PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Rubriche di Paolo Migone
"Problemi di Psicoterapia
Alla ricerca del 'vero meccanismo d'azione' della psicoterapia"

 

2021:

 

Il recupero dei ricordi e l'azione terapeutica. Uno scambio con Peter Fonagy
 

Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane

 

Recentemente mi è stato chiesto un contributo per la rivista Percorsi di Analisi Transazionale, che è pubblicata da Performat di Pisa, una scuola di Analisi Transazionale, diretta da Anna Emanuela Tangolo, con cui collaboro da una quindicina d'anni e che è guidata da colleghi di cui ho molta stima. La scuola Performat è aperta ad altri orientamenti, ha tanti allievi ed è molto attiva nell'organizzare convegni e incontri scientifici. Uno di questi è stato un Workshop con Peter Fonagy tenuto nell'ottobre del 2020, cui ho partecipato anche come traduttore, che mi ha fatto venire in mente uno scambio che ebbi con Fonagy più di vent'anni fa, per cui ho pensato di raccontarlo. L'ho mandato quindi a Percorsi di Analisi Transazionale, dove è stato pubblicato a pp. 16-23 del n. 4/2021. Pensando che possa interessare anche ai lettori di queste mie rubriche, lo pubblico anche qui, col permesso di Performat che ringrazio. Qui sotto riporto quel mio contributo.

 Vorrei ricordare uno scambio tra me e Peter Fonagy di anni fa che mi è tornato in mente quando fu invitato nell'ottobre del 2020 a tenere un interessante Workshop alla scuola Performat di Pisa. Quasi venticinque anni fa, nel n. 2/1999 dell'International Journal of Psychoanalysis Fonagy (1999) scrisse un editoriale dal titolo "Memory and therapeutic action" ("Il ricordo e l'azione terapeutica"), in cui affrontava di petto una questione centrale della psicoanalisi: quale è il vero meccanismo del cambiamento? In questo editoriale, che in séguito sarà molto citato, sosteneva che era ormai venuto il momento di renderci conto che - contrariamente a quello che molti psicoanalisti hanno sempre pensato - non è vero che i pazienti migliorano grazie al fatto che riescono a ricordare un evento passato, ad esempio un trauma o comunque qualche episodio doloroso che avevano rimosso. Infatti - sosteneva Fonagy anche sulla base delle acquisizioni delle neuroscienze - non esiste un solo tipo di memoria, ne esistono diverse. La memoria autobiografica, esplicita, dichiarativa, con la quale noi possiamo ricostruire un ricordo e verbalizzarlo, è ben diversa dalla memoria procedurale, implicita, non verbale, che si è costituita ben prima che si formasse il linguaggio, in una fase della vita peraltro in cui avvengono le più importanti esperienze che determinano il successivo sviluppo dell'individuo (Migone, 2007a). Questo impedisce che le parole catturino quelle esperienze precoci appunto perché preverbali, avvenute prima che si formasse il linguaggio. Non solo, nei due tipi di memoria i ricordi sono conservati in aree del cervello diverse, separate tra loro: la memoria autobiografica risiede nell'ippocampo e nei lobi temporali, mentre la memoria implicita nei gangli della base, nell'amigdala e nel cervelletto. La memoria implicita, che non può mai essere tradotta in parole, è fondamentale per il nostro funzionamento anche psicologico ed emotivo; come ci ha insegnato la teoria dell'attaccamento, non è solo alla base dei movimenti automatizzati come si pensava una volta (afferrare una palla, andare in bicicletta, etc.), ma regola anche gli stili di attaccamento, la nostra vita affettiva, il nostro modo di rapportarci con gli altri nella vita quotidiana. Gli eventi relazionali che l'hanno costruita non possono essere ricordati - anzi, sono ricordati molto bene ma col comportamento, col nostro modo di essere con gli altri: tramite quello che chiamiamo transfert o copione di vita, che viene attivato, o ripetuto ("trasferito"), nella relazione terapeutica. è un tipo di memoria, potremmo dire, che non può mai essere ricordata ma neppure dimenticata. I pazienti ricordano agendo, e anche facendo provare al terapeuta determinate emozioni e stati d'animo che gli permettono di capire la storia passata del paziente, una storia che lui non può rievocare con le parole ma che può essere solo ricostruita, inferita. Però, si badi bene, questa ricostruzione cui si arriva ad esempio tramite la interpretazione - che da molti è ritenuta essere l'intervento par excellence della psicoanalisi - non serve al cambiamento, cioè il paziente, sempre secondo Fonagy (1999), non trae alcun giovamento dalla interpretazione o dal recupero dei ricordi: «L'eliminazione della rimozione non deve essere più considerata la chiave dell'azione terapeutica» (p. 218). Le spiegazioni o le interpretazioni ricevute dal terapeuta possono servigli come razionalizzazioni, rassicurazioni, giustificazioni del suo comportamento, ma rimangono su un piano intellettuale, cognitivo (come se il paziente parlasse di sé in terza persona, potremmo dire, "come se lui fosse un altro").

