Il Ruolo Terapeutico, 2012, 119: 67-78 (I parte), e 120: 49-66 (II parte)
Paolo Migone
Il 15-16 giugno 2011 Antonio Maria Ferro, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale della ASL 2 Savonese, ha organizzato, alla Sala Sibilla Priamar di Savona, un convegno dal titolo "Modelli e interventi di cura della psicosi e dei disturbi affettivi", e mi ha invitato a tenere una relazione sulla storia della schizofrenia. L'ho quindi preparata e le l'ho intitolata "Excursus storico sulle concezioni della schizofrenia e dei disturbi psicotici gravi e sulle modalità terapeutiche". La riporto integralmente, pensando che possa servire anche ad altri, se non altro come documentazione. Dato che è risultata abbastanza lunga, la divido in due parti, la seconda parte è uscita nella mia rubrica del prossimo numero (n. 120/2012), che riporto qui di seguito. Data la vastità di questo argomento, mi sono limitato a trattare solo alcuni aspetti: prima presento una storia della schizofrenia e poi, in modo sintetico, una storia della terapia della schizofrenia dal punto di vista sia biologico che psicologico; per la terapia psicologica, parlerò soprattutto della terapia psicoanalitica della schizofrenia, per la importanza che ha avuto dal punto di vista storico, ma accennerò anche ad alcuni aspetti delle tecniche di terapia psicosociale. La prima parte, pubblicata in questo numero, contiene la storia della schizofrenia e la storia della terapia della schizofrenia ma solo per quanto riguarda gli approcci biologici o fisici; la seconda parte conterrà la storia della terapia psicologica della schizofrenia, in particolare per quanto riguarda gli approcci psicoanalitici ma con un accenno anche ad altre impostazioni psicoterapeutiche, con infine una sintetica discussione. Riporterò anche una bibliografia, che sarà alla fine della seconda parte. La storia della schizofrenia La schizofrenia è il più importante e grave disturbo mentale, tuttora uno dei più inquietanti nel campo della psicopatologia. Spesso viene considerato il modello della follia, ma non è stato sempre così. Come osserva Garrabé (1992, pp. 33-34), si può dire che nella prima metà del XIX secolo il modello della follia fosse la paralisi generale, identificata all'inizio dell'Ottocento, fino a quando non ne fu scoperta la genesi sifilitica, per cedere il passo a un'altra malattia che rappresentò il nuovo modello della follia, l'isteria, anch'essa di proporzioni epidemiche. Ma a cavallo del XX secolo Sigmund Freud (1856-1939) ne scoprì la genesi psicologica per cui cessò di essere una malattia misteriosa, e in seguito divenne anche molto meno frequente fino quasi a scomparire nei paesi industrializzati. Dal XX secolo in poi è la schizofrenia il disturbo che nell'immaginario collettivo rappresenta la follia, e che mette a dura prova i nostri sforzi di comprensione e di cura. La storia della ricerca scientifica sulla schizofrenia quindi è relativamente recente, essendo iniziata tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento (Migone, 2010a, pp. 107-110). Dobbiamo infatti allo psichiatra tedesco Emil Kraepelin (1856-1926) il merito di aver individuato l'esistenza di una costellazione sintomatologica riferibile a questa malattia, anche se non è stato lui a coniare il termine "schizofrenia", bensì alcuni anni più tardi il noto psichiatra svizzero Eugen Bleuler (1857-1930). Quello che fece Kraepelin, nelle varie edizioni del suo manuale Psychiatrie, che vanno dal 1883 al 1913, fu un grosso sforzo di classificazione descrittiva delle malattie mentali basato sull'osservazione dei suoi pazienti nel corso di vari decenni. Nella quarta edizione del manuale, del 1893, che uscì appena fu nominato Professore di Psichiatria all'Università di Heidelberg, Kraepelin con molto acume individuò un gruppo di malattie che chiamò "processi di degenerazione psichica", caratterizzate dal rapido sviluppo di una "debolezza mentale". Alcuni anni dopo, nella quinta edizione, diede loro il nome di "demenza precoce" (dementia praecox) raggruppando tre diverse sindromi, convinto che fossero varianti di una stessa malattia: la catatonia (descritta per la prima volta da Karl Ludwig Kahlbaum [1828-1899] nel 1868, che si manifesta come una sorta di tensione dell'attività motoria volontaria, tipicamente definita flexibilitas cerea, nel senso che un arto, una volta flesso, rimaneva in quella posizione come se fosse cera), l'ebefrenia (descritta per la prima volta da Ewald Hecker [1843-1909] nel 1871, che si manifesta come una sorta di stupidità infantile - Ebe è la dea della giovinezza), e la demenza paranoide, da lui stesso individuata (tipicamente caratterizzata da allucinazioni e deliri, la forma più comune di schizofrenia). Il termine "demenza precoce" - che in realtà fu usato per la prima volta dal francese Benedict-Augustin Morel (1809-1873) molti anni prima, nel 1856, ma solo per descrivere un rapido deterioramento nell'adolescenza - voleva alludere al fatto che questa "demenza" avveniva, per motivi inspiegabili, in età giovanile, cioè molto più precocemente rispetto alla tipica demenza dell'età senile (riguardo al termine "demenza", era stato Jean-Etienne Dominique Esquirol [1772-1840] a proporre la distinzione tra "demenza", che implica una perdita di capacità già possedute prima, e "idiozia", in cui queste capacità non vi sono mai state [Esquirol, 1838, tomo II, p. 76]). Vi è quindi una certa disputa tra gli storici riguardo alla provenienza del termine "demenza precoce", se dalla scuola tedesca o da quella francese, anche perché il francese Morel, nato a Vienna, parlava perfettamente tedesco e conosceva i lavori della scuola tedesca. Al genio di Kraepelin comunque si deve anche l'aver individuato, primo fra tutti, l'esistenza di una "psicosi maniaco-depressiva", riuscendo a scoprire che i vari episodi di depressione ed euforia (o mania) che numerosi autori avevano fino ad allora descritto e concepito come malattie indipendenti erano in realtà forme di un'unica malattia ad andamento ciclico (che verrà poi chiamata "disturbo bipolare"). A proposito del termine "psicosi", va ricordato che è abbastanza recente, fu usato per la prima volta nel 1845 da un rappresentante della scuola romantica, Ernst Freiher von Feuchtersleben (1806-1849), di Vienna, per designare, in modo praticamente opposto a quello odierno, le manifestazioni della malattia mentale (della "psiche"), mentre il termine "nevrosi" (introdotto nel 1777 dallo scozzese William Cullen [1710-1790]) veniva usato per designare le alterazioni dei "nervi", cioè del sistema nervoso centrale, responsabili di quelle stesse manifestazioni (Garrabé, 1992, p. 60). Sarà all'inizio del Novecento, con Freud e Charcot, che il significato del termine nevrosi cambierà, per designare stati patologici apparentemente privi di danno organico. La questione di quante psicosi esistevano aveva occupato a lungo la psichiatria tedesca, e va ricordata l'opera del tedesco Wilhelm Griesinger (1817-1868), il quale nel 1848 propose il concetto di "psicosi unica" (Einheitpsychose), secondo cui tutte le malattie mentali rappresentano livelli di gravità crescente di uno stesso disturbo di base, di cui rappresentano tappe o fasi; questa concezione diede molto successo a Griesinger tanto che fu chiamato alla cattedra di Clinica medica a Zurigo e a dirigere il Burghšlzli, dove avverrà la nascita della schizofrenia. Il 1911 fu un anno molto importante per la storia della schizofrenia, perché vide la pubblicazione di tre importanti testi: il libro di Bleuler (1911) intitolato La demenza precoce e il gruppo delle schizofrenie, la monografia di Freud (1910 [1911]) sul presidente Schreber intitolata "Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia (dementia paranoides) descritto autobiograficamente", e lo scritto di Jung (1911) "Simboli della