Paolo Migone
Alcuni anni fa una donna mi mandò per email il racconto della sua psicoterapia, durata dieci anni, che lei aveva scritto per elaborare quella storia che fu molto dolorosa. Ne rimasi colpito, e col suo permesso, e dopo aver tolto ogni riferimento personale in modo che risultasse del tutto anonimo, lo pubblicai col titolo "Il racconto della mia psicoterapia (un caso di malpractice)". Ritenevo infatti che fosse utile per riflettere su certe dinamiche, e feci anche alcuni commenti. Quest'anno mi è capitato nuovamente di ricevere, sempre per email, uno scritto da parte di una paziente che in modo simile raccontava l'esperienza di una sua psicoanalisi durata sette anni, anch'essa una vicenda dolorosa. Anche in questo caso rimasi impressionato, e le chiesi il permesso di pubblicarlo, dopo averlo reso del tutto anonimo, perché sono ancora convinto dell'utilità di riflettere su come sia possibile che vengano praticate terapie di questo tipo. Qui di seguito riporto le email che ci siamo scambiati, e poi il testo che ho ricevuto. Alla fine farò alcuni commenti, e in ogni caso il lettore potrà farsi una sua idea. Questa è la email che avevo ricevuto: «Gentile dottore, ho letto alcune sue cose su Internet che mi hanno interessato e dato una sensazione di fiducia nei suoi confronti, per cui mi permetto di scriverle per chiederle, ovviamente se ha tempo, di leggere il testo che le mando. Vorrei un suo parere, ma soprattutto mi fa piacere condividere con lei la mia storia, il racconto di una lunga analisi terminata da poco, che all'inizio ero convinta mi aiutasse e di fatto mi diede sicurezza, ma che poi mi ha fatto soffrire. Nel file allegato vede anche altre cose che ho scritto su di me, così forse può conoscermi di più e inquadrare meglio la storia della mia analisi. Mi rendo conto che è un testo un po' lungo, ma ovviamente se non avesse tempo di leggerlo capirei benissimo. In ogni caso la ringrazio per il tempo che vorrà dedicarmi». Io le risposi così: «La ringrazio per avermi mandato questo suo testo, che ho letto tutto d'un fiato e con grande interesse. Le dico subito che concordo con il punto di vista del suo attuale terapeuta sul tipo di problemi psicologici di cui soffre (io non la conosco personalmente, non so niente di lei tranne le cose che mi ha fatto leggere, però questa è la mia impressione). Per quanto riguarda la sua analisi precedente, quella durata sette anni, devo dire che sono rimasto molto colpito nel constatare che vi possano essere colleghi che lavorano così. Penso che sia un dato sociologico importante il fatto che vi siano psicoanalisti che siano stati formati in questo modo e che, come lei dice, sono rispettati e fanno parte di una importante società psicoanalitica. Ritengo però che la "colpa" non sia tanto di quella società psicoanalitica, perché penso che terapeuti di questo tipo purtroppo possano esistere in quasi tutte le associazioni psicoanalitiche (e terapeuti non bravi possono esserci, ovviamente, anche in associazioni di altri orientamenti, il problema del training dei terapeuti è complesso [per alcuni riferimenti vedi Cremerius, 1988; Kernberg, 1986, 2001, 2011; Bolko, 2011; Bolko & Rothschild, 2006; Galli, 2013; si veda anche il dibattito in Perlman et al., 2021]). Quella del suo analista mi sembra una cultura psicoanalitica abbastanza diffusa, che deriva, a mio parere, da fraintendimenti della psicoanalisi e da modi sbagliati con cui è stata insegnata. Mi piacerebbe molto poter pubblicare questo suo testo, perché può interessare anche ad altri così come ha interessato me, e soprattutto può servire a far riflettere sul tipo di teoria che sta dietro alla tecnica utilizzata da quell'analista. Mi concede il permesso di pubblicarlo? Ovviamente toglierei ogni riferimento che potrebbe rivelare la sua identità e quella dell'analista. Non è assolutamente rilevante infatti conoscere il nome di quell'analista o della sua società psicoanalitica, quello che è interessante è il fenomeno sociologico sottostante. Un cordiale saluto e grazie ancora per avermi mandato il suo testo». Lei mi rispose subito: «Certamente le do il permesso, e mi fa piacere far conoscere la mia storia, se questo può aiutare altre persone. Quello che chiedo però è di poter vedere in anticipo il testo che verrà pubblicato, perché vorrei essere sicura che non si possa risalire alla mia identità e anche a quella del mio analista. Mi faccia sapere, a presto». Io allora eliminai dal testo tutti i riferimenti che potevano non renderlo del tutto anonimo, e glielo rimandai. Lei lo lesse, fece piccole correzioni ulteriori e me lo rinviò, dicendomi che così poteva essere pubblicato. Qui sotto quindi riporto il suo testo, che originariamente era più lungo e costituito da varie parti, e che è stato molto accorciato. Alla fine espongo alcune mie riflessioni.
