PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Dalle Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"
pubblicate sulla rivista

 

Il Ruolo Terapeutico, 2007, 105: 51-61

L'inconscio psicoanalitico e l'inconscio cognitivo
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Recentemente sono stato invitato al Settimo Convegno Nazionale della Società Italiana di Analisi Transazionale (SIAT), che aveva come titolo "Attualità dell'inconscio", e che si è tenuto al Pontificio Ateneo Salesiano di Roma dall'8 al 10 dicembre 2006. In quel convegno mi è stato chiesto di intervenire ad una Tavola Rotonda dal titolo "I modelli psicodinamici e cognitivi", in cui mi confrontavo con Antonio Semerari (un noto esponente della scuola romana di terapia cognitiva), e in cui Giorgio C. Cavallero e Pio F. Scilligo fungevano da discussants. E' stata quindi una occasione per discutere sul concetto di inconscio cercando di vederlo sia dal punto di vista psicoanalitico che da quello cognitivo. Riporterò qui, molto liberamente e in modo discorsivo, alcune delle riflessioni che ho esposto in quell'interessante dibattito, e parlerò dell'inconscio psicoanalitico e dell'inconscio cognitivo senza la pretesa di essere esaustivo. Per approfondimenti, rimando a contributi della letteratura specializzata, alcuni dei quali sono disponibili anche in italiano (vedi soprattutto Eagle, 1987, e Westen, 1999). Fornirò essenzialmente degli spunti di riflessione, senza pretesa di sistematicità. Innanzitutto cercherò di delineare le differenze sostanziali tra questi due tipi di inconsci.

Prima di parlare di inconscio psicoanalitico e di inconscio cognitivo, occorre precisare che non si tratta di due "fedi" in contrasto tra loro, una degli psicoanalisi e l'altra dei cognitivisti, ma di due tipi di processi inconsci studiati maggiormente da autori della tradizione psicoanalitica il primo e da autori di quella cognitiva il secondo. Intendo dire che ormai per la maggioranza dei ricercatori non vi sono più sostanziali differenze di opinioni sulla natura dell'inconscio, e questo è stato possibile anche grazie ai progressi delle neuroscienze. Si è capito per esempio che non esiste "un inconscio", ma "molti inconsci": alcuni tipi di inconscio sono quelli a cui fanno maggiore riferimento gli psicoanalisti, e altri sono quelli più studiati dai cognitivisti, ma entrambi gli psicoanalisti e i cognitivisti sono ben consapevoli dell'esistenza di questi diversi tipi di inconscio. Divergenze possono esservi riguardo alla relativa importanza che certi processi inconsci hanno nella terapia oppure nella formazione di alcuni sintomi, ma a causa delle evoluzioni avvenute in entrambi i campi si può dire che a volte vi siano più differenze tra due terapeuti dello stesso orientamento che tra due terapeuti appartenenti a orientamenti opposti. Infatti, grazie ai progressi non solo delle neuroscienze ma anche della ricerca sul risultato e sul processo della psicoterapia, tanti e tali sono stati i cambiamenti avvenuti all'interno di tutti gli approcci psicoterapeutici che a volte non è facile, scorrendo ad esempio le pagine di una rivista del settore oppure ascoltando le relazioni ad un convegno, capire quale è l'appartenenza di certi autori: il linguaggio si assomiglia sempre di più, i dati empirci a cui si fa riferimento sono gli stessi, e così via.

