominciava ad aprirsi alla consapevolezza di quanto fosse inaccettabile che esseri umani fossero derubati di ogni loro diritto alla dignità. Nasceva l'Associazione per la lotta contro le malattie mentali. Contro, ovviamente, come venivano affrontate le malattie. Le ACLI, l'associazione dei lavoratori cristiani, si univa ai molti gruppi di sostegno in favore di quelli che poi sarebbero stati chiamati i "matti da slegare"» (pp. 170-173). «Era stato sul finire del 1969 anno che Franco Basaglia si era trasferito a Parma. Il professor Visentini era tra i suoi più concreti sostenitori. Gli aveva aperto le porte dell'università e nel suo libro Diario di un cittadino psichiatra si legge: "Al suo corso di igiene mentale si iscrivevano in massa gli studenti di medicina, ma ne venivano in buon numero dalle facoltà di magistero e di giurisprudenza e anche dalle scuole medie. L'aula era sempre affollatissima, come non lo era mai stata prirna". Basaglia lavorava per infinite ore. Allo sfinimento. Ricorda il dottor Giorgio Frigeri: "Lo conoscevo da poco. Ma la confidenza era stata immediata. Proprio in quei primi giorni mi aveva chiesto: 'Posso venire a fare una doccia a casa tua?'. L'avevo portato a casa e presentato a mia moglie: 'E' il nuovo direttore, vorrebbe fare una doccia'. 'Ma certo'. Ed era diventato di casa, amici". Non pensava che alle sue battaglie, dure. Altre preoccupazioni non lo sfioravano. Un giorno, la moglie di Tommasini, ricevendolo in casa, gli aveva fatto notare, ridendo: "Ma professore, si è messo due calze diverse. Una rossa e una nera". Le idee sul manicomio - spiegava Basaglia - riguardavano anche altre realtà. Come il brefotrofio, il carcere minorile, gli istituti speciali per handicappati, l'ospizio per i vecchi. Chi ha bisogno di aiuto trova in queste istituzioni, sotto l'alibi della assistenza, il sigillo che li chiude per sempre nella loro condizione. Negli anni di Parma, come già a Gorizia, Basaglia era stato avvicinato da molti giornalisti. Il dialogo che segue è ritagliato da un articolo di Sergio Zavoli apparso sulla Domenica del Corriere. Una delle domande aveva riguardato le cure alla malattie psichiche così come si praticavano nei manicomi. Risposta: "Io non saprei assolutamente proporre niente di psichiatrico in un manicomio tradizionale. In un ospedale dove i malati sono legati, credo che nessuna terapia di nessun genere, biologica o psicologica, possa dare un giovamento a persone costrette in uno stato di sudditanza e di cattività da chi le deve curare. Può esservi una possibilità di cura dove questa cura non sia anche una libera comunicazione fra medico e malato?". Aveva domandato Zavoli: "Si dice che i suoi interessi politico-sociologici siano preminenti rispetto ai problemi strettamente psichiatrici...". Basaglia aveva risposto: "Io faccio questo mestiere tenendo presente che esistono due tipi di psichiatria: quella per i poveri e quella per i ricchi. Questa contraddizione, che esprime nella sua totalità le contraddizioni della nostra società, si manifesta nel modo più evidente negli ospedali psichiatrici. Quando una persona povera disturba, malata o no che sia, va a finire o in manicomio o in carcere. Intendiamoci, io non dico che il malato di mente non sia pericoloso, però dico che la pericolosità non dipende soltanto dalla sua malattia, ma da molteplici fattori che vanno indagati e rimossi. La malattia mentale non è soltanto una situazione biologica, è un insieme di fattori che giustificano, nelle sue vittime, le spinte a determinati comportamenti". Basaglia aveva trovato a Parma il sostegno pieno di Tommasini. Non di tutta l'amministrazione. Qualche freddezza, qualche insofferenza: puntigliose attenzioni sulle spese, perfino per le telefonate che alcuni trovavano eccessive. Quando. dopo un anno dal suo arrivo, gli amministratori di Trieste lo avevano chiamato a dirigere il servizio psichiatrico della loro città (ed erano state richieste pressanti, oltre che impegni per un lavoro in totale libertà), Basaglia aveva accettato di andarsene. Lo racconta Franco Rotelli. Allora Rotelli era uno dei medici venuti a lavorare con Basaglia. Poi sarebbe diventato il suo braccio destro e oggi è il direttore generale dell'Azienda dei servizi sanitari di Trieste» (pp. 175-177). La chiusura del brefotrofio «Un impegno non facile [la chiusura del brefotrofio], con l'aiuto di molti (il professor Minguzzi era venuto a parlarne al Teatro Regio, stracolmo di gente) e l'ostilità di altrettanti. Una quarantina di persone aveva partecipato all'occupazione dell'istituto. Nel proposito di farlo chiudere, Tommasini era entrato nel Consiglio di amministrazione dell'Ospedale, organo dal quale dipendeva il brefototrofio. Alla fine del 1973 poteva essere annunciato che "il Brefotrofio di Parma, fondato con decreto ducale il 12 settembre 1817 come Ospizio degli esposti, era soppresso". E per la più bella delle ragioni la mancanza di bambini ricoverati". Brefotrofio, ospizio degli esposti, istituto dei trovatelli: tanti nomi lungo tanti secoli per un luogo non separabile dalla tristezza anche se nato dalla carità, dalla volontà di salvare in qualche modo i bambini abbandonati. Le suore e le infermiere che ne prendevano cura erano, molte volte, animate da propositi ottimi: ma al bisogno infinito di amore, di carezze, di attenzioni che ogni bambino ha in sé non