Il Ruolo Terapeutico, 2008, 108: 49-63
Paolo Migone
Il 16 febbraio 2008, ai "Seminari internazionali di Psicoterapia e Scienze Umane" di Bologna, Ferdinando Bersani ha tenuto una relazione dal titolo "La riproducibilità nella scienza: mito o realtà?". Dato che Bersani non è uno psicologo ma un professore di fisica all'Università di Bologna, occorreva qualcuno che commentasse la sua relazione dal punto di vista degli psicoterapeuti, tracciando cioè una sorta di ponte tra le sue riflessioni (che necessariamente erano all'interno della fisica, o meglio, della filosofia della scienza) e quelle che potremmo fare noi psicoterapeuti, interessati a sapere che tipo di "scienza" può essere la nostra. Poiché in passato mi sono un po' interessato alla ricerca empirica in psicoterapia - cioè a quel tipo di ricerca scientifica che indaga con metodi sperimentali il risultato e il processo della psicoterapia - mi hanno chiesto se volevo fungere da discussant della relazione di Bersani (riguardo al mio interesse per la ricerca in psicoterapia, me ne sono occupato nel corso degli anni anche in varie rubriche, tra cui ad esempio: Migone, 1988, 1989a, 1989b, 1993a, 1994a, 1994b, 1997, 2001, 2005a, 2007, 2008; vedi anche Migone, 1995a cap. 11, 1996, e altri lavori che ho fatto pubblicare su Psicoterapia e Scienze Umane, ad esempio quelli di Parloff, 1985; Chambless & Ollendick, 2001; Westen, 1999; Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004; ecc.). Il mio intervento dopo la relazione di Bersani fu abbastanza breve, anche per lasciare spazio al dibattito. Inoltre alcuni colleghi in seguito si lamentarono del fatto che non erano riusciti a capire tutto quello che avevo detto perché non avevo tenuto bene il microfono, e anche perché avevo parlato in fretta e per di più dando varie cose per scontate con un uditorio che necessariamente non poteva avere familiarità con un argomento così specifico. Mi fu chiesto allora di scrivere un sunto di quello che avevo detto e di distribuirlo ai partecipanti, cosa che feci nei giorni seguenti. Il testo che scrissi è quello che riporto qui di seguito: Cari colleghi, mi è stato chiesto di mandarvi uno scritto in cui spiego quello che cercavo di dire nel mio intervento di discussione dopo la relazione di Ferdinando Bersani. Lo faccio volentieri, anche perché, se mi dispiace di non essere stato capito bene (sia per perché non tenevo bene il microfono, sia perché parlavo in fretta), mi fa piacere sapere che c'è un interesse per il mio intervento. Cerco allora di ripetere quello che ora ricordo, e alla fine vi indicherò alcuni riferimenti bibliografici, molti dei quali sono su Internet, per cui chi ha voglia e tempo potrà approfondire ulteriormente determinati temi. Dopo la relazione di Bersani, ho esordito - in un modo volutamente provocatorio - dicendo che, se solo sostituivamo qualche parola, la relazione di Bersani poteva sembrare una relazione sulla psicoanalisi. Infatti Bersani sostanzialmente ha detto che persino nelle scienze "dure" (come la fisica, la chimica, ecc., e non solo nelle soft sciences come la nostra) non esiste un esperimento che sia perfettamente replicabile, a causa di mille variabili intervenienti che modificano continuamente le condizioni dell'esperimento. Ciò significa allora che non esiste una differenza tra hard e soft sciences? Dipende da cosa intendiamo per scienza, cioè dalla famosa "teoria della demarcazione" tra scienza e non scienza. Bersani in effetti ha voluto precisare che, senza voler entrare approfonditamente nell'annoso dibattito sulla questione della demarcazione, se la parola scienza ha ancora un senso deve poter significare qualcosa che sia in una certa misura replicabile, sperimentalmente controllabile. Ma se persino nelle scienze dure può essere un errore parlare di esperimento perfettamente replicabile? La risposta a questa domanda, per quello che ho capito io, è che in ogni caso si tratta di livelli di complessità, cioè di esperimenti "più o meno perfettamente" replicabili, e soprattutto del fatto che si tratta sempre di probabilità più o meno alte. Bersani ha mostrato - e questa è stata una parte della sua relazione che mi ha particolarmente stimolato - come in determinati fenomeni fisici non si riesca a prevedere il movimento di singole particelle (per cui non vi sarebbe replicabilità, quindi in questo senso non vi sarebbe "scienza"), ma si riesce a prevedere abbastanza bene i fenomeni macroscopici prodotti dall'insieme di queste stesse particelle microscopiche (ad esempio nel caso di un gas, le cui leggi generali sono studiabili e prevedibili). Questo - ho aggiunto io - mi ha fatto venire in mente il noto "principio di indeterminazione" elaborato da Werner Heisenberg negli anni 1920, tanto citato (a mio parere erroneamente) anche da molti nostri colleghi, secondo il quale le particelle infinitesimali non hanno una posizione e una velocità definite simultaneamente, e tanto maggiore è la precisione con cui si determina la loro posizione, tanto minore è la precisione con cui si stabilisce la loro velocità. In altre parole, l'osservatore influenza l'oggetto osservato, e questo è il motivo per cui il "principio di indeterminazione" di Heisenberg viene tanto citato ad esempio da colleghi che simpatizzano per gli approcci relazionali o intersoggettivi. In realtà, sempre a mio parere, questi colleghi sbagliano perché il "principio di indeterminazione" di Heisenberg non si applica ai fenomeni macroscopici, ma solo a quelli microscopici (ai fenomeni molecolari ma non a quelli "molari", si potrebbe dire), ed è qui che trovavo