Mi sembra che si possa dire che la caratteristica principale dell'inconscio psicoanalitico sia quella di essere "dinamico". Col termine "inconscio dinamico" infatti in genere si intende l'inconscio psicoanalitico. Ma cosa significa, in questo contesto, l'aggettivo "dinamico"? Significa essenzialmente che certi contenuti mentali, a causa di determinate forze (dinamica vuol dire forza, e la natura di questa forza è legata a motivazioni inconsce), possono passare dallo stato conscio a quello inconscio e viceversa. Un esempio tipico è quello di un trauma che può essere dimenticato perché troppo doloroso o difficile da gestire per la nostra economia psichica, ma che in certe condizioni può tornare alla memoria (in un sogno, o sotto ipnosi, o quando stiamo meglio e abbiamo superato un periodo difficile e allora con nostra sorpresa ci torna in mente, segno questo che ora possiamo permetterci di ricordarlo e magari riusciamo ad avere un pianto "liberatorio", come ad esempio in certi casi di elaborazione di un lutto, e così via). Come sappiamo, la psicoanalisi postula che il prezzo pagato per questa rimozione inconscia può essere un sintomo (una inibizione, una depressione, ecc., o un sintomo isterico come nelle pazienti studiate da Freud alla fine dell'Ottocento), sintomo che può improvvisamente scomparire se la nostra mente (intesa qui come parte conscia della nostra psiche) riesce a ristrutturarsi e a ricordarlo. Un altro esempio è quello di certi lapsus o atti mancati (detti anche paraprassìe), o di certe dimenticanze: ad esempio, una persona prova disagio nel fare una telefonata per cui non si ricorda mai di farla, ma le torna in mente quando è nelle condizioni di non poterla fare (o magari, secondo il noto fenomeno della generalizzazione, col meccanismo del "trascinamento" scorda, per sicurezza, tutte le telefonate, anche quelle non collegate alla telefonata spiacevole che deve fare); oppure, ogni volta che le torna in mente che deve fare quella telefonata, guarda caso decide sempre di sbrigare prima un'altra faccenda, finita la quale non si ricorda più della telefonata, e così via. Questi esempi di "psicopatologia della vita quotidiana" (Freud, 1901), che sono così noti a tutti, sono alcuni tra i tanti esempi di funzionamento dell'inconscio dinamico.

Secondo una certa concezione dell'inconscio psicoanalitico, le cose dimenticate (o meglio, rimosse) vengono depositiate nell'inconscio come se fosse un serbatoio, un magazzino, da cui poi possono essere recuperate tali e quali. Questa è sicuramente una visione superata, nel senso che è stato dimostrato che la memoria rielabora continuamente i ricordi, soprattutto quelli infantili o lontani, e li trasforma alla luce dei desideri, delle aspettative, delle esperienze successive, ecc., per cui non ricordiamo quasi mai esattamente quello che avevamo dimenticato. Infatti così come, secondo il meccanismo del transfert, noi interpretiamo e quindi trasformiamo le esperienze presenti alla luce del passato (cioè possiamo distorcere una percezione attuale, attribuendole un significato appunto transferale - ad esempio un paziente è timido e percepisce sempre come severe le figure di autorità perché suo padre era stato molto severo e punitivo con lui), ugualmente, con un meccanismo uguale e contrario, possiamo distorcere i ricordi delle esperienze passate alla luce di quelle successive: questo processo, questa sorta di "transfert inverso", è ben noto alla psicoanalisi, e fu chiamato da Freud (1914, p. 575) Nachträglichkeit (tradotto in italiano, per la verità non bene, anche come "posteriorità", e in inglese, forse peggio, con deferred action ["azione differita"], mentre i francesi lo hanno tradotto molto bene con après-coup [vedi André, 2008]), che significa appunto una attribuzione retrospettiva di significato nel senso del guardare indietro a posteriori, con una riorganizzazione dei significati personali (vedi Thomä & Kächele, 1988, pp. 119-124; Thomä & Cheshire, 1991; Migone, 1995, p. 24).

Chiarito quindi che i contenuti inconsci sono sempre rimodellati, va anche detto però che non sono mai completamente trasformati in qualcosa di diverso, ma un aspetto del loro significato originario lo mantengono. Intendo dire che non mi sembra corretta una concezione ermeneutica radicale secondo la quale non è mai possibile una "ricostruzione" del proprio passato ma solo una "costruzione", una nuova narrativa, un "romanzo psicoanalitico" della propria vita totalmente riscritto e non corrispondente assolutamente alla "verità storica" (Spence, 1982). Questa posizione radicale apre più problemi di quanti non cerchi di risolverne (non approfondisco qui questa problematica, e per brevità rimando a Grünbaum, 1984, pp. 1-94; Eagle, 1984, cap. 15 ed. or., cap. 14 tr. it.; Migone, 1988, 1989a, 1989b, 1995 pp. 178-182; Holt, Kächele & Vattimo, 1994). Certo è che se noi non crediamo più al mito psicoanalitico della "recuperabilità diretta" dei contenuti inconsci, ci avviciniamo un po' all'inconscio cognitivo, come vedremo meglio dopo.