trasformazione. Analisi dei prodromi di un caso di schizofrenia" che mostra la modificazione del concetto freudiano di libido che Jung ora intende in senso non esclusivamente sessuale. Questi scritti, assieme ad altri, segneranno l'inizio del moderno studio delle psicosi (Garrabé, 1992, p. 85). Per limiti di spazio verrà qui approfondito solo il primo e più importante di questi scritti, quello di Bleuler. Il libro di Bleuler (1911) La demenza precoce e il gruppo delle schizofrenie introdusse sulla scena il termine "schizofrenia" che doveva poi diventare molto popolare. Originariamente Bleuler aveva scritto il suo contributo per un manuale di psichiatria (quello in 12 volumi di Aschaffenburg) dove doveva illustrare il concetto kraepeliniano di "demenza precoce"; in sèguito invece sviluppò idee personali che dovevano successivamente influenzare in parte anche lo stesso Kraepelin. La differenza fondamentale tra queste due figure storiche della psichiatria europea, cioè Bleuler e Kraepelin, fu che il primo subì l'influenza del pensiero freudiano (originariamente Bleuler - che lavorava al Burghšlzli di Zurigo dove fu maestro di Carl Gustav Jung [1875-1961] - faceva parte del movimento psicoanalitico, per poi prenderne le distanze), mentre Kraepelin era profondamente radicato nella cultura accademica tedesca, la quale lo aveva portato a ritenere per esempio che la demenza precoce era una malattia del cervello, di origine oscura ma probabilmente dovuta ad una autointossicazione causata da un disturbo metabolico. Bleuler invece pensò a questa malattia in termini più psicologici che neuropatologici, e coniò il termine "schizofrenia" appunto per alludere a una "scissione della mente" (dal greco σχίζειν, scindere, e φρήν, mente) come dovuta a grossi conflitti o a una "perdita delle associazioni mentali", sia in termini di sequenza delle associazioni, sia tra pensiero e parola, sia tra processi cognitivi ed emotivi. Per questo egli distinse i sintomi fondamentali o "primari" della schizofrenia (le "quattro A": disturbi delle Associazioni o del pensiero, Autismo, Ambivalenza, Affettività inappropriata), dai sintomi "secondari" (allucinazioni, deliri, catatonia, disturbi del linguaggio e della scrittura, disturbi della memoria, sintomi somatici), i quali secondo lui potevano anche non essere presenti per fare diagnosi. Fu proprio per questo motivo che egli aggiunse una quarta forma di schizofrenia alle tre già descritte da Kraepelin (ebefrenica, catatonica e paranoide), che chiamò simplex, dove non vi erano allucinazioni o deliri. Negli anni seguenti il termine schizofrenia gradualmente sostituì quello di demenza precoce, e le sottostanti premesse teoriche sulla natura della malattia ebbero una notevole influenza, particolarmente negli Stati Uniti, dove non a caso anche la psicoanalisi avrà una rapida diffusione (Migone, 1981, 1986). Ma il termine demenza precoce, con i suoi assunti teorici, non fu abbandonato facilmente, particolarmente nelle roccaforti accademiche europee, ma la parola "schizofrenia" risultò a molti più conveniente anche per la possibilità di essere declinata nell'aggettivo "schizofrenico". Tuttavia l'uso di queste due parole, nascondendo ambiguità e incompatibilità nella concezione della malattia, produsse una certa confusione e fu di ostacolo per la ricerca futura sulla terapia di questo importante e misterioso disturbo. Un elemento di confusione, in un certo qual modo, fu anche dovuto a due epidemie che nei primi decenni del Novecento sconvolsero l'Europa, una delle quali sembrava avere confini incerti con la "epidemia" della schizofrenia: la febbre spagnola e la encefalite letargica. Queste due epidemie, la cui forza distruttrice fu paragonabile a quella delle grandi pesti del Medio Evo e del Rinascimento, provocarono molte più morti di quelle dovute alla concomitante Grande Guerra: la spagnola provocò 20 milioni di morti, e la encefalite letargica contagiò 10 milioni di persone di cui un terzo morì. La encefalite letargica, detta anche "malattia del sonno", non solo veniva a volte confusa con la malaria, diffusa nelle colonie (in inglese la confusione era maggiore perché si usava lo stesso termine, sleeping sickness), ma anche con la schizofrenia poiché non raramente nei sopravvissuti all'encefalite letargica compariva un delirio acuto allucinatorio, tanto che vi fu chi parlò di "schizofrenia epidemica". Come è noto, fu Constantin von Economo (1876-1931) negli anni 1910-20 a chiarire la natura parkinsoniana di questa encefalite, e la coincidenza che si osservò nel 1917 tra la spagnola e la encefalite letargica viene spiegata da alcuni come dovuta a un abbassamento delle difese immunitarie causate dall'influenza spagnola che predisponeva all'encefalite. E, come fa notare Oliver Sacks (1973, p. 50; vedi Garrabé, 1992, pp. 124-125), che descrisse questa encefalite nel libro Risvegli (da cui fu tratto l'omonimo film del 1990 di Penny Marshall con Robert De Niro e Robin Williams), è possibile che la stessa cosa sia accaduta per un'altra grande epidemia influenzale, la famigerata "nona" degli anni 1889-90, che provocava una grave sonnolenza e sequele parkinsoniane in quasi tutti i pochi sopravvissuti. Per tornare alla concezione kraepeliniana di demenza precoce, una caratteristica centrale era la prognosi, cioè il decorso: questa malattia veniva concepita come uno stato di deterioramento irreversibile, un "processo" che sfociava prima o poi in uno stato di "debolezza mentale" con gravi ripercussioni sulla volontà e sull'affettività. Solo una piccolissima percentuale di questi pazienti guariva, secondo Kraepelin, e in generale, se si notavano delle remissioni della malattia, queste significavano che il destino nefasto era solamente ritardato, ma non modificato. Negli anni, però, ci si rese conto che non era affatto raro osservare miglioramenti sostanziali e duraturi nei pazienti che avevano avuto un episodio schizofrenico, e che se si presentava un altro episodio questo poteva essere seguìto a sua volta da un miglioramento (oggi le ricerche hanno dimostrato che, approssimativamente, circa un terzo dei pazienti diagnosticati come schizofrenici può guarire, e che solo un terzo deteriora progressivamente). Uno dei problemi restava comunque la mancanza di chiarezza diagnostica: mentre alcuni autorevoli studiosi europei (ad esempio i tedeschi Karl Kleist [1879-1960] e Karl Leonhard [1904-1988] e il norvegese Gabriel Langfeldt [1895-1983]) proponevano di limitare l'uso di questo termine solo ai pazienti che presentavano un deterioramento irreversibile della personalità, altri lo usavano molto più liberamente e indipendentemente dalla prognosi; alcuni lo utilizzavano solo per coloro che si ammalavano nell'adolescenza o nell'età giovanile, altri lo usavano per diagnosticare pazienti di ogni età; alcuni richiedevano la presenza di determinati sintomi-chiave, e altri, come Henricus Cornelius Rümke (1893-1967), addirittura richiedevano un soggettivo e indefinito "sentimento di schizofrenicità" (Praecoxgefühl) da parte dello psichiatra, quindi collegavano la diagnosi al fattore interpersonale (Rümke, 1957); e così via. Non a caso già nel 1913 Kraepelin protestò vigorosamente contro il concetto bleuleriano di "schizofrenia latente", il quale era talmente elastico da rischiare di coprire quasi tutta la psicopatologia (vedi a questo proposito anche Federn [1947] e Bychowsky [1953]). Negli Stati Uniti tra gli anni 1920 e 1960 il termine schizofrenia, e più tardi anche quello di "schizofrenia pseudonevrotica" (Hoch & Polatin, 1949), furono usati così poco rigorosamente da rischiare di includere quasi tutti i casi di patologia grave o non sensibile alla psicoterapia. Questo ampliamento della diagnosi di schizofrenia avvenne probabilmente a causa dell'influenza del pensiero psicoanalitico, che faceva leva su criteri