Il Ruolo Terapeutico, 1989, 50: 69-75
Paolo Migone
Ci si può chiedere che senso può avere tornare oggi a discutere nuovamente del problema del rapporto tra psicoanalisi e scienza, considerato che esso è stato già affrontato abbondantemente da vari filosofi della scienza nel corso di questo secolo. Ma il fatto è che nel 1984 in America è uscito un libro che ha seriamente contraddetto una serie di affermazioni che erano state fatte in precedenza, e che si è subito imposto all'attenzione di tutti gli studiosi anche per l'autorevolezza dell'autore: il libro è I fondamenti della psicoanalisi (ora tradotto in italiano da Il Saggiatore, 1988), e l'autore è Adolf Grünbaum, un famoso filosofo della scienza già molto conosciuto in passato per alcuni studi sulla filosofia dello spazio e del tempo [Philosophical Problems of Space and Time. Dordrecht & Boston: D. Reidel, 1963; 2a edizione, 1974], che si è dedicato poi alla critica filosofica della psicoanalisi, producendo una decina di articoli culminati in questo libro. Il contributo di Grünbaum è talmente importante, e la sua conoscenza della letteratura psicoanalitica è così impressionante, che ormai le sue tesi vengono discusse ad ogni convegno e in molte riviste specializzate. Quello che intendo fare qui, per inquadrare e capire meglio le posizioni di Grünbaum, è ripercorrere brevemente la storia delle idee nel campo del rapporto tra psicoanalisi e filosofia della scienza, riassumendo sinteticamente il rapporto che hanno avuto con la psicoanalisi quattro posizioni filosofiche che si sono succedute cronologicamente in quest'ultimo secolo e che sono quelle con le quali ci si deve maggiormente confrontare nel campo della critica alla psicoanalisi da parte della filosofia della scienza contemporanea. Esse sono le seguenti: il neopositivismo, espresso da Circolo di Vienna; la posizione di Popper; l'ermeneutica; e infine il recente contributo di Grünbaum. Quello che cercherò di vedere sarà che cosa ogni singolo autore o corrente di pensiero ha inteso con l'accezione di "scienza" e qual è la posizione nei confronti della psicoanalisi. Anche in questo campo, come in altri, è essenziale una precisa definizione dei concetti che si prendono in esame, e un riferimento altrettanto preciso alle teorizzazioni degli autori che si sono occupati in passato dei medesimi problemi, per comprendere il significato delle prese di posizione più recenti nel contesto dello sviluppo delle idee in filosofia della scienza. Nel fare questo lavoro mi sono servito anche delle discussioni critiche già fatte da Ermanno Bencivenga in una serie di lezioni che ha tenuto nell'aprile-maggio 1988 all'Università di Ferrara, e da Fiorella Giusberti e Andrea Melella nel loro lavoro "Un'introduzione al rapporto tra psicoanalisi e metodo scientifico" [Psicoterapia e Scienze Umane, 1988, 4: 59-72]. Il neopositivismo Il neopositivismo (neoempirismo, empirismo logico, o positivismo logico, sono tutti sinonimi) originò negli anni '20 dal mitico Circolo di Vienna (chiamato anche "Associazione E. Mach") i cui principali esponenti come è noto furono Carnap, Neurath, Hahn, Feigl, Schlick, ecc. Il neopositivismo fu uno dei più importanti indirizzi di pensiero della prima metà del '900, e, assieme ad altre correnti filosofiche di questo secolo, contribuì più ad un lavoro di chiarificazione concettuale che ad una elaborazione di "visioni del mondo". Il Circolo di Vienna ebbe un programma dichiaratamente antimetafisico, e furono le grandi rivoluzioni scientifiche del '900, soprattutto in matematica e in fisica, alle origini di questa critica dei limiti del pensiero puramente speculativo: secondo la posizione neopositivista, gli enunciati della metafisica tradizionale sono privi di contenuto conoscitivo, ovvero sono