Tutte le terapie verbali sono un po' in scacco di fronte alla riconosciuta importanza della memoria implicita, soprattutto quel tipo di psicoanalisi che ha sempre fatto leva sulla comunicazione verbale delle interpretazioni come fattore curativo (e per di più con la minimizzazione o "deprivazione" del rapporto personale con l'analista, che non si fa conoscere, che parla poco, è anonimo, etc. - una operazione che io una volta chiamai "personectomia" del terapeuta [Migone, 1994 p. 130, 1995 cap. 6, 2004 p. 151]); anche l'Analisi Transazionale, nella misura in cui fa leva su formulazioni verbali, subisce questo tipo di scacco. Tante volte ci siamo sentiti fare dai pazienti domande come questa: "Grazie dottore, adesso ho capito, ma come faccio a cambiare?".

E' appunto questa la domanda cui Fonagy cercò di rispondere in quell'editoriale del 1999. Nel suo tentativo di dare una risposta non poté fare altro che ricorrere alle note concettualizzazioni di Daniel N. Stern e del suo gruppo di Boston sul "modo di stare con l'altro", sulla "conoscenza relazionale implicita" (la implicit relational knowing descritta ad esempio da Lyons-Ruth et al., 1999), sui now moments e così via (Stern et al., 1998; Stern, 2004; Boston Change Process Study Group, 2010; etc.), cioè alla necessità che il terapeuta presti la massima attenzione a queste strutture implicite nel momento in cui vengono attivate nella relazione col terapeuta e riesca a fare in modo che il paziente ne prenda coscienza, che rifletta sul suo copione di vita. Il cambiamento insomma avverrebbe soprattutto in modo esperienziale, in cui il terapeuta focalizza l'attenzione sua e del paziente su queste modalità relazionali implicite, automatiche, cercando di renderle il più possibile consce per fare in modo che entrino maggiormente sotto il suo controllo.

Fin qui la posizione di Fonagy, che ho riassunto in modo necessariamente sintetico (per maggiori dettagli e una ricca bibliografia, rimando a quell'editoriale: Fonagy, 1999). Passo ora alla mia critica che gli feci allora (Migone, 2000), e che fu pubblicata nel n. 2/2000 dell'International Journal of Psychoanalysis seguìta da una risposta di Fonagy (2000). Il motivo per cui io in quella occasione contestai Fonagy non dipendeva dal fatto che non ero d'accordo con lui, anzi ero del tutto d'accordo, bensì dal fatto che a mio parere ribadiva posizioni che non erano nuove nella storia della psicoanalisi, ma che erano già state espresse in modo molto chiaro ad esempio da Franz Alexander già nel 1930, settant'anni prima. Avevo trovato addirittura alcune parole di Alexander che per caso erano quasi identiche a quelle dette da Fonagy in quel suo editoriale del 1999. Ecco le parole di Alexander tratte dal suo libro sulla esperienza emozionale correttiva (un libro che io stesso avevo tradotto anni prima):

"La credenza che il recupero dei ricordi sia, in se stesso, uno dei più importanti fattori curativi è ancora mantenuta da molti psicoanalisti, e in un certo senso può essere considerata un residuo del periodo dell'ipnosi catartica. La persistente enfasi sulla ricostruzione intellettuale dei vuoti di memoria probabilmente deriva dal periodo relativamente breve della suggestione in stato di veglia; ma fu l'importanza ancora maggiore data alla comprensione intellettuale del passato durante la fase delle associazioni libere quella che rese il trattamento psicoanalitico quasi sinonimo di ricerca genetica. Come risultato, il riempire i vuoti di memoria si cristallizzò come lo scopo terapeutico della psicoanalisi. Questa importanza esagerata ha ostacolato a lungo sia la comprensione del motivo per cui i pazienti ricordano eventi rimossi, sia la corretta valutazione del loro significato terapeutico. Fu solo nel 1930 [Alexander, 1930, pp. 50-51 trad. inglese del 1935] che fu dimostrato che il recupero dei ricordi non è la causa del miglioramento terapeutico ma il suo risultato, e che il ricordo di memorie infantili rimosse avviene, di regola, solo dopo che lo stesso tipo di costellazione emotiva è stata sperimentata e padroneggiata nella situazione di transfert" (Alexander, 1946, p. 91 trad. it., corsivi nell'originale).