strutturali, cioè intrapsichici, e non descrittivi. Non a caso la diagnosi di schizofrenia era molto più frequente negli Stati Uniti, dove la cultura psicoanalitica era ben più diffusa, che in Europa, e fu questo uno dei motivi per cui negli anni 1970 fu sentita l'esigenza di formulare metodi diagnostici attendibili, basati su criteri diagnosi descrittivi, come i cosiddetti Feighner criteria, formulati dal "gruppo di St. Luis", in un articolo che divenne la più citata pubblicazione psichiatrica degli anni 1970 e che descriveva i criteri diagnostici di 15 disturbi psichiatrici, muovendo dalla premessa che i sintomi dovessero essere considerati «al più basso livello di inferenza necessaria, minimizzando le teorie eziologiche relative alle malattie in questione» (Feighner et al., 1972). Prendendo spunto dai Feighner criteria, alcuni anni dopo Spitzer et al. (1975, 1978) misero a punto i Research Diagnostic Criteria (RDC), relativi a 23 diagnosi, e furono questi, tra gli altri, gli studi che spinsero l'American Psychiatric Association a costruire un sistema diagnostico solamente descrittivo e "ateorico" come il DSM-III (Migone, 1983, 2010a cap. 12, 2010b, 2011). Fra gli autori europei che invece proposero alcuni sintomi chiave per fare diagnosi di schizofrenia, vi fu l'autorevole psichiatra tedesco Kurt Schneider (1887-1967), di Heidelberg, il quale distinse sintomi di "primo rango" (particolari allucinazioni uditive in terza persona, voci conversanti tra di loro, che fanno eco al proprio pensiero o che ne commentano le azioni; sintomi di "permeabilità" tra il Sé e l'ambiente; deliri di controllo, di influenzamento somatico, del pensiero, della volontà e dell'affettività; inserzione o "furto" del pensiero; trasmissione via etere del pensiero [thought broadcasting]) da quelli di "secondo rango" (altri disturbi percettivi, intuizione delirante, modificazione dello stato dell'umore, impoverimento o appiattimento affettivo, perplessità). La concezione di schizofrenia di Schneider (1959) ebbe una notevole diffusione particolarmente a causa del fatto che permetteva di ottenere una discreta attendibilità diagnostica, in quanto i sintomi di primo rango erano chiaramente definiti e potevano essere osservati e "misurati" molto più facilmente dei sintomi primari di Bleuler. D'altra parte, i sintomi di primo rango di Schneider avevano lo svantaggio di avere poco valore prognostico e di essere presenti anche in certe psicosi dell'umore, come ad esempio l'episodio maniacale. Ma, sempre per motivi di tempo, devo interrompere la discussione degli aspetti storici e diagnostici della schizofrenia (vedi anche Migone, 2010a, cap. 12 e cap. 8), e vediamo, molto sinteticamente, gli aspetti terapeutici nella loro evoluzione storica. La storia della terapia della schizofrenia Accennerò prima alla terapia biologica della schizofrenia. La storia della terapia psicologica della schizofrenia sarà esposta nella seconda parte, e riguarderà innanzitutto la storia della terapia psicoanalitica, che è stata la prima importante forma di psicoterapia. Storia della terapia biologica della schizofrenia La storia della terapia biologica della schizofrenia si può suddividere in quattro tappe fondamentali: la "cura del sonno", la terapia di shock, la psicochirurgia, e i farmaci. La "cura del sonno", essenzialmente con barbiturici, fu la prima terapia specifica della schizofrenia, giustificata anche dal fatto che spesso gli schizofrenici di notte erano agitati e non dormivano. A maggior ragione veniva somministrata a tutti i pazienti agitati, ad esempio ai maniacali (cioè a quelli nella fase euforica della psicosi maniaco-depressiva, ora chiamata disturbo bipolare). Il paziente veniva lasciato in un sonno leggero, in genere 15 ore al giorno. In sèguito, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, si praticherà anche la narcoanalisi, cioè l'interrogazione del paziente in questo stato di dormiveglia in cui le difese erano abbassate. Circa mezzo secolo dopo l'inizio di questo tipo di terapia si scopriranno gli effetti iatrogeni di gravi tossicomanie (causate dai barbiturici che danno una forte dipendenza), e questa terapia verrà abbandonata. Prese il suo posto un'altra terapia, la terapia di shock, prima di tutto quella ideata da Manfred Joshua Sakel (1900-1957), consistente in shock ipoglicemici provocati da insulina (la quale era stata scoperta poco prima, nel 1922). Questi shock erano caratterizzati da coma, e si riteneva avessero un effetto benefico sugli schizofrenici. Sakel aveva inizialmente usato questo metodo per curare i morfinomani nella sua clinica a Berlino, e poi, dato che pareva curasse anche certi disturbi psichici, lo provò sugli schizofrenici. Sakel aveva perfezionato questo metodo dopo la sue emigrazione negli Stati Uniti prima della seconda guerra mondiale, e lo difendeva accanitamente contro un altro metodo, anch'esso di shock, che in quegli anni stava diffondendosi, quello proposto dall'ungherese Ladislas Joseph von Meduna (1896-1964), che provocava convulsioni anziché coma. Von Meduna era convinto che vi era un antagonismo biologico tra epilessia e schizofrenia, per cui credeva che inducendo convulsioni si curasse la schizofrenia. Le convulsioni venivano provocate iniettando canfora, e in sèguito cardiazolo (pentametilentetrazolo). Questi quindi erano i due metodi per curare allora la schizofrenia, e il confronto scientifico era su quale metodo fosse migliore. Ma pochi anni dopo si fece avanti un italiano, Ugo Cerletti (1877-1963), che propose di indurre le convulsioni con l'elettricità, cioè con un elettroshock. Cerletti, che inizialmente aveva sperimentato l'elettroshock sui maiali, credeva che l'effetto terapeutico non derivasse dalle convulsioni, ma da misteriose sostanze vitalizzanti che lui chiamò "acroagonine" e che si liberavano a causa dello shock. Cerletti proponeva elettroshock quotidiani, soprattutto nelle schizofrenie paranoidi, allo scopo di raggiungere un "annichilimento" della vita psichica del paziente. Presto però si rese conto che l'elettroshock era più efficace nella depressione melanconica che nella schizofrenia, per la quale venne gradualmente abbandonato. Come curiosità storica, è possibile che i metodi di shock per la cura della schizofrenia fossero ispirati al trattamento della paralisi generale tramite la "impaludazione", un trattamento che valse a Wagner von Jauregg (1857-1940), amico e rivale di Freud, il premio Nobel nel 1917 (Garrabé, 1992, p. 138). La "impaludazione" era una terapia antimalarica consistente nella inoculazione dei plasmodi malarici nel paziente sifilitico allo scopo di indurre la febbre terzana benigna, con una decina di accessi di febbre. Questa tecnica ovviamente fu abbandonata con la scoperta del treponema pallidum nel cervello dei sifilitici, e della efficacia della penicillina per la sifilide cerebrale. Un altro grande capitolo della terapia della schizofrenia - il terzo, dopo la "cura del sonno" e la terapia di shock - è rappresentato dalla psicochirurgia. Pare che il primo medico a tentare la psicochirurgia fosse uno dei maestri di Bleuler, lo svizzero Gottlieb Burckhardt (1836-1896), il quale, pur non avendo una formazione chirurgica, nel 1888 asportò parte del lobo temporale a un delirante allucinato. Operò comunque solo pochi casi, e la tecnica fu abbandonata anche per le proteste che suscitò, soprattutto in Francia. La psicochirurgia risorse mezzo secolo dopo grazie al neurologo portoghese Egas Moniz (1874-1955), pseudonimo di Ant—nio Caetano de Abreu Freire, che la provò per la prima volta nel 1935 su 20 pazienti psichiatrici riportando a suo parere dei miglioramenti, e che per questa scoperta vinse il premio Nobel nel 1947. Erano i lobi prefrontali quelli preferiti dalla psicochirurgia, perché filogeneticamente più recenti e perché i lobi prefrontali