pseudoenunciati, perché mancano di contenuto empirico e quindi non dicono nulla sulla realtà (si pensi alla suddivisione tra asserzioni "analitiche", prive di contenuto empirico e basate solo su certe proprietà linguistiche, e asserzioni "sintetiche", il cui valore di verità dipende invece anche dalla verifica empirica). Per quanto riguarda la concezione della scienza, per i neopositivisti un enunciato, per avere valore conoscitivo, cioè per essere scientifico, deve essere empiricamente verificabile. Viene quindi introdotto, in modo molto chiaro, il concetto della verificabilità dei dati empirici come criterio che decide della legittimità scientifica di una affermazione. Per quanto riguarda il giudizio che il movimento neopositivista dà sulla psicoanalisi, si possono vedere gli atti del Convegno organizzato da Sidney Hook nel 1958 alla New York University [Psicoanalisi e metodo scientifico, 1959. Torino: Einaudi, 1967], dedicato a questo tema. Il giudizio sulla psicoanalisi come teoria scientifica che emerge da questo convegno, la cui matrice filosofica è appunto il neopositivismo, è essenzialmente negativo. A poco valsero le argomentazioni difensive degli autorevoli psicoanalisti presenti (tra cui Hartmann e Arlow), i quali, richiamandosi al principio del determinismo psichico, affermarono che è possibile applicare alla vita psichica gli stessi criteri di causalità e correlazione propri delle scienze naturali, e che la teoria psicoanalitica, proprio come le altre teorie, è un sistema aperto e possiede una gerarchia di ipotesi. Gli epistemologi presenti, Nagel ad esempio, decretarono che la psicoanalisi non può essere una disciplina scientifica sostanzialmente per due motivi: innanzitutto, per la struttura logica e il contenuto empirico della teoria psicoanalitica, non è possibile correlare concetti teorici con materiali osservabili e chiaramente specificati; in secondo luogo, per la natura delle prove che vengono utilizzate per convalidare la teoria, cioè i dati clinici, diventa problematica la verifica delle interpretazioni - dato che è possibile fornire sullo stesso materiale diverse interpretazioni, non è facile trovare un criterio oggettivo, accettabile da osservatori indipendenti, che stabilisca la correttezza di una interpretazione tra le varie possibili. Popper Se dunque per i neopositivisti la scienza viene definita dalla verificabilità empirica delle sue asserzioni, vediamo che per Popper [Congetture e confutazioni, 1957. Bologna: Il Mulino, 1972; Logica della scoperta scientifica, 1959. Torino: Einaudi, 1980] le cose sono già diverse. Popper, che nasce col Circolo di Vienna, ma poi ne diventa critico puntuale, si distacca dal concetto di verificabilità empirica, ossia non ritiene più fondamentale, per un enunciato che voglia essere scientifico, il suo agganciarsi ai dati empirici. Il criterio di Popper rimane all'interno della teoria, non ha bisogno di verifiche esterne, e precisamente richiede che una teoria, per definirsi scientifica, possa essere potenzialmente "falsificabile". Cosa significa questo? Detto in altri termini, significa che gli enunciati di una teoria scientifica devono essere precisi, discreti, limitati, in modo tale che essi possano essere falsificabili, cioè contraddetti, e non vaghi o generici in modo tale per cui essi spiegano tante cose ma non possono essere contraddetti appunto per la loro genericità. La vaghezza di questi enunciati permette loro di spiegare tutto e nulla, mentre un enunciato scientifico paradossalmente quanto più vieta, tanto più dice, permette cioè di spiegare tante più cose quante più ne esclude, quanto più è preciso, cioè quanto più permette di essere falsificabile (ciò non vuol dire che esso sia poi di fatto falsificato; se ciò accade, allora