un eco nel discorso di Bersani a proposito della differenza tra livelli microscopico e macroscopico (questa differenza peraltro sembra avere aspetti paradossali, perché verrebbe da dire che i fenomeni macroscopici sono più complessi di quelli microscopici e quindi meno controllabili, ma qui entra in gioco la questione della "teoria della complessità", in cui - come ha spiegato bene Bersani - è dimostrato che in fenomeni complessi e "caotici" vi sono regolarità non facilmente spiegabili dall'analisi dettagliata delle singole componenti, e questa è stata un'altra parte della relazione di Bersani che mi ha particolarmente interessato). A parte ciò, la questione, dicevo, è quella della differenza tra scienza e pseudo-scienza, e Bersani ci ha mostrato interessanti esempi di scoperte "scientifiche" che in seguito sono state smascherate da ricercatori successivi i quali hanno dimostrato che erano pseudo-scientifiche (e qui ho detto che per certi aspetti il suo discorso mi ricordava quello fatto da Westen et al. sul n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, dove, "usando le stesse armi del nemico" - come ho detto nel mio editoriale di quel n. 1/2005 - Westen cerca di correggere vari errori di certa ricerca in psicoterapia; vedi Migone, 2005a, dove riassumo questo articolo]). Allora io ho fatto notare che se usiamo il termine "pseudo-scienza" automaticamente ci mettiamo nella posizione di coloro che credono veramente nella scienza come diversa da qualcosa che essa non è, per cui siamo da capo: cosa è questa scienza in cui noi crediamo? La si intende come replicabilità? Ma se Bersani dice che la replicabilità perfetta non esiste? A questo punto di impasse (un impasse a mio parere solo apparente), io ho detto che una qualche forma di replicabilità deve pur esistere, non solo nelle scienze dure, ma anche nella psicoterapia, altrimenti essa non sarebbe insegnabile e imparabile, e neppure avrebbero senso questi seminari in cui cerchiamo di imparare qualcosa da poter poi "replicare" nei nostri studi professionali. Certamente questa replicabilità non è perfetta, come dice Bersani, ma in un qualche modo c'è. Di fronte a noi abbiamo tanti esempi in cui determinati comportamenti o sintomi del paziente si riproducono con regolarità a causa di certi eventi, e si modificano con una qualche regolarità a causa di alcuni nostri interventi, più o meno strutturati e "replicabili", chiamati appunto psicoterapia (o psicoanalisi, per me qui sono sinonimi). La psicoterapia insomma, così come il cosiddetto "disturbo mentale" (meglio sarebbe dire le "modificazioni del comportamento", perché diventano "disturbo mentale" a seconda della definizione che diamo e delle variazioni geografiche, storiche e culturali), sarebbero fenomeni naturali, studiabili proprio come in medicina (la psicoterapia e la medicina, tra l'altro, non sono due scienze ma due "applicazioni" di scienze di base, in cui intervengono fattori complicati quali il rapporto interpersonale, fattore questo che è il fulcro della psicoterapia e che appunto la rende più complessa a livello di sperimentazione scientifica). Al seminario avevo in mente un esempio clinico che mi era capitato proprio pochi giorni prima, non l'ho raccontato per non portare via tempo, ma vorrei raccontarlo brevemente adesso un po' anche per alleggerire queste mie riflessioni che magari alcuni trovano troppo teoriche o aride. Ho da poco iniziato una terapia con una paziente che è venuta perché sta molto male, è angosciata ed estremamente depressa, a causa - nelle sue parole - di una dolorosa separazione da un uomo a cui era molto legata. Il tacito accordo era che lei mi avrebbe parlato di questa relazione e del modo con cui è finita. Ho fatto solo poche sedute con lei, 7 o 8, e in ogni seduta lei mi raccontava aspetti della sua vita passata e della sua famiglia di origine, certamente interessanti, ma mai della recente rottura affettiva. Iniziava ogni seduta dicendo che me ne avrebbe parlato, ma poi apriva una parentesi e si perdeva in un nuovo argomento che la portava fino alla fine della seduta. La seduta successiva di nuovo iniziava proponendosi di parlare di quella dolorosa separazione, ma poi come le altre volte non lo faceva, perdendosi in lunghe parentesi che a questo punto assumevano sempre più il carattere della circostanzialità, ma non si trattava affatto di tratti ossessivi, si trattava - per lo meno questa era la mia netta impressione . di modi con cui, per così dire, "menava il can per l'aia" per non parlare di quell'aspetto della sua vita che le procurava ansia e dolore. Io dentro di me facevo queste riflessioni e tranquillamente aspettavo che lei si sentisse di affrontare quell'argomento. Mi riservavo di intervenire per toccare questa dinamica eventualmente in seguito, se questa procrastinazione fosse diventata di proporzioni tali da richiedere un intervento da parte mia. Prima della quinta o sesta seduta ricevo da lei una telefonata che mi sorprende. Mi dice, con una certa risolutezza, che ha deciso di interrompere la terapia. Io rimango sorpreso e le chiedo perché. Lei mi risponde che non può più andare avanti perché con me sta troppo male, per cui preferisce smettere. Immediatamente dentro di me formulo una ipotesi di quello che sta succedendo, che sento come molto "scientifica", "replicata" - era questo infatti il fenomeno di cui volevo parlarvi - in quanto osservata moltissime volte da tanti terapeuti, discussa spesso nella letteratura, ecc. L'ipotesi che ho fatto, e che sicuramente farebbero molti terapeuti di fronte a questo materiale clinico, era