Il racconto della mia analisi Le mie difficoltà si possono ricondurre alla prima infanzia. Ricordo che mal sopportavo la vicinanza fisica e l'affettività, anche se ero molto attaccata ai miei genitori. Quando d'estate mi lasciavano sola con i nonni, avevo il terrore che non tornassero più; facevano lunghe vacanze senza di me, e ora guardo con una certa invidia le famiglie di alcuni miei conoscenti in cui vedo che non lasciano mai i bambini soli per tanto tempo (mia madre aveva problemi di ansia e depressione, e in seguito anche problemi con l'alcol). Alle elementari avevo il terrore di essere rapita dagli zingari. Una volta mio padre dovette letteralmente trascinarmi di forza sulle scale per andare a scuola, e prima di entrare ricordavo sempre con insistenza a mia madre di venire a prendermi un po' prima dell'uscita e a mettersi di fronte alle altre mamme per avere la garanzia che fosse la prima persona che vedevo quando uscivo dal portone ("In prima fila! In prima fila!", le dicevo). E ogni volta la maestra doveva prendermi per mano e accompagnarmi fino a mia madre. Ho avuto sempre difficoltà con le relazioni. Fin da piccola sognavo spasmodicamente di trovare il principe azzurro. Ho avuto i primi rapporti sessuali e relazioni sentimentali molto presto, ma facevo fatica ad innamorarmi, mi lanciavo nelle relazioni e dopo un po' di tempo scappavo. Volevo a tutti costi trovare un uomo, ma non ero mai soddisfatta. Solitamente, i primi mesi di relazione stavo molto bene, ma appena la relazione si consolidava cominciavo ad avere molti attacchi di panico, ansia e angoscia. Ad esempio, capitava che se dovevo rimanere da sola a casa, e il mio ragazzo usciva, andavo nel panico. Temevo i viaggi e le vacanze estive perché mi procuravano molta ansia. Per queste mie sofferenze, sette anni fa decisi di intraprendere un'analisi. Infatti, a causa del fallimento di varie terapie cognitivo-comportamentali per ansia e attacchi di panico, cominciai un percorso di terapia psicoanalitica con uno stimato terapeuta, membro di una importante società psicoanalitica. Nessuno era mai stato in grado di fornirmi delle risposte o delle interpretazioni circa il motivo di questi miei intensi episodi di angoscia. Prima di cominciare il percorso, l'analista mi indirizzò a un'associazione di psicoterapia presso la quale svolsi un lungo e oneroso percorso di test psicologici. Finalmente arrivò il risultato, e l'analista mi fece la restituzione. La mia ansia voleva dire rabbia, rabbia per non essere al centro del mondo. Rincuorata dalla decisione e dalla sicurezza con la quale illustrava il mio problema, mi affidai completamente a lui, sperando di guarire, dopo tanti anni di peripezie e di sofferenze. E lo feci per sette lunghi anni a due volte alla settimana. Mio padre, preoccupato per la mia salute e anche lui reduce da anni di psicoanalisi lacaniana (a detta sua inutili) per vari problemi psicologici, fu da subito scettico. Si presentò a una seduta, dopo aver avvisato l'analista, e parlammo in tre. Voleva capire meglio cosa l'analista pensasse che fosse il mio problema e quale soluzione proponeva, visto anche il prezzo delle sedute, che veniva sostenuto dai miei genitori (140 euro l'una). Fui molto arrabbiata quando, uscendo dalla seduta, mio padre cominciò a criticare quanto detto dall'analista, dicendomi che si trattava di "un mucchio di cavolate", e che sarei finita in uno di quei gironi danteschi di una analisi interminabile e inutile. Non gli credetti: la sicurezza e la tenacia con la quale il dottore forniva risposte e interpretazioni a qualsiasi mia domanda mi dava molta sicurezza e mi infondeva un profondo senso di speranza. Finalmente c'era una soluzione! Riassumere qui quanto esplorato durante un'analisi così lunga sarebbe impossibile, ma cercherò di raccontare i punti salienti di quanto pensavo fosse la verità più assoluta su di me, così come mi veniva trasmessa. I miei non erano attacchi di panico. Sarebbe stato troppo semplice. Le mie erano "masturbazioni eccitatorie", l'attacco era la mia cocaina, la mia fonte di massimo piacere. Non provando piacere sessuale con gli uomini, che a detta del mio analista io detestavo in quanto "isterica" (in realtà provavo piacere nei rapporti sessuali, avevo solo difficoltà a raggiungere l'orgasmo), dovevo ricercare il piacere da sola attraverso l'attacco di panico. L'attacco serviva inoltre per far correre tutti al mio capezzale, per fare una scenata, un teatro, cioè era anche una ricerca di attenzione e potere che il mio inconscio trovava eccitantissima. Lui diceva che era il mio "orgasmo di dolore". Storsi subito il naso: come era possibile che io trovassi così eccitante un evento tanto spiacevole? A questa domanda l'analista rispondeva che, sempre in quanto isterica, sputavo e rifiutavo le sue interpretazioni perché in verità io non volevo veramente guarire e tanto meno farmi curare da lui, un uomo di cui "invidiavo il fallo". Mi diceva che io facevo apposta a non guarire, perché godevo nel far fallire i terapeuti che cercavano di aiutarmi, secondo lui era questo il mio vero piacere. Avevo sviluppato un forte attaccamento e una grande stima nei suoi confronti, che mi faceva pensare che qualsiasi cosa lui dicesse fosse l'assoluta verità. Pensavo: com'ero perfida e ostinata a osare controbattere o mettere in discussione quanto lui mi diceva! A detta sua, il rapporto con mio padre era perverso e fortemente sessualizzato (in realtà non avevo mai provato alcuna attrazione per mio padre), nonché fonte di tutta la mia rabbia e dei miei problemi. Secondo lui ero furente con mio padre e gelosa di mia madre, la donna che lui aveva scelto, perché lui rifiutava le mie supposte avance. L'idea mi schifava un po', ma come non accettarla, data la grande fiducia che avevo in lui? Mio padre, secondo lui, mi aveva tirato in mezzo a un gioco perverso, seduceva me come seduceva le altre donne, e non voleva che andassi in analisi in quanto, se lui non era riuscito a "portarmi a letto", l'analista era quantomeno riuscito a "portarmi sul lettino". Il suo opporsi all'analisi era un chiaro indice di