l'enunciato diventa falso; se invece rimane falsificabile, è un enunciato scientifico vero, ovviamente fino a quando qualcuno non riesca a falsificarlo). Popper racconta che quando stava iniziando a occuparsi della scientificità delle teorie, già dall'autunno del 1919, era colpito dal fascino che allora molti suoi amici avevano per certe teorie (ad esempio quelle di Marx, di Freud, di Adler), le quali erano capaci di spiegare praticamente ogni cosa che ricadesse nei rispettivi campi. Vi era insomma un continuo flusso di conferme, di verifiche, e fu lì che incominciò a pensare che quello che mancava in alcune di esse era la possibilità di falsificare i propri enunciati. A proposito della scientificità della psicoanalisi, anche per Popper il verdetto è negativo, e la sua posizione è molto chiara: essa non è una scienza, ma una pseudoscienza, poiché gli enunciati della sua metapsicologia sono talmente generici ed elastici che permettono di spiegare qualsiasi attività umana, essi cioè non sono falsificabili. A questo proposito Popper spesso cita l'esempio dell'uomo che butta un bambino nell'acqua con l'intenzione di affogarlo, e di quello che invece sacrifica la propria vita nel tentativo di salvarlo: usando i concetti psicoanalitici di rimozione e sublimazione secondo Popper possiamo spiegare entrambi i comportamenti e non possiamo fare previsioni su nessuno di essi. L'ermeneutica In sintesi, questi erano i problemi sul tappeto nel dibattito epistemologico degli anni '50-'60 attorno alla filosofia della scienza e al problema della scientificità della psicoanalisi, limitatamente alle due importanti posizioni che fanno capo rispettivamente ai neopositivisti e a Popper. La situazione era molto difficile per la psicoanalisi, proprio in un momento in cui essa in alcuni paesi era al massimo della sua espansione, come immagine sociale e come istituzione di professionisti, e nel pieno della sua ricerca teorica complessiva (si pensi che nel '59 appare l'importante lavoro di Rapaport Struttura della teoria psicoanalitica [Torino: Boringhieri, 1969], che era un tentativo di sistematizzazione dei punti di vista della teoria). Che tipo di risposte sono giunte da parte psicoanalitica per quanto riguarda il confronto con la scienza? Essendo praticamente fallito il dialogo con i neopositivisti che Hartmann e Arlow avevano cercato di instaurare al Convegno di New York, si delineò in seno al movimento psicoanalitico un altro tipo di risposta al problema della scientificità della psicoanalisi, una risposta che si configurò poi come una linea di pensiero della psicoanalisi contemporanea che fa riferimento alla cosiddetta ermeneutica. In effetti, questa strada era una delle più ovvie da intraprendere per uscire dall'impasse che si era creata, ma, come vedremo meglio poi, e come fu giustamente definita da Blight [Must psychoanalysis retreat to hermeneutics? Psychoanalysis and Contemporary Thought, 1981, 4: 147-206], si trattò di una "fuga", di una "ritirata" (retreat), un modo cioè per non rispondere ai problemi sollevati dai filosofi della scienza neopositivisti e da Popper, e in un certo senso paradossalmente un modo implicito di dare ragione ai critici. Perchè questo? Vediamo brevemente in cosa consiste la corrente ermeneutica in psicoanalisi. Negli anni 1960 in Europa, e poco dopo negli Stati Uniti, si delinearono alcune posizioni riconducibili alla posizione ermeneutica. In Europa, soprattutto Habermas [Conoscenza e interesse, 1968. Bari: Laterza, 1983, 3a edizione; Logica delle scienze sociali, 1970. Bologna: Il Mulino] della scuola di Francoforte, e il francese Ricoeur (Dell'interpretazione. Saggio su Freud, 1965. Milano: Il Saggiatore, 1966) delinearono la posizione ermeneutica. In America, innanzitutto i lavori di George