che si trattava di una tipica fuga per evitare di confrontarsi con una situazione dolorosa (sottolineo la parola "tipica", cioè non un comportamento unico, irripetibile, non un fenomeno idiografico, ma un fenomeno naturale, un comportamento descritto più volte da tanti clinici e ricercatori). Immediatamente allora chiedo alla paziente di ascoltarmi un attimo perché volevo condividere con lei una mia forte sensazione, ben sapendo che era poi libera di fare quello che voleva. Una rapida "interpretazione telefonica", ovviamente fatta con calma e col giusto tatto, fa riflettere la paziente che risponde "va bene allora ci vediamo domani alla solita ora" (le avevo detto che ritenevo che vi erano forti probabilità che lei stesse scappando, e che il modo migliore invece per star meglio, e proprio nel breve periodo, a mio parere era esattamente il contrario di scappare, cioè continuare con me, parlarmi delle cose dolorose, ecc.). La seduta seguente viene, riprova a mettere in atto manovre circostanziali, però ne parliamo un po' e affronta di più l'argomento, per arrivare poi a piangere molto, a provare sentimenti orribili, ecc. (come era previsto appunto dal fenomeno naturale "replicato" in tante esperienze psicoterapeutiche). La seduta seguente starà ancor peggio, esprimerà emozioni sempre più dolorose, e così via. La cosiddetta alleanza terapeutica ovviamente si rafforza proporzionatamente al suo aumento di dolore, il quale a sua volta viene espresso dalla paziente in modo proporzionale alla sua forza dell'Io che è appunto quella che le permette di provarlo (mentre prima doveva rimuoverlo o reprimerlo, pagando il prezzo dei sintomi depressivi), cioè di portarlo maggiormente alla coscienza, di socializzarlo col terapeuta, e così via. Ma non sto qui a spiegare queste cose perché sono fin troppo ovvie e costituiscono alcune delle "leggi" della psicoterapia (si pensi solo alla tematica del lutto e delle tecniche terapeutiche per affrontarlo, studiata da numerose ricerche "scientifiche"). Nei successivi colloqui tra l'altro vengo a sapere che ha una storia di rapporti con uomini con cui ha sempre voluto rompere proprio quando si accorgeva che erano importanti per lei, e che spesso e volentieri, "chissà perché", si era legata a "uomini sbagliati", che invece lei non respingeva. Vengo a sapere anche che ha avuto una relazione estremamente traumatica con suo padre, che l'ha sempre respinta, maltrattata, disprezzata anche apertamente, quasi non riconosciuta perché sospettava che lei non fosse una sua figlia naturale, preferendo di gran lunga il fratello a cui aveva cercato di lasciare tutta l'eredità, e così via. Mi fermo con la esposizione di questo materiale clinico (che sembra proprio "da manuale", cioè che appunto mostri che la psicoterapia è una scienza come un'altra, con sue leggi ben precise - magari tutti i pazienti fossero così, purtroppo molti sono più complicati) per tornare alle questioni teoriche. Mi rendo ben conto che la psicodinamica che io ho ipotizzato, che ho definito "scientifica", "replicabile", ecc., è per ora solo un abbozzo di dinamica, che può essere arricchita o modificata da altri particolari che apprenderò in futuro, però a me sembra un nucleo di dinamica forte, solido (tra parentesi: non scordiamoci che qui siamo sempre all'interno della clinica, non della ricerca! Cioè si tratta solo di ipotesi soggettive basate sull'induzione, che potrebbero essere tutte sbagliate, però allo stesso modo con cui potrebbero essere sbagliate le leggi costruite su fenomeni fisici replicati tante volte, in cui anche lì occorrono verifiche "scientifiche", basate su circoli induttivo-deduttivi). Si potrebbero aggiungere altri spezzoni di teoria, ad esempio (ma solo perché viene in mente a me in questo momento) il concetto di "test" formulato da Weiss e Sampson, secondo cui la paziente non voleva affatto interrompere la terapia, ma inconsciamente voleva che io la invitassi a restare, cioè superassi il test transferale che lei inconsciamente mi sottoponeva, e lo sottoponeva proprio a me perché si fidava, cioè aveva scelto me, di cui aveva avuto una buona impressione, per riattualizzare il suo conflitto (l'essere abbandonata, vedere se ero come il padre, usando anche il noto meccanismo del passive-into-active, cioè della inversione dei ruoli nel transfert) allo scopo di vedere se io invece non la respingevo o comunque non stavo al suo gioco che rappresenta lo schema, il copione, il transfert di una vita (non mi sono fatto risucchiare dal suo enactment, oggi direbbero alcuni) (per il modello di Weiss e Sampson, vedi Migone, 1993a, 1993b, 1995b). Uno scienziato scettico potrebbe pensare che queste ipotesi sono fantasticherie, ma è curioso il fatto che sono espressione proprio di un gruppo di ricerca empirica in psicoterapia, infatti non va dimenticato che il San Francisco Psychotherapy Research Group, guidato da Weiss e Sampson, nei primi anni 1980 ha richiamato l'attenzione internazionale non tanto per il suo modello teorico, cioè la control-mastery theory (modello che non è affatto nuovo, non essendo altro che un approfondimento delle implicazioni cliniche della Psicologia dell'Io - vedi i concetti di Io che prevede, che regola inconsciamente l'azione, ecc. - come anche io e Liotti abbiamo cercato di argomentare nel nostro articolo sull'International Journal of Psychoanalysis: Migone & Liotti, 1998), bensì per il supporto di ricerche "scientifiche", cioè nel verificare empiricamente il modello con ricerche controllate. E' per questo motivo che Weiss e Sampson sono diventati famosi e non sono