Il Ruolo Terapeutico, 2012, 121: 69-77
Paolo Migone
Alcuni mesi fa l'Osservatorio Psicologia nei Media (OPM) mi chiese un parere, come già aveva fatto in passato per altri argomenti, su un articolo uscito nel settimanale femminile Donna Moderna [2012, XXV, 1 (4 gennaio): 34-37] che parlava del cosiddetto "counseling filosofico". L'articolo si intitolava "Come si cura la sofferenza dell'anima?", ed era della giornalista Mariella Boerci, con interviste alla filosofa Roberta De Monticelli, alla psicoterapeuta Gianna Schelotto e al sacerdote Don Luigi Poretti. L'impressione dell'OPM era che quell'articolo contenesse affermazioni inesatte sulla questione del counseling filosofico, soprattutto riguardo alle indicazioni e alla differenza con la "psicoterapia", per cui mi chiesero un parere pro veritate in qualità di membro del Comitato di Esperti dell'OPM. Risposi volentieri, anche perché il problema dello statuto teorico e dell'identità del counseling filosofico, e del counseling in generale, mi aveva sempre interessato. Il mio parere fu poi pubblicato sul sito Internet dell'OPM (alla pagina http://www.osservatoriopsicologia.it/2012/03/31/come-si-cura-la-sofferenza-dellanima), e lo riporto qui, pensando che possa interessare anche ai lettori della mia rubrica. A mio parere la questione del counseling filosofico contiene molti fraintendimenti, a più livelli, e in questo breve intervento cercherò di metterli in luce, ovviamente dal mio punto di vista. A volte si legge sui giornali che il counseling filosofico potrebbe essere indicato per coloro che non desiderano terapie prolungate, come potrebbe essere una "psicoanalisi", ma per quelle persone che possono trarre giovamento da rapporti più brevi o meno "profondi". A parte il fatto che questo vorrebbe dire svalutare lo stesso counseling filosofico, come se esso non fosse "profondo" ma "superficiale", questa affermazione è completamente sbagliata perché ignora il fatto che ogni psicoterapia può essere breve, anche brevissima, per cui non è certo questo il modo per differenziare il counseling filosofico dalla psicoterapia. Se poi si vuol fare riferimento alla psicoanalisi, come è noto nel movimento psicoanalitico vi è - fin dalle origini, cioè dal dibattito tra Freud e Ferenczi - una importante tradizione clinica e teorica di terapie brevi (lo stesso Freud faceva "terapie" brevissime, a volte anche di una sola seduta; per un approfondimento sulle terapie brevi, rimando a Migone, 2005, 2010 cap. 3). Recentemente l'efficacia delle terapie psicodinamiche brevi è stata dimostrata anche da ricerche empiriche (vedi ad esempio Leichsenring, Rabung & Leibing, 2004), ricerche peraltro cui non è stato sottoposto il counseling filosofico. Né si può sostenere, come potrebbero fare alcuni, che la psicoterapia serve a "curare" e il counseling filosofico a "conoscere", recuperando una vecchia dicotomia a mio parere fuorviante, un cliché basato su fraintendimenti (era la psicoanalisi, peraltro, che alcuni - ignorando il concetto freudiano di junktim [Freud, 1927, p. 422] - ritenevano servisse a "conoscere" mentre la psicoterapia a "curare", per cui da questo punto di vista la terapia psicoanalitica e la pratica del counseling filosofico sarebbero omologhe). Non è questo quindi il modo di affrontare il problema, e non è il principale fraintendimento legato al rapporto tra counseling filosofico e psicoterapia. Ritengo che quello che andrebbe approfondito è il modo con cui debba essere concepita una differenza tra questi due "oggetti". Uso volutamente il termine neutro "oggetto" perché per prima cosa occorre definire questi due termini (counseling filosofico e psicoterapia), altrimenti non se ne può parlare né si può identificare una differenza tra loro. Un errore comune infatti è di parlarne assumendo che tutti sappiano di cosa si stia parlando. Prima di definire il counseling filosofico, chiarisco cosa intendo