non avevano funzioni proprie ma erano aree associative, integrative delle funzioni cerebrali. La chirurgia consisteva nel sezionare le fibre bianche che collegano i lobi prefrontali al talamo, e venne chiamata lobotomia prefrontale o leucotomia. Come sottolinea Pierre Pichot (1983; vedi Garrabé, 1992, p. 140), l'ipotesi di Moniz secondo cui determinate alterazioni mentali erano basate su connessioni neuronali patologiche derivava dall'associazionismo neuronale di Santiago Ram—n y Cajal (1852-1934) e dalla teoria dei riflessi condizionati di Ivan Pavlov (1849-1936). Ed è curioso il fatto che la psicochirurgia si diffuse soprattutto in America e non in Russia, dove la teoria di Pavolv era stata dichiarata dottrina ufficiale, ma è probabile che il motivo fosse dovuto al maggiore progresso delle tecniche chirurgiche nei paesi occidentali. Negli Stati uniti Walter Freeman (1895-1972), un neurologo della George Washington University, ne fu talmente entusiasta che iniziò a farla conoscere diffusamente e a praticarla, tanto che nel 1951 più di 20.000 pazienti psichiatrici, prelevati dai manicomi, erano già stati operati. I successi erano considerati molto buoni, e apparentemente ne erano soddisfatti non solo i pazienti, ma anche i famigliari, i medici e gli infermieri, tutti confermando grossi vantaggi per disturbi mentali invalidanti (Migone, 2000). L'autorevole medico John Fulton, della Yale University, che era stato allievo di Sir Charles Scott Sherrington (1857-1952) e di Harvey Williams Cushing (1869-1939), si vantò di aver ispirato Moniz a tentare questa operazione per i cambiamenti comportamentali che lui stesso aveva ottenuto con lesioni frontali sugli scimpanzé, che erano diventati più docili. Tantissimi autorevoli medici del tempo l'approvarono (Adolf Meyer [1866-1950], Kurt Goldstein [1878-1965], Harry Solomon [1889-1982], ecc.), e le poche voci critiche (come quelle di Smith Ely Jelliffe [1866-1945], William Alanson White [1870-1937], Gregory Zilboorg [1890-1959] e Roy Grinker Sr. [1900-1993]) non furono ascoltate. A sèguito di alcune perplessità espresse da vari neurologi sulla mancanza di ricerche neuroanatomiche accurate che supportassero questa tecnica, Freeman allora inventò un'altra procedura, la "lobotomia trans-orbitale", e cominciò a viaggiare per gli Stati Uniti tenendo conferenze e praticandola personalmente su più di 2.400 pazienti dal 1948 al 1957. Negli anni 1950, soprattutto in Francia, verrà sperimentata anche la "neurochirurgia stereotassica", una tecnica che veniva utilizzata per il morbo di Parkinson. Secondo un censimento del 1971, circa 100.000 pazienti furono operati di psicochirurgia nel corso di soli 25 anni (persino una sorella di John Fitzgerald Kennedy fu lobotomizzata all'età di 22 anni a causa di "sbalzi di umore", col risultato che cadde in uno stato cerebrale infantile, divenne incontinente e si mise a passare il tempo a fissare le pareti). Come curiosità storica, e a proposito della terapia chirurgica della schizofrenia ma non sul cervello, si può accennare ai tentativi di un direttore del manicomio di Trenton (New Jersey), un importante ospedale psichiatrico pubblico che una volta si chiamava New Jersey State Lunatic Asylum ("Asilo per i Lunatici dello Stato del New Jersey"). Questo direttore era Henry A. Cotton (1876-1933), aveva studiato in Europa con Emil Kraepelin and Alois Alzheimer (1864-1915), era stato uno dei migliori allievi di Adolf Meyer alla Johns Hopkins University, ed era unanimemente considerato uno dei più bravi e aggiornati psichiatri del tempo. Aveva cercato di umanizzare l'ospedale, liberando i malati dalle camice di forza e organizzando riunioni giornaliere con lo staff per discutere lo stato clinico dei pazienti. Divenne direttore del manicomio a soli trent'anni, e lo diresse dal 1907 al 1930. All'inizio degli anni 1920 si convinse che la schizofrenia era dovuta ad una infezione nascosta, e precisamente ai denti. Tolse tutti i denti a varie decine di schizofrenici, inizialmente convinto che migliorassero. In sèguito però, vedendo che i miglioramenti non erano duraturi, fece asportare chirurgicamente a molti pazienti vari organi, come la colecisti, le tonsille, le ovaie, la cervice, la milza, e soprattutto il colon ritenendolo fonte di infezioni per ristagno fecale, a volte ottenendo a suo parere netti miglioramenti. Henry Cotton era un protégé di Adolf Meyer, che inizialmente simpatizzava con questi esperimenti, ma in sèguito cominciò a dubitarne per cui mandò in quell'ospedale a indagare su questo caso un'altra sua allieva, la famosa psicoanalista Phyllis Greenacre (1894-1989), la quale tra le altre cose scoprì che il 45% dei pazienti morivano per peritonite post-operatoria (si era in epoca pre-antibiotica). Da lì a poco anche queste pratiche furono abbandonate. Quando Cotton fu indagato cadde in un "esaurimento nervoso", ma non pensò che la causa potesse essere dovuta alla critica dell'opinione pubblica e al fallimento dei suoi metodi terapeutici, si convinse invece che fosse dovuta a una infezione nascosta, per cui si tose da solo alcuni denti nel tentativo di curarsi. Non posso qui raccontare in dettaglio questa incredibile storia, e rimando al libro di Scull (2005). E siamo così giunti - dopo la "cura del sonno", la terapia di shock e la psicochirurgia - alla quarta, ultima e più importante tappa della storia del trattamento biologico della schizofrenia, e cioè agli psicofarmaci. E' il 1952 l’anno che segnò una svolta, definita rivoluzionaria da molti studiosi del settore. In una serie di ricerche fatte in Francia attorno agli antistaminici e ai farmaci per la pre-anestesia, fu individuata una molecola, la Cloropromazina, a cui fu dato il nome commerciale di Largactil (da (da large action, "grande azione"), sperimentata inizialmente da Henri Laborit (1914-1995), e poi da Jean Delay e Pierre Deniker all'ospedale Sainte Anne di Parigi, che sembrava avere effetti benefici, senza dare una eccessiva sonnolenza, su sintomi produttivi della schizofrenia come le allucinazioni (pochi effetti aveva invece sulle forme ebefreniche e catatoniche, cioè agiva di più sui sintomi "positivi" che su quelli "negativi"). Un anno dopo, nel 1953, cominciò ad essere sperimentata in Nord America, dove nel 1954 fu scoperta un'altra importante sostanza, una sorta di sorella minore della Cloropromazina, la Reserpina (nome commerciale Serpasil), un alcaloide estratto alla Rauwolfia serpentina, una pianta usata in Asia già da mille anni avanti Cristo contro i morsi di serpente (da qui il nome serpentina). Più che una scoperta fu quindi una riscoperta, anche perché questa pianta era già conosciuta in India come "erba per folli", infatti aveva effetti non solo anti-ipertensivi ma anche antipsicotici. Presto la Cloropromazina si dimostrò più utile della Reserpina, la quale oltre ad essere ipotensiva induceva anche depressione, per cui fu praticamente abbandonata. La Cloropromazina fu il capostipite della classe delle "fenotiazine", e in sèguito furono scoperti i "butirrofenoni" (dei quali il più noto è l'Aloperidolo, nomi commerciali Serenase o Haldol), e così via. Questi farmaci furono definiti "neurolettici", mentre in Nord America si preferì chiamarli "tranquillanti maggiori", da distinguersi dai "tranquillanti minori" che erano i farmaci ansiolitici o benziodiazepine. Presto si scoprì che i neurolettici, oltre ad avere effetti antipsicotici, avevano anche effetti extrapiramidali, simili a quelli provocati dal morbo di Parkinson, che sembrava andassero di pari passo con gli effetti antipsicotici. Fu questo che fece pensare a vari ricercatori che fosse coinvolta la dopamina, un neurotrasmettitore implicato anche nel morbo di Parkinson. Anni più tardi, a causa della grande diffusione e dell'uso prolungato dei neurolettici, si scoprì un danno collaterale