 Ed ecco le parole di Fonagy (1999):

 "Che dire del drammatico miglioramento associato al "recupero" di determinate idee? Qui direi che il miglioramento (nel senso di cambiamento terapeutico) è già avvenuto, ad esempio nel senso di poter vedere il mondo interno o esterno in un modo un po' diverso e il recupero di un'idea prima dimenticata è una conseguenza piuttosto che la causa di una visione del mondo più equilibrata" (p. 219, corsivi aggiunti).

 Quello che capì Alexander già nel 1930, che poi approfondì nel libro del 1946 in cui descrisse il concetto di "esperienza emozionale correttiva" e che Fonagy riprende, è che il recupero dei ricordi, la comprensione del motivo per cui si sono instaurati i sintomi, l'insight insomma, non è la causa del cambiamento terapeutico, ma la sua conseguenza. In altre parole, prima il paziente fa una determinata esperienza col terapeuta che gli permette di cambiare, spesso in modo inconscio (cioè il cambiamento appare a volte come una sorpresa, in modo spontaneo, perché deriva da una modificazione della memoria implicita), e solo dopo appare il recupero dei ricordi. Ad esempio un paziente può dire, dopo un importante miglioramento, provando anche una sensazione di benessere e di sollievo: "Adesso mi viene in mente una cosa che avevo del tutto dimenticato, adesso finalmente capisco!" (infatti, come si ricorderà, secondo la tradizione psicoanalitica la comparsa di nuovi ricordi e anche una sensazione di benessere rientrano nei criteri di validazione di un intervento, si tratta cioè di una validazione indiretta, mentre ha poco valore una validazione diretta quale può essere ad esempio una dichiarazione verbale di accordo da parte del paziente che può essere compiacente, autosuggestiva, intellettualizzata, etc.).

Ritengo che sia importante sottolineare che, come dissi a Fonagy (Migone, 2000, p. 356), mentre Ferenczi, che originariamente era considerato un dissidente e ora è stato del tutto riabilitato, non è così per Alexander, che tuttora viene spesso considerato in modo critico, come se la "scomunica" che gli mosse Kurt Eissler (1950) di essere uno "psicoterapeuta" e non uno "psicoanalista" non sia stata ancora ritirata da parte della chiesa psicoanalitica, forse per la sua maggiore vicinanza a noi rispetto a Ferenczi. Va detto anche che Alexander era arrivato alle sue posizioni solo sulla base della sua intuizione clinica, mentre Fonagy ha utilizzato anche le conoscenze sui progressi delle neuroscienze che prima non erano disponibili, e questo non è da sottovalutare. Lo stesso Freud peraltro aveva già capito molto bene come la conoscenza intellettuale non sia sufficiente per il cambiamento, si pensi ad esempio a questo passaggio del 1910, vent'anni prima delle affermazioni di Alexander:

 "E' un concetto da lungo tempo superato e derivante da apparenze superficiali, quello secondo il quale l'ammalato soffrirebbe per una specie d'insipienza, per cui, se si elimina questa insipienza fornendogli informazioni (sulla connessione causale della sua malattia con la vita da lui trascorsa, sulle esperienze della sua infanzia, e così via) egli dovrebbe guarire. Non è un tale "non sapere" per se stesso il fattore patogeno, ma la radice di questo "non sapere" nelle resistenze interne del malato, le quali in un primo tempo hanno provocato il "non sapere" e ora fanno in modo che esso permanga. Il compito della terapia sta nel combattere queste resistenze. La comunicazione di quanto l'ammalato non sa perché lo ha rimosso, è soltanto uno dei preliminari necessari alla terapia. Se la conoscenza dell'inconscio fosse tanto importante per il paziente quanto ritiene chi è inesperto di psicoanalisi, basterebbe per la guarigione che l'ammalato ascoltasse delle lezioni o leggesse dei libri. Ma tali misure hanno sui sintomi della malattia nervosa la stessa influenza che la distribuzione di liste di vivande in tempo di carestia può avere sulla fame" (Freud, 1910, p. 329).