gelosia. Ero arrivata quasi a delirare, ricordo una volta in cui mi presentai in seduta leggendo una lettera in cui praticamente chiedevo perdono per aver avuto desideri impropri per mio padre; infatti facevo tutti gli sforzi possibili fare mie le interpretazioni dell'analista, per impararle. Le mie lacrime e il mio malessere anche in questo caso vennero interpretate come eccitamento e rabbia. Cominciarono i litigi in famiglia. Con mio padre avevo sempre avuto un buon rapporto, anche se basato soprattutto sulla condivisione dei miei malesseri psicologici, che lui, avendoli vissuti in prima persona, parzialmente capiva (anche lui, come ho detto, aveva avuto problemi psicologici). Mi crebbe un forte risentimento verso quel padre perverso che si opponeva all'analisi per non farmi guarire e tenermi nella sua ragnatela. Cominciai ad avercela pure con mia madre, con la quale, a detta dell'analista, avevo un rapporto fusionale, e che disprezzavo come donna. L'analisi fece emergere il mio alter ego inconscio: io ero nientemeno che una persona che aveva dentro di sé un "dittatore pazzo", pieno di rabbia e risentimento verso il mondo, in quanto "non accettavo di essere finita ma miravo all'infinito", soggiogando tutti al mio potere con i miei attacchi di panico. Ora provo tenerezza quando, ogni volta che avevo un attacco di panico, mi dicevo: "Ecco, questa è rabbia, rabbia per non essere al centro del mondo; ecco, vedi come voglio fare tutte queste messe in scena e chiamare qualcuno, non per chiedere aiuto, ma per eccitarmi, masturbandomi con l'attacco davanti a tutti!". L'immagine mia in analisi era quella di una "matta", ma non completamente matta, in quanto a detta dell'analista "in piazza del Duomo a fare la scenata masturbatoria ci andavo con le mutandine, non nuda". Secondo il mio analista io provavo rabbia anche nei suoi confronti in quanto non poteva prendermi "tutta" (implicando che non poteva soddisfarmi sessualmente). Più di una volta, come battuta, mi chiese se volessi andare con lui "nel lettone". Una delle scene più raccapriccianti fu quando mimò la mia masturbazione compulsiva, muovendosi come un ossesso sulla poltrona (da bambina avevo questo problema, ad esempio mi sfregavo contro materassi, o perfino sul pavimento, per provocarmi piacere). Rimasi pietrificata (nella terapia successiva, cui accennerò dopo, ascoltai con interesse l'ipotesi del mio nuovo terapeuta secondo il quale la mia masturbazione compulsiva da bambina poteva non avere a che fare con la sessualità, ma essere una ricerca di sensazioni fisiche forti come tentativo di gestire, tamponare un mio malessere interiore, una mia solitudine emotiva…). Alle mie richieste di rassicurazioni circa la prognosi del disturbo, il mio analista mi diceva che si augurava fossi una di quelle isteriche che si "stufano" di fare le isteriche, piuttosto che una di quelle isteriche che vanno avanti per tutta la vita. A detta sua, io però non riuscivo a non soccombere all'istinto eccitatorio e pertanto buttavo "nel cesso" tutto il lavoro fatto in terapia. Il mio non riuscirci era anche dovuto al fatto che mio padre rincarasse la dose eccitatoria dandomi attenzioni e aiuto mentre avevo gli attacchi di panico. Durante gli ultimi due anni di analisi cominciai a stare molto peggio, a leggere libri di psicologia e a esprimere i miei dubbi. Gradualmente, a parere dell'analista, mi stavo ribellando alla guarigione, cioè "avevamo fatto solamente i preliminari", stavamo arrivando "al sodo" e io, isterica indomabile, non volevo "mollare il mio osso" eccitatorio. Non capivo più niente, ero convinta che il mio desiderio di interrompere non fosse un dubbio legittimo sull'efficacia delle interpretazioni che ricevevo, ma l'ennesima riprova di quanto ero ostinata nella mia malattia. Eppure, non riuscivo a capire che interesse potevo avere io a non voler guarire, a non voler interrompere le mie sofferenze. Furono due anni terribili, in cui avevo attacchi fortissimi anche durante le sedute e ogni volta che dovevo uscire per andare da lui. L'analista cominciò a urlarmi addosso in seduta, arrabbiandosi e dicendo che volevo tradirlo e andare a eccitarmi con qualcun altro. A detta sua volevo cercare di "mangiargli la mente", ma lui era "troppo furbo per cascarci", e per questo, non riuscendo nel mio intento di soggiogarlo, lo rispettavo e apprezzavo la terapia con lui. Senza interrompere l'analisi, avevo cercato un altro terapeuta per avere consigli, ma non importava se avessi cambiato dottore, se avessi trovato qualcuno che "ce l'avesse più grande di lui" perché, a detta sua, io pensavo che lui ce l'avesse "piccolissimo". Avrei fatto così con tutti i dottori. Avrei tentato di soggiogarli perché non volevo guarire, diceva che questa cosa la trovavo eccitantissima. Incominciai a vedere un altro terapeuta, pur continuando l'analisi con lui seppur con meno frequenza, e un giorno gli dissi che le interpretazioni dell'altro terapeuta erano un po' diverse dalle sue, infatti il mio nuovo terapeuta pensava che non fosse vero che io volessi attirare l'attenzione degli altri perché ero egocentrica, bensì forse perché stavo male, per cui comprensibilmente chiedevo aiuto agli altri, a volte chiedendo consigli anche a più terapeuti contemporaneamente; inoltre il mio nuovo terapeuta, anche lui di orientamento psicoanalitico, aveva avanzato l'ipotesi che un problema centrale che io potevo avere era l'angoscia di separazione (infatti mi lego molto alle