Un'altra caratteristica dell'inconscio psicoanalitico è quella di essere, come una volta lo definì Freud (1932, p. 179), un "calderone ribollente" di impulsi e desideri. Questo aspetto lo rende certamente molto diverso dall'inconscio cognitivo, dove non si parla di desideri che premono per la loro gratificazione immediata, di pulsioni insaziabili che continuamente mettono in difficoltà l'Io il quale deve usare dei meccanismi di difesa per arginarle (rimozione, sublimazione, spostamento, ecc.). Nell'inconscio cognitivo si parla, più che di emozioni, appunto di "cognizioni", di pensieri, di problem solving, e di "processi" più che di "contenuti". Secondo la psicoanalisi freudiana infatti il pensiero - cioè i processi cognitivi, quelli insomma che sono oggetto di studio dei cognitivisti - non si forma autonomamente, ma dal conflitto con la realtà. Per Freud cioè si può dire che "in principio era l'Es", nel senso che il bambino nasce preda di impulsi ribollenti che cercano una gratificazione. Non potendo gratificarli - dato che la realtà veniva concepita da Freud come essenzialmente frustrante, nel senso che l'oggetto (ad esempio il seno materno che soddisfa il pressante bisogno di allattamento) non è sempre disponibile - il bambino "allucina" l'oggetto esterno, cioè lo rappresenta dentro di sé per potersi così gratificare almeno nella fantasia e momentaneamente calmarsi. Questa sorta di interiorizzazione della realtà esterna per Freud costituiva l'inizio del processo di formazione del pensiero, nel senso che l'apparato cognitivo per lui originava appunto dal conflitto dell'Es con la realtà esterna, la quale, come ho detto, veniva in un certo qual modo "internalizzata" per formare le rappresentazioni mentali, il primo abbozzo di pensiero ("il pensiero non è altro che il surrogato del desiderio allucinatorio", disse Freud, 1899, p. 551; vedi anche Migone, 1995, pp. 96-97). Questa natura conflittuale dell'origine del pensiero non è prevista dal cognitivismo.

A questo proposito però ritengo che vada fatta una osservazione: già negli anni 1930 questa concezione psicoanalitica fu criticata e rivista da Hartmann (1937) in quella che viene considerata la prima grande correzione nella storia della teoria psicoanalitica (Eagle, 1992). Hartmann, considerato il successore diretto di Freud nella tradizione psicoanalitica ortodossa, fondò la scuola della Psicologia dell'Io appunto su queste basi: secondo Hartmann, non tutto l'apparato cognitivo (cioè l'Io) origina interamente dal conflitto, ma una sua parte, che lui definì appunto "area autonoma dell'Io libera da conflitti", è innata e autonoma dalle pulsioni dell'Es (questa autonomia dell'Io poi può essere non solo primaria ma anche secondaria, cioè certe funzioni dell'Io, originariamente nate dal conflitto, possono autonomizzarsi, cioè certe funzioni cognitive diventano relativamente stabili - non posso qui approfondire la Psicologia dell'Io, per cui rimando alla letteratura specializzata: Hartmann, 1937, 1964; Hartmann, Kris & Lowenstein, 1964; vedi anche Friedman, 1989; Fornaro & Migone, 2007). L'osservazione che voglio fare riguarda proprio questo aspetto: la concezione dell'apparato cognitivo secondo Hartmann, che poi è diventata nient'altro che la concezione psicoanalitica classica (si badi bene, ho detto "classica", diversa quindi da altre concezioni come ad esempio quella kleiniana, lacaniana ecc.), in questo modo si avvicina molto a quella cognitiva, per cui, almeno a livello teorico, abbiamo un motivo in più per ritenere, come dicevo prima, che inconscio psicoanalitico e inconscio cognitivo, una volta che abbiamo considerato meglio le revisioni delle originarie concezioni freudiane, non siano poi così lontani come può sembrare a prima vista.