 Fonagy (2000) rispose alla mia osservazione critica dandomi ragione, e ricordando anche che era ben consapevole del contributo di Alexander perché ricordava di averne letto nell'articolo che io e Gianni Liotti avevamo scritto insieme, pubblicato poco prima sempre sull'International Journal of Psychoanalysis, come articolo di testa del n. 6/1998, dal titolo "Psicoanalisi e psicologia cognitivo-evoluzionista: un tentativo di integrazione" (Migone & Liotti, 1998), articolo che lui aveva apprezzato; scherzando un po', nella sua risposta aveva aggiunto che questa sua dimenticanza del contributo di Alexander forse era dovuta al fatto che era ungherese come lui. Infatti Fonagy è ungherese di nascita, come lo era Alexander e come lo era tutta una schiera di pionieri (in primis Sándor Ferenczi, ma poi anche Michael Balint, John Gedo e tanti altri) che diedero fondamentali contributi alla psicoanalisi all'insegna dell'importanza del rapporto affettivo e del fattore esperienziale, formando quella che viene chiamata "scuola ungherese" o "scuola di Budapest", il cui principale esponente era appunto Ferenczi e che poi continuò idealmente nella "scuola di Chicago" guidata da Alexander. Nella scuola di Chicago, che era collegata con un fil rouge alla precedente scuola di Budapest, non a caso vi erano, tra i maggiori esponenti, non solo l'ungherese Gedo (1979) che esplorò gli interventi "al di là dell'interpretazione" (cioè quando l'interpretazione non serve) ma anche Heinz Kohut, che non era ungherese (proveniva da Vienna) ma che indubbiamente nella costruzione della sua Psicologia del Sé aveva risentito dell'humus culturale degli ungheresi che erano emigrati a Chicago (in primis Gedo, che era il suo più stretto amico e collaboratore e che lo influenzò molto nella formulazione della sua nuova teoria, ad esempio fu Gedo a suggerire a Kohut di usare il termine "Sé"; per una monografia su Gedo, rimando a Migone, 1985).

Tante considerazioni potrebbero essere fatte su questa problematica, e qui per motivi di spazio non è possibile esporle tutte. Ad esempio, Fonagy cita le ricerche dell'ultimo Daniel N. Stern - non quelle, per intenderci, culminate nell'importante suo libro del 1985 Il mondo interpersonale del bambino, che rivoluzionò la teoria della motivazione in psicoanalisi invalidando le tesi esposte dieci anni prima da Margaret Mahler (Mahler, Pine & Bergman, 1975), ma quelle iniziate con l'articolo del 1998 firmato collettivamente dal Boston Change Process Study Group (Stern et al., 1998; vedi anche Stern, 2004; Boston Change Process Study Group, 2010; etc.). E mi piacerebbe discutere criticamente anche l'ultimo percorso di Daniel N. Stern, che non trovo originale nella storia delle idee psicoanalitiche. In sintesi, quello che fece Daniel N. Stern nel suo ultimo percorso di ricerca è cercare di applicare alla terapia all'adulto quello che lui aveva scoperto sullo sviluppo infantile e che aveva riassunto nel suo libro del 1985. Era quindi un progetto molto ambizioso, perché voleva cercare di dare un contributo originale, innovativo. Essendo uno studioso dello sviluppo infantile, sapeva bene che le prime esperienze del bambino non sono registrate in parole perché appunto avvengono prima che si instauri il linguaggio, ma sono immagazzinate nella memoria procedurale, che costituisce per così dire il vero nucleo della persona. Questo nucleo, secondo Daniel N. Stern, non sarà mai afferrato, catturato, dalle parole, le quali vengono dopo, si aggiungono, sono quindi un certo senso un po' posticce o false (per dare una idea, solo i poeti, disse una volta Daniel N. Stern, sono capaci di toccare il nucleo profondo di noi stessi) - anche Freud, peraltro, era ben consapevole che il nostro Io conscio costituisce una piccolissima parte della nostra mente, la quale anzi lo guida senza che lui se ne accorga, e sono ben note le suggestive immagini che Freud diede dell'Io come "marionetta", o non «padrone in casa propria» etc. (Freud, 1916, p. 663). Quindi, diceva Daniel N. Stern (e Fonagy gli fa eco), è inutile basarsi solo sulle parole in psicoterapia, occorre fare qualcos'altro o "qualcosa in più" (il something more che è nel titolo dell'articolo di Stern et al. [1998] che, come ho detto, ha inaugurato quella linea di ricerca). Vi sarebbe quindi una spaccatura, uno iato incolmabile tra il Sé e la rappresentazione che noi ne abbiamo (sul concetto di Sé, e sulla differenza tra "Sé neonatale", che non può essere rappresentato perché è solo una struttura, l'insieme delle funzioni mentali del bambino, e il Sé come rappresentazione di se stessi, che si forma solo dopo che il soggetto è capace di autocoscienza, rimando a Migone, 2015). Il problema è che la posizione di Daniel N. Stern, anche se abbastanza vera, è estremizzata, mentre, come ad esempio argomentò molto bene anche Jeanine Vivona (2006) nella sua critica a Daniel N. Stern, è preferibile una posizione più moderata, che concepisca la possibilità che le parole possano raggiungere il più possibile questo nucleo profondo di noi stessi, perché è questo il compito di tutte le terapie verbali: riconnettere il soggetto con se stesso, con la sua parte più vera e profonda, restituirgli la sua soggettività, potremmo dire (anche la "teoria del codice multipolo" di Wilma Bucci [1997, 2019] va in questa direzione [vedi anche Migone, 1995 pp. 90-97 ediz. del 2010, 2007b). Il discorso qui sarebbe lungo, perché, ad esempio, come ci ha insegnato l'ermeneutica, le nostre parole trasformano sempre la nostra esperienza interiore e la rendono qualcosa di un po' diverso, costituiscono comunque un altro racconto (cfr. Migone, 1995, pp. 202-204 ediz. del 2010). Non posso qui approfondire la mia critica a Daniel N. Stern, occorrerebbe molto spazio, per cui rimando a un altro lavoro (Migone, 2003).