io qui per psicoterapia, perché questa parola allude a moltissime pratiche diverse, con disparate teorie alle spalle (Migone, 2004). Per fare un esempio, vi sono psicoterapie che assomigliano in tutto e per tutto al cosiddetto counseling filosofico (qualunque cosa esso voglia dire), per cui non si capisce perché dovremmo parlare del counseling filosofico e non di quelle psicoterapie (si pensi alle psicoterapie esistenziali, alla logoterapia di Frankl, o alla posizione di Igor Caruso, e così via). O forse dovremmo parlare del motivo per cui oggi si sente il bisogno di lanciare il nuovo marchio "counseling filosofico" per far riferimento a una pratica già presente nel mercato della salute mentale. In questo senso, si potrebbe fare l'ipotesi che dietro al counseling filosofico non vi sia niente di nuovo o di interessante rispetto alle psicoterapie già esistenti, ma semplicemente una questione di mercato, cioè il tentativo di lanciare un nuovo prodotto per poterlo vendere (o per poter far lavorare una fascia di operatori che non possono definirsi "psicoterapeuti" secondo le leggi degli Stati in cui il "counseling filosofico" ha trovato particolare favore, come peraltro etichette quali coaching e così via). In Italia la Legge 56/1989, che limita l'esercizio della psicoterapia a medici o psicologi che abbiano fatto una scuola riconosciuta post-laurea di quattro anni, può aver favorito l'importazione di questi approcci. Per evitare quindi che queste mie riflessioni sul counseling filosofico si fermino qui, arenandosi su questioni - meno interessanti, o forse più interessanti, dipende dai punti di vista - esterne al dibattito scientifico sulla identità di una pratica terapeutica, occorre, come dicevo, chiarire a quale tipo di psicoterapia si fa riferimento quando si usa questa parola. Io qui farò riferimento alle terapie derivate dalla teoria psicoanalitica, che sono anche tra le più diffuse. E dato che si può argomentare che il termine "terapia psicodinamica" può alludere a pratiche diverse, io qui intenderò una pratica terapeutica che utilizza le sette caratteristiche centrali della "terapia psicodinamica" (Psycho-Dynamic Therapy [PDT]) - derivate empiricamente e non teoricamente - così come ad esempio vengono definite da Shedler (2010, pp. 10-13) in un recente articolo. Dato che poi io considero la terapia psicodinamica una applicazione della psicoanalisi intesa come teoria generale, non farò differenza tra le due (per un approfondimento sul problema della differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, rimando a Migone, 1991, 2000, 2010 cap. 4). La domanda allora a cui dovremmo cercare di rispondere è la seguente: che differenza c'è tra il counseling filosofico e la terapia psicoanalitica? Il counseling filosofico rappresenta qualcosa di nuovo o di diverso, e se sì, in che modo esattamente è nuovo o diverso rispetto alla terapia psicoanalitica? Io ritengo che tutte le variabili teoriche e cliniche considerate dal counseling filosofico siano già incluse nel dibattito psicoanalitico così come si è svolto nel corso di ormai più di un secolo; non solo, ma ritengo anche che sia un grosso errore concettuale contrapporre filosofia e psicoanalisi. Ritenere che filosofia e psicoanalisi siano due "oggetti" diversi, o che siano paragonabili in quanto appartenenti alla stessa categoria logica, implica semplicemente non aver capito cosa sia la psicoanalisi. Infatti, per la psicoanalisi non vi può essere alcuna "cosa" (disciplina, argomento, pensiero, comportamento, ecc.) che possa essere esterna ad essa, ma tutto rientra sotto la sua indagine, tutto è "oggetto di analisi", proprio come secondo l'approccio scientifico tradizionale che non può certo fermarsi di fronte allo studio di qualunque fenomeno, che viene "ridotto" e trattato col suo metodo di studio. Per farmi capire meglio, faccio degli esempi. Dire che un terapeuta (o meglio, un