Ma vediamo adesso come viene concepito l'inconscio cognitivo, o meglio, vediamo prima come il terapeuta cognitivo utilizza l'inconscio a livello clinico. Esso viene concepito essenzialmente come un mondo di rappresentazioni mentali, molte delle quali possono essere implicite o tacite, cioè non consapevoli, le quali, se sono disfunzionali, vanno modificate in psicoterapia. Ho usato volutamente gli aggettivi "implicite", "tacite" e "non consapevoli" perché sono questi i termini che in genere si usano allo scopo di differenziare l'inconscio cognitivo da quello psicoanalitico per i motivi detti prima. Nella terapia cognitiva standard si cerca di rendere consapevoli queste cognizioni più o meno implicite perché esse possono motivare il cambiamento comportamentale, e soprattutto trascinare le emozioni (in questo senso la implicazione della terapia cognitiva standard, che definirei coraggiosa, sembra essere che non sono le emozioni a trascinare le cognizioni, come postula ad esempio la psichiatria, ma il contrario, cioè che sono le cognizioni a trascinare le emozioni). Il terapeuta cognitivo, in altre parole, cerca di far ragionare il paziente sulle sue credenze, mostrando quanto possano essere patogene, disfunzionali, irrazionali e così via. Inoltre lo rende meglio consapevole dei "pensieri automatici" - col linguaggio psicoanalitico potremmo chiamarli anche "preconsci", cioè che sono nella mente del paziente ma non se ne rende ben conto - che determinano le sue emozioni e i suoi pensieri consci, allo scopo di modificarli, rendendoli appunto più coscienti e smascherandone la natura patogena o disfunzionale (in termini psicoanalitici, potremmo dire che queste credenze che i cognitivisti chiamano "patogene" o "irrazionali" sono transferali nel senso che si sono create nell'infanzia per dei motivi che nell'età adulta non sussistono più, per cui il paziente deve imparare a sostituirle con credenze più realistiche).

Quello però che ho appena descritto non è affatto il tipo di inconscio a cui esattamente ci si riferisce quando si parla di "inconscio cognitivo". E' un tipo di inconscio (o meglio, di preconscio) che, come abbiamo visto, assomiglia un po' a quello psicoanalitico, almeno quando lo psicoanalista lavora clinicamente e soprattutto se segue la Psicologia dell'Io, nel senso che anche in psicoanalisi si fa riflettere il paziente sulle motivazioni non del tutto consce del proprio comportamento, si cerca di rendere il paziente più consapevole delle sue vere motivazioni, si parte dalla superficie per poi eventualmente arrivare al profondo, e tutto questo ha certamente ripercussioni terapeutiche: il paziente, avendo ora una diversa rappresentazione conscia, può ad esempio compiere scelte più razionali. Infatti si può dire che la psicoanalisi in questo senso sia "cognitiva". Si pensi alla interpretazione, intervento per eccellenza dello psicoanalista: essa è un intervento cognitivo, si trasmette al paziente una informazione, e una diversa credenza, più razionale e più "vera", corregge la precedete credenza "patogena" o "transferale", originata ad esempio da esperienze infantili traumatiche che erano state memorizzate ma non in modo conscio.

Giova a questo proposito ricordare, come osserva giustamente Semerari (2000, pp. 6-9), che i due padri storici della moderna terapia cognitiva, e cioè Beck e Ellis, non provengono dal comportamentismo, bensì dalla psicoanalisi. Secondo un luogo comune, si suol dire che il cognitivismo è l'erede del comportamentismo, nel senso che la crisi insorta all'interno del comportamentismo (basato sul modello stimolo-risposta [S-R], troppo semplice e in definitiva errato se applicato alla psicoterapia) ha portato alla concezione di una "mediazione cognitiva" che elabora le informazioni e che quindi si infrappone tra S e R, onde l'attenzione per questa componente interna mentale, prima trascurata, e il passaggio da una concezione meramente ambientalistica a un modello più complesso (tra l'altro, questo passaggio - come ho sostenuto altrove [Migone, 1991, 1994, 1995 pp. 25 e 95-96] - ricorda il passaggio che aveva fatto Freud molti anni prima con l'abbandono della teoria della seduzione, cioè della teoria del trauma, per fondare la psicoanalisi vera e propria). Secondo questo luogo comune, dunque, il cognitivismo sarebbe nato dal comportamentismo, portando alla terapia cognitivo-comportamentale o cognitiva tout-court. In realtà questi sviluppi sono avvenuti più nella tradizione accademica che in quella clinica. Beck ed Ellis infatti erano soprattutto dei clinici, e provenivano entrambi dalla psicoanalisi. Quello che volevano fare era semplicemente proporre un trattamento più semplice, più breve e più funzionale di quello psicoanalitico che a quei tempi appariva troppo complesso, astratto e basato su una metapsicologia (che usava concetti come libido, energia psichica, Es, ecc.) il cui impianto cominciava a mostrare i difetti che poi sempre più autori, anche in ambito psicoanalitico, avrebbero segnalato (ad esempio Kubie, 1947; Holt, 1965, 1989; Ellenberger, 1970; Gill, 1977; Sulloway, 1979; ecc.). Estremizzando dunque questa idea, Beck ed Ellis non sarebbero due cognitivisti, ma, per così dire, due "psicoanalisti moderni" nel senso che avevano abbandonato, prima di tanti altri psicoanalisti, una certa metapsicologica da loro ritenuta un po' una zavorra per il lavoro clinico: Beck ed Ellis in sostanza miravano a rendere maggiormente cosciente il paziente di tutto quell'insieme di pensieri preconsci, originati da esperienze e traumi precedenti, che guidano il comportamento.

