Il Ruolo Terapeutico, 1988, 49: 58-59
Paolo Migone
Vorrei fare alcune considerazioni sullo scritto di Giuseppe Parisi "Fusi o confusi?", apparso nella rubrica de Il Ruolo Terapeutico "Uno scritto in controluce" (1987, 45: 21-27), e sul dibattito che ne è seguito nel numero seguente (1987/88, 46/47: 70-74). Fui io a consigliare all'amico Pino Parisi, quando mi interpellò per chiedermi se e dove secondo me il suo articolo poteva essere pubblicato, di provare a mandarlo a Il Ruolo Terapeutico, rivista sempre stata coraggiosa a trattare temi così importanti e a volte anticonformisti. Questo tema, una psicoterapia praticata da un medico di base, era interessante, e risollevava il problema della definizione della psicoterapia e del rapporto tra psicoterapia e medicina, tra mente e corpo, tra sistemi concettuali diversi, ecc. A proposito di questo problema, mi sembra che sia importante separare nettamente i due livelli: una cosa è la critica che si può fare al modo di lavorare del terapeuta (eventuale atteggiamento direttivo o manipolatorio, sufficiente o insufficiente attenzione alle dinamiche transferali, interpretazioni più o meno premature o "preconfezionate", ecc.); l'altro è la correttezza o meno di una psicoterapia fatta da un medico di base. Vorrei intervenire solo sul secondo problema, che è quello che mi interessa di più. Il primo problema infatti mi sembra di secondaria importanza, perché non rappresenta una novità il fatto che un autore si esponga in prima persona mostrando, con il resoconto di un caso clinico, cosa ha fatto con un paziente, anche se è vero, come osserva De Maria (n. 46-47, p. 71), che pochi hanno il coraggio di farlo; bisogna dunque apprezzare Parisi per questo. Il secondo aspetto invece è abbastanza una novità, o almeno è più interessante, in quanto l'autore affronta il problema della "fusione o confusione" dei ruoli medico di base/psicoterapeuta, riportando un esempio concreto di come in un caso egli ha cercato di risolvere questo problema. Tutti sappiamo che la maggioranza dei pazienti che vanno dal medico di base sono spinti, in genere inconsapevolmente, da motivi squisitamente psicologici. Balint diceva che i 2/3 dei pazienti del medico generico non sono casi medici. Tutti i medici di base quindi lavorano, per 2/3 del tempo, come "psicoterapeuti" (distribuendo placebo, dando rassicurazioni, interpretando il disturbo psicologico come somatico, cioè offrendo una razionalizzazione difensiva di tipo medico, e quindi dando comunque un senso all'angoscia, anche se al prezzo di rimuovere ancor di più le vere cause del disturbo, ecc.); in genere il medico di base di tutto ciò non è consapevole, ma questo è un altro problema. Nel caso in questione si trattava di un medico di base consapevole delle dinamiche psicologiche. Infatti Parisi si interessa di psicoterapia e svolge a tempo parziale, in un altro studio, l'attività di psicoterapeuta. Egli, vedendo nel suo lavoro di medico di base una paziente "psicologica" (che cioè rientrava nei 2/3 della sua pratica medica), decise di trattarla con mezzi dichiaratamente "psicologici", proponendole una "psicoterapia breve" (anziché ad esempio un placebo o un consiglio, come fanno tutti i medici, e come probabilmente fa l'autore stesso nella maggioranza dei casi). In altre parole, egli decise di dedicare maggior tempo a questa paziente, parlandole di più, e in una serie di incontri strutturati, proprio come si fa in una psicoterapia. Decise insomma di fare una "psicoterapia lunga" a questa paziente, e non, come fa di solito con i 2/3 dei pazienti che vede nel suo ambulatorio medico, una "psicoterapia brevissima". A questo punto una delle domande più interessanti (per discutere solo un secondo il primo problema di cui parlavo prima, cioè il problema della tecnica) è perché il terapeuta ha scelto questa paziente ("molto carina") tra le tante, o tra i tanti, per fare questa "terapia lunga". Che tipo di seduzione reciproca è avvenuta tra i due? E' il terapeuta del tutto consapevole delle vere motivazioni di questa scelta? Non intendo approfondire questa domanda, perché, rientrando appunto nel primo problema di cui parlavo prima, è qui irrilevante. Dirò solo che queste problematiche sono il pane quotidiano di tutti gli psicoterapeuti, e che le seduzioni, consce o inconsce, e da parte di entrambi i partners del rapporto analitico, ci sono sempre state nella pratica psicoanalitica, da Freud in poi. Sappiamo che non c'è niente di male ad avere dei sentimenti per i nostri pazienti, l'importante è analizzarli (a rischio di ripetere cose scontate, si ricordi che l'importanza del recupero in positivo del controtransfert è stata affermata nella letteratura psicoanalitica ufficiale già dagli anni '50). Ma torniamo al secondo problema. Che male ha fatto Parisi a dedicare più tempo a