rimasti uno dei tanti gruppi che propongono un proprio modello (tanto per fare un esempio, una pubblicazione che non si può certo tacciare di simpatie per le pseudo-scienze, la rivista Scientific American - in italiano Le Scienze - nel 1990 scelse proprio Weiss quando decise di pubblicare un articolo "scientifico" sulla psicoanalisi, chiedendogli di esporre le sue ricerche empiriche). Non mi dilungo a parlare del modello di Weiss e Sampson, e rimando al n. 2/1993 di Psicoterapia e Scienze Umane dove avevo presentato il lavoro di questo gruppo, con un articolo di Weiss (1986) e una recensione-saggio dei loro principali libri (Migone, 1993b); nello stesso numero avevo fatto pubblicare, presentato da John Gedo (1993), anche il classico di Alexander del 1946 sulla "esperienza emozionale correttiva", che è collegato a questa tematica, e nel numero successivo era intervenuto ancora Weiss (1993) per rispondere ad alcune questioni sollevate nella mia recensione-saggio (vedi anche la scheda del libro di Weiss Come funziona la psicoterapia a p. 149 del n. 2/1994 di Psicoterapia e Scienze Umane).Chiarisco meglio quello che voglio dire riguardo a questo esempio clinico. Così come Bersani ci ha detto che non possiamo prevedere i movimenti delle singole particelle di un gas ma le leggi generali del gas da esse composto, quello che io dico è che difficilmente avremmo potuto prevedere se quella paziente, alla seduta dopo la mia "interpretazione telefonica", sarebbe venuta con le scarpe blu o con quelle marroni, con la borsetta di un tipo o dell'altro, con dentro alla borsetta il fazzoletto viola o azzurro, con quanto fondo tinta sulle guance, ecc., ma che invece avremmo potuto prevedere con una buona dose di probabilità che lei in quella seduta avrebbe pianto molto, avrebbe sofferto ed espresso emozioni importanti e intense, e che questo avrebbe portato nel breve periodo a un miglioramento del suo stato psichico (al limite anche misurabile con una rating scale, volendo proprio fare come nelle ricerche "scientifiche"). Questi dati clinici, essendo stati osservati con regolarità da tanti terapeuti, per induzione ci invitano a formulare delle leggi (dalle quali poi, per deduzione, potremmo poi interpretare simili casi clinici). Ad esempio: si tratta di catarsi? Potremmo meglio dire, a mio parere, che si tratta della catarsi "psicoanalitica", cioè della liberazione di emozioni dolorose connesse però a una fiducia nel terapeuta (come nuova figura transferale, diversa da quella del padre e/o dell'uomo da cui si è appena separata) che le permette appunto di liberare quelle emozioni che prima non poteva permettersi di provare dovendo rimanere in uno stato di difesa, di pericolo: vedi il concetto di background of safety (condizione di sicurezza) di Sandler del 1960 - due anni prima non a caso aveva cominciato a farsi sentire Bowlby, che nel 1958 aveva scritto sull'International Journal l'articolo "The nature of the child's tie to his mother". Non solo, ma idealmente queste emozioni dolorose sono connesse anche a una maggiore comprensione della storia della sua vita (vedi il concetto freudiano di "ricostruzione"), favorendo quindi una ristrutturazione cognitiva. Di nuovo mi torna in mente Weiss, che anch'egli era partito da considerazioni simili. A cavallo degli anni 1950 era colpito da un fenomeno, per lui strano, che osservava quando andava al cinema. Notava che quando il protagonista del film, ad esempio, partiva per la guerra, o gli amanti si separavano, gli spettatori stavano in silenzio. Quando invece il soldato tornava dalla guerra, o gli amanti si riunivano, tutti piangevano. Weiss, con quella particolare ingenuità che a volte hanno le persone intelligenti, non riusciva a capire perché la gente non piange quando le cose vanno male e piange quando vanno bene (l'ipotesi ovviamente è che gli spettatori si identificano con gli attori). Dopo varie riflessioni arrivò a lavorare attorno al concetto di "pianto al lieto fine" ("Crying at the happy ending" è il titolo del suo articolo del 1952 sulla Psychoanalytic Review, col quale inizia il suo percorso di ricerca, sia clinica che sperimentale) e, elaborando le implicazioni della Psicologia dell'Io (allora al suo massimo fulgore negli Stati Uniti), sostiene che l'Io (che come sappiamo dalla teoria strutturale, cioè dalla seconda topica, è in parte inconscio e si esprime con le difese e le funzioni dell'Io, regolandole anche in modo intelligente e adattivo) inibisce difensivamente le emozioni in situazioni di pericolo, mentre in condizioni di sicurezza le esprime senza timore perché può permetterselo, e le elabora, le reintegra nella struttura psichica (non a caso, Kris due anni prima, nel 1950, aveva sviluppato il concetto di "regressione al servizio dell'Io"). Da lì a poco Weiss arriva ad estendere queste riflessioni alla psicoterapia, da lui concettualizzata in un certo senso come un "grande pianto al lieto fine": il paziente, grazie alla nuova "condizione di sicurezza" esperimentata col terapeuta, si lascia andare e· piange molto, ricorda cose dolorose del suo passato e lentamente migliora (vedi i noti adagi psicoanalitici, collegati al concetto di regressione, secondo cui "più il paziente sta male più sta bene", "più peggiora più migliora", ecc., cioè il paziente può permettersi di star male - considerazioni queste che non a caso irritano i nostri colleghi comportamentisti, che, almeno nella mia esperienza, fanno una enorme fatica a capire appunto perché il loro armamentario teorico glielo impedisce: e questo, come è ovvio, si ripercuote in modo massiccio