counselor filosofico) affronta i problemi di un paziente in termini filosofici (cioè utilizza parole della filosofia, considera temi della filosofia o di certi filosofi, parla della vita, della morte, del tempo, ecc.), può significare cose molto diverse agli occhi dello psicoanalista, cioè non necessariamente questi discorsi hanno il loro valore "di facciata" o il significato che un filosofo potrebbe attribuirgli. Uno psicoanalista potrebbe fare l'ipotesi che il counselor filosofico con questi discorsi mette in atto una intellettualizzazione allo scopo di non entrare in contatto con certi temi dolorosi, forse per paure controtransferali (es. evitare qualcosa che cerca di dirgli il paziente) oppure per paure transferali (es. il paziente ha bisogno di intellettualizzare difensivamente e il terapeuta collude con lui), e così via (entrambe queste operazioni possono essere consce o inconsce). Il counselor filosofico potrebbe insomma respingere il paziente, impedirgli di capire, di raggiungere la "verità", quindi all'opposto, tra l'altro, di quelli che vorrebbero essere gli scopi della filosofia. Certo, potrebbe anche parlare di cose vere e importanti della vita, fare delle riflessioni "filosofiche" sul senso dell'esistenza, ampliare i suoi significati, ma questo avviene già in qualunque psicoterapia, non c'è bisogno di scomodare il counseling filosofico. Volendo usare i termini psicoanalitici, quando non sono intellettualizzazioni o razionalizzazioni difensive potrebbero essere riflessioni da parte dell'Io conscio, e non va dimenticato che la riflessione, come funzione dell'Io, è parte essenziale del lavoro analitico. Forse che il counselor filosofico vuole "educare" il paziente a sopportare la sofferenza grazie a certe riflessioni sul senso della vita e sulla sua inevitabile finitezza? Questo va benissimo ma, ripeto, lo fa già ogni analista quando fa riflettere un pazientee. Ogni psicoterapeuta è anche un "filosofo" in questo senso, non può non esserlo, altrimenti non potrebbe neppure parlare o pensare. Non solo, ma ogni psicoterapeuta è anche un filosofo perché non può non porsi continuamente tutti i problemi cosiddetti filosofici, avendo a che fare con tematiche estremamente complesse e delicate che riguardano il significato più profondo della vita dei pazienti. Concepire la filosofia come qualcosa di esterno alla psicoanalisi significa non conoscere la psicoanalisi, e ricorda altri fraintendimenti simili di cui a volte si sente parlare, ad esempio sul rapporto tra psicoanalisi e religione, meditazione, buddismo, ecc. (il buddismo, tra l'altro, può essere considerato una filosofia). A volte si sente dire che la religione potrebbe fare bene a un certo paziente, come se fosse una "cosa", uno "strumento in più" da utilizzare. La religione cioè da questi colleghi viene intesa come un elemento che può essere aggiunto o tolto, una sorta di "pacchetto" autonomo che esiste in quanto tale, col suo valore di facciata, con un suo significato non scomponibile, non analizzabile. è evidente che questo modo di ragionare è specificamente antipsicoanalitico perché esclude dall'analisi un aspetto (in questo caso la religione) come se esistesse in quanto tale (come è noto, Freud applicava la psicoanalisi allo studio della religione, della morale, dell'antropologia, della società, ecc.). La stessa cosa per il buddismo. Quegli psicoanalisti che dicono di "integrare" psicoanalisi e buddismo non sanno cosa è la psicoanalisi, ovviamente a mio parere, perché prendono il buddismo in quanto tale, senza interpretarlo con categorie psicoanalitiche (per un approfondimento sul problema della "traduzione" di aspetti delle filosofie orientali nella psicoterapia occidentale, rimando a Migone, 2008, pp. 45-48). Certamente la terapia psicoanalitica è alla pari con le altre "professioni di aiuto" se vogliamo compiere delle ricerche empiriche sull'efficacia dei diversi approcci