persone, così come mi ero legata molto al mio psicoanalista), e che gli attacchi di panico fossero collegati a questa problematica. Mi sentii molto capita da questa formulazione, e ne parlai col mio analista quando mi incontrai con lui, che continuavo a vedere saltuariamente (come ho detto, ho sempre fatto molta fatica a staccarmi dalle persone). Lui mi rimproverò, perché non voleva che "gli rovinassi la reputazione" col mio nuovo terapeuta, inoltre esclamò: "Guarda che io non sono bigamo, devi scegliere: o me o lui!". Invece il mio nuovo terapeuta non aveva niente in contrario che io vedessi altri, anzi, diceva che poteva essere un arricchimento, non solo per me ma anche per lui stesso, e non aveva alcun timore che io parlassi di lui col mio precedente analista o anche con altri… In ogni caso, ne avremmo parlato in seduta e insieme ci avremmo riflettuto su. Riguardo al mio chiedere aiuto a diversi terapeuti, un'altra cosa che mi viene in mente è che il mio analista una volta mi disse "Noi analisti ci svendiamo per avere una paziente come lei", ma non riuscii a capire bene cosa intendesse dire, cioè se io per qualche motivo ero una paziente speciale per i terapeuti oppure se lui pensava che io mi ritenessi speciale. Una volta mi disse anche che quando sarebbe finita l'analisi avrei dovuto scrivere un libro sulla mia isteria e ricordarmi di ringraziarlo (questa cosa ora suona ironica, perché di fatto sto scrivendo su di lui, ma non per ringraziarlo o ricordarlo positivamente, tutt'altro). Continuavo a sentire psichiatri e terapeuti di ogni indirizzo. Spesso pensavo a un ricovero. Alcuni psichiatri mi massacrarono di farmaci che mi davano tantissimi effetti collaterali. Nessun farmaco funzionava. Ricordo che da ragazzina mio padre chiese aiuto a un famoso professore di Pisa, il quale mi inviò da alcuni suoi collaboratori che mi seguirono per un paio d'anni, ma senza successo. Il professore di Pisa allora decise di prendermi in carico lui direttamente. Mi prescrisse una quantità innumerabile di pillole, e così, con in mano gli schemi di posologia che mi aveva dato, tornai, nella mia cameretta, nella mia città, fiduciosa che questa volta la nuova combinazione avrebbe funzionato. Erano tredici pillole al giorno. L'effetto terapeutico fu uguale a zero, se non per uno stato di sonno perenne che mi affliggeva, anche a scuola. Non resistevo in classe sveglia e mi addormentavo pedissequamente vicino al calorifero di fianco al banco - dove la professoressa di greco scherzava di voler affiggere una targhetta con su scritto: "Qui dormì XY" [il mio nome e cognome]. E, nel frattempo, i così definiti "attacchi di panico" continuavano imperterriti, e mi portavano a correre nelle rassicuranti braccia di mio padre, l'unico che poteva comprendere la mia straziante sofferenza. Il colmo si ebbe quando, dopo forse un anno di cambiamenti di pillole, tornavo continuamente nello studio del professore di Pisa lamentando di non migliorare in alcun modo. E davanti a questa sconfitta, il professore, esaurite le combinazioni possibili di pillole, propose l'elettroshock. Di fronte a questa prospettiva io protestai con tutte le mie forze di ragazzina e non volli più vederlo. Esattamente non ricordo quali siano state le conseguenze della mia pestata di piedi, ricordo solo che avevo visto parlare, in una trasmissione televisiva, il "massimo esperto di disturbi di panico e ansia". Allora, carica di ulteriori aspettative, mi presentai presso il suo studio. Lui mi scalò i farmaci, prescrivendone di nuovi, e mi consigliò una terapia cognitivo-comportamentale, che seguii. Però anche i nuovi farmaci, che presi per alcuni anni, si rivelarono fallimentari, e anche la terapia cognitivo-comportamentale non mi servì. Chiudo questa parentesi di quando ero ragazzina e torno ai tempi recenti della mia storia con i farmaci. Alcuni mesi fa un ennesimo psichiatra mi prescrisse un mese di ricovero in una Clinica privata per essere studiata a fondo e curata con una "terapia completa" a base di farmaci, prima però come preparazione mi aveva prescritto un cocktail di psicofarmaci, che ho assunto. In pochi giorni sono diventata uno zombie e il mio malessere era aumentato fortemente. Lo dissi allo psichiatra, il quale mi diede una risposta che mi lasciò sconcertata: "Non c'è problema. Facciamo allora un wash-out e riproviamo con altri farmaci". Cioè, da quello che ho capito, mi avrebbe tolto tutti i farmaci e poi dato un altro cocktail sempre di antidepressivi, ansiolitici, nuovi neurolettici e stabilizzatori dell'umore (suppongo molecole diverse ma sempre delle stesse classi farmacologiche), pensando che avrebbero risolto il mio problema. Decisi allora di non rivolgermi più a quello psichiatra. Non riuscivo neanche a capire a cosa sarebbe servito un mese di ricovero: i farmaci potevo prenderli pure a casa, e poi, anche se avessi tratto conforto dall'essere assistita e protetta in una Clinica, una volta dimessa mi sarei trovata sempre di fronte ai miei problemi. Per fortuna in quel periodo vedevo anche il mio nuovo terapeuta, da cui mi sentivo capita. Avevo cominciato una nuova relazione con un ragazzo che conoscevo da dieci anni e di cui ero sempre stata perdutamente innamorata, ed ero terrorizzata che potesse lasciarmi a causa dei miei disagi psicologici, soprattutto gli attacchi di panico, che erano dei veri handicap. I primi mesi abbiamo avuto una relazione a distanza, vivendo in due città diverse, e non avevo problemi ad