sugli strumenti di ricerca in psicoterapia per misurare il dolore, il pianto, il cosiddetto "peggioramento" e più in generale il cambiamento; a questo proposito mi viene in mente che Weiss e Sampson hanno costruito scale di valutazione per studiare la differenza tra i diversi tipi di pianto, perché è ben noto che i pianti di disperazione e quelli di gioia sono estremamente diversi - è un problema collegato a questo quello che avevo sollevato nella mia recensione-saggio nel n. 2/1993 di Psicoterapia e Scienze Umane, a cui Weiss [1993] rispose nel numero seguente). Ci si potrà chiedere perché dico queste cose che sono note a tutti e che la psicoanalisi ha affrontato tanti anni fa. Il motivo è collegato alla questione della ricerca empirica, "scientifica", perché ad esempio il filone della ricerca sulla teoria dell'attaccamento (che come è noto è un tipo di ricerca empirica, accademica, non solo "psicoanalitica") ha prodotto negli ultimi anni importanti prove empiriche in favore di queste ipotesi psicoanalitiche. Alludo ad esempio a quei pazienti, con uno stile di attaccamento disorganizzato, che scappano non appena si legano col terapeuta, cioè presentano una paradossale paura nei confronti del terapeuta affidabile, cioè di chi offre cura (Liotti lavora molto su queste problematiche, vedi ad esempio Migone, 2004, pp. 371-372]. Tanti altri esempi clinici potrebbero essere citati per mostrare come anche in psicoterapia vi siano fenomeni replicabili. Si pensi a quei pazienti depressi (che non sanno perché sono depressi, e forse appunto per questo lo sono) che vengono in terapia per cercare di star meglio, e il terapeuta adotta semplicemente un atteggiamento "espressivo", cioè li lascia parlare, "ventilare" i loro sentimenti e i loro pensieri, e mano a mano che passano le sedute parlando di sé, esplorando sempre più il proprio mondo interiore, stanno meglio, si scioglie progressivamente la depressione. Secondo una ipotesi teorica che spiega questo fenomeno (cioè passando dalla induzione alla deduzione), se certi contenuti riescono a diventare consci vengono nel frattempo trasformati, integrati nel resto della struttura psichica, e non svolgono più quel ruolo patogeno che avevano quando erano rimossi (questo non è altro che il modello freudiano, dove al posto del sintomo isterico mettiamo in questo caso la depressione). Mi rendo ben conto che saremmo ingenui a ritenere che questo ragionamento rappresenti la "vera" spiegazione del miglioramento, ma che è solo una ipotesi che andrebbe verificata con ricerche empiriche. E' solo una ipotesi induttiva (se non una "abduzione" [processo introdotto nel XIX secolo da Peirce, che lo aveva ripreso da Aristotile]), e certamente vi sono molte altre ipotesi per spiegare questo fenomeno. Ne cito solo una: quello che i ricercatori chiamano "effetto honey-moon", cioè l'effetto "luna di miele" della psicoterapia, essendo stato dimostrato dalle ricerche empiriche che molti pazienti migliorano nella prima fase della psicoterapia per poi ricadere dopo un po' (i terapeuti ingenui all'apice della luna di miele del loro paziente - tipicamente, certi terapeuti "brevi" [vedi Migone, 2005b, pp. 354] - credono di averlo guarito e magari lo dimettono, mentre i terapeuti esperti sanno che l'analisi inizia proprio alla fine della luna di miele, quando il paziente peggiora). Ebbene, questo è nient'altro che l'effetto placebo in psicoterapia, cioè un miglioramento che avviene in molti casi a causa di fattori diversi, non direttamente conoscibili, che appunto vanno investigati (non tutti presentano questo effetto placebo, alcuni, per un loro particolare transfert, hanno l'effetto nocebo); esempi potrebbero essere l'attivazione dell'aspettativa di guarigione, l'idealizzazione del terapeuta, l'attivazione transferale del primo rapporto positivo coi caregivers e così via (a me piace a volte definire la psicoterapia, in particolare la psicoanalisi, come nient'altro che la scomposizione e lo studio minuzioso dell'effetto placebo allo scopo di utilizzarlo meglio per aumentare la stabilità del cambiamento nel tempo [vedi Migone, 2004] - la psicoanalisi è la "analisi della suggestione", diceva Freud). Cercare di capire quale ipotesi è quella più probabile tra ipotesi rivali è lo scopo della ricerca in psicoterapia, lo scopo degli sforzi fatti da questo movimento di ricercatori da alcuni decenni, soprattutto a partire dalla salutare provocazione di Eysenck del 1952 secondo cui l'effetto della psicoterapia è totalmente irrilevante, inutile (Eysenck però fu molto attento a non dire mai che era dannosa, altrimenti sarebbe stato costretto ad ammettere che era efficace, e quando si riuscì a dimostrare che poteva essere dannosa fu un sollievo per tutti i ricercatori, che in un certo senso esclamarono: "meno male che la psicoterapia fa male!"); secondo Eysenck i miglioramenti avvenivano solo grazie al "mero passaggio del tempo", cioè per "remissione spontanea" a causa delle oscillazioni naturali del decorso di tutte le malattie. Questa ipotesi di Eysenck, a mio parere molto interessante e "vera" in tantissimi casi, prevede che gli psicoterapeuti, quando prima o poi incrociano la oscillazione positiva della malattia (quindi più lunga è una terapia, meglio serve a questo scopo), se ne attribuiscono il merito, tutto lì. Secondo questa ipotesi, si potrebbe quindi dire che la psicoterapia funziona solo per l'"effetto lampione": metti il paziente per un'ora alla settimana seduto su una panchina illuminata da un lampione, e questa è la psicoterapia, è il lampione che guarisce il paziente, il