Anonima
Nota introduttiva di Paolo Migone, Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane Alcuni anni fa ricevetti una e-mail da una donna, che non conoscevo, che mi chiedeva se potevo leggere un file allegato alla sua e-mail. Diceva che mi aveva conosciuto per aver letto alcuni miei scritti su Internet, e che aveva provato un senso di fiducia in me per cui aveva pensato che poteva inviarmi questo suo testo, che era il racconto della sua psicoterapia. Si scusava per il disturbo, e diceva anche che aveva esitato molto prima di scrivermi sia perché pensava che potevo non aver tempo di leggere quel suo testo, sia perché voleva a tutti i costi rimanere anonima, cioè aveva il timore che in un qualche modo qualcuno potesse identificarla. Non diceva infatti il suo nome né dove abitava (aveva solo detto che stava in una città lontana dalla mia), e dal suo indirizzo e-mail non era possibile risalire alla sua identità. Mi spiegò il motivo di queste sue paure: il racconto della sua psicoterapia era critico verso la terapeuta, e aveva il forte timore non solo di essere denunciata per diffamazione, ma anche di poter subire in un certo qual modo delle "ritorsioni" da parte della sua terapeuta nel caso fosse venuta a sapere che aveva raccontato ad altri come era andata la sua terapia. Aveva insomma una vera paura della sua ex-terapeuta. Aveva anche aggiunto che erano anni che pensava di raccontare ad altri la propria esperienza, e che finalmente aveva trovato il coraggio ed era riuscita a scriverla, anche come una forma di "auto-cura", come un tentativo di elaborare questa storia così dolorosa. Io lessi il suo racconto, e ne rimasi molto toccato. Mi resi conto che si trattava di un vero e proprio caso di malpractice. Subito la rassicurai, e le dissi che ovviamente non avrei rivelato a nessuno la sua identità anche perché non la conoscevo né potevo conoscerla in alcun modo anche se avessi voluto. Cominciò così una corrispondenza tramite e-mail tra me e lei che durò un paio di settimane. Tra le altre cose, la ringraziai per avermi dato questo scritto, e le dissi che ero molto d'accordo con lei sul fatto che questo suo racconto le era servito anche per elaborare le sue emozioni, per darle un senso, per guardare alla sua storia dal di fuori, comprenderla meglio e darle significati possibilmente diversi, ad esempio meno auto-colpevolizzanti. Era un po' insomma un modo per elaborare un lutto, per stare meglio. Le dissi anche che, nel caso se la sentisse, poteva venirmi a trovare per parlarci di persona, perché pensavo che potesse servirle ed essere anche una esperienza piacevole. Mi rispose che esitava a venirmi a trovare, e io ovviamente rispettai questa sua incertezza; inoltre abitava in una città lontana dalla mia, però non escludeva la possibilità che magari un giorno, approfittando di un viaggio dalle mie parti, sarebbe venuta a trovarmi (ovviamente non per una seduta, ma per una normale visita, oltretutto ero io che la invitavo). Passarono circa due anni, e un giorno mi tornò in mente quello scambio di e-mail e il racconto di quella terapia. Pensai che poteva essere interessante farlo conoscere anche ad altri, cioè pubblicarlo. Ritrovai il suo indirizzo e-mail e le scrissi, condividendo con lei questa mia idea, dicendole comunque che era solo una mia fantasia e che naturalmente doveva essere lei a decidere. Le dissi che non c'era alcuna fretta e che poteva pensarci tutto il tempo che voleva (già aveva aspettato parecchi anni prima di scrivere quel racconto). Le dissi che questo suo racconto poteva far riflettere ed essere di insegnamento ad altri terapeuti, infatti si impara anche dagli errori: si cerca di capire come mai sono stati fatti, quale problema li ha provocati. Quella donna mi rispose subito, e disse che la mia era una idea molto bella e che le faceva piacere. In questi ultimi due anni era stata sempre meglio, evidentemente le aveva fatto bene scrivere la storia di quella sua psicoterapia perché scrivendola aveva capito meglio certe cose. Si era poi convinta che non vi era modo di essere scoperta perché nel suo scritto non vi erano nomi, non rischiava niente, e poi era stufa di avere paura della sua terapeuta. Si sentiva insomma più sicura di sé. Lo scritto di quella paziente è quindi pubblicato qui sotto, dopo questa mia nota introduttiva. Dopo esporrò alcune mie riflessioni.
Il racconto della mia psicoterapia Anonima Nel 1986 mio marito, allora solo il mio ragazzo, mi lasciò per un'altra donna: mi sentivo un disastro come persona, ero profondamente disperata. Sebbene mi fossi da poco laureata con il massimo dei voti e pareva aprirsi davanti a me un'ottima carriera lavorativa, la mia vita affettiva sembrava un fallimento totale, sentivo che avevo enormi difficoltà a relazionarmi con gli altri, in particolare a costruire una stabile relazione di coppia che desideravo intensamente. Mi pareva di non avere più forze ed energie, e per questo decisi di rivolgermi a una psichiatra consigliatami da un'amica per iniziare una psicoterapia. Questa dottoressa era molto conosciuta in città, penso fosse stimata, e lo è tutt'ora, ha molti pazienti, e anche la fama di essere preparata professionalmente (ad esempio ha partecipato più volte come esperta di vari problemi psicologici e psicoterapeutici in una televisione locale, e so che ha organizzato convegni scientifici molto frequentati). Proprio a partire da quel momento della mia vita vorrei ricordare, a distanza di tanti anni, la mia relazione con questa dottoressa. Per prima cosa la terapeuta mi propose dei test psicologici da eseguirsi con un altro medico, e precisamente il Rorschach e un altro interminabile, con tante domande, alcune delle quali mi parvero assurde. Questo mi diede comunque la sensazione di essermi affidata a una seria professionista che operava secondo criteri di scientificità. Dai risultati dei test, la dottoressa mi consigliò di iniziare un percorso di psicoterapia, e io ero ben contenta, sperando di smuovere qualcosa nella mia esistenza infelice. Mi affidavo finalmente a un medico competente e intraprendevo qualcosa di nuovo e positivo per la mia vita. Dopo qualche primo incontro, la dottoressa iniziò a darmi consigli molto pratici su come riconquistare il fidanzato perduto che, nel frattempo, aveva manifestato intenzione di riallacciare la relazione con me. Ricordo che mi disse delle frasi che avrei dovuto riferirgli tali e quali. Tuttavia io disattesi questi consigli, o non li seguii alla lettera. Per questo la dottoressa protestò vivamente e si arrabbiò con me, perché non avevo detto al mio ragazzo le testuali parole che lei mi aveva suggerito, e perché lo avevo baciato, cosa di cui lei non aveva parlato. "Guardi, che così non ci siamo! Io non le ho detto di baciarlo! Che cosa le avevo detto di dirgli? Perché non lo ha fatto?": questo mi diceva e con tono piuttosto adirato. Affermò che se volevo continuare la terapia con lei, e soprattutto se volevo riconquistare il ragazzo, dovevo fare esattamente quello che lei mi diceva, altrimenti potevo smettere da subito di andare nel suo studio. Pensai che, considerato l'andamento fallimentare delle mie relazioni amorose fino a quel momento e il malessere che ne derivava, dovevo provare a seguire i consigli di un esperto e affidarmi completamente. Da allora, iniziai a eseguire una serie di indicazioni molto precise e dettagliate, non sempre di buon grado, ma spinta e motivata da una fiducia man mano crescente nella dottoressa che mi guidava sul come comportarmi con gli altri, col mio futuro marito, con i miei genitori, sul lavoro; tutto questo invase e coinvolse completamente, in modo graduale e progressivo, negli anni di terapia, ogni aspetto della mia vita (il mio modo di vestire, di pettinarmi, il mio aspetto fisico, l'alimentazione, la vita sessuale, le relazioni coi miei amici, le letture consigliate, gli acquisti, ecc.). Ad esempio, secondo la dottoressa il mio fidanzato doveva regalarmi un anello di fidanzamento, stratagemma che lei reputava di potere altamente seduttivo. Per convincermi a chiedergli questo regalo, passò l'ora di terapia a mostrarmi tutti i suoi gioielli (quel giorno si era ornata come la statua barocca di una vergine, ricoperta di ori e pietre preziose), e a dirmi chi glieli aveva regalati, lasciandomi interdetta e dandomi il "compito" finale di chiedere per lo meno una fedina d'argento come pegno d'amore al mio ragazzo. Credo che il suo scopo fosse quello di suscitare in me invidia e desiderio di emulazione, lasciandomi in realtà solo tra la stupita e l'incredula. Ho ancora quell'anello d'oro di fidanzamento che poi mi fu regalato, anche se non amo particolarmente portare gioielli. Fui comunque molto soddisfatta nel vedere il mio fidanzato ben felice di farmi quel regalo e me ne sentii enormemente gratificata. Reputo quest'episodio importante, perché contribuì grandemente a farmi considerare la terapia con quella dottoressa come qualcosa di fondamentale per me, quasi di "magico". Sebbene io non capissi e accettassi razionalmente fino in fondo le sue indicazioni, e sebbene agissi quasi come un automa nell'esecuzione di quei compiti, scoprivo che potevo comportarmi in un modo nuovo e diverso, facendo quello che lei mi diceva. Tuttavia, non sempre questi compiti erano facili, alcuni erano al contrario molto dolorosi da portare a compimento. Ad esempio, la dottoressa mi chiese di troncare un'amicizia importante e di lunga data: "La sua amica B. le fa male, la fa regredire, deve scegliere: o lei o me". Conoscevo questa amica dai tempi della scuola superiore, assieme avevamo condiviso molte esperienze, le volevo molto bene. Provavamo l'una per l'altra grande affetto e un'attrazione omosessuale, peraltro mai agita; io la trovavo bellissima, intelligente e simpatica; su di me lei aveva un fortissimo ascendente. Abbandonarla fu un autentico lutto, ma lo feci. La mia amica in verità non fece granché per riallacciare i rapporti, forse perché invidiosa nei miei confronti perché "finalmente" mi stavo per sposare. Sposarmi era per me un traguardo incredibile, non ero sicura di quello che stavo per fare, nemmeno i miei genitori erano convinti di quel passo così importante che avrebbe radicalmente cambiato la mia vita, ma non si opposero; mi sentivo sorretta e guidata dalla dottoressa in questa decisione che presi grazie al suo aiuto, agendo quasi in uno stato di incoscienza. Mi costa molto evocare questi ricordi, mi sento una vera scema e provo una rabbia enorme e anche un senso di vergogna. La dottoressa mi ricordava sempre che lei era il medico e io la paziente, che dovevo affidarmi e seguirla nel percorso che mi proponeva, anche se era faticoso e impegnativo. Spesso mi rammentava quanto lei fosse competente e preparata professionalmente, enumerando i suoi titoli accademici e i corsi che aveva fatto, i cui certificati e i diplomi facevano bella mostra appesi alle pareti dello studio. Inoltre, mi ricordava anche che insegnava in una scuola di specializzazione per psicoterapeuti autorizzata dal Ministero, un incarico di cui sembrava particolarmente fiera. Era una scuola a indirizzo psicoanalitico, e lei si definiva una psicoanalista. In un primo tempo, ci si rapportava usando la formula di cortesia del lei; poi la terapeuta, senza spiegarmene le ragioni, sebbene gliele avessi chieste, decise di darmi del tu mentre io dovevo continuare a darle del lei; solo in un futuro, quando lo avrebbe ritenuto opportuno, ci saremmo date entrambe del tu. Di fronte alle mie proteste o richieste di spiegazioni, la risposta era sempre la stessa: le mie erano "resistenze alla terapia", il mio era un "transfert negativo" o "aggressivo", io ero "nevrotica", lei era "il medico e io dovevo fidarmi", farmi dare del lei era "solo per creare distanza nel lavoro analitico" e così via (non riuscii mai a capire, nonostante mi fossi sforzata di chiederglielo, perché "col ‘lei' volevo creare distanza nel lavoro analitico" quando invece io avevo chiesto che ci dessimo entrambi del tu mentre era proprio lei a non averlo voluto; anni dopo comunque passammo entrambi al tu, senza peraltro che la cosa fosse mai chiarita). Lo stesso valore terapeutico, che per me restava misterioso, veniva dato al lettino: stare seduta o sdraiarmi, guardarla negli occhi o no, dipendeva da non si sa quali motivazioni. Alcune volte la terapeuta, appena entrata nello studio, mi faceva sdraiare e mi diceva di concentrarmi sulla mia situazione, sulle mie emozioni, di stare sola con me stessa e poi spariva, uscendo dallo studio e tornando solo al massimo una decina di minuti prima di congedarmi, per chiedermi solamente come stavo e una breve sintesi di quello a cui avevo pensato. Desideravo tanto in quei primi anni di matrimonio avere un figlio e ne parlai con la terapeuta che mi aggredì dicendo che non ero pronta, che non era il momento, che prima dovevo imparare a "scopare", che il mio era solo un desiderio nevrotico per evitare la sessualità con mio marito. Mi disse che lei osservava le donne incinte che camminavano per la strada portarsi in giro con fierezza il pancione, segno della continuità del seme del partner, con orgoglio immotivato, secondo il suo parere. Lei non aveva figli e all'epoca non credo fosse nemmeno sposata. Mi sentii molto male e frustrata da quelle affermazioni, mi sentii un'incapace; facendo l'amore con mio marito mi sentivo in colpa, una nevrotica, inadeguata proprio in quanto lei mi aveva detto che il mio non era un sincero e spontaneo desiderio sessuale bensì un bisogno malato di seguire schemi della tradizione e di distruggere l'erotismo, che d'altronde secondo la terapeuta nemmeno conoscevo. Anche mio marito avvertì questa immotivata freddezza e la interpretò come un astio nei suoi confronti. Questo è per me uno dei ricordi più dolorosi, anche per le ripercussioni che ne seguirono nel rapporto di coppia. Infatti, come sempre, seguii il consiglio della dottoressa, e accantonai l'idea di diventare madre, cosa che ora rimpiango moltissimo e che vivo con grande dolore, dato che dopo non ne ebbi più la possibilità per vari motivi. Le sedute da due alla settimana, dopo alcuni anni di terapia, passarono a una alla settimana, ma il costo settimanale restava lo stesso, cioè pagavo il doppio. La motivazione a questa assurdità era la seguente: la cura che lei mi faceva era la medesima, "come farsi fare una iniezione che però contiene doppia quantità di medicina"; quindi anche il costo doveva corrispondere alla doppia fatica e quantità di farmaco. A proposito di farmaci, mi viene in mente che una volta la dottoressa aveva sulla scrivania una gran quantità di scatole di pillole, forse lasciatele da qualche informatore farmaceutico; io sapevo che si trattava di un sonnifero, perché avevo visto prendere quella medicina da una mia zia. La dottoressa quel giorno continuava a chiedermi se dormissi bene, se avessi difficoltà a prendere sonno, se mi svegliavo nel corso della notte, e io a ribadirle che, grazie al cielo, normalmente dormivo benissimo e che traevo grande beneficio dal riposo notturno, che mi piaceva dormire, fin troppo, e che mi costava molto alzarmi e svegliarmi al mattino per recarmi al lavoro. La terapeuta voleva darmi quasi per forza qualche scatola di quelle pillole, e concluse la seduta dicendo "Allora non hai bisogno queste pastiglie? Non le vuoi provare?", quasi fossero caramelline. Evidentemente voleva liberarsene perché le ingombravano la scrivania o aveva detto all'informatore scientifico che le avrebbe fatte provare ai suoi pazienti e poi prescritte. Oggi, se ripenso a quest'episodio provo una rabbia furiosa contro me stessa e mi detesto. Come ho potuto affidarmi a un medico così superficiale? Purtroppo, in quel periodo della mia vita, devo ammettere con tanta tristezza e rammarico che desideravo profondamente affidarmi a qualcuno, trovare una persona che avesse cura di me, che mi guidasse come un genitore. Credevo ingenuamente che qualcun altro, e non io in prima persona, potesse risolvere i miei problemi, rivelarmi le soluzioni per stare bene e per cambiare la mia vita. La dottoressa appunto rispose proprio a questa mia esigenza di essere guidata e accudita: mi insegnò come truccarmi, mi diede consigli su come vestirmi, come comportarmi con mio marito, con i miei famigliari, con gli amici. Mi propose anche una dieta dimagrante da 1.300 calorie, da lei elaborata, anche se in verità non ero particolarmente grassa e il mio peso era stabile dall'età di dodici anni, oscillando in più o in meno di massimo cinque chili. Inoltre secondo lei dovevo assolutamente passare al biologico, evitare tutti gli alimenti e le bevande industriali, e mi indicò anche i negozi dove potevo trovare questi prodotti naturali, in quanto la cultura dell'alimentazione biologica allora non era ancora così diffusa. La dieta aveva un costo e dovetti comprarla (era peraltro costosa, il valore di circa 3 o 4 sedute). Mi fu chiesto di tenere un diario alimentare, molto dettagliato, dove segnalavo il mio peso e gli sgarri alla dieta, che presentavo poi in seduta. Ripensandoci ora, mi pare semplicemente assurdo che un medico proponga in modo così deciso e sicuro delle "prestazioni", delle diete ad esempio, senza che il paziente manifesti dei disagi, dei bisogni, senza una reale esigenza che parta dal paziente; senza considerare poi il fatto che allora ero una sana e florida giovane donna, non certamente grassa. Persi vari chili e anche molta energia, continuai per circa due anni a essere ossessionata dal mio peso e dalle cose che mangiavo, fino a quando mi accorsi che stavo perdendo anche i capelli e che ero troppo magra, come tutti mi dicevano; pian piano ricominciai a mangiare di tutto, reinserendo la carne rossa nella mia alimentazione, che avevo quasi del tutto eliminato. Recuperai abbastanza velocemente, nel giro di pochi mesi, tutto il peso che avevo perduto. Per un anno mi allontanai dalla terapia e dalla mia terapeuta. Avevo infatti ottenuto un lavoro fisso in un'altra regione e mi trasferii da sola, senza il marito e nessun familiare. Ogni tanto rientravo a casa e fissavo un appuntamento con la terapeuta, non perdendo mai completamente il contatto con la mia mentore. Mi sentii molto bene via da casa, me la cavai benissimo, completamente sola, lontana dalla mia famiglia di origine e anche dai problemi che avevo con mio marito; feci nuove amicizie, iniziai a praticare gli sport alpini e ad appassionarmi di montagna. Ottenni subito il trasferimento in una sede della mia città e così tornai anche dalla mia dottoressa dicendole che stavo molto male; infatti, il rientro nella mia città mi fece cadere in uno stato di tristezza e depressione. A distanza di anni posso dire con certezza di essermi sentita così triste proprio perché ero tornata alla realtà cupa della mia famiglia e perché avevo amato quell'anno lontano da casa, finalmente in completa autonomia, in un posto dove non conoscevo nessuno. La terapeuta disse, con molta fermezza e durezza, che il mio stato depressivo era solo colpa mia e dipendeva dal mio comportamento: avevo trascurato la terapia e ora stavo molto male, non avevo lavorato su me stessa, mi ero allontanata da lei. Un giudizio tagliente che accettai senza ragionare o controbattere. Come soluzione, proponeva delle sedute di gruppo con altre donne sposate più o meno della mia stessa età, che avevano problematiche simili alle mie. Mi sentii malissimo di fronte a queste affermazioni e decisi, anche se con un po' di reticenza, di provare a partecipare a questi gruppi. La cosa veramente incredibile, di cui ora mi stupisco profondamente, era che il tema "dieta" e "peso", che prima secondo la dottoressa pareva avere un'importanza fondamentale nella terapia e che per circa due anni aveva angustiato la mia vita, distogliendomi forse da altri problemi, era stato completamente accantonato, dimenticato, e non se ne parlò mai più. Il prezzo di ogni seduta di gruppo era per ogni paziente superiore a quello di una seduta singola, secondo la motivazione che la gestione di un gruppo era molto difficile e faticosa per la terapeuta. Le regole che ogni paziente doveva seguire nel gruppo erano le seguenti: tra di noi non potevamo parlare e/o conoscerci al di fuori delle sedute; era vietato ridere o parlare mentre si aspettava nello studio la dottoressa o in ascensore o nelle scale, al massimo potevamo scambiarci un breve saluto; era importante concentrarsi sulla terapia, sulle motivazioni che ci avevano spinte all'analisi, sulla nostra condizione, e non starcene lì sedute sui divani passive a guardarci e a pensare ad altro. Quando la dottoressa arrivava, bisognava farle leggere il diario della seduta precedente. Ognuna di noi le passava in silenzio quei fogli, quei quaderni, e lei li leggeva tra sé e sé. Questo diario doveva essere una relazione precisa e dettagliata di quello che la terapeuta aveva detto e sulle sensazioni ed emozioni che ci aveva smosso. Non dovevano assolutamente apparire altre considerazioni o resoconti sul nostro vissuto durante la settimana. Le tematiche delle sedute di gruppo venivano proposte dalla terapeuta: l'amore, la sessualità, il valore e il significato storico-sociale del matrimonio, la relazione col marito, l'economia domestica. Si poteva parlare a turno dopo aver domandato il permesso, o se interpellati si doveva rispondere, proprio come a scuola. Talvolta parlava solo la dottoressa, tenendo una sorta di lezione frontale. Una volta in una seduta, durante uno di questi gruppi, ci venne chiesto di riflettere sulla nostra condizione, di pensare a tutto quello che la terapeuta aveva fatto per noi e di elaborare una sincera e sentita lettera di ringraziamento rivolta a lei, che poi le avremmo consegnato. La dottoressa si allontanò e rientrò solo per farsi consegnare tutte le lettere di ringraziamento e per accomiatarci. In un'altra seduta, vidi una ragazza piangere disperatamente perché aveva probabilmente contraddetto la terapeuta e/o discusso con lei durante un precedente colloquio privato. Nessuna di noi poteva chiederle perché si sentisse così male e noi non lo capivamo; probabilmente aveva avuto un contrasto in seduta singola con la dottoressa e la terapeuta la trattava con molta durezza. La paziente era veramente sconfortata e cercava di giustificarsi, gli occhi gonfi e arrossati per le ore di pianto. Ricordo di aver pensato allora che non era solo su di me quindi che la dottoressa aveva questi "poteri" tanto forti (di convincermi, di farmi sentire in colpa, di farmi sentire bene o male) ma anche sulle altre donne, e probabilmente su tutti gli altri suoi pazienti che, secondo quel che diceva, dovevano essere davvero tanti. Queste reminiscenze sono enormemente sconfortanti e mi evocano un senso di grande collera essenzialmente contro me stessa. Mi viene in mente adesso un altro ricordo che adesso trovo incredibile, ma che, non so perché, allora non mi impedì di continuare la terapia: una paziente del gruppo, che volle scambiare due parole con me poco dopo che eravamo uscite dal seduta di gruppo (c'era la regola di non parlarci, ma ci trovammo sole a camminare nello stesso marciapiede, e lei volle parlarmi, io rimasi quasi sempre in silenzio), mi disse che a volte nelle sedute individuali riceveva delle "multe" da parte della terapeuta, di 100.000 e anche di 200.000 lire, per non aver fatto quello che le era stato ordinato di fare… Provo disorientamento, adesso, nel ricordare questa cosa, rimango senza parole, e di nuovo provo una sensazione di vergogna per essere stata così tanto tempo in terapia con quella donna. Se qualcuno ne sentiva la necessità, poteva chiedere alla dottoressa, motivandone le ragioni, delle sedute singole, che non sempre erano concesse. Per cambi di orari, problemi di natura organizzativa, pagamento delle sedute e ritiro delle fatture, per chiedere di poter parlare direttamente con la terapeuta, bisognava rivolgersi alla segretaria che agiva da filtro tra lei e i pazienti. Nel corso di una di queste sedute singole, ricordo che la terapeuta quel giorno indossava una gonna corta e stava seduta su un divano di fronte a me, e che allargò molto le gambe, in modo del tutto innaturale, lasciandomi veramente stupita per quel gesto che, da donna, so che non può essere casuale. Infatti, con la gonna, da sedute, quasi tutte noi donne tendiamo ad accavallare le gambe, o comunque non viene assolutamente spontaneo aprirle così tanto e soprattutto restare in quella posizione, come lei stava facendo, per così tanto tempo e guardandomi fissa negli occhi. Le chiesi per cortesia di chiuderle, vedendo che non lo faceva di sua volontà e che sembrava non rendersene conto, spiegando che le vedevo le mutande, in modo semplice e diretto; lei lo fece e si scusò e non si parlò più dell'accaduto. Mi sono sempre chiesta che cosa significasse quell'artificioso comportamento che non poteva essere casuale, e tutt'ora non so darmene una risposta chiara. Naturalmente mi mancò il coraggio di chiederle spiegazioni di quel gesto insensato. Allora me lo motivai pensando che l'analista volesse mettermi alla prova per vedere la mia reazione e se avessi tendenze omosessuali. Infatti, avevamo spesso trattato del tema dell'omosessualità, e la dottoressa aveva voluto che interrompessi quella relazione anni prima con la mia più cara amica B., anche perché con lei, come ho già scritto, mi era capitato di provare momenti di attrazione fisica e di amore, che però non avevamo mai messo in pratica. Contraddire la terapeuta, farle domande in un certo modo "non adeguato", era sempre considerato un atteggiamento negativo verso la terapia, un "transfert aggressivo" e "nevrotico"; il paziente aveva sostanzialmente sempre torto, perché era "ammalato", "nevrotico". Il tono della dottoressa era quasi sempre inquisitorio, fermo e molto deciso. Quel briciolo di autostima che avevo fu distrutto, e pensare che non solo lo permisi, ma che questa dottoressa era per me una donna intelligentissima, dura e severa ma generosa e che sapeva il fatto suo, mi riempie di una sorta di vergogna e di profonda indignazione. Più di una volta mi disse apertamente che tra me e lei c'era una distanza enorme, malgrado i pochi anni di differenza tra noi due: lei aveva capacità intellettive che sfruttava al meglio, una grande lucidità mentale, io invece, quasi completamente ottenebrata dalla nevrosi, ero come in un pantano mentale da cui non riuscivo a uscire e non potevo che provare invidia nei suoi confronti; per farmi uscire da questo "stato di torpore" lei spesso era obbligata a "gettare delle bombe" che si traducevano nei suoi modi duri, quasi offensivi nei miei confronti e che mi provocavano un gran malessere e molta insicurezza. Più volte mi accusò di essere invidiosa di lei, lasciandomi completamente di stucco e senza parole; di fatto, per lei provavo in verità ammirazione e stima, ma sinceramente non mi hanno mai sfiorato sentimenti di invidia e ancor oggi non riesco a capire bene queste insinuazioni. Quando uscivo dalle sedute mi sentivo spesso stanchissima come se avessi fatto chissà cosa, una stanchezza fisica, un bisogno di dormire e riposare, come se avessi fatto dei lavori pesanti, e prima di andare nel suo studio ero sempre preoccupata, in ansia. Durante la settimana, inoltre, tra una seduta e l'altra, pensavo spesso ai suoi consigli, a comportarmi come lei mi aveva suggerito, a che cosa lei mi avrebbe spiegato. La seduta era un momento che attendevo con inquietudine e apprensione e al quale mi preparavo: le cose che avrei detto, la scrittura del diario con la paura che non fosse ben fatto, le riflessioni sulle cose emerse nella precedente seduta che dovevano sempre aprire i nostri colloqui; tutto questo quasi come se fossi ancora a scuola con la maestra. E pensare che io lavoro in ambito sociale (faccio l'assistente sociale in un'istituzione psichiatrica) e devo seguire persone in difficoltà! Rileggendo ora questi diari, quei pochi che ho conservato, penso che le osservazioni che mi faceva la dottoressa non erano così assurde e che avevano dei fondamenti, tuttavia io le percepivo come sassi, macigni che mi cadevano addosso e mi schiacciavano proprio perché erano espresse come giudizi inesorabili e duri; non lasciavano spazio a una mia crescita, anche lenta magari, ma reale, a un cambiamento spontaneo, e ciò che avvertivo era che avrei potuto ottenere solo con un grande sforzo di volontà il benessere e la salute mentale. In questi diari ricorrono spesso frasi come "devo imparare", "devo ricordarmi", "devo giustificare il mio malessere", "mi vergogno molto", "devo chiederti scusa", "analizziamo la posizione analitica tenuta in questa settimana", che trovo molto rivelatrici del tono generale di conduzione delle sedute. Negli anni di terapia, questo controllo quasi totale che la terapeuta esercitava su ogni aspetto della mia vita diminuì gradatamente e sfumò (non si parlò più di alimentazione e dieta, avevo riacquistato i miei chili e il mio solito peso, non si accennò più al mio modo di vestire, a come mi truccavo, o agli amici che frequentavo), anche se le riflessioni che si facevano nei gruppi o in seduta singola erano guidate solo verso quegli argomenti che la dottoressa trovava focali, forse anche a ragion veduta, quali il rapporto di coppia, la vita sessuale, i rapporti con gli altri familiari. Certamente il paziente non era mai parte effettivamente attiva e non poteva proporre tematiche da trattare, o portare il proprio disagio apertamente e serenamente. Un giorno decisi che dovevo aprirmi completamente alla dottoressa, dirle davvero tutto, sperando di eliminare ogni barriera e di farmi aiutare totalmente; così, nel corso di una seduta singola, le raccontai con estrema fatica una fantasia sessuale che mi accompagna da sempre e di cui mi vergognavo tantissimo e mi vergogno un po' ancora. Da tempo tenevo questo segreto, non mi ero mai sentita di rivelarlo alla mia analista, le avevo solo detto che non riuscivo a dirglielo, e lei più volte, con insistenza, mi aveva detto che invece dovevo dirglielo, che non dovevo avere timore, e che lei mi avrebbe capito e accettato. In verità, sotto il sole non c'è quasi mai nulla di nuovo, e ora so benissimo che questa fantasia è comune a tante altre persone, abbastanza diffusa e anche praticata e agita, tuttavia lo sforzo che feci allora fu enorme. Il risultato avvilente e umiliante fu che la terapeuta mi prese in giro e mi ridicolizzò! Quello fu uno dei pochissimi momenti in cui seppi reagire, dicendole che mi sentivo offesa: io che avevo fatto quella fatica enorme a parlargliene con fiducia, e lei che invece mi prendeva in giro! Con che diritto lo faceva? Era quello il modo di aiutarmi? Non si tornò mai più sull'argomento e mi sentii ancor di più una pazza ad avere certe idee strambe per la testa, mi chiusi a riccio definitivamente, cercando di reprimere sistematicamente questi strani pensieri "malati" che tuttavia spesso, inevitabilmente, riemergevano. Ricordo un'altra cosa. La mia dottoressa aveva iniziato una attività culturale in città, che consisteva nella organizzazione di cicli di conferenze, su argomenti vari, tenute da relatori (a volte le teneva lei). Ebbene, mi aveva dato la locandina di queste conferenze, e aveva fatto apertamente pressioni affinché io ci venissi, ci portassi mio marito e possibilmente anche delle amiche. Certamente mi incuriosiva andarci, ma rimasi sorpresa dall'alto costo, anche perché dopo c'era un rinfresco e bisognava pagare anche quello. Dopo un po' non mi interessavano più gli argomenti trattati, ma continuavo ad andarci perché avevo la sensazione che se non ci andavo lei si sarebbe arrabbiata con me, mi avrebbe sgridato o sarebbe stata minacciata la continuazione della terapia. Ricordo inoltre un altro episodio. Una volta, quando avevo interrotto la terapia con lei già da vari anni, con mia sorpresa ricevetti una raccomandata in cui lei mi ingiungeva di pagare una seduta che secondo lei non avevo pagato. Rimasi estremamente addolorata e ferita, perché se c'è una persona attenta a queste cose sono io, e avevo sempre pagato senza dimenticarmi mai. Quello che mi aveva ferito ancor di più però non era il fatto che lei aveva pensato che io non avessi pagato una seduta (tutti si possono sbagliare, anche lei poteva essersi sbagliata), e neppure che lei avesse pensato che io ero inaffidabile (il che per la verità mi feriva, perché significava che lei in tanti anni di terapia aveva capito ben poco di me), ma ancor di più il fatto che mi avesse mandato una raccomandata. Come era possibile? Temeva che io non riconoscessi il ricevimento della lettera? E poi non poteva telefonarmi? Avrebbe potuto parlarmi, magari chiedermi anche come stavo. Possibile che dopo tanti anni di terapia non avesse alcuna voglia di parlarmi ma solo di mandarmi una raccomandata? Molteplici sarebbero gli episodi che potrei raccontare, tutti molto simili a quelli citati. Il distacco da questa dottoressa avvenne solo perché lei stessa mi allontanò dopo una lunga terapia di circa otto anni e mi passò a uno psichiatra di sua conoscenza del Centro di Igiene Mentale (CIM). Infatti, stavo sempre più male ed ero preda di una stanchezza fisica e mentale terribile. Desideravo sparire, morire, annullarmi, non sentire più nulla e cominciai ad avere pensieri suicidi e a ragionare concretamente su come metterli in pratica. Ne parlavo spesso in seduta con la dottoressa e anche lei ne era molto preoccupata, anche perché sapeva da mio marito che avevo tentato di agirli. Non so se sarei caduta ugualmente in quello stato depressivo così grave, e non potrò mai sapere quanto incise in questo malessere il percorso analitico e la relazione con quella dottoressa. Sta di fatto che lei mi allontanò, anche se io non lo volevo, e forse lo fece proprio perché stavo così male. La mia netta sensazione era che lei non volesse avere a che fare con una paziente che aveva idee di suicidio, che non volesse avere questo tipo di problemi (anni dopo, peraltro, questa mia sensazione fu confermata perché una mia amica, che era una sua collega, mi raccontò che l'aveva sentita dire che lei si vantava di non prendere mai in terapia pazienti con idee di suicidio perché non voleva "avere grane"… Ne fui sconvolta, pensai che era semplicemente immorale). La separazione fu molto dolorosa, mi sentii abbandonata ma gradualmente mi abituai. Iniziai una terapia farmacologia e degli incontri mensili col nuovo psichiatra del CIM; lentamente mi ripresi e risparmiai anche molti soldi, visto che pagavo solo il ticket delle visite e le medicine. Lo psichiatra del CIM e anche mio marito fecero pressioni per farmi riprendere una nuova analisi con un altro analista. Io ero veramente incerta se seguire questo consiglio o meno, soprattutto per l'idea di ricominciare un percorso magari lungo e doloroso, ma decisi che potevo provare. Iniziai quindi una nuova analisi con un'altra analista, che abitava in una città diversa da quella in cui abitava la mia precedente terapeuta. Fu una sorpresa enorme nel vedere che non dovevo più seguire schemi rigidi e prestabiliti nel dialogo con la nuova analista (diario obbligatorio, tenere una relazione sulla seduta precedente, dare risposte adeguate e pertinenti alle sollecitazioni dell'analista, ecc.), ma che potevo liberamente parlare di tutto quello che mi veniva in mente, anche dire stupidaggini, o addirittura non parlare o rilassarmi, ridere, raccontare del mio vissuto quotidiano che veniva così tanto accantonato nella terapia precedente, senza sentirmi mai giudicata, senza sentirmi dire che ero nevrotica, che avevo una "resistenza". Finite le sedute non mi sentivo più stanca e stressata e nemmeno pensavo con ansia al momento in cui sarei dovuta tornare nello studio dell'analista. Ricordo che nei primi mesi di questa nuova terapia io sentivo di dover sempre dire "grazie" quando, alla fine di ogni seduta, salutavo la terapeuta, e lei dopo un po' mi chiese gentilmente quale era il motivo per cui la ringraziavo sempre, dato che lei non faceva niente di speciale, faceva semplicemente il suo lavoro, essenzialmente mi ascoltava, e io le risposi di getto, dicendole: "Almeno lei non mi critica!". Questa mia risposta colpì molto la mia terapeuta, che subito colse l'occasione per capire meglio come era andata la terapia precedente, e ci servì a capire tante cose di me. Abbandonai completamente tutti i farmaci e così smisi anche di sentirmi una ammalata debole e bisognosa di aiuto esterno. Spesso dubitavo che la nuova dottoressa potesse in realtà apprezzarmi come persona, con tutte quelle sciocchezze che le raccontavo doveva per forza considerarmi una delle sue pazienti più noiose, non potevo essere completamente degna della sua stima, e credevo fingesse benevolenza solo per pietà nei miei confronti. Abbiamo tante volte serenamente parlato di questo transfert e mi sono resa conto di quanto mi stessi sbagliando sulla percezione che lei aveva di me. Dopo qualche anno di terapia (mi ci volle del tempo!) arrivai a convincermi che la mia terapeuta in realtà non fingeva, e che con me stava bene, non si annoiava, e che anzi mi riteneva una persona intelligente… Gradualmente mi resi conto che potevo farcela da sola, che potevo prendere decisioni sulla mia vita autonomamente e che anzi solo io dovevo e potevo prenderle, che non ero quell'essere così indegno. E' curioso notare come in questa nuova fase della mia vita ho iniziato ad avvicinarmi a pratiche di tipo sadomasochistico, a farmi sottomettere, offendere, umiliare e picchiare in un ambito erotico, con partner da me scelti, secondo regole e modalità ben definite, traendone un enorme piacere (chi conosce il sadomasochismo, sa che c'è sempre un grande rispetto e amore tra i due partner, trattandosi solo di un gioco, di un rituale erotico). Il rapporto con mio marito era sempre più in crisi, e mi sentivo libera di avere rapporti con altri uomini. La mia nuova analista non ha mai espresso disapprovazione per queste mie fantasie (e in seguito pratiche) sadomasochistiche, trasmettendomi sempre il messaggio che la cosa importante era il rispetto reciproco e l'affetto che si provava nella relazione. Questo mi ha dato molta forza e fiducia in me stessa, mi sono sentita veramente capita. Gradualmente queste pratiche sadomasochistiche, che per un certo periodo erano state per me molto importanti, diminuirono spontaneamente, cioè ne sentii sempre meno il bisogno. Non so bene perché diminuirono, trovai comunque interessante l'ipotesi che fece la mia analista: disse che poteva essere stato un modo per rielaborare alcune esperienze dolorose del mio passato, forse la bassa autostima che più o meno aveva sempre caratterizzato la mia vita, o forse anche il rapporto con la mia precedente analista. Rimasi molto colpita da una frase che una volta disse la mia analista: "Una volta lei non era perversa, ma era malata; adesso è perversa, ma è sana". Usava il termine "perversione" in modo provocatorio, perché ben sapeva che era un termine sbagliato, che non si doveva usare (mi disse che era stato anche stato cancellato dalla terminologia psichiatrica), e con questa frase un po' provocatoria sintetizzava tante cose che avevamo discusso insieme: lei aveva fatto l'ipotesi appunto che io adesso rielaboravo il mio passato padroneggiandolo, infatti dentro di me, mentre esteriormente mi facevo umiliare dai miei partner, ero felice, perché sentivo che in realtà venivo profondamente rispettata da loro. Erano lontani i tempi in cui io sentivo di non valere niente e in cui mi facevo umiliare dalla mia prima terapeuta, adesso invece io mi facevo rispettare, sia dalle altre persone che nei rapporti sadomasochistici che avevo, nei quali c'era molto rispetto reciproco, era un gioco erotico esplicito, in cui ad esempio il mio partner mi chiedeva fino a che punto poteva andare avanti, con affetto mi domandava se volevo che lui si fermasse oppure no (mi rendo conto che chi non ha mai avuto questo tipo di esperienze può avere dei pregiudizi e non capire, ma tra le coppie sadomasochistiche può esserci un affetto e un rispetto reciproco ben maggiori che in tante coppie cosiddette "normali"). Ho trovato interessante questa ipotesi, e può essere vera anche perché, come ho detto, queste esperienze masochistiche hanno caratterizzato solo una fase temporanea della mia vita, poi non ho avuto più bisogno di fare queste esperienze, mi è passata la voglia, come se appunto avessi avuto bisogno di elaborare una problematica che era profondamente radicata dentro di me. Di certo, ora non esistono più santoni, e ho imparato gradatamente a non seguire più nessun guru, a fare affidamento solo sulle mie emozioni e sensazioni, a non voler più affidarmi ciecamente a nessuno. Sono nuovi stati d'animo, quasi ne ho paura.
Alcune riflessioni Paolo Migone Come dicevo, non si può non essere profondamente toccati dalla lettura di questo racconto, e non si può non ammirare la forza di questa donna, la sua intelligenza, il suo coraggio nel tenere duro nonostante sia stata così sfortunata nell'aver incontrato una terapeuta così disturbata. Vorrei esporre alcune mie riflessioni: due cose in particolare mi hanno colpito leggendo questo racconto. La prima è il continuo bisogno di "controllo" che aveva questa terapeuta nei confronti della paziente: dirle quello che doveva fare, che acquisti fare, se avere un figlio oppure no, che amici frequentare, cosa mangiare, come comportarsi col marito e così via. Dai racconti che mi hanno fatto alcuni pazienti riguardo a loro terapie precedenti, ho notato anche altre volte questo bisogno di controllo da parte di certi terapeuti particolarmente disturbati, e mi sono chiesto cosa può significare. Certamente questo bisogno - quasi compulsivo, per così dire - da parte di un terapeuta di controllare i pazienti ha origine complesse e plurideterminate, ma a me fa venire in mente un tentativo inconsapevole di uscire dalla paura di sentirsi impotente, o inferiore, o incapace come terapeuta, come se il "comandare a tutti i costi" (una sorta di bossing) potesse dare un ruolo al terapeuta, farlo uscire da un senso di vuoto e di insicurezza. Forse questa terapeuta provava questi sentimenti (non a caso, pare che fosse anche una persona molto invidiosa, che tra l'altro proiettava la sua invidia sulla paziente, cioè era convinta che la paziente fosse invidiosa mentre non lo era affatto). La seconda riflessione riguarda la psicodinamica della "perversione" che ebbe questa paziente, che ho trovato veramente interessante. Sappiamo che il tema delle cosiddette "perversioni" è complesso e la loro eziologia è ancora in gran parte oscura (il termine "perversioni" peraltro, come ha detto bene la seconda terapeuta, non andrebbe più usato, essendo stato - giustamente - cancellato dalla terminologia psichiatrica e sostituito dal termine "parafilìe", che indica i diversi modi di esprimere la propria sessualità, modi tutti "legittimi" se sono all'interno di una relazione affettiva caratterizzata dal rispetto reciproco). In questo caso però sembra che sia possibile - come ha fatto, in modo molto intelligente, la seconda terapeuta - avanzare una ipotesi psicodinamica sulla genesi di questa "perversione" sadomasochistica. Possiamo ipotizzare che la paziente aveva dovuto subire esperienze di umiliazione fin da piccola (probabilmente aveva vissuto in un ambiente famigliare in cui spesso non era trattata con vero rispetto), e addirittura per circa dieci anni non era stata rispettata anche dalla sua terapeuta, che l'aveva umiliata ripetutamente (interessante a questo proposito è il fatto, opportunamente notato dalla seconda terapeuta, che la paziente si sentiva in dovere di dire sempre "grazie" alla fine di ogni seduta solo per il fatto che la seconda terapeuta non la criticava, mentre invece in genere gli altri pazienti non ringraziano il loro terapeuta perché per loro è normale essere trattati con rispetto). Ebbene, quando durante la sua seconda psicoterapia la paziente gradualmente comincia a stare meglio, ad acquistare sempre più fiducia in se stessa, a migliorare la sua autostima e così via, appare, in modo che può sembrare paradossale, una "perversione" sadomasochistica in cui lei gode nel farsi umiliare. Solo un terapeuta ingenuo vedrebbe questo comportamento come un peggioramento: è infatti un grande miglioramento. Un terapeuta che ha anche una minima capacità di osservazione clinica sa che la umiliazione che prova adesso la paziente all'interno del godimento sadomasochistico è completamente diversa da quella che provava prima, che era invece "reale": prima la paziente era oggettivamente umiliata e non aveva il controllo della situazione, adesso invece ha il pieno controllo, col suo partner affettivo ha un accordo sul gioco reciproco, paritetico, che mettono in atto. Viene "agita", cioè messa in atto, la umiliazione ma come gioco, e anche - come osserva in modo intelligente la seconda terapeuta - come un tipo di mastering, di padroneggiamento della situazione che prima era invece subìta passivamente. Vi è un capovolgimento da passivo in attivo: prima era sofferenza, adesso è piacere, e nel contempo viene rielaborata la situazione precedente di umiliazione trasformandola in qualcosa di diverso. E' un po' come nel "gioco del rocchetto" di cui parlò Freud in Al di là del principio di piacere (1920), quando descrisse il comportamento di suo nipote Ernst mentre, all'età di 18 mesi, aveva tra i suoi giochi preferiti un rocchetto - un piccolo telaio di legno dove avvolgere fili di tessuto - che lanciava oltre la sponda del letto, facendolo scomparire; successivamente, tirandolo a sé, il rocchetto ricompariva, accompagnato da espressioni di appagamento e felicità da parte del bambino. Nell'ipotesi di Freud, il rocchetto simbolizzava la madre che a volte lo aveva lasciato solo facendolo soffrire, e ora con questo gioco lui in modo attivo e non passivo rimetteva in atto quella situazione in cui però ritrovava la madre (simbolizzata nel rocchetto) e provava piacere (questo "gioco" può essere anche una dinamica che sta dietro alla motivazione di tanti comportamenti umani caratterizzati dalla "coazione a ripetere"). Come si espresse la seconda terapeuta con la paziente in una frase molto bella, che forse le venne di getto, "Una volta lei non era perversa, ma era malata; adesso è perversa, ma è sana". Va notato che la paziente, dopo quel periodo di sadomasochismo che, secondo questa ipotesi, le era servito per elaborare il tema della umiliazione, abbandonò gradualmente le pratiche "perverse", non ne sentì più il bisogno, e questo fatto potrebbe dare sostegno alla validità di quell'ipotesi. Non voglio dilungarmi in altre riflessioni su questo interessante caso clinico, e lascio al lettore fare le proprie considerazioni. Voglio però esprimere un ultimo commento, che non è collegato al caso clinico che io qui utilizzo per parlare brevemente di una questione diversa. Questa terapeuta era una psichiatra, e sembra che fosse anche molto rispettata nella sua città, aveva organizzato convegni scientifici e così via. Aveva anche tanti pazienti, e pare facesse tariffe alte. Come si spiega che fosse così poco preparata, addirittura che non avesse idea di cosa voglia dire fare una psicoterapia? Possiamo dire senza paura di sbagliarci che era una persona con grossi problemi personali, con una sua psicopatologia egosintonica, cioè della quale era del tutto inconsapevole. Quella terapeuta certamente credeva di lavorare bene, non aveva alcun interesse a fare così tanto male ai suoi pazienti, era semplicemente una persona disturbata, confusa. Non sappiamo come si è formata, né se ha fatto una terapia personale (da molte scuole raccomandata a tutti gli psicoterapeuti per prepararsi alla professione), sappiamo soltanto - e questo ha dell'incredibile - che insegnava in una scuola di psicoterapia riconosciuta dal Ministero e che si definiva "psicoanalista". Ho detto che "questo ha dell'incredibile" però, per la verità, sappiamo bene che vi sono tanti psicoterapeuti poco preparati o addirittura disturbati. La psicoterapia è una pratica estremamente complessa, non facile da imparare né da insegnare. Occorrono talento e passione, e tanti anni di formazione (anzi, la formazione è per definizione interminabile, dura tutta la vita, come sanno i terapeuti che hanno un minimo di consapevolezza del proprio lavoro). La Legge 56/1989 prescrive che la psicoterapia può essere praticata da medici e psicologi che abbiano fatto una scuola quadriennale riconosciuta dal Ministero. Queste scuole "riconosciute" sono ormai centinaia, e vi sono ben pochi controlli (e come sarebbe mai possibile controllarle? Occorrerebbero eserciti di colleghi che girano per l'Italia a fare controlli: a parte il fatto che non esistono i finanziamenti per tali controlli, chi controlla i controllori? E che criteri usare per i controlli, esistendo infiniti approcci, ciascuno dotato di propri punti di riferimento teorici, diversi e a volte anche antitetici gli uni dagli altri? I "controlli" avvengono via Internet tramite procedure burocratiche che guardano agli aspetti formali come il numero di ore, la cubatura delle stanze e così via, quindi si può dire che di fatto non vi sia alcun controllo sulla qualità della formazione). La realtà è che è ben difficile "regolamentare" la psicoterapia come ha cercato di fare la Legge 56/1989: forse era meglio non regolamentarla e lasciare al cittadino la responsabilità di scegliersi il proprio terapeuta, o alle associazioni professionali di garantire i propri iscritti, senza che lo Stato legittimi o "garantisca" gli psicoterapeuti perché è una impresa praticamente impossibile) (cfr. Galli, 1986, 1990a, 1999b, 1999, 2005; Migone, 1984, 1986a, 1986b, 1991, 1992, 2007). E' un po' insomma un imbroglio da parte dello Stato nei confronti del cittadino. Questa terapeuta poi, come si è detto, era una "psichiatra", e non si può qui non accennare a una assurdità della Legge, che prevede che lo specialista in psichiatria abbia diritto anche al titolo di "psicoterapeuta". Questo a mio parere è uno scandalo, perché è ben noto che spesso gli specializzati in psichiatria non sanno praticamente niente di psicoterapia, essendo stato loro insegnato prevalentemente a dare farmaci (e negli anni recenti questa tendenza è aumentata; cfr. Migone, 2009). Si può dire che uno dei prezzi politici che gli psicologi dovettero pagare alla corporazione dei medici per poter praticare anche loro la psicoterapia (inizialmente infatti i medici non volevano che gli psicologi potessero praticare la psicoterapia, che in quanto "terapia" doveva rimanere appannaggio solo dei medici) fu quello di dare il titolo di psicoterapeuti anche agli psichiatri, nonostante la maggior parte di loro sappia ben poco di psicoterapia. L'imbarazzo per questa anomalia era così grande che il governo fu costretto a emettere un Decreto Interministeriale (il n. 68 del 4 febbraio 2015) che imponesse alle scuole di specialità in psichiatria di insegnare la psicoterapia, ma lo fece solo nel 2015, cioè quasi trent'anni dopo la Legge 56/1989! Il fatto insomma che il governo fu costretto a emettere questo decreto rivela il fatto che si era ben consapevoli che la psicoterapia, tranne alcune eccezioni, non viene insegnata adeguatamente agli psichiatri. Inoltre quel decreto non prevede controlli, per cui molte scuole di specialità in psichiatria probabilmente continuano a non insegnare la psicoterapia pur assegnando il titolo di "psicoterapeuta". Con questo non voglio dire che il motivo per cui quella terapeuta era così impreparata fosse dovuto al fatto che era una psichiatra (vi sono psichiatri infatti preparatissimi), e neppure voglio dire che tutti gli psicologi che hanno frequentato una scuola di psicoterapia siano preparati perché, come ho detto prima, è ben difficile che tutte le centinaia di scuole esistenti garantiscano una formazione adeguata, per cui il cittadino di fatto è solo nella scelta di un terapeuta, più o meno come lo era prima della Legge 56/1989. E non va dimenticato che oggi, con la legge sulle liberalizzazioni, chiunque può mettersi sul mercato e fare concorrenza ai cosiddetti "psicoterapeuti": vi sono infatti, solo per fare alcuni esempi, i counselor, i mediatori famigliari, i pedagogisti clinici, i coach, gli psicologi che non hanno fatto una scuola di psicoterapia, etc. (e vi sono anche coloro che si definiscono "psicoanalisti" - o "psicanalisti" cioè senza la "o" - qualificandosi come diversi dagli "psicoterapeuti"). Molti di questi colleghi - se hanno cultura, sensibilità ed esperienza, se hanno ricevuto una buona formazione - possono essere ben più bravi di tanti psicoterapeuti riconosciuti; in ogni caso, è il mercato che decide, col passaparola, oltre che con l'attrattiva che hanno sui consumatori i singoli brand, cioè la popolarità dei "marchi" dei nomi delle diverse professioni. Ringrazio quella paziente per avermi dato il permesso di pubblicare il racconto della sua psicoterapia: ritengo che anche in questo caso abbia mostrato la sua intelligenza, e sono veramente contento che abbia ritrovato una sua dimensione di felicità nonostante la sfortuna di essersi trovata in situazioni di vita così avverse.
Bibliografia Freud S. (1920). Al di là del principio di piacere. Opere, 9: 189-249. Torino: Boringhieri, 1977. Galli P.F. (1986). Psicoterapia, formazione e specialismo. In: Minguzzi G.F., a cura di, Il divano e la panca. Psicoterapia tra privato e pubblico. Milano: FrancoAngeli, 1986, pp. 242-245. Anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 2016, L, 4: 650-652. Galli P.F. (1990). Problemi della formazione in psichiatria. Mondoperaio, 43 (novembre): 52-54. In versione ampliata anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, XXV, 1: 7-12. Galli P.F. (1999a). Formazione in psichiatria: un primo capitolo. Conversazione-intervista di Giovanna Gallio con Pier Francesco Galli. Psicoterapia e Scienze Umane, 2008, XLII, 1: 89-106 (trad. inglese: Psychiatric training: A first chapter. Giovanna Gallio holds a conversation-interview with Pier Francesco Galli. Trauma and Memory, 2014, 2, 1: 35-47). Galli P.F. (1999b). Formazione psicoterapeutica e docimologia della sottomissione (Editoriale). Psichiatria e Psicoterapia Analitica, 18, 2: 106-109. Anche in: Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 2: 224-229. Galli P.F. (2005). Piccoli mostri crescono: scuole di psicoterapia, ECM, illusioni di controllo. Psicoterapia e Scienze Umane, XXXIX, 2: 223-224. Migone P. (1984). Psicoterapia e formazione. Psicologia Italiana, VI, 1: 6-15. Migone P. (1986a). Sulla regolamentazione della psicoterapia. Il Ruolo Terapeutico, 42: 39-40. Migone P. (1986b). La formazione degli psicoterapeuti. Rinascita, 43, 6 (15 febbraio): 31. Migone P. (1991). Sono necessarie scuole "quadriennali" per coloro che al 18-2-94 avranno accumulato cinque anni di laurea? A proposito dell'art. 35 della legge 56/1989 (con l'intervento "Sulla regolamentazione della psicoterapia" [Migone, 1986a]). Il Ruolo Terapeutico, 57: 43-47. Migone P. (1992). The quality of psychotherapy training and services (Relazione al Regional Meeting of the International Council of Psychologysts [ICP], 50th Anniversary, Padova, 9-10 luglio 1992). In: Comunian A.L. & Gielen U.P., editors, Advancing Psychology and its Applications: International Perspectives. Milano: FrancoAngeli, 1994, pp. 317-323. Migone P. (2009). La "cattiva psichiatria". Il Ruolo Terapeutico, 110: 65-72. Migone P. (2007). Efficacia della psicoterapia ed efficacia della formazione: stato della ricerca e problemi aperti (Relazione al convegno "Valutare la qualità della formazione al counseling e alla psicoterapia, oggi", Milano, 28 aprile 2006). In: Rotondo A., a cura di, Processi formativi. Qualità ed etica della formazione. In: Quaderni di Psicologia Analisi Transazionale e Scienze Umane, 2007, 47/48: 45-53.
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