Klein [Psychoanalytic Theory: An Exploration of Essentials. New York: Int. Univ. Press, 1976; trad. it.: Teoria psicoanalitica. Milano: Cortina, 1993] e di Gill [Metapsychology is not psychology. In: M. Gill & P. Holzman, editors, Psychology versus Metapsychology. Psychoanalytic Essays in Memory of George S. Klein. New York: Int. Univ. Press, 1976, pp. 71-105; trad. it.: La metapsicologia non è psicologia. In: Fabozzi P. & Ortu F., a cura di, Al di là della metapsicologia. Problemi e soluzioni della psicoanalisi statunitense. Roma: Il Pensiero Scientifico, 1996], tesi a investigare il rapporto tra la teoria metapsicologica e la teoria clinica, a differenziare il ruolo di queste "due teorie", il loro diverso linguaggio, ecc., furono importanti passi in questa direzione (poi anche quelli di Sherwood [The Logic of Explanation in Psychoanalysis. New York: Academic Press, 1969], Schafer [A New Language for Psychoanalysis. New Haven, CT: Yale Univ. Press, 1976], Steele [Psychoanalysis and hermeneutics. Int. Rev. Psychoanal., 1979, 6: 389-411], Spence [Verità narrativa e verità storica, 1982. Firenze: Martinelli], ecc.). Uno dei punti centrali della posizione ermeneutica, sostenuto sia da Habermas che da Ricoeur, è la ripresa della distinzione fatta da Dilthey tra scienze naturali e scienze dello spirito (dette anche scienze umane, sociali o storiche), e la collocazione della psicoanalisi all'interno di queste ultime, anziché all'interno delle scienze naturali. La psicoanalisi infatti, che in modo specifico fa appello alla "autoriflessione", a causa del positivismo avrebbe commesso l'errore di volersi assimilare alle scienze naturali, di voler rientrare nel loro ambito, commettendo un "autofraintendimento scientistico" [Habermas, 1968, cap. 10], mentre invece essa deve riconoscere la propria appartenenza alle scienze umane. La psicoanalisi, come scienza umana, non obbedirebbe ai metodi obiettivi di prova, replicazione, confutazione, ecc., ma, in quanto disciplina ermeneutica, avrebbe come concetto fondamentale quello di significato: "il significato non è il prodotto di una causa, ma la creazione di un soggetto". Si fanno strada dicotomie quali quella tra "causa" di un comportamento (propria delle scienze naturali) e "ragione" di un comportamento (propria delle scienze umane), tra realtà fisica o fattuale e realtà psicologica, tra verità storica e varità narrativa, e così via. Una operazione fatta dagli ermeneuti per "salvare" la psicoanalisi è quella di separare la teoria psicologica dalla pratica terapeutica, difendendo l'una a scapito dell'altra: da una parte si è cercato di sconfessare il valore di "cura" della psicoanalisi dando invece importanza al valore di "conoscenza" che essa permetterebbe (da notare che lo stesso Freud [Introduzione alla psicoanalisi. Lezione 16: Psicoanalisi e psichiatria, 1917. Freud Opere, 8: 407-419. Torino: Boringhieri, 1976] una volta mostrò una certa ambivalenza al riguardo, affermando che anche se la psicoanalisi fosse inefficace come terapia essa "rimarrebbe tuttavia pienamente giustificata quale strumento insostituibile della ricerca scientifica"!), dall'altra [vedi ad esempio George Klein, 1976] si è andati nella direzione di sconfessare la metapsicologia in favore della teoria clinica. La posizione ermeneutica, a livello clinico, è ben nota e verrà qui solo accennata: lo psicoanalista non interpreta al paziente la verità storica del suo passato, che è inconoscibile con lo strumento psicoanalitico, né verifica in modo obiettivo i fatti accaduti nella realtà "extraclinica", ma costruisce insieme al paziente un'altra storia, una "narrativa", o un "romanzo psicoanalitico", a partire dai racconti fatti in analisi, che abbia come criterio di validazione solamente la coerenza e la