quale quando sta meglio si alza dalla panchina-lettino e se ne va, tutto contento di essere stato guarito dal lampione-analista. Ebbene, non è stato facile da parte del movimento di ricerca in psicoterapia dimostrare che Eysenck aveva torto, ci sono voluti circa trent'anni di tentativi, i primi dati sono emersi solo nel 1980 grazie alla tecnica della meta-analisi (alludo ad esempio ai lavori di Smith, Glass e Miller, 1980 - sarebbe lungo qui spiegare cosa è la meta-analisi), solo che - e questa è quella che viene considerata la prima fase della ricerca in psicoterapia, quella "sul risultato" (outcome research) - si è arrivati a un imbarazzante situazione, a quello che è stato chiamato "paradosso della equivalenza" (equivalence paradox): tutte le psicoterapie, le più diverse, in media ottenevano gli stessi risultati. Nella felice espressione di Luborsky del 1975, "tutti hanno vinto e ognuno merita un premio", una frase pronunciata dall'uccello Dodo quando aveva indetto una corsa in Alice nel paese delle meraviglie. Questa equivalenza è conosciuta nel mondo della ricerca in psicoterapia come "verdetto di Dodo" (Dodo verdict), e continua a essere uno spettro che perseguita i ricercatori, soprattutto coloro che hanno una fede in una delle tante scuole psicoterapeutiche. Si può immaginare che una causa del verdetto di Dodo (non l'unica, ne sono state ipotizzate tante altre) risieda nella complessità della ricerca in psicoterapia (ad esempio è difficile che gli strumenti utilizzati riescano a misurare con sufficiente precisione il cambiamento). E' a causa del verdetto di Dodo che si è passati a una seconda fase della ricerca in psicoterapia, chiamata "sul processo" (process research), nella quale si è abbandonata la ricerca sul risultato, ritenuta inutile dato che non si sapeva quale "processo" producesse il risultato. Si è cioè studiato il processo della psicoterapia (o meglio, delle varie psicoterapie o tecniche), cercando di individuare cosa accade veramente nella interazione terapeutica, dato che non è sufficiente che un terapeuta dica che fa una psicoterapia "psicoanalitica" (o "cognitiva" ecc.) per essere certi che la faccia, anzi, spesso si è dimostrato che un terapeuta fa tutt'altro rispetto a quello che dice di fare o professare: vedi ad esempio pp. 28-29 del n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, all'interno dell'articolo di Westen et al. (2004), come si è riusciti a dimostrare, grazie a strumenti basati sul Q-sort, che in certi studi i pazienti erano migliorati a causa di interventi che erano addirittura opposti alla tecnica ufficialmente praticata! Tra parentesi, il metodo del Q-sort, che è una tecnica di ricerca sofisticata e ora utilizzata da moltissimi ricercatori soprattutto in ambito non psicoanalitico, è stato per la prima volta applicato alla psicoterapia da Enrico Jones, che è uno psicoanalista (anche la SWAP si basa sul Q-sort, vedi Westen, Shedler & Lingiardi, 2003 - scheda su Psicoterapia e Scienze Umane, n. 1/2004, pp. 118-119). E' per questo motivo che è scoppiato il boom dei manuali, cioè la manualizzazione delle varie tecniche terapeutiche, appunto per essere sicuri che i terapeuti facessero proprio quello che dichiaravano di fare e non qualcos'altro. Come è noto, il primo manuale di psicoanalisi per la ricerca è quello di Luborsky del 1984 [Princìpi di psicoterapia psicoanalitica. Manuale per il trattamento supportivo-espressivo], e poi ne sono seguiti tantissimi altri, si pensi all'IPT di Klerman & Weissman (1984), alla TFP di Kernberg (1999), alla DBT della Linehan (1993), alla CAT di Ryle (1997), ecc. (i nomi dei manuali si riferiscono a tecniche specifiche, mai a teorie generali, infatti una stessa teoria generale - ad esempio la psicoanalisi - può ispirare molti manuali diversi a seconda dell'autore che li costruisce, della diagnosi-bersaglio, ecc.). I primi manuali a essere costruiti furono naturalmente quelli della terapia comportamentale, perché più semplici (arrivano ad essere quasi degli algoritmi prefissati di interventi prescritti, delle "procedure", appunto). I manuali sono costruiti solo per la ricerca, spesso ad hoc per ricerche specifiche, e non vanno confusi con i libri di tecnica (come esempi di libri di tecnica psicoanalitica, si pensi al Menninger del 1958, al Greenson del 1967, ecc. - i libri di tecnica psicoanalitica peraltro non sono tantissimi, e non casualmente appunto per la difficoltà ad esplicitare o "prescrivere" comportamenti terapeutici dettagliati, tanto è vero che vi fu chi li definì "collezioni di errori"). Che i manuali per la ricerca poi vengano usati anche per la clinica è un altro discorso, questo fa parte degli aspetti sociologici della nostra professione (un po' come è accaduto per il DSM-III e DSM-IV, che erano manuali diagnostici per la ricerca ma in vari paesi... "sottosviluppati" sono stati scambiati per manuali di psichiatria). Sostanzialmente, i manuali sono caratterizzati da tre componenti: 1) una selezione rappresentativa dei princìpi di una determinata tecnica psicoterapeutica; 2) esempi concreti di ogni principio, cosicché non vi siano dubbi su cosa si intende con quella tecnica; 3) una serie di scale (rating scales) che misurano il grado con cui un campione della terapia (ad esempio il videoregistrato di alcune sedute scelte a caso) rientra nei princìpi di quella tecnica; queste rating scales sono utilizzabili da chiunque, terapeuta o osservatore indipendente [per i manuali, vedi Migone, 1986; approfondisco la storia e la filosofia dei manuali anche nella mia recensione-saggio del libro di