neurologico che purtroppo risultò permanente, la discinesia tardiva (movimenti involontari e ripetitivi di tipo extrapiramidale della lingua e delle labbra, talvolta anche degli arti e al tronco). Negli anni recenti l'armamentario terapeutico dei farmaci antischizofrenici si è arricchito di un'altra classe di sostanze, gli antipsicotici di ultima generazione, detti anche "atipici" (Risperidone, Olanzapina, Amisulpride, Clozapina, Quetiapina, ecc.), che sembrano avere qualche effetto anche sui sintomi "negativi" della schizofrenia (appiattimento emotivo, povertà del pensiero, ecc.), mentre gli antipsicotici tradizionali sono più efficaci sui sintomi "positivi" (cioè "produttivi", come le allucinazioni). (fine della prima parte)) (inizio della seconda parte) Accenno ora a una breve storia della terapia psicologica della schizofrenia (Migone, 2010a, pp. 110-118). Vediamo ad esempio quali furono le posizioni prese dalla psicoanalisi, che è stata la prima importante forma di psicoterapia. La psicoanalisi e la terapia della schizofrenia Come è noto, Freud (1915) affermò che la paranoia e la schizofrenia non erano trattabili con la psicoanalisi in quanto i pazienti non erano capaci di sviluppare un transfert sull'analista (infatti Freud chiamava la paranoia e la schizofrenia "nevrosi narcisistiche" in quanto, nella sua concezione, il paziente non riusciva a "investire" sugli oggetti, cioè sul mondo esterno, ma si ritirava in se stesso). Nonostante queste precise indicazioni, però, molti suoi seguaci, sulla scia dell'entusiasmo generato dalle prospettive terapeutiche che la "nuova scienza" sembrava aprire, non esitarono ad applicare la tecnica psicoanalitica anche ai pazienti più gravi. Gli sviluppi maggiori in questa direzione si ebbero negli Stati Uniti, dove ben presto la psicoanalisi vide una notevole diffusione e la "psichiatria dinamica" divenne la concezione dominante fino a circa la fine degli anni 1960. Riguardo alla terapia della schizofrenia, si pensò che una delle ragioni del fallimento della terapia istituzionale e custodialistica, messa in atto in grande stile nel secolo precedente, poteva essere dovuta all'assenza di ogni tipo di psicoterapia individuale; per questo motivo vi fu un fiorire di esperienze di psicoterapia della schizofrenia, spesso dietro la spinta della guida carismatica di figure quali Harry Stack Sullivan [1892-1949] (1924-35, 1940, 1953, 1954, 1956, 1964, 1972), Frieda Fromm-Reichmann [1889-1957] (1950), Silvano Arieti [1914-1981] (1955), Harold Searles (1965), e altri (in Svizzera, possiamo ricordare Marguerite Sechehaye (1887-1964) [1951a, 1951b, 1956] [[Nota: Fu ispirato al "caso Renée" di Margherita Sechehaye (1951a) il film di Nelo Risi del 1968 Diario di una schizofrenica, in cui si racconta l'apparente guarigione di una giovane schizofrenica tramite la tecnica della "realizzazione simbolica" (Sechehaye, 1951b).]] e Gaetano Benedetti [1979, 1988, 1991, 1997] - la Svizzera, in particolare Zurigo, allora era una fucina di ricerche sulla psicoterapia individuale della schizofrenia, e anche un crogiuolo di tradizioni diverse tra loro, come non solo quella junghiana e freudiana ma anche quella psichiatrica [Eugen Bleuler], fenomenologia e dasein-analitica [Medard Boss (1903-1990); ma vi era anche la influenza di Ludwig Binswanger (1881-1966) che aveva avuto stretti rapporti con Freud e che lavorava a Kreuzlingen, sul lago di Costanza]). Anche se più tardi vi fu chi sollevò seri dubbi diagnostici sui casi trattati (North & Cadoret, 1981), nella letteratura non mancarono resoconti di impressionanti guarigioni del quadro schizofrenico prodotti da psicoterapia individuale. Così, mentre in passato si riteneva che la risposta alla terapia della schizofrenia potesse consistere nell'approntare un buon numero di efficienti ospedali per schizofrenici, cioè manicomi, eventualmente situati fuori dalle città, l'opinione delle generazioni seguenti fu che la risposta alla schizofrenia poteva essere quella di formare un buon numero di terapeuti preparati, analizzati, e altamente motivati a seguire i pazienti schizofrenici (Gunderson & Mosher, 1975; Gunderson et al., 1988).. Ma come sappiamo, anche questa era della psichiatria dinamica, caratterizzata da una fiducia nella psicoterapia psicoanalitica della schizofrenia, declinò, innanzitutto a causa della scoperta dei farmaci antipsicotici, che permisero una rapida politica di dimissioni in molti ospedali psichiatrici e che spostarono sensibilmente la bilancia costi/benefici della terapia della schizofrenia costringendo le amministrazioni pubbliche a cambiare direzione: la somministrazione degli psicofarmaci era estremamente meno costosa del pluriennale e complesso training degli psicoterapeuti della schizofrenia. Contemporaneamente, stava cambiando l'intera ideologia della psichiatria nordamericana (e in seguito anche europea) per andare in una direzione più biologica e allontanarsi dall'orientamento psicodinamico che aveva caratterizzato all'incirca i primi settant'anni del Novecento. Tutte queste grosse trasformazioni ebbero un potente impatto negativo sulla psicoterapia della schizofrenia. Ma esse non furono le sole a incidere sull'entusiasmo di quei coraggiosi clinici che ancora tentavano la psicoterapia individuale con gli schizofrenici: anche alcuni studi empirici gettarono ombre sulla reale efficacia di questo metodo di cura. Vediamoli brevemente. Negli anni 1960 furono fatti due studi (May, 1968; Grinspoon, Ewalt & Shader, 1967, 1972) che dimostrarono che nella migliore delle ipotesi la psicoterapia aveva un'efficacia molto limitata sulla schizofrenia. Questi studi furono influenti, ma se si vanno a guardare le metodologie usate, si rimane colpiti dalla loro ingenuità: May ad esempio voleva dimostrare l'efficacia di una psicoterapia di sei mesi praticata da specializzandi in psichiatria su schizofrenici ospedalizzati; Grinspoon et al. volevano dimostrare che la psicoterapia individuale era più efficace dei neurolettici in schizofrenici cronici ricoverati. In realtà furono fatti altri due studi, meno influenti, ma che riportarono risultati più ottimisti sull'efficacia della psicoterapia della schizofrenia: Rogers et al. (1967) trovarono qualche risultato dalla psicoterapia a schizofrenici cronici anche se condotta da terapeuti poco esperti, ma i risultati comparivano solo dopo un anno e mezzo circa; Karon & VandenBos (1981) trovarono che una psicoterapia intensiva, soprattutto se fatta da terapeuti esperti, aveva effetti positivi su un piccolo gruppo di schizofrenici cronici se paragonato a un simile gruppo trattato con farmaci e normale milieuu Comunque, come hanno osservato Gunderson et al. (1988), le conclusioni di questi primi studi, fatti peraltro con una metodologia non sempre rigorosa, possono essere le seguenti: (1) l'aggiunta di una psicoterapia dinamica all'armamentario terapeutico per i pazienti schizofrenici non dà la certezza di ottenere risultati superiori a quelli dei soli farmaci; (2) in ogni caso un eventuale beneficio della psicoterapia non è imponente.. Coloro però che ancora credevano nell'efficacia della psicoterapia per gli schizofrenici avevano mosso forti critiche contro queste ricerche, e le principali erano essenzialmente di quattro tipi: (1) non venivano quasi mai usati terapeuti esperti e motivati, ma solo specializzandi in psichiatria; (2) le psicoterapie non erano abbastanza lunghe da essere efficaci (ad esempio duravano sei mesi); (3) venivano scelti pazienti troppo gravi, praticamente inguaribili; (4) gli strumenti di misurazione dei risultati non erano abbastanza sensibili alle modificazioni "psicodinamiche" o "intrapsichiche" prodotte dalla psicoterapia. Per questi motivi un gruppo di ricercatori di Boston, originariamente guidato da Alfred Stanton e poi da John Gunderson, progettarono un imponente