andarlo a trovare prendendo il treno (se non in un paio di occasioni). Una volta siamo stati per alcune settimane insieme in una casa al mare, dove ancora sono stata molto bene. Quando ci siamo separati, al rientro di questa permanenza al mare, ho avuto il crollo più grande che ho mai avuto in vita mia. Lui poi ha deciso di venire a vivere nella mia città dove aveva iniziato una sua attività lavorativa, e per alcuni mesi abitò a casa mia, ma viaggiava spesso per lavoro. Quando partiva stavo malissimo, e tornavo a casa dai miei genitori. Il mio analista sosteneva che io facessi apposta a stare male per trascinare anche il mio compagno giù nella mia trappola, che il mio malessere era dovuto a fatto che desideravo "soggiogare il mio compagno al mio potere" e che impazzivo in quanto lui "non ci stava". Ricordo di avergli raccontato che, durante un devastante attacco di panico in strada, avevo chiamato il mio compagno per farmi rassicurare. A detta dell'analista io avevo inscenato l'attacco per rompergli le scatole. Quando ad esempio confidavo al mio analista di provare ansia, tristezza o angoscia, spesso rideva, dicendo che io non avevo idea di cosa significasse essere tristi, il mio era solo eccitamento. Lo stare bene, a detta sua, era una scelta che non ero abbastanza motivata a compiere. Se stavo male era perché "non volevo guarire", perché evidentemente non potevo fare a meno di questo eccitamento (che però per me era solo sofferenza, non riuscivo assolutamente a capire dove era il mio piacere). L'attacco di panico, come ho detto prima, per lui era la mia "cocaina", il mio stare male era un "teatro" e un tentativo di sabotare, oltre che la mia vita, quella degli altri. Ad esempio, la mia difficoltà a partire con il mio compagno per le vacanze estive era, secondo lui, dovuta al pensiero che egli fosse uno "stronzo" che voleva portarmi in vacanza mentre io non volevo, per cui mettevo in atto un tentativo di ribellione e cercavo di sabotare il viaggio (io però, almeno a livello conscio, non avevo mai pensato che il mio ragazzo fosse uno "stronzo", anzi lo stimavo molto, lo amavo, e desideravo tanto andare in vacanza con lui). Sosteneva inoltre che io pensassi che pure lui analista fosse uno "stronzo", perché provava a guarirmi e distogliermi dal mio "giochino dell'eccitamento"; in altre parole, secondo lui io preferivo masturbarmi (figurativamente) piuttosto che provare piacere con l'altro, cioè volevo il mio piacere a scapito dell'altro. A parere del mio analista, la mia difficoltà a intraprendere i viaggi estivi con i miei genitori o altri viaggi con il mio ragazzo era dovuta al fatto che ritenevo tutti "degli stronzi", a cui dovevo rovinare le vacanze. Stessa cosa nei suoi confronti, lo ritenevo uno "stronzo" perché mi concedeva solo due sedute a settimana e mi costringeva ad andarci fisicamente prendendo l'autobus o il taxi. Quando mi venivano gli attacchi di panico in presenza del mio ragazzo, secondo lui era perché il mio inconscio pensava: "Che palle avere solo lui di fianco e non altri mille uomini!". Ricordo una volta, durante la seduta, in cui espressi la mia tristezza per il fatto che il mio ragazzo avesse trovato una casa per sé e andasse a trasferirsi lì dopo che era stato per mesi a casa mia, e lui disse che in me non percepiva tristezza, ma vedeva sul mio viso un "ghigno malefico", in quanto la mia unica intenzione era quella di soggiogare il ragazzo al mio potere, e questa volta non c'ero riuscita. L'analista sosteneva pure che io lo rispettassi in quanto era l'unico che assisteva senza problemi alle mie scenate, e non si faceva soggiogare o spaventare dalla mia (inesistente) "rabbia". Se non riuscivo a prendere i mezzi pubblici per la mia forte agorafobia (che, come poi appresi dal mio nuovo terapeuta, poteva essere una conseguenza degli attacchi di panico), era perché non mi "abbassavo" a prenderli, essendo io una principessina viziata. Piuttosto che accontentarmi di essere un membro del "club dei perdenti", volevo sentirmi onnipotente come Dio. Se ero depressa, era perché non potevo accettare il fatto di poter contare solo sul mio analista e non su mille altri dottori. Se avessi continuato a fare la guerra a tutti, a detta sua sarei diventata cronica, e lui di persone come me ne aveva viste tante. "Sì, ti piace!", mi diceva. E io ripetevo: "No, non mi piace!". E lui mi derideva. A detta sua io mi compiacevo che nessuno riuscisse a guarirmi, in quanto erano tutti degli inetti. Se non avessi preso controllo del mio corpo, che preferivo "dare via" a mio papà, non sarei mai guarita. Quando gli chiedevo perché stavo male, mi ripeteva che ero troppo ostinata a non "mollare l'osso", e che gli altri stavano bene perché avevano deciso di essere meno ostinati. Lui poteva solamente aiutarmi a vivere, e non a morire, cosa che a detta sua volevo fare. Mi ripeteva che io avevo sempre vissuto da "morta", senza avere un corpo mio, ma che "la davo via" a mio padre. Potrei andare avanti pagine e pagine a scrivere le assurdità che mi venivano dette, alle quali io credevo ciecamente e che mi ero sforzata di fare mie. Avevo dei grossi sensi di colpa in quanto mi credevo responsabile del mio malessere e mi sentivo una persona cattiva, sabotatrice, che voleva il male mio e degli altri. A un certo punto - grazie a Dio - la situazione degenerò, e fu l'analista stesso a propormi una "cesura", cioè di interrompere l'analisi. Dovevo, a detta sua, cominciare a usare gli strumenti (che però non mi erano chiari) che mi aveva fornito durante la terapia per dimostrargli di voler guarire, e poi, una volta interiorizzati, scegliere se tornare. L'ho pregato a lungo di non abbandonarmi, ma diceva che stavo continuando a "masturbarmi" e che non era cambiato niente. Anche dopo aver cominciato la mia nuova terapia (come ho detto, avevo infatti iniziato un'altra terapia), non riuscivo a staccarmi da lui. Lo supplicai di non interrompere l'analisi, e lui mi propose di vederci una volta al mese, così che lui potesse "reindirizzarmi" nella strada giusta. Al mio nuovo terapeuta spesso riproponevo alcune sue vecchie interpretazioni, di cui ero convinta, e davanti alla sua perplessità continuavo a sostenere, con insistenza, che il mio precedente analista aveva ragione. Continuavo a telefonare e scrivere messaggi al vecchio analista, che diceva che qualsiasi altro professionista bravo mi avrebbe detto le stesse cose e avrebbe smascherato il mio giochino perverso. L'illuminazione definitiva mi arrivò quando, distrutta per essere stata lasciata dal ragazzo di cui ero innamorata, mi presentai per la mia seduta mensile. Mentre piangevo, lui sorrise calmo, e mi disse che finalmente avevo ottenuto quello che tanto desideravo, farmi lasciare. Mi disse che mi trovava benissimo, serena e compiaciuta. Mi zittii, perplessa e sola nel mio dolore. E finalmente capii che quello che mi diceva non corrispondeva a quello che sentivo. Mi resi conto di quanto io mi fossi fatta abbindolare, accecata dall'attaccamento e dalla stima che avevo nei suoi confronti. Cominciai a provare una forte rabbia per avergli creduto. Mi aveva fatto letteralmente delirare, sentire in colpa, e aveva rovinato i miei rapporti con la famiglia mettendomi in testa le sue interpretazioni edipiche. Pensai che forse mio padre, che tanto avevo insultato, aveva ragione. Durante la mia analisi avevo tenuto un "Diario di terapia", che conservo. Ogni tanto lo rileggo, e provo molto dolore nel ricordare quanti sforzi facevo per imparare e fare mie le cose che l'analista mi diceva. Provo non solo molto dolore ma anche tanta tenerezza nel ricordare quanto facevo il possibile per ripetere a macchinetta tutto quello che mi diceva, per "impararlo", anche a costo di alienare la mia identità.
Riflessioni Il testo termina qui. Quali riflessioni possiamo fare? Naturalmente il materiale di cui disponiamo è solamente il racconto della paziente, non conosciamo la versione del terapeuta. Al limite, potrebbe anche essere una storia inventata. Ritengo però che sia del tutto autentica, anche perché la paziente si espone molto, mostrando pure le sue debolezze. In ogni caso, a noi qui non interessa la "verità" di come sono andate le cose, perché possiamo utilizzare questo materiale clinico "come se fosse vero", come occasione per riflettere, e comunque sappiamo bene che casi come questo sono esistiti ed esistono. Una prima osservazione può essere la seguente: l'analista, mentre diceva alla paziente che lei nel suo profondo voleva essere lasciata dal ragazzo, lo credeva veramente oppure era solo un suo modo per provocarla, per metterla di fronte alla conseguenza di certi suoi comportamenti? Si può fare l'ipotesi che le sue fossero solo provocazioni, cioè che lui, con tutte le buone intenzioni, volesse scuoterla, farle prendere coscienza di cosa sarebbe successo se non avesse smesso di avere le sue crisi e i suoi attacchi di panico. A parte il fatto che questo era scontato, cioè la paziente sapeva già che le sue crisi potevano allontanare il ragazzo per cui non c'era bisogno di dirglielo, la mia impressione è che l'analista credesse nelle cose che diceva perché, se fossero state solo provocazioni, la paziente, che mi sembra una persona molto intelligente, lo avrebbe capito; non solo, emerge in modo chiaro che la paziente non le viveva come provocazioni, cioè si era convinta di essere una persona che nel profondo era "cattiva", che voleva il male degli altri e suo, che voleva farsi lasciare dal fidanzato e così via (ne sono una chiara testimonianza, ad esempio, quelle parti del racconto in cui ricorda i tanti sforzi che faceva per "imparare", fare sue, le interpretazioni dell'analista). In ogni caso, se l'analista avesse avuto solo l'intenzione di provocarla, non si rendeva conto che la paziente non capiva che si trattava di provocazioni. Di questo possiamo essere certi, ed è un fatto grave perché implica che l'analista, in un certo senso, non conosceva la sua paziente nel senso che non era consapevole di come viveva i suoi interventi. Ma a parte questo, e nell'ipotesi che l'analista pensasse davvero che la paziente fosse una persona nel profondo "cattiva", che desiderava di essere lasciata dal fidanzato, che voleva il male suo e degli altri, etc., perché lo pensava? Quali erano i dati in favore di questa ipotesi? A mio parere non ve ne erano, perché la paziente, ad esempio, diceva apertamente che amava il fidanzato, che non voleva essere lasciata da lui etc., solo che era in conflitto, cioè, come lei stessa ha descritto molto bene, desiderava il rapporto con lui e nel contempo ne era spaventata. I motivi di questo conflitto (che è ben noto alla psicoanalisi, e sul quale vi è una abbondante letteratura) sono stati capiti bene dal secondo terapeuta, che aveva fatto interessanti ipotesi anche legate alla teoria dell'attaccamento. Tra i tantissimi riferimenti, si pensi ai contributi di Gianni Liotti, che ad esempio ha mostrato molto