Luborsky nel n. 2/1990 di Psicoterapia e Scienze Umane [Migone, 1990] rilevando anche alcune contraddizioni interne dello sforzo di Luborsky, di cui peraltro era ben consapevole, e mostrando come lui cercò di risolverle; ne accenno anche in Migone, 1989b; vedi anche una storia del movimento di ricerca in psicoterapia in Migone, 1994, 1996]. La manualizzazione è solo uno degli aspetti della fase storica della ricerca sul processo, vi sono tanti altri aspetti, ad esempio la costruzione di parecchie scale di valutazione, anche molto sofisticate, per misurare il "processo": oggi le più conosciute e usate sono almeno una ventina, si pensi solo al Core Conflictual Realationship Theme (CCRT) di Luborsky (la "operazionalizzazione" del transfert a scopi di ricerca, una sorta di ponte dal qualitativo al quantitativo), alla Referential Activity (RA) della Bucci [ne accenno in Migone, 2007], alla scala per misurare la funzione riflessiva o metacognizione di cui parla tanto Fonagy (una scala, la SVAM, è stata prodotta in Italia dal gruppo dei colleghi cognitivisti del Terzo Centro di Roma), alla "analisi del piano inconscio" del gruppo di Weiss e Sampson, e così via fino ad arrivare a scale che mostrano come per certi versi la ricerca sul processo si intreccia con la ricerca sul risultato, cioè misurano modificazioni intrapsichiche ad interim o anche alla fine della terapia e al follow-up. Per tornare ai manuali, nel mio intervento di discussione della relazione di Bersani avevo cercato di spiegare sia i vantaggi sia gli svantaggi che essi comportano. Il loro principale vantaggio è che finalmente permettono di fare ricerca sul processo, identificando qualcosa (un tipo di psicoterapia) che possa essere replicato, mentre gli svantaggi sono tantissimi e se ne è parlato molto: eccessiva rigidità dei terapeuti fino in certi casi a snaturare la psicoterapia stessa, alta "efficacia" che però è raggiunta al prezzo di una bassa "efficienza", cioè risultati non buoni nella fase di "esportazione" (dissemination) della tecnica fuori dal laboratorio (quella che si può chiamare anche "validità esterna") in cui i pazienti (non solo i terapeuti) non sono selezionati e quindi presentano una comorbilità che non era presente in quelli selezionati per la ricerca (tanto che, ironicamente, sembra che la ricerca sia su un terzo dei pazienti mentre i clinici come noi vedono i restanti due terzi, quelli esclusi e più difficili). Sembra insomma che in certi casi vi sia un curioso paradosso: più una ricerca è ben fatta, meno è utile al clinico, nel senso che il rigore metodologico richiesto dalla sperimentazione allontana troppo quella psicoterapia dalla pratica clinica quotidiana, che necessariamente è ben poco rigorosa ed è "inquinata" da mille fattori poco controllabili. Non mi dilungo a parlare di queste cose, anche perché ne hanno parlato a fondo Westen et al. (2004) nell'articolo che ho fatto pubblicare nel n. 1/2005 di Psicoterapia e Scienze Umane, a cui rimando, e di cui riassumo i punti centrali in Migone, 2005a (questo articolo tra l'altro è ritenuto così importante che è stato incluso nel PDM, il nuovo "manuale diagnostico psicoanalitico" che ho presentato in anteprima nel n. 4/2006 di Psicoterapia e Scienze Umane - il PDM è stato tradotto in italiano presso l'editore Raffaello Cortina, e un capitolo, quello a pp. 565-658, è appunto la riproduzione dell'articolo di Westen et al. appena citato). Mi rendo conto adesso che questo mio scritto doveva essere breve mentre sta diventando molto lungo, col rischio che, se al seminario non sono stato capito, adesso non verrò letto per eccessiva lunghezza. Mi limito a dire alcune cose in commento all'intervento di Gabriele Vezzani, e anche di Alberto Merini, che a mio parere potrebbero aver creato un fraintendimento. Vezzani ha espresso parole critiche nei confronti della ricerca in psicoterapia (per i noti e comprensibili limiti, di cui peraltro ho parlato anch'io), enfatizzando invece il lavoro tradizionale dello psicoanalista, di riflessione sui casi, di supervisione, insomma di tipo induttivo (ha ricordato anche il suo lavoro con Cremerius, e ha citato la scuola francese e in particolare André Green, "bestia nera" dei ricercatori e noto paladino di coloro che testardamente continuano ad opporsi alla ricerca in psicoanalisi). Le preoccupazioni di Vezzani possono essere comprensibili, ma, onde non creare fraintendimenti, occorre distinguere bene tra ricerca clinica e ricerca sperimentale o empirica (quest'ultima detta anche "ricerca" tout court). Come ho mostrato altrove (Migone, 2001), sono due cose completamente diverse, la prima (quella di cui ha parlato Vezzani) è quella che facciamo tutti noi quotidianamente, e che faceva anche Freud, va benissimo ma è un'altra cosa (per i ricercatori è solo la metà della luna, è solo una parte del percorso della conoscenza). Quello di cui si voleva parlare al seminario era la ricerca scientifica vera e propria (extra-clinica, come la chiamerà Grünbaum [vedi Migone, 1989a], cioè fatta fuori dalla situazione clinica, con strumentazioni standardizzate, giudici indipendenti e spesso "ciechi", ecc.), cioè la questione che il seminario voleva affrontare era di cogliere la sfida della ricerca (della "scienza") e vedere se è possibile in un qualche modo colmare il divario, il great divide, che purtroppo separa ancora i due mondi in cui il nostro campo è diviso, quello dei clinici e quello dei ricercatori (come peraltro l'intervento di Vezzani e Merini sembrano testimoniare molto bene: il clinico rifugge dalla ricerca, dice che non gli serve, non