Arrivati a questo punto, non si capisce più allora quale può essere la vera differenza tra inconscio psicoanalitico e inconscio cognitivo, soprattutto se aderiamo alla Psicologia dell'Io. In realtà, come ho detto prima, l'aspetto specifico di quello che si può chiamare inconscio cognitivo non è quello implicato nella tecnica della terapia cognitiva di Beck o Ellis, la cui pratica clinica assomiglia molto a quella certi psicoanalisti contemporanei (per la verità ritengo che vi siano ancora precise differenze tra terapia cognitiva e psicoanalisi che qui non posso approfondire; per brevità, rimando a Migone, 2001).

Per inconscio cognitivo si intende invece quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perché è stata rimossa, ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà né potrà mai essere ricordata. Non solo, ma non è neppure utile né terapeutico che sia conosciuta, con buona pace di quegli psicoanalisti che volevano perseguire l'ideale di Freud (che derivava dalla sua eredità illuministica) secondo cui "dove c'era l'Es ci sarà l'Io", cioè che avevano la pretesa che la coscienza arrivasse dappertutto, a capire ogni cosa, prosciugando veramente lo Zuidersee, per usare la nota metafora di Freud (1932, p. 190) che ben esemplifica il mito dell'onnipotenza del progresso scientifico (lo Zuidersee era quel mare che una volta sommergeva buona parte dell'Olanda - detta appunto per questo i "Paesi Bassi" - e che fu prosciugato con grandi dighe consegnando così all'uomo molte terre da coltivare e civilizzare: Freud era affascinato da questa immane impresa dell'uomo durata decenni, che per lui simbolizzava un po' la vittoria dell'umanità nella sua lotta contro la natura). E' ben nota anche la metafora del millepiedi impazzito, che sa muovere alla perfezione i suoi tanti piedi senza mai inciampare o incrociarli, ma che quando, disgraziatamente, gli viene chiesto come fa, risponde che non lo sa e che non ci ha mai pensato prima, per cui prova a chiederselo e da quel momento non è più capace, si confonde, attorciglia i suoi mille piedi a ogni tentativo di camminare. Questa problematica, del resto, è stata ben affrontata dalla psicoanalisi, ad esempio riguardo alla questione del danno che può produrre lo stesso insight, cioè l'interferenza del conscio in certi comportamenti automatici che sono adattivi (è stato Kohut, in particolare, a riflettere su questo tema, ad esempio a proposito del Teatro delle marionette di Kleist [1810], secondo il quale l'attore ideale era una marionetta che eseguiva meccanicamente quello che voleva il regista, senza alcuna interferenza da parte dell'uomo-attore, mentre l'approccio opposto - ben rappresentato dalla scuola teatrale di Grotowski - prevedeva che la bravura di un attore consistesse invece nell'interpretare il personaggio, non nel rappresentarlo fedelmente come secondo la scuola di Stanislawsky; anche qui non posso dilungarmi, ma rimando a Kohut, 1972, 1978a, 1978b; Schaefer, 1975, 1978; Heller, 1978).