terapeutici, però allora dovremmo passare attraverso le forche caudine della metodologia della ricerca in psicoterapia, cioè manualizzare le singole tecniche, selezionare campioni randomizzati e omogenei di pazienti, simulare sperimentazioni al doppio cieco e così via, con difficoltà e problemi anche epistemologici non irrilevanti (per brevità, rimando a Migone, 1996, 2006, 2009; Westen, Morrison Novotny & Thompson-Brenner, 2004; Wachtel, 2010). Dato che nella nostra società le professioni di aiuto sono le più varie, in alcune ricerche, come nel noto studio di Consumer Reports (Seligman, 1995), vengono incluse le prestazioni dei clergy, cioè dei sacerdoti, che in effetti possono essere considerati importanti "psicoterapeuti". Viene in mente il libro di Giambattista Torellò (1961) E' meglio il confessore o lo psicanalista?, molto indicativo al riguardo. E che dire dell'aiuto che danno a tante persone quei validi professionisti come i pedagogisti clinici, i counselor non filosofici, i coach, e così via in una serie infinita di operatori, a volte bravissimi, che dai medici e dagli psicologi arrivano fino ai chiromanti o ai maghi? Tutti, chi più chi meno, abbiamo bisogno di "badanti". La vita è stressante, e le professioni di aiuto sono così tante che a volte - come si espresse in modo divertente Pier Francesco Galli (2007) - sembra che "di fatto siamo diventati una società di badanti, cioè nessuno può più affrontare un problema da solo. (...) Le badanti di basso livello cercano di arrangiarsi, mentre quelle di alto livello si chiamano coach, (...) chi era ai vertici aveva diritto alla moquette, a un quadro d'autore a sua scelta ecc., ora ha diritto a un coach ad alto livello che l'accompagna nelle decisioni, perché dovendone prendere cento non può elaborare le emozioni connesse a questa scelta decisionale. C'è il coach per questo. Ma ovviamente a loro volta i coach, i counselor, gli psicoterapeuti, ecc. ecc. devono accettare una badante loro stessi per riciclare le emozioni, per cui siamo in una società di badanti e di badati. Sembra che la Moldavia si sia trasferita in Italia (...)". Potrebbe però esservi un altro modo di intendere il counseling filosofico, quello secondo cui il counselor filosofico avrebbe una filosofia di base e una visione del mondo diverse da quella della psicoanalisi (o degli approcci psicoanalitici). Ma sappiamo che nella storia della filosofia vi sono stati moltissimi filosofi, le cui filosofie spesso sono state le une opposte alle altre. Quindi quale "filosofia" caratterizza il counseling filosofico? Se non la specifichiamo, il counseling filosofico perde di significato (intendo dire che perde la sua identità teorica come pratica di aiuto, non mi riferisco alla sua identità come prodotto di mercato, dove può funzionare benissimo perché vi sono altre logiche). Mi sembra che questa concezione secondo cui il counseling filosofico avrebbe una filosofia di base diversa da quella della psicoanalisi sia sposata da un sostenitore molto influente del counseling filosofico, Umberto Galimberti. Una volta fui invitato a Radio RAI-2 a un dibattito con lui, ed ebbi modo di discutere di questi problemi (Galimberti & Migone, 2005). Rimasi colpito da una affermazione di Galimberti che, in modo molto schematico e come la capii, può essere riassunta nel modo seguente: "Due importanti mali hanno afflitto l'umanità: il cristianesimo e la psicoanalisi. Entrambi promettono all'uomo la salvezza: il cristianesimo promette la redenzione, la resurrezione, la vita dopo la morte; la psicoanalisi promette la guarigione, che è anche questa una sorta di redenzione, di annullamento del dolore. In questo senso la psicoanalisi, nella misura in cui promette di guarire il dolore, può essere una continuazione della tradizione giudaico-cristiana, sarebbe insomma anch'essa una religione, che fornisce un'altra illusione, quella di evitare il dolore. Per