gli interessa, appartiene a un altro mondo, per lui la ricerca è solo quella clinica, basata sulla sua "esperienza", o addirittura è un'arte come diceva Merini, e così via; alcuni di coloro che sostengono queste posizioni si rifanno al concetto freudiano di junktim, cioè il "legame molto stretto fra terapia e ricerca" [Freud, 1927, p. 422]). Il tema della difficile convivenza tra questi due mondi, se il great divide può o non può essere superato ecc., è il tema del terzo congresso della sezione italiana della Society for the Exploration of Psychotherapy Integration [SEPI] (Roma, 18-20 aprile 2008); negli ultimi anni, all'interno del gruppo della SEPI, abbiamo avuto accaniti dibattiti su questo problema (e addirittura si è rischiato di incrinare amicizie che sembravano consolidate!). Quasi tutto il dibattito è pubblicato su Internet - vedi il sito http://www.psychomedia.it/pm-lists/debates/sepi.htm - ma è lunghissimo, è durato dal 2001 al 2003, per cui occorre molto tempo per leggerlo tutto (se vi può interessare, si è concluso con netti e salutari disaccordi, e le alleanze non seguivano le appartenenze di scuola ma erano trasversali ai vari approcci psicoterapeutici). Per tornare alla dicotomia tra i due mondi della psicoterapia, io invece ritengo che si debba riflettere su questo great divide, su questo gap, e che in qualche modo vada colmato o sia colmabile (all'insegna, solo per fare un esempio tra i tanti, di tutto il percorso di ricerca fatto dal gruppo di Rapaport; anche Sid Blatt [di cui ho pubblicato un articolo nel n. 4/2006 di Psicoterapia e Scienze Umane], anch'egli del gruppo di Rapaport, a mio parere è un mirabile esempio di questa tradizione [vedi ad esempio la mia recensione (Migone, 2007) del suo Festschrift a pp. 405-407 del n. 3/2007 di Psicoterapia e Scienze Umane]). Mi è sembrato di capire che anche la relazione di Bersani simpatizzasse per questa posizione. Per non dilungarmi troppo su questo argomento, rimando a Migone, 2001, 2008, e a un articolo di Bob Holt del 1962, che a questo proposito ho trovato molto interessante e che scrisse quando, tanti anni fa, era allievo di Gordon Allport (il famoso psicologo che nel dibattito vivo in America alla metà del secolo XX si proponeva come fautore dell'approccio idiografico in personologia contro l'approccio nomotetico): qui il giovane Holt, ribellandosi al maestro, dimostra che considerare separati questi due approcci, questi due mondi, è un errore derivato da una concezione di scienza ormai superata e da vari fraintendimenti. Dimenticavo di dire che i tanti problemi della ricerca in psicoterapia, inseriti in una prospettiva storica, sono raccontati in un mio articolo del 1996, anch'esso su Internet ["La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo": http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm; è un articolo molto lungo, e poi è di più di 10 anni fa, ma chi è interessato può vedere in modo dettagliato la descrizione di varie problematiche, e tante affermazioni fatte da me nei paragrafi precedenti qui vengono "spacchettate", spiegate più approfonditamente]. Un volume recente, che è un po' la summa della ricerca in psicoterapia, prodotto da autori italiani, è il manuale a cura di N. Dazzi, V. Lingiardi & A. Colli La ricerca in psicoterapia. Modelli e Strumenti [Milano: Raffaello Cortina, 2006, 919 pagine]. Psicoterapia e Scienze Umane ha pubblicato importanti lavori sul problema della ricerca in psicoterapia in anticipo rispetto alla cultura italiana del settore, preparando quindi il terreno per il dibattito: si pensi alla review di Parloff del 1985 sullo stato dell'arte della ricerca sul risultato della psicoterapia [pubblicata sul n. 3/1988], o al documento ufficiale della Chambless con gli elenchi delle psicoterapie supportate empiricamente (gli Empirically Supported Treatments [EST]) pubblicato in contemporanea negli USA tramite un accordo con l'American Psychological Association [sul n. 3/2001 - vedi il sito http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/chambl98.htm], o si pensi all'importante lavoro di Westen et al., prima citato, di discussione critica della metodologia degli EST che è basata sulla discutibile e acritica applicazione alla psicoterapia della metodologia di ricerca farmacologia (i famosi Randomized Clinical Trials [RCT], da alcuni ritenuti il gold standard di ogni ricerca su tutti gli interventi terapeutici, psicoterapia compresa, perché includono il controllo col placebo in modo randomizzato - cosa che però in psicoterapia rappresenta un non facile problema, per ovvi motivi). Forse è il caso che mi fermi. Ringrazio coloro che hanno avuto la pazienza di leggermi fin qui, e vi prego di non esitare a scrivermi se vi sono degli argomenti che posso chiarire meglio, o per avere altri riferimenti bibliografici. Bibliografia Alexander F., French T.M. et al. (1946). Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press (trad. it. dei capitoli 2, 4 e 17: La esperienza emozionale correttiva. Psicoterapia e Scienze Umane, 1993, XXVII, 2: 85-101. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/alexan-1.htm). Bowlby J. (1958). The nature of the child's tie to his mother. Int. J. Psychoanal., 39: 350-373. Chambless D.L. & Ollendick T.H. (2001). Empirically supported psychological interventions: controversies and evidence. Annual Review of Psychology, 52: 685-716 (trad. it.: Gli interventi psicologici validati empiricamente: controversie ed evidenze empiriche. Psicoterapia e Scienze Umane, 2001, XXXV, 3: 5-46). 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