questa paziente, dicendole che i suoi sintomi potevano essere psicosomatici e che per curarli meglio occorreva più tempo, cioè una "psicoterapia"? Terapia brevissima, breve, o lunga, poco importa, quello che importa è quello che percepisce la paziente da questo messaggio del terapeuta. Vi è una felice fusione dei ruoli, dove il suo medico è anche il suo "terapeuta" in senso pieno, oppure una confusione? E in che modo questa "confusione" è diversa da quella quotidiana dello psichiatra che dà psicofarmaci e psicoterapia insieme, o da quella del paziente in psicoterapia che vede sul tavolo del suo medico neuropsichiatra il martelletto e l'oftalmoscopio? Inoltre, quei terapeuti che tengono una libreria nello studio, non dovrebbero forse fare attenzione a togliere tutti i libri di psicofarmacologia, o dove si parla di malattie organiche, perché ciò creerebbe "confusione" al nostro immacolato paziente in psicoterapia? Ma allora, per non dare confusione al paziente, bisognerebbe forse proibire per legge ai medici di fare la psicoterapia, e lasciarla fare solo agli psicologi. E vi è anche chi la pensa così. Ma come inquadriamo gli assistenti sociali (che in molti paesi, come gli Stati Uniti, seguono un training e praticano la psicoterapia), i laureati in altre discipline, ecc. (non mi dilungo su questi problemi, che ho già discusso abbondantemente altrove; per brevità rimando, oltre alle mie precedenti rubriche su Il Ruolo Terapeutico e al mio intervento sul n. 42/1986, pp. 39-40; vedi anche Psicologia Italiana, 1/1984, pp. 6-15, e Psicoterapia e Scienze Umane, 2/1985, pp. 97-101). Come giustamente dice Parisi (a p. 71 del n. 46-47), questa cosiddetta confusione fa parte del nostro lavoro quotidiano, e nemmeno l'essere psicoterapeuti ce la toglie. In un certo senso, la psicoterapia consiste proprio nel lavorare su questa e altre confusioni, nel paziente come dentro di noi. La confusione non si elimina con un'operazione nominalistica, cioè dicendo che siamo psicoterapeuti e non medici di base. E' vero, i medici di base non hanno una formazione psicoterapeutica, e se il messaggio che traspare dall'articolo di Parisi è che essi dovrebbero tranquillamente fare psicoterapie ai loro pazienti, allora sono d'accordo con la redazione (n. 46-47, p. 70) sul fatto che questa esperienza non può essere proposta ai medici di base. In questo senso è vero che l'articolo di Parisi può sembrare ambiguo, perché, non offrendo una soluzione alla mancanza di formazione psicologica del medico di base, presenta l'esempio di un'esperienza pilota che non è per ora generalizzabile. Ma chissà, forse in futuro i medici specializzati in medicina di base, cioè gli "specializzati nella non specializzazione" (la family medicine, specializzazione esistente in alcuni paesi anglosassoni, la cui importanza è sempre più sentita in quei paesi dove appunto si soffrono le conseguenze di una eccessiva specializzazione), impareranno nel loro training di specialità ad utilizzare certe tecniche psicologiche di intervento breve. Di fatto in Italia i medici di base non fanno psicoterapie formalizzate, per mancanza sia di tempo che di interesse, e quei pochi che le fanno (come ad esempio nel caso di Parisi) ne sono motivati e si sono procurati un training specifico. Nel momento in cui un medico di base si mette a fare delle psicoterapie esplicite, diventa automaticamente uno psicoterapeuta, e anche per lui si pone quindi il problema del metodo da seguire, del training per migliorare la sua tecnica, ecc. Per concludere, quello che ho voluto fare in questo mio contributo è sottolineare maggiormente i rischi che si nascondono dietro alle posizioni che tendono a una separazione netta dei ruoli: neanche questa rassicurante separazione tra i ruoli insomma costituisce una risposta definitiva alla questione dell'identità dello psicoterapeuta. In questo senso, ragionando a posteriori, forse sarebbe stato meglio intitolare l'articolo di Parisi non "Fusi o confusi?", ma "Terapeuta bravo o non bravo?", eliminando la problematica della fusione o confusione dei ruoli, e togliendo ogni ambiguità alla coraggiosa decisione di sottoporre un proprio caso clinico alla giudizio dei lettori (la quale intenzione peraltro era presente nell'autore, dato che ha anche esposto i dettagli clinici). Ma in effetti la sua intenzione era anche quella di sollevare questa delicata problematica della fusione dei ruoli, e pare ci sia riuscito bene. In altre parole, lo sforzo che dovremmo fare è quello di definire e discutere il meccanismo della psicoterapia, andando al di là delle classiche definizioni tautologiche: la psicoterapia è quella praticata da colui che si definisce psicoterapeuta, e la medicina di base è quella praticata da colui che si definisce medico di base.
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