Si può anche dire che l'inconscio propriamente cognitivo sia quella parte di noi "che non si può mai ricordare né dimenticare", ed è una parte importantissima del nostro funzionamento mentale, indispensabile nella vita quotidiana. Si può anche chiamare "memoria procedurale", o "elaborazione parallela distribuita" (Parallel Distributed Processing [PDP]) delle informazioni della memoria a lungo termine, memoria che regola e controlla i movimenti automatici (andare in bicicletta, camminare, ecc.). Noi afferriamo una palla al volo senza essere consci di come facciamo, e se ce lo chiediamo è possibile che non riusciamo più a prenderla così bene. Questa memoria è "parallela" perché appunto una caratteristica dei processi inconsci è di non essere "seriali", cioè non operano uno dopo l'altro ma con infiniti processi paralleli che avvengono simultaneamente. La coscienza invece per definizione è seriale, cioè le informazioni passano una dopo l'altra, per così dire in "fila indiana": questa è una grossa limitazione, nel senso che non possiamo fare consapevolmente due cose simultaneamente (ad esempio due discorsi), ma solo una per volta, mentre possiamo conversare con un amico e nello stesso tempo guidare la macchina. Mentre cioè pensiamo o facciamo una cosa, avvengono simultaneamente tanti altri processi nel nostro inconscio cognitivo (si pensi ad esempio alle informazioni date dal nostro cervello ai muscoli del tronco che ci permettono, mentre parliamo, di mantenere la stazione eretta, di cui non siamo consapevoli né ci servirebbe esserlo). Ne consegue che la coscienza opera, per così dire, una selezione tra le tante informazioni presenti nell'inconscio, e questo è il motivo per cui quello che diventa conscio è sempre una parte molto ridotta, limitata, e forse anche distorta, della complessità delle elaborazioni inconsce parallele (tra l'altro, una delle domande più interessanti che si chiedono alcuni filosofi della mente e studiosi del rapporto mente/corpo non riguarda tanto la natura della coscienza, sulla quale peraltro il dibattito è ancora mollo vivo, quanto il motivo per cui essa esiste, dato che molte specie animali sono sopravvissute bene per millenni, e si sono anche evolute raggiungendo livelli elevati di funzionamento e adattamento, senza aver mai avuto alcun bisogno della coscienza). Inoltre la coscienza è molto più lenta, funzionando un po' come un "collo di bottiglia": occorre più tempo affinché tutta "l'acqua dell'inconscio" esca e divenga conscia.

Va ricordato a questo proposito che, contrariamente a una visione ingenua e potremmo dire vetero-freudiana del rapporto tra conscio e inconscio, quello che esce da questa "bottiglia dell'inconscio" - da questa "grande pentola che bolle" e che, potremmo dire, contiene tanto materiale grezzo, crudo, da rendere digeribile - anche se esce lentamente attraverso un forellino non è mai uguale a quello che vi era contenuto, né si tratta della traduzione o della interpretazione dei contenuti che nell'inconscio erano censurati o rappresentati sotto forma di simboli (questa revisione del concetto di inconscio ha avuto molte ripercussioni anche sulla revisione della teoria del sogno e della sua "interpretazione": per brevità, rimando a Migone, 2006). I due linguaggi, quello dell'inconscio e quello del conscio (quelli che Freud chiamava "processo primario" e "processo secondario", e che per semplicità potremmo chiamare "non verbale" e "verbale"; vedi a questo proposito l'importante lavoro della Bucci, 1997; vedi anche Migone, 1995 pp. 97-100, 2007a, 2007b), non sono facilmente traducibili l'uno nell'altro, poiché si tratta di codici cognitivi diversi nella loro natura, nel senso che certe rappresentazioni inconsce non sono neppure esprimibili in parole (si pensi ad esempio alla memoria procedurale che regola il movimento, che non è, e non sarà mai, verbalizzabile né comprensibile). E' in questo che l'inconscio cognitivo si differenzia nettamente da quello dinamico, poiché quest'ultimo prevede una certa traducibilità dei contenuti mentali che erano stati rimossi, per cui può aver senso parlare di un "ritorno del rimosso". Quello invece che abbiamo definito inconscio cognitivo e abbiamo differenziato da quello psicoanalitico, anche estremizzandone le differenze, non è dinamico, ma è semplicemente una modalità di immagazzinamento della memoria a lungo termine, poco o per nulla soggetta a elaborazione verbale.