bastavano (ed erano i casi più fortunati) madri a ore, da dividere con molti altri. A Venezia, fin dal Trecento, esisteva uno Spedale per i "fantolini": chi portava il bambino lo deponeva, senza farsi vedere, in una "ruota", una specie di gabbietta girevole. Dall'altra parte qualcuno provvedeva a "ritirarlo" e di solito trovava tra le fasce del piccolo - com'è stato ricordato sulla Repubblica - un "segnale": una lettera accompagnata da un santino o da una medaglietta tagliati in due. Una delle lettere rimaste dice: "Per fatali condizioni dobbiamo affidare questo innocente fanciullo alle cure di questo istituto. In nome di Dio, della Santissima Vergine e di tutti i santi, il Cielo faccia che fra poco lo riprendiamo fra le nostre braccia". La seconda metà del santino o della medaglietta avrebbero attestato che chi veniva a riprenderlo erano gli stessi che l'avevano portato. La lettera è ancora in un armadio, dopo più di un secolo, assieme a molti altri "segnali". La miseria o chissà cosa aveva impedito alla madre di riabbracciare il bambino. A volte, però, non la povertà, ma pregiudizi o altro facevano accostare alla ruota persone per nulla classificabili come bisognosi. Contro di loro la Chiesa si scagliava. "Fulmina Signore Jddio - scrive nel 1548 papa Paolo III - maledizioni e scomuniche quelli quali mandano i loro figlioli e figliole sì legittimi come naturali, in questo ospedale della Pietà avendo modo e facoltà di poterli allevare". Con altri nomi e altri modi, gli "spedali" erano disseminati dappertutto, a Venezia come a Parma. Nell'annunciare la fine dell'istituto, Tommasini aveva potuto dire: "A Parma, in questi ultimi quattro anni, sono passati dal Brefotrofio 77 bambini. Pochissimi sarebbero tornati nella loro vera famiglia o in una nuova, se fosse mancato questo intervento. Questi bambini avrebbero ingrossato il numero degli altri illegittimi (84 nel 1969 già trasferiti in altri istituti per avere compiuto il terzo anno di età). Così si festeggiavano un tempo i compleanni degli illegittimi. E non si sa quando sarebbero usciti. Gli ultimi tre bambini dimessi dal brefotrofio, dove sono nati: sono P., di tre anni, down; O. di due anni, down; L., di quattro anni, afasico. P. ha trovato l'amore di una famiglia operaia della Bassa parmense. L'altro ieri, la sua nuova mamma, mentre ci mostrava il bambino, diceva che 'capisce tutto', è sempre più allegro, gioca ed è sereno. Prima non stava in piedi, ma grazie all'impegno della 'mamma' che ha imparato a fargli i massaggi per aiutarlo a muoversi, riesce a reggersi, a camminare. E piange alla mattina perché vuole andare nel letto dei 'genitori'. L. è stato affidato alla famiglia di un maestro elementare del Reggiano. In questi giorni entrerà, come tutti i bambini, nella scuola materna del suo paese. Questa è una dimostrazione pratica che di impossibile al mondo non c'è niente; basta avere fiducia negli uomini, chiara coscienza ideale, e volontà politica unita a una giusta linea amministrativa". L'ultimissimo a trovare una famiglia era stato il bambino più fragile. Undici mesi, sindrome di down. Asma, bronchite, mal di cuore. La sua storia, assieme ad altre, è raccontata in un libro di Catia Spaggiari, Oreste che doveva morire, pubblicato dal Gruppo consiliare Libera la libertà. Oreste era quel bambino. E che fosse destinato presto a morire, lo dicevano anche i medici che l'avevano visitato. "Se deve morire", aveva concluso una donna di Sissa, Ones, "che almeno muoia in una casa, con una famiglia attorno". Ones aveva sessant'anni. Viveva con la sorella Bruna e il figlio di Bruna, Auterio, un ragazzone di trent'anni. C'era stato un consiglio di famiglia, concluso con un accordo pieno. Quel "sacchetto di ossicine", come diceva Ones, era stato adottato. Contro il parere di molti: "Quelle donne sono diventate matte". La presenza del bambino aveva trasformato la povera casa di campagna. Piccole cose l'avevano resa più accogliente, colorata, calda. Oreste era stato portato da un fisioterapista: e la nuova mamma era stata attenta ai gesti del professionista, li aveva imparati alla perfezione, per rifarli poi lei, negli anni. Non aveva potuto sostituirsi ai medici per il cuore malato del bambino, Se n'era occupato il professor Umberto Squarcia: il piccolo era stato portato in un ospedale specializzato di Bergamo, per un intervento a "cuore aperto". "Professore, come facciamo? Io non ho da pagare". "Non si preoccupi signora, l'operazione si farà". Ed era stata fatta: con un esito che andava oltre ogni speranza. Oreste è cresciuto. Sano, robusto. E stato tra i banchi delle elementari e delle medie. Lui, il "bambino che doveva morire", è diventato un uomo. "Di impossibile non c'è niente", è stato ripetuto molti anni dopo. "Non è impossibile nemmeno credere che le idee di Basaglia possano essere riprese, anche quando si è visto che la legge nata dalla sua volontà è rimasta poi soltanto parzialmente realizzata e in molti casi dimenticata. Come stracciata"» (pp. 182-184).
Nota: Questa versione contiene alcuni passaggi in più rispetto alla versione pubblicata ne Il Ruolo Terapeutico (2006, 103: 77-94), dove vi è anche solo la prima foto. Qui sotto vi sono altre foto, tra cui una con Enrico Berlinguer, una con Walter Veltroni, e una mentre distribuisce il suo giornale Noi.
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