la filosofia greca invece non è così, perché la morte fa parte della vita, non si promette di eliminare il dolore, che va invece accettato. La filosofia greca allora sarebbe più 'terapeutica' della psicoanalisi, la quale dovrebbe quindi cedere il posto alla pratica filosofica". Come dissi a Galimberti in quella trasmissione, io non penso che sia corretto dipingere la psicoanalisi in questo modo, cioè come una promessa di guarigione. Vi sono molti passaggi, sia in Freud che in autori successivi, che mostrano come l’obiettivo della psicoanalisi ricordi proprio la filosofia greca così come è descritta da Galimberti. In quella occasione ad esempio gli ricordai uno di questi passaggi, spesso citato (Galimberti ammise che non lo conosceva): lo scopo della psicoanalisi non sarebbe quello di promettere salvezza o guarigione, ma quello di "trasformare la (...) miseria isterica in una infelicità comune" (Breuer & Freud, 1892-95, p. 439).La psicoanalisi quindi promette solo di trasformare la miseria nevrotica in miseria quotidiana, non illude certo il paziente, anzi, il compito specifico della psicoanalisi è quello di disilluderlo, di analizzare le illusioni che continuamente si costruisce a scopo difensivo per non vedere la tragicità della vita. L'uomo spesso nega la morte e la sofferenza in vari modi, e lo psicoanalista aiuta il paziente a fare a meno di queste difese, ad accettare la vita per quello che è, proprio come la filosofia greca che Galimberti contrapponeva alla psicoanalisi. Quello dello psicoanalista è il "mestiere dell'incertezza" (Galli, 2009), la professione del dubbio continuo, della perenne critica a se stessi e al reale (La psicoanalisi come esercizio critico, recitava il titolo di un libro di Jervis, 1989). Ma non mi dilungo su queste cose perché sono note a tutti, costituendo la identità della psicoanalisi, ed è per questo che non comprendo la contrapposizione che vedeva Galimberti tra psicoanalisi e counseling filosofico.. A me sembra anche che il counseling filosofico presenti il rischio di semplificare la complessità dei significati dell'esistenza perché, come del resto le psicoterapie fenomenologiche, può ridurre le variabili in gioco, ad esempio dando meno importanza a quelle inconsce che sono invece ritenute importanti dalle terapie psicodinamiche. Tempo fa mi è capitato di vedere un numero speciale di una importante rivista di filosofia (aut aut, n. 332/2006), dedicato al counseling filosofico, in cui erano descritti anche dei casi clinici, e rimasi colpito - ovviamente questa è stata solo la mia reazione soggettiva - dalla semplicità in cui venivano descritti, come se il counselor filosofico che li esponeva (di cui adesso non ricordo il nome) non avesse sufficiente esperienza o riducesse troppo le questioni a tematiche meramente "filosofiche". Mi rendo conto che questo sembra paradossale, perché la filosofia per definizione dovrebbe indagare nelle profondità della vita, ma questa fu l'impressione che ne ricavai. Ricordo che in un articolo veniva anche fatta una sorta di ricerca empirica sul numero e tipo di pazienti visti in un servizio di consulenza filosofica di quartiere, e anche lì ebbi una impressione di eccessiva semplicità, quasi di ingenuità, come se si volessero imitare i limiti di certe ricerche empirico-quantitative in psicoterapia. Queste ultime osservazioni mi portano a una questione che, per concludere, mi sembra la più importante, anzi l'unica degna di un certo interesse. Se è vero, come io penso, che il counseling filosofico non sia altro che una psicoterapia tra le tante, il vero problema è come vengono formati i counselor filosofici: con quali metodi, in quanto tempo, che possibilità hanno di essere esposti a stimoli culturali provenienti da altri approcci psicoterapeutici, che possibilità hanno di vedere un alto numero pazienti anche con patologie gravi, che preparazione ed esperienza hanno