studio sulla psicoterapia della schizofrenia, con criteri questa volta più rigorosi, per fare maggiore chiarezza in questo campo. Vediamo brevemente la metodologia e i risultati di questa ricerca (Gunderson et al., 1984, 1988).. Lo studio di Boston Questa ricerca fu ideata nel 1972 e completata nel 1984. Fu posta una particolare enfasi sulla scelta dei terapeuti, che erano tutti "esperti", retribuiti, e motivati a fare quello che facevano. I pazienti non erano né troppo gravi né troppo lievi, ovvero né troppo cronici né troppo acuti, e tutti diagnosticabili con quelli che dovevano poi diventare i criteri di schizofrenia del DSM-III (American Psychiatric Association, 1980). Furono paragonate due tecniche (e quindi due gruppi di terapeuti), definite EIO (Exploratory Insight-Oriented, cioè potremmo dire una tecnica più strettamente "psicoanalitica", orientata all'insight) e RAS (Reality-Adaptive Supportive, cioè una tecnica più "di supporto", non interpretativa e quindi "non psicoanalitica"). I terapeuti-EIO erano psicoanalisti esperti, vedevano i pazienti tre volte alla settimana (in rari casi due), credevano nelle cause psicologiche della malattia e nell'utilità di conoscere e analizzare il passato, i conflitti, l'inconscio, il transfert, ecc. I terapeuti-RAS erano prevalentemente psicofarmacologi clinici, vedevano i pazienti una volta alla settimana (in alcuni casi meno), credevano nelle cause biologiche della malattia, cercavano di adattare il paziente alla realtà di tutti i giorni, ecc. Fu possibile dimostrare sperimentalmente, tramite giudici indipendenti, che i due gruppi di terapeuti erano diversi di fatto e non solo di nome, anche se si trovò che certe funzioni erano svolte da tutti (un certo supporto ed esame di realtà, attenzione ai problemi interpersonali, ecc.). Furono reperiti 164 pazienti adatti, di cui solo il 60% resistettero oltre i 6 mesi (minimo utile per la ricerca), e il 30% oltre i due anni di follow-upmilieu. I risultati furono i seguenti. I pazienti che resistettero nel tempo nella terapia di supporto (RAS) risultarono diversi da quelli che resistettero nel tempo nella terapia psicoanalitica (EIO): i primi avevano soprattutto i sintomi positivi della schizofrenia (deliri e allucinazioni) e un maggiore ottimismo nel miglioramento, mentre i secondi avevano soprattutto sintomi negativi (isolamento sociale e apatia), un maggior pessimismo nel miglioramento, una maggiore istruzione e una storia di precedenti psicoterapie [[Nota: Questo reperto - e precisamente il fatto che i pazienti che traggono beneficio da terapie "espressive" (cioè interpretative, introspettive o "psicoanalitiche") sono diversi da quelli che traggono beneficio da terapie "supportive" - verrà poi ampiamente corroborato dalle ricerche, tra gli altri, di Sid Blatt (2006) sulle personalità "anaclitica" e "introiettiva" (termini ripresi da Freud, 1905, 1915): le personalità anaclitiche (o dionisiache) sono più dipendenti dalle relazioni interpersonali (in caso di depressione, ad esempio, soffrono tipicamente della paura di essere abbandonati), mentre le personalità introiettive (o apollinee) sono caratterizzate da senso di autonomia, responsabilità, affidabilità, ecc. (e in caso di depressione soffrono tipicamente di senso di colpa, non di abbandono). Blatt dimostrò questo dato, che ha ovvie implicazioni per la tecnica terapeutica, riesaminando i più importanti studi sull'efficacia della psicoterapia (come quello della Menninger Foundation [Kernberg et al., 1972; Wallerstein, 1986, 1993], lo studio multicentrico sponsorizzato dal National Institute of Mental Health [NIMH] sulla terapia della depressione [Elkin et al., 1989], ecc.) e correlò i risultati terapeutici ai tipi di personalità utilizzando appunto il suo modello della "polarità fondamentale" della personalità (per un approfondimento, vedi Blatt, 2006, pp. 754-757; Migone, 2007, 2009 p. 51).]]. In entrambi i casi, comunque, chi rimase in terapia non fu lo stereotipo del "buon paziente" (acuto, intelligente, dotato di insight, ecc.). Tutti i pazienti migliorarono, anche se non nel nucleo della schizofrenia, ma i pazienti-RAS migliorarono di più nel funzionamento lavorativo, nel numero di ospedalizzazioni e in misura minore anche nell'adattamento sociale, mentre i pazienti-EIO migliorarono di più, anche se in modo modesto, nelle funzioni cognitive e dell'Io (ad esempio nella disorganizzazione del pensiero). Il risultato principale quindi sembrò essere che la psicoterapia psicoanalitica non è consigliabile nella schizofrenia. Una delle più grosse implicazioni di questa ricerca è - nelle parole di Gunderson et al. (1988) - che per molti pazienti schizofrenici «una psicoterapia individuale, nella migliore delle ipotesi, sarebbe soltanto una perdita di tempo» (p. 261), e che è più consigliabile un intervento socioterapeutico (social skills training, ecc.) e un atteggiamento supportivo, direttivo e rassicurante, come ad esempio quello "autorevole tipico del medico di famiglia", che diminuisce le paure e dà speranza, e volge la sua attenzione alle cose pratiche della vita quotidiana. Un'altra implicazione di questa ricerca è che non è vero che i risultati migliori vengono ottenuti dai terapeuti cosiddetti "più dotati", ma solo da un buon incastro o accoppiamento (match) tra paziente e analista; in altre parole, anche terapeuti meno dotati riescono a produrre buoni risultati se sono accoppiati bene con certi pazienti. La psicoterapia esplorativa intensiva dovrebbe essere limitata ai casi in cui prevalgono i sintomi negativi (che tra l'altro non vengono modificati facilmente dai farmaci e dalle socioterapie), e in ogni caso non dovrebbe mai essere considerata come un intervento di prima scelta, e forse neanche di seconda scelta. Jerry Klerman (1984), commentando questi risultati, arrivò addirittura ad affermare che «le evidenze scientifiche non giustificano alcuna ulteriore ricerca sulla psicoterapia intensiva individuale della schizofrenia (...) basata su princìpi psicodinamici o interpersonali» (p. 611). In conclusione, da questa ricerca emergerebbe che per la stragrande maggioranza degli schizofrenici l'intervento di prima scelta dovrebbe essere quello farmacologico, quello di seconda scelta l'intervento socioterapico, e, se entrambi falliscono, l'intervento di terza scelta dovrebbe essere quello psicoterapeutico, soprattutto con quei pazienti in cui prevalgono i sintomi negativi (anche altre ricerche, peraltro, erano giunte a conclusioni simili: McGlashan, 1984; M. Stone. 1986; ecc.). Prima però di discutere questa problematica, vorrei presentare i risultati di un'altra serie di ricerche, che potranno sembrare a prima vista paradossali. Infatti, se da una parte lo studio di Boston sembra indicare che la psicoterapia non è indicata per la maggioranza degli schizofrenici, dall'altra si deve ammettere che un dato interessante della ricerca della schizofrenia è la provata efficacia proprio di una forma di psicoterapia (Liberman & Falloon, 1983). Alludo ai lavori che fanno capo al concetto di "Emotività Espressa" (EE), volti a coinvolgere i famigliari del paziente nel progetto terapeutico (Leff & Vaughn, 1985; Leff, 1988a; Hooley, 1985; Kanter et al., 1987; Migone, 1993a, 1993b). Secondo una review Le ricerche sulla "Emotività Espressa"" Questi studi, iniziati da Brown in Inghilterra tra gli anni 1950-60, sono poi stati continuati da altri ricercatori, tra cui Leff (1988a), Vaughn, Hogarty, Anderson, Goldstein, Falloon, Tarrier, ecc. Il contesto nel quale questi studi si sono sviluppati è il grande movimento di deistituzionalizzazione che avvenne in Inghilterra in quegli anni. Molti pazienti venivano dimessi dai manicomi grazie all'impiego dei farmaci antipsicotici, e nuovi problemi dovevano essere affrontati nella gestione dei pazienti nella comunità. In