consistenza interna dei significati (il termine "narrativa", che è entrato nel linguaggio psicoanalitico per connotare la posizione ermeneutica, è in realtà un inglesismo derivato dalla parola narrative, che in italiano sarebbe più appropriato tradurre "narrazione"). Una puntualizzazione che va fatta qui a proposito della posizione ermeneutica è che essa, come si è detto prima, facendo uscire la psicoanalisi dalle scienze naturali, in un certo senso dà ragione alle critiche dei neopositivisti secondo i quali la psicoanalisi non può essere una scienza. In altre parole, l'escamotage di dichiarare la psicoanalisi una scienza umana anziché una scienza naturale non costituisce una risposta alle domande dei neopositivisti, ma è una "ritirata", come giustamente disse Blight [1981]. Questi mise in dubbio anche la legittimità dello spartiacque tra scienze naturali e scienze umane, e affermò che tra le due vi sono molte più somiglianze di quanto non si creda; si pensi soltanto al problema della psicoanalisi come terapia, cioè al problema della efficacia della terapia psicoanalitica (che strumenti scientifici usare per verificare la maggiore efficacia di una narrativa rispetto a un'altra? E così via), problema questo non a caso trascurato degli ermeneuti (vedi anche M. Eagle, La psicoanalisi contemporanea, 1984. Bari: Laterza, 1988, cap. 15). Una strada quindi molto pericolosa per ogni tentativo futuro di ulteriore confronto con le critiche dei filosofi della scienza. La questione infatti era semplicemente se la psicoanalisi poteva o non poteva essere una scienza, ed è ovvio che per scienza si intende scienza naturale. Se la risposta è che la psicoanalisi non può rientrare nelle scienze naturali, ma è pur sempre una "scienza ermeneutica", si usa il termine scienza con un'accezione diversa, perché la caratteristica essenziale dell'ermeneutica è appunto quella di non rispondere ai requisiti propri delle scienze naturali (controllo, predizione, replicabilità, ecc.). Grünbaum E' proprio all'interno di questo interessante dibattito che si inserisce la stimolante critica filosofica di Grünbaum [1984]. Vediamo brevemente i suoi principali argomenti. Innanzitutto egli, in una lunghissima introduzione che da sola ammonta a un terzo dell'intero libro, muove una critica serrata all'ermeneutica. Contraddicendo Habermas a proposito delle sue argomentazioni sul ruolo del "nesso causale" (che in psicoanalisi sarebbe diverso che nelle scienza naturali), Grünbaum sostiene che non è vero che Freud cadde in errore quando attribuì lo statuto di scienza naturale alla teoria clinica della psicoanalisi: secondo la concezione freudiana della eziologia delle nevrosi, ad esempio, la rimozione ha un vero e proprio ruolo causale, di conditio sine qua non, per l'instaurazione e il mantenimento delle nevrosi, proprio come accade nelle leggi delle scienze naturali. Habermas invece aveva parlato della differenza tra "causa" e "ragione" di un comportamento, e sostenuto che in psicoanalisi, come nelle scienze umane, non esiste una "causalità dela natura", ma una "causalità del fato", di sapore hegeliano, in cui le connessioni causali vengono "dissolte", "annullate", o "superate": ad esempio, se annullando la rimozione guarisce una nevrosi, secondo Habermas [1968, pp. 256-257; 1970, pp. 302-304] ciò significherebbe che sarebbe dissolta la connessione causale che legava l'elemento patogeno (rimozione) alla nevrosi. Grünbaum [p. 12] ha buon gioco nel controbattere che è semplicemente errato descrivere l'annullamento di un fattore causale come l'annullamento della relazione causale stessa. Inoltre, criticando un altro punto essenziale di Habermas [1968, pp. 272-273], secondo il quale le interpretazioni psicoanalitiche non possono essere generalizzate