i loro supervisori, quali testi leggono, ecc. (Galimberti, ad esempio, è membro ordinario di una società junghiana, quindi è "psicoterapeuta" a tutti gli effetti). Io qui non discuto la loro legittimità di trattare persone con problemi psicologici, perché questo aspetto riguarda gli organi legislativi che regolamentano le professioni, gli Ordini professionali che per la loro natura di corporazioni cercano di salvaguardare gli interessi anche economici dei loro iscritti. Per quanto mi riguarda, ben vengano altre professioni che possono aumentare la competizione sul mercato, anche perché è possibilissimo che certi counselor filosofici siano ben più capaci di tanti psichiatri o psicologi, così come può essere vero il contrario. In passato gli psicologi rappresentavano una minaccia per i medici perché potevano conquistare una fetta del mercato della psicoterapia che i medici volevano tenere tutta per sé (per una documentazione della causa legale avvenuta a questo riguardo negli Stati Uniti, vedi Migone, 1987, 2010 cap. 15); ora gli psicologi hanno lo stesso timore nei confronti di altre professioni di aiuto, come i pedagogisti clinici, i coach, i mediatori familiari, i counselor, i counselor filosofici, ecc.; magari in futuro i counselor filosofici dovranno difendersi da altre professioni a loro volta competitive (al limite anche con azioni legali, come ora tentano di fare - non raramente perdendo le cause - gli Ordini dei medici e degli psicologi nei confronti di chi pratica la psicoterapia chiamandola con un altro nome). Quello che mi premeva sottolineare in queste mie brevi riflessioni è l'importanza della formazione di questi operatori, perché è ovvio che il counseling filosofico è un tipo di psicoterapia.
Riassunto. Viene discussa la identità teorica del cosiddetto "counseling filosofico" e viene esaminato lo statuto scientifico di questa professione di aiuto. Vengono discusse le differenze con la psicoterapia, in particolare con la "terapia psicodinamica", che è una applicazione della teoria psicoanalitica. Viene argomentato che tutte le variabili teoriche e cliniche del counseling filosofico sono già incluse nel dibattito psicoanalitico, e anche che è un errore concettuale contrapporre filosofia e psicoanalisi; da un punto di vista psicoanalitico, la filosofia può essere "oggetto" di analisi così come ogni altra problematica. Il counseling filosofico è sostanzialmente un tipo di psicoterapia, differenziato con questo "marchio" per motivi di mercato, e spetta agli Ordini professionali regolamentarlo. Il vero problema è la formazione di questi operatori. [Parole chiave: counseling filosofico, professioni di aiuto, terapia psicodinamica, formazione in psicoterapia, Umberto Galimberti] Abstract. [On philosophical counseling]. The theoretical identity of the so-called "philosophical counseling" is discussed, and the scientific status of this helping profession is examined. The differences with psychotherapy, particularly with "psychodynamic therapy" (PDT), which is an application of psychoanalytic theory, are discussed. It is argued that all theoretical and clinical variables of philosophical counseling are already included in the tradition of the psychoanalytic movement, and also that it is a conceptual mistake to consider philosophy and psychoanalysis on the same logical plane or to counter each other. From a psychoanalytic viewpoint, philosophy is an "object" of analysis as other aspects. Philosophical counseling is essentially a type of psychotherapy, which is differentiated as a trademark for market purposes and has to be regulated by professional organizations or governmental agencies. The real problem is the training of these mental health professionals. [Key words: philosophical counseling, helping professions, psychodynamic therapy, psychotherapy training, Umberto Galimberti]
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