breve, quello che è stato scoperto è che i pazienti che dopo le dimissioni presentavano un più alto numero di ricadute della schizofrenia vivevano in famiglie con un alto tasso di "emotività espressa", vale a dire in famiglie caratterizzate da un'atmosfera carica di alta tensione emotiva, ipercoinvolgimento dei famigliari col paziente, presenza di critiche e ostilità nei suoi confronti, eccessiva vicinanza fisica (anche misurabile con un alto numero di ore settimanali passate dal paziente "faccia a faccia" con i famigliari critici o ipercoinvolti), e così via. Con una convenzione, questa modalità di comportamento emotivo dei famigliari fu chiamata "Emotività Espressa" (Expressed Emotion [EE]), e fu anche costruita una intervista semistrutturata per la sua misurazione (la Camberwell Family Interview Le implicazioni di questa scoperta sono notevoli, poiché, come è facile immaginare, è stato possibile formalizzare una tecnica di terapia familiare tesa a prevenire le ricadute dei pazienti schizofrenici. Questa tecnica da alcuni autori è stata chiamata "psicoeducazionale" (Anderson et al., 1986), in quanto è diversa dalle tradizionali tecniche psicoterapeutiche, nel senso che è volta soprattutto ad abbassare il tasso di EE nei famigliari tramite una rassicurazione e una chiarificazione riguardo ai sintomi del famigliare schizofrenico, a informarli e "educarli" riguardo alle cause e al decorso della schizofrenia (dato quindi che l'intervento non è rivolto primariamente al paziente ma al suo contesto sociale, a rigore questa tecnica può essere definita una "terapia psicosociale" più che una "psicoterapia" [[Nota: Il dibattito sulla differenza tra "psicoterapia" e "terapia psicosociale" nel trattamento della schizofrenia è stato molto acceso al X International Symposium for the Psychotherapy of Schizophrenia (ISPS) (Stoccolma, 11-15 agosto 1991), dove ci si rese conto che la maggior parte delle relazioni ormai non riguardavano più psicoterapie individuali ma terapie familiari e appunto psicosociali o ambientali, al punto che si propose addirittura di cambiare il nome della società scientifica: fu mantenuto l'acronimo ISPS, che aveva una sua tradizione storica, ma il nome cambiò da "International Symposium for the Psychotherapy of Schizophrenia" a "International Society for the Psychological Treatment of the Schizophrenias and Other Psychoses" (http://www.isps.org). (Per quanto riguarda invece la vexata quaestio della differenza tra "psicoanalisi" e "psicoterapia psicoanalitica", rimando a Migone, 2010a, cap. 4).]]). L'aspetto più importante comunque è che questa tecnica è stata formalizzata attraverso un manuale e un particolare training, il che la rende riproducibile e quindi sperimentabile in studi controllati. I risultati delle ricerche sono stati estremamente promettenti: mediamente, le ricadute della schizofrenia a un anno dalle dimissioni scendono da circa il 50% nel gruppo di controllo a una percentuale nel gruppo trattato che va dallo 0% al 12% a seconda degli studi. Come è possibile inquadrare questi incoraggianti risultati positivi di questo approccio psicologico alla schizofrenia, alla luce della poca efficacia di una terapia introspettiva emersa dallo studio di Boston? Discussionee Sembra che sia lo studio di Boston sulla terapia psicoanalitica della schizofrenia sia le ricerche sulla "Emotività Espressa" indichino che un rapporto terapeutico basato sulla rassicurazione e su una identificazione col terapeuta portino a migliori risultati che non un lavoro volto primariamente alla ricerca dell'insight. Isolando cioè una tecnica psicoanalitica "pura" o "ortodossa" da un'altra tecnica definita genericamente "di supporto" si può arrivare alla conclusione che l'"oro puro" della psicoanalisi sia meno prezioso del "bronzo" della psicoterapia (vedi a questo proposito McGlashan & Nayfack, 1988); del resto, molte ricerche indicano che anche in pazienti non schizofrenici un rapporto terapeutico basato sull'attenzione per la relazione terapeutica e sull'empatia porta a migliori risultati che non un lavoro volto alla ricerca dell'insight senza la giusta attenzione alla relazione (Migone, 19966, 2008, 2010a cap. 4; Lambert, 2004; Dazzi, Lingiardi & Colli, 2006). Ma la componente umana e affettiva è difficilmente eliminabile da qualunque relazione psicoterapeutica, a meno che essa non venga snaturata. Facendo riferimento alla storia del dibattito sulla teoria psicoanalitica dei fattori curativi (Migone, 1989, 2010a cap. 6), si può affermare che l'errore potrebbe essere quello di concettualizzare - e anche mettere in pratica, cioè tradurre questa concettualizzazione nella clinica - una separazione netta tra "attaccamento" e "comprensione" (Friedman, 1978), cioè tra i due tradizionali fattori curativi (si pensi anche alla dicotomia conflitto/deficit, sulla cui logica trova giustificazione una divisione tra scuole psicoanalitiche, ma che a un più attento esame - come dimostra bene Eagle, 1984 cap. 11 trad. it., 1991a - è insostenibile sul piano clinico). Molti ricercatori hanno da tempo avanzato intuizioni in questo senso, si pensi ad esempio alla "esperienza emozionale correttiva" di Alexander et al. (1946), ai fattori "aspecifici" di cui ha parlato Jerome Frank (1961), e così via. E che dire dell'importanza del "contenimento" delle emozioni disturbanti proiettate dal paziente senza necessariamente interpretarle, come suggerito da quegli autori post-kleiniani (come ad esempio Ogden, 1979, 1981, 1982) che, lavorando con pazienti psicotici, hanno approfondito lo studio della identificazione proiettiva? (Migone, 1988, 2010a cap. 7). Non va poi dimenticato che il contenimento delle emozioni trasmesse dal paziente, senza necessariamente interpretarle, faceva già parte dell'approccio fenomenologico (si pensi non solo a Ludwig Binswanger, ma anche a Carl Rogers [1902-1987]; vedi Migone, 19922, 2006). A proposito della scuola psicoanalitica post-kleiniana, in questo excursus storico sulla psicoterapia della schizofrenia ho dovuto necessariamente limitarmi ad alcune tendenze generali, tralasciando tradizioni importanti come appunto la scuola di Melanie Klein (1882-1960) - in Inghilterra, si pensi a Herbert A. Rosenfeld (1910-1986) - e la scuola post-kleiniana di Wilfred R. Bion (1897-1979), che hanno dato validissimi contributi (si pensi solo al concetto, prima citato, di identificazione proiettiva, ad esempio sviluppato da alcuni autori californiani come Ogden e Grotstein, che subirono l'influenza di Bion quando nel 1968 si trasferì a Los Angeles). Della tradizione fenomenologica, i cui esponenti hanno lavorato a fondo con pazienti schizofrenici, non ho potuto parlare in modo approfondito, sempre per motivi di spazio. Ugualmente, non ho accennato alla psichiatria esistenziale e alle pratiche alternative di trattamento della schizofrenia (in Inghilterra, si pensi solo a Ronald D. Laing [1927-1989]), alla importantissima tradizione delle comunità terapeutiche in Inghilterra (Tom Main, Maxwell Jones, ecc.). (Se è per questo, non ho potuto neppure parlare, per limiti di tempo, delle importanti tradizioni psicoterapeutiche e psicosociali della schizofrenia di tipo cognitivo-comportamentale, comportamentale in senso stretto o di social skills training, cioè di insegnamento di abilità sociali; si pensi solo a un autore come Robert Paul Liberman [1992]). Per tornare alle ricerche sulla "Emotività Espressa", esse indicano chiaramente quanto per il paziente schizofrenico sia importante un rapporto emotivo rassicurante, tramite il quale possa identificarsi con alcune funzioni del terapeuta, o a "introiettarle". Nella tecnica di terapia familiare "psicoeducazionale" (Anderson et al., 1986), che si è rivelata così efficace, viene insegnato ai famigliari dello schizofrenico, cioè alle persone che gli stanno maggiormente vicino, a