bene come in certi casi di disorganizzazione dell'attaccamento vi è la tendenza a cercare conforto e protezione dalla figura di attaccamento e simultaneamente la tendenza a fuggire da essa (vedi ad esempio Liotti & Farina, 2011). In realtà, si può dire che quell'analista facesse leva su un certo tipo di teorizzazione che è presente in Freud. Si pensi ad esempio alla descrizione del bambino come "perverso polimorfo", cioè dotato di pulsioni che potremmo definire "antisociali", o al concetto (molto maschilista, diremmo oggi) di "invidia del pene", oppure anche alla idea di "istinto di morte", inizialmente proposta da Sabine Spielrein e poi postulata da Freud in una fase avanzata del suo percorso teorico per spiegare determinati fenomeni clinici che non riusciva a comprendere; l'idea dell'istinto di morte, tra l'altro, già quando fu proposta fu vista criticamente dalla maggior parte del movimento psicoanalitico, e oggi lo è ancora di più, anche perché se fosse vera avremmo difficoltà a spiegare come mai la specie umana non si è estinta, ma a parte queste considerazioni si vedano le revisioni della teoria psicoanalitica della motivazione operate ad esempio da Daniel Stern (1985), da Lichtenberg (1989) o da Solms (2021), tra i tanti (vedi anche Liotti, 1996, 2016; Migone & Liotti, 1998; nel campo delle neuroscienze affettive, il punto di riferimento è Panksepp, 1998; Panksepp & Biven, 2012). Ma soprattutto si pensi alla teoria del complesso edipico (molto utilizzata da questo psicoanalista, anzi al centro della sua impostazione teorica), secondo la quale il bambino desidera la madre e quindi vorrebbe danneggiare la coppia genitoriale e così via. Come è noto, anche il complesso edipico da tempo viene visto criticamente: già negli anni 1970 Heinz Kohut, il fondatore della Psicologia del Sé, non credeva che il complesso edipico esistesse ma che, quando comparivano le manifestazioni cliniche che potevano ricordarlo, esse non erano primarie, come riteneva Freud, ma secondarie a una rottura del rapporto empatico con i genitori, di cui il bambino ha molto bisogno per crescere e costruire il suo Sé (per cui ad esempio "sessualizza" il rapporto con il genitore nel disperato tentativo di raggiungerlo, di avere un rapporto con lui - la sessualizzazione o erotizzazione come difesa fu discussa anche da Freud, e, come si vede dal racconto di questa paziente, lei la utilizzava con i suoi partner per rinsaldare il legame con loro, per farsi proteggere etc.). Dopo Kohut (che, non dimentichiamolo, è stata una delle figure più autorevoli nella storia della psicoanalisi [su Kohut, cfr. Migone, 2007]) tante sono state le critiche mosse al complesso edipico, fino ad arrivare ad esempio alla recente analisi critica di Jerry Wakefield (2023) che in modo autorevole e dettagliato mostra come esso fosse stato un errore di Freud. Il resoconto di questa analisi quindi, come dicevo, è interessante dal punto di vista soprattutto sociologico, perché mostra come un analista (e certamente non è il solo) che si è formato in una importante società psicoanalitica non sia al corrente della letteratura scientifica (dal resoconto emerge anche che non fosse al corrente di certi aspetti della teoria dell'attaccamento, e neppure del legame tra attacchi di panico e angoscia di separazione, molto documentata da ricerche empiriche: vi sono alcuni passaggi nel racconto della paziente in cui si vede molto bene che gli attacchi di panico aumentavano in momenti di separazione). Insomma, il racconto di questa analisi, durata ben sette anni e a due volte alla settimana, è inquietante (e colpisce anche il costo delle sedute, 140 euro, che mi sembra un po' alto [a questo proposito rimando ad alcune riflessioni dal titolo "Quanto farci pagare" all'interno di una discussione sul tema del denaro nella psicoterapia: Migone, 2013, pp. 52-57]). Ma quello che colpisce ancora di più è vedere l'enorme sofferenza di questa paziente, il suo forte legame con l'analista di cui si fidava ciecamente e che sperava di utilizzare come "base sicura" (Bowlby, 1988) ma che invece, in modo continuativo, la svalorizzava, la offendeva nella sua identità, la faceva sentire in colpa anche quasi in termini morali dato che le diceva che lei nel profondo voleva far del male a sé e far star male le persone a cui voleva bene. Colpisce a questo proposito il danno nel rapporto con i genitori, diretta conseguenza, come spiega bene Wakefield (2023, pp. 206-207), di una adesione alla teoria del complesso edipico. Cito un passaggio dell'articolo di Wakefield in cui analizza il caso del Piccolo Hans utilizzato da Freud (1908) come una delle sue fonti principali per costruire la teoria del complesso di Edipo e che era stato studiato anche da Bowlby: «Il padre [del Piccolo Hans], Max, impedisce o interrompe costantemente le coccole affettuose tra Hans e la madre. La logica sottesa a questa dannosa interruzione del normale comportamento di attaccamento è ciò che potremmo definire "teoria freudiana della sessualizzazione dell'attaccamento" per come è formulata nella sua teoria edipica. Con questa espressione intendiamo la ben nota interpretazione in chiave libidica dell'istinto del bambino a cercare e mantenere la vicinanza con la madre e a coltivare una fisicità affettiva con lei, e della reazione di rassicurazione della madre quando il bambino è angosciato. In senso stretto, la "sessualizzazione dell'attaccamento" si riferisce all'errata imposizione di una