Ebbene, quello di cui nei tempi recenti ci si è resi maggiormente conto è che mentre prima si credeva che questo inconscio procedurale, questa conoscenza implicita che non poteva essere espressa in parole, riguardasse essenzialmente l'area del movimento, ora emerge sempre più chiaramente che riguarda invece anche i rapporti interpersonali, ad esempio certi aspetti degli stili di attaccamento. Queste modalità relazionali, apprese nell'infanzia, permangono nell'adulto e regolano buona parte della nostra vita quotidiana e del funzionamento anche affettivo. Questa maggiore consapevolezza ha messo un po' in scacco l'ideale psicoanalitico di poter incidere terapeuticamente su certi comportamenti, soprattutto in pazienti gravi, col solo strumento della interpretazione verbale. Si pensi ad esempio alla tecnica psicoanalitica "ortodossa" in cui, per timore della "suggestione", addirittura si tendeva a deprivare il paziente di ogni componente affettiva, facendo leva sui concetti di anonimità, neutralità, astinenza, schermo opaco, ecc., arrivando insomma a quella che altrove ho definito, seguendo la metafora freudiana del chirurgo, "personectomia" dell'analista (Migone, 1995 p. 108, 2004 p. 51). Questa tecnica "ortodossa", che peraltro può essere concepita come una vera e propria distorsione della tecnica psicoanalitica (Galli, 1988, 1990, 1996, 2002; Migone, 1995 pp. 18-19 e 105-109, 1989c), si rivelò presto poco efficace, soprattutto con i pazienti gravi. Si è allora riproposta con forza la cura tramite l'esperienza affettiva, l'induzione del cambiamento senza necessariamente la ricerca dell'insight e con modalità diverse, "esperienziali", e si tende sempre più a concepire la psicoanalisi come una tecnica "a tutto campo", in cui il terapeuta usa la propria persona, e non solo le proprie parole, per indurre il cambiamento nel paziente (vedi a questo proposito il concetto di Galli [1962, 2006] di "attività interpretativa continua"). L'approccio "interpersonale" o "relazionale", che negli anni 1930-40 veniva considerato come non psicoanalitico o comunque revisionista, entra prepotentemente al centro della scena psicoanalitica tanto da diventare esso stesso mainstream ed emarginare l'approccio tradizionale. La concezione della psicoterapia come in sostanza una "esperienza emozionale correttiva" - usando le parole introdotte da Alexander (1946) quando negli anni 1930-40 sollevò in questi termini il noto dibattito in seno alla psicoanalisi, suscitando non a caso le reazioni critiche dell'ortodossia (Eissler, 1950) che temeva che venisse sottovalutato il ruolo dell'insight - oggi si ripropone con nuovo vigore, anche dopo una maggiore comprensione di quello che abbiamo chiamato inconscio cognitivo. Non solo, ma riacquista importanza il ruolo dell'"esercizio pratico" in psicoanalisi (vedi ad esempio Rosenblatt, 2004), eventualmente ripetuto più volte (e anche elaborato con l'analista nei termini delle sue ripercussioni consce, dei vissuti e dei significati da esso stimolati), la cui importanza è da sempre sottolineata dalla tradizione comportamentista. Ma sappiamo che, se è per questo, anche Freud (1914) esplicitamente prescriveva determinati comportamenti per superare dei sintomi (ad esempio una fobia) dopo che la elaborazione interpretativa era stata completata e il sintomo rimaneva, essendo quindi consapevole che era necessario intervenire anche a livello del comportamento non verbale.

Secondo questa prospettiva, l'intervento psicoanalitico può essere visto come qualcosa che si aggiunge, che arricchisce il processo terapeutico, ad esempio tramite una comprensione di tutte quelle dinamiche che possono essere rese consapevoli, ma ben sapendo che un importante fattore terapeutico, soprattutto nei casi gravi, risiede nel fattore esperienziale, nella capacità del terapeuta di saper coinvolgere il paziente in un profondo legame affettivo che lo trascini verso il cambiamento.

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43100 Parma, tel./fax 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

Traduzione spagnola: El incosciente psicoanalitico y el incosciente cognitivo. Clinica e Investigacion Relacional, 2010, 4, 3: 505-517.

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