controllare l'espressione della propria emotività, a interrompere quel circolo vizioso di ansia e contenuti disturbanti che, in un continuo feed-backk di identificazioni proiettive, può essere rimbalzato dal paziente ai famigliari e viceversa (Migone, 1988, 1993a, 1993b, 2010aa Usando la terminologia della psicoanalisi classica, l'approccio "psicoeducazionale" potrebbe però sembrare una tecnica che rinforza le difese, anziché analizzarle, cioè una tecnica di supporto in senso stretto. A questo proposito vorrei riportare, nell'ultima parte di questo mio scritto, alcune battute di una discussione su questo tema che avvenne ad un Convegno sulla schizofrenia che organizzammo in occasione del Novecentenario dell'Università di Bologna (Migone, Martini & Volterra, 1988), al quale parteciparono vari ricercatori in questo campo (Gaetano Benedetti, Luc Ciompi, John Gunderson, Marvin Herz, Mario Maj, Georges Lanteri-Laura, Julian Leff, Loren Mosher, Carlo Perris, Norman Sartorius, ecc.). Leff, durante la simulata di una seduta di terapia familiare da lui fatta al Convegno, fece due tipi di interventi di cui anche spiegò l'importanza. Innanzitutto disse con molta chiarezza ai genitori del paziente schizofrenico che la schizofrenia è una malattia "biologica": questo, secondo Leff, viene fatto intenzionalmente per sollevarli dai pesanti sensi di colpa dei quali essi sono spesso vittime, sentimenti che li portano inconsapevolmente a tormentarsi, o a negare la reale malattia del figlio, a spingerlo a cambiare quando lui non può, ecc., insomma ad innalzare la propria EE alle spese del paziente (sappiamo che questi sensi di colpa dei genitori possono anche essere generati da potenti identificazioni proiettive del figlio schizofrenico, che per esempio può essere vittima di un delirio persecutorio). Quando poi i genitori, nella simulata, fallirono un compito loro assegnato, Leff ne fece assumere la responsabilità ai terapeuti, con affermazioni del tipo "è stata colpa nostra, ci siamo sbagliati, vi abbiamo assegnato un compito impossibile da eseguirsi, cercheremo di migliorare la prossima volta": anche questo intervento è volto a diminuire il senso di colpa di questi famigliari, già fin troppo pressante. Gunderson fece notare a Leff che questi in realtà sono interventi "manipolatori", non "psicoanalitici" in senso stretto, in quanto non analizzano le difese ma si limitano a rinforzarle: solo il fatto che abbassando l'EE dei genitori si migliora la malattia - disse Gunderson - è una prova del fatto che essa non è interamente una malattia biologica, ma una malattia che risente degli interventi ambientali. Leff rispose a Gunderson che in una fase acuta o iniziale può essere necessario agire in questo modo, ma nulla toglie che eventualmente in seguito si riesca ad abbandonare questo atteggiamento rassicuratorio o "manipolatorio" e ad avvicinarsi a interventi introspettivi o interpretativi. è notevole la sensibilità clinica di Leff, e ne sono prova i risultati delle sue ricerche (egli tra l'altro, che è dotato di una buona cultura psicodinamica, era solito discutere le implicazioni delle sue ricerche cliniche con la moglie, una psicoanalista appartenente al middle group londinese). Meritano di essere ricordate anche le obiezioni fatte a Gunderson nello stesso Convegno da parte di Benedetti, il quale disse che in psicoanalisi si alterna sempre comprensione a supporto, a seconda del momento e dei bisogni del paziente schizofrenico. Ma, come si è ricordato prima, vi sono state tradizionalmente grosse differenze tra gli Stati Uniti e l'Europa nel modo di praticare la psicoanalisi: Benedetti era più eclettico e flessibile, e l'ambiente culturale svizzero lo ha esposto alla fenomenologia e alla cultura junghiana (come egli stesso una volta mi disse, Gustav Bally [1893-1966], Medard Boss [1903-1990] e Manfred Bleuler [1903-1994] furono i suoi tre veri maestri, quindi esponenti di culture diversificate quali, rispettivamente, la psicoanalisi, la fenomenologia e la psichiatria [Benedetti, 1989]). Rimane il fatto comunque che la ricerca di Gunderson et al. (1984, 1988) è un importante test è un importante test sul modo con cui veniva praticata la terapia psicoanalitica degli schizofrenici da parte di analisti americani esperti, o meglio sui risultati di una ricerca in cui essa è stata isolata e differenziata da un'altra forma di psicoterapia definita "non psicoanalitica"... Queste ultime cose ci portano a fare alcune considerazioni finali che sono forse le più importanti di questa breve discussione. Cosa è dunque la psicoanalisi? Solamente interpretare i contenuti latenti, senza riguardo per la struttura psichica nella sua globalità e per il rapporto emotivo che il paziente in quel momento è in grado di avere col terapeuta? Come riaffermò Galli (1988) mentre al medesimo Convegno ribatteva a Gunderson, è stata proprio la crisi di questa psicoanalisi "ortodossa", basata sulla centralità dell'interpretazione, quella che ha stimolato la ricerca di un altro concetto forte per connotare il metodo psicoanalitico (riscoprendo il contenitore, il rapporto emotivo, l'empatia, ecc.), come il concetto di setting, in alcuni casi innalzandolo a vero e proprio fattore curativo accanto a quello dell'interpretazionee, senza rendersi conto però di ripercorrere dei passi fatti dalla psicoanalisi molto tempo prima (vedi anche Galli, 1992, 2006). Voglio concludere questo capitolo citando un passaggio di Freud, molto esplicito al riguardo: «E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame» (Freud, 1910, p. 329).
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Riasunto. Viene tracciata la storia della schizofrenia e dei disturbi psicotici gravi a partire dalle prime concezioni dell'Ottocento fino a oggi (Morel, Kraepelin, Bleuler, Schneider, ecc.). Viene poi presentata la storia delle modalità terapeutiche utilizzate per combattere questo disturbo. Nella prima parte vengono discussi i mezzi biologici, suddividendoli in quattro tappe principali: "terapia del sonno", terapia di shock (shock ipoglicemico provocato da insulina [Sakel], shock con cardiazolo che provocava convulsioni [von Meduna], elettroshock [Cerletti]), psicochirurgia (Burckhardt, Moniz, Freeman, ecc.), e farmaci (Cloropromazina, Reserpina, antipiscotici atipici, ecc.). Nella seconda parte viene discussa la storia dei i trattamenti psicologici, descrivendo in particolare le posizioni della psicoanalisi (con anche una esposizione dello studio di Boston del 1984) e le ricerche sulla "Emotività Espressa" (EE). Alla fine vi è una discussione. [Parole chiave: schizofrenia, demenza precoce, psicosi, storia della psichiatria, terapia della schizofrenia] Abstract. History of schizophrenia. A history of schizophrenia and psychotic disorders is briefly presented, beginning with the early conceptions of XIX century (Morel, Kraepelin, Bleuler, Schneider, etc.). Subsequently, a brief history of the therapeutic approaches to schizophrenia is reviewed. In this first part, biological approaches are presented, divided into four main developments: "sleep therapy", shock therapy (hypoglycemic shock due to insulin [Sakel], Metrazol [Pentamethylenetetrazole] shock with convulsions [von Meduna], electroshock [Cerletti]), psychosurgery (Burckhardt, Moniz, Freeman, etc.), and psychoactive medication (Clorpromazine, Reserpine, atypical antipsychotics, etc.). In the second part of the paper, the history of psychological treatments is presented, in particular with the discussion of psychoanalytic therapy (with a presentation of the Boston Study by Gunderson et al. of 1984) and of the studies on Expressed Emotion (EE). Finally, there is a discussion. [Key words: schizophrenia, dementia praecox, psychosis, history of psychiatry, therapy of schizophrenia]
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