interpretazione sessualizzata a comportamenti di attaccamento non sessuali, come per esempio la ricerca da parte di Hans di coccole materne quando si sente angosciato. Non si riferisce, pertanto, all'effettiva intrusione clinica del desiderio sessuale o dell'eccitamento nei comportamenti di attaccamento, benché talvolta ciò si verifichi. Secondo Bowlby, quegli stessi comportamenti che Freud sessualizza sono comportamenti non sessuali legati al sistema motivazionale dell'"attaccamento", e lo scambiarsi coccole nel letto è una componente naturale della relazione di Hans con la madre, soprattutto se teniamo conto del fatto che in quel periodo Hans era appena stato spostato nella sua cameretta ed è probabile che di notte provasse angoscia ben prima del manifestarsi della fobia dei cavalli. Nel permettere ad Hans di entrare nel suo letto per essere coccolato quando era angosciato, la madre non stava reagendo in modo seduttivo, ma dimostrava quel normale accudimento e adeguato attaccamento che fanno di lei un "rifugio sicuro" e una "base sicura" per il bambino nel senso di Bowlby [1988]. L'iniziale persuasività dell'interpretazione sessuale di Freud del comportamento di attaccamento è agevolata dalla notevole somiglianza tra i desideri sessuali e quelli di attaccamento, un elemento spesso sfruttato da Freud a sostegno di un'interpretazione sessuale. Molti aspetti della relazione di attaccamento madre/bambino sono anche caratteristiche del legame sessuale, come il desiderio dell'oggetto, la ricerca della vicinanza all'oggetto, la paura di perdere il contatto con l'oggetto, il piacere derivante dal contatto con la pelle e delle coccole e, in generale, il toccare, vedere e stringere a sé l'oggetto. Si tratta di mete comuni a entrambi i sistemi motivazionali. Ecco perché Bowlby [1973, pp. 361-362] può illustrare le differenze tra la propria teoria e quella freudiana ponendo fianco a fianco alcuni comportamenti legati all'attaccamento e le interpretazioni sessuali di quegli stessi comportamenti avanzate da Freud» (Wakefield, 2023, p. 206, corsivi nell'originale). Personalmente sono rimasto colpito anche dal modo con cui non solo la psicoterapia, ma anche la psichiatria ha maltrattato questa paziente (Migone, 2009), con l'idea ingenua - e anche antiscientifica (cfr. Migone, 2005, 2018) - che alcuni farmaci possano risolvere una situazione clinica così complessa, farmaci che la paziente ha sempre preso diligentemente ma con pochi risultati. Insomma, da questo racconto emerge, a mio parere, quanto questa paziente sia stata coraggiosa, quanto non abbia mai mollato per cercare di migliorare. Ed è una fortuna che, pare, abbia finalmente trovato un terapeuta capace di guardarla in modo diverso, anche rispettandola e dandole fiducia. Da quello che la paziente mi ha comunicato in uno scambio successivo di email, un paio di mesi dopo che il ragazzo l'aveva lasciata è tornato da lei dicendole che in questo periodo di separazione aveva capito che la amava e che voleva seriamente impegnarsi con lei. La paziente ha quindi attraversato un periodo di relativo benessere, senza crisi depressive o attacchi di panico (sono comparsi solo in rari casi). Hanno fatto insieme una vacanza di venti giorni in Irlanda che è andata abbastanza bene. Non solo, lei e il fidanzato hanno preso una casa insieme, sono andati a convivere e hanno il progetto di sposarsi e avere dei figli, tutto questo senza grosse ambivalenze, anzi con gioia. In una email si è maggiormente aperta e mi ha detto che, se prima non riusciva quasi mai a raggiungere l'orgasmo, ora lo raggiunge ogni volta, e per di più, mentre in passato non riusciva a guardare negli occhi il suo ragazzo mentre faceva l'amore, ora lo guarda negli occhi anche durante l’orgasmo, provando un piacere che non aveva provato ma provato prima. Mi ha anche detto che per la prima volta dopo tanto tempo riesce ad andare in bicicletta da sola, anche per lunghi tratti, e a prendere i mezzi pubblici, vincendo l’agorafobia che le impediva di prenderli. Insomma, sembra che vi sia un netto miglioramento. Certamente occorre più tempo per essere sicuri che il miglioramento si sia consolidato, però è un grande risultato, e potremmo fare l'ipotesi che questo miglioramento sia dovuto al fatto che il ragazzo è tornato da lei, dandole una maggiore stabilità emotiva, una "base sicura". Però si può fare anche un'altra ipotesi, e cioè che il miglioramento sia dovuto al diverso modo di lavorare del nuovo terapeuta; infatti la paziente in passato non era riuscita a reggere precedenti rapporti affettivi, e per di più questo rapporto è il più importante che ha avuto in vita sua (quindi avrebbe potuto attivare forti conflitti legati alla dipendenza e portarla a romperlo come aveva fatto nei precedenti rapporti). Per ora è solo un'ipotesi, sarebbe bello che fosse vera perché potrebbe dimostrare che una psicoterapia, condotta in un modo corretto, può essere efficace. E' solo con un adeguato follow-up che si può capire meglio la psicodinamica di questo miglioramento, e occorre vedere la sua stabilità. Ho chiesto alla paziente se era disposta a mandarmi delle email ogni qualche mese per tenermi al corrente della sua situazione, e lei ha detto che lo avrebbe fatto molto volentieri. Voglio davvero complimentarmi con questa paziente, e ringraziarla ancora per aver permesso che questa sua storia, così toccante, possa essere letta anche da altri.
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