Va segnalato anche che vi sono stati importanti dibattiti sulle posizioni sia di Daniel N. Stern sia di Peter Fonagy: sulle posizioni di Daniel N. Stern si può menzionare il n. 3/1998 della rivista Infant Mental Health Journal, con interventi, tra gli altri, di Ed Tronick, Louis Sander et al., Alexandra Harrison et al., Jeremy Nahum et al., Nadia Bruschweiler-Stern et al., Beatrice Beebe, Arnold Modell e Peter Fonagy; e sulle posizioni di Fonagy si veda, tra le altre cose, nel n. 3/2003 dell'International Journal of Psychoanalysis, lo scontro tra Fonagy (2003) e Harold P. Blum (2003a, 2003b), un noto psicoanalista "classico" (tra le altre cose successore di Eissler nella direzione dei prestigiosi Sigmund Freud Archives della Library of Congress di Washington - rimando a Migone, 1984) che, in disaccordo con Fonagy, insiste invece sulla importanza del recupero dei ricordi per il cambiamento.

Preferisco fermarmi qui, sono diverse le tematiche che ho toccato e servirebbe molto spazio affrontarle in modo dettagliato, per cui preferisco lasciare al lettore l'approfondimento di singole problematiche sulla base anche di alcuni articoli citati in bibliografia.

  

Riassunto. Viene ricordato uno scambio tra Paolo Migone e Peter Fonagy che avvenne nel n. 2/2000 dell'International Journal of Psychoanalysis, stimolato da un editoriale che Fonagy aveva pubblicato sul n. 2/1999. Fonagy aveva sostenuto che per il cambiamento terapeutico non è importante il recupero di ricordi rimossi, il quale non è la causa del cambiamento ma la sua conseguenza. Migone fece notare a Fonagy che già Franz Alexander nel 1930 aveva sostenuto una posizione simile, e Fonagy rispose ringraziando Migone per avergli ricordato il contributo di Alexander, anche lui di origine ungherese come Fonagy e quindi parte dell'importante tradizione della "scuola ungherese" di psicoanalisi di cui Ferenczi fu il maggiore esponente. Questa tradizione proseguì nella "scuola di Chicago" guidata da Alexander, che ha sempre sottolineato il ruolo del rapporto affettivo col terapeuta e dato più importanza ai fattori emotivi che a quelli cognitivi come agenti del cambiamento.

 

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Paolo Migone
Condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane
Via Palestro 14, 43123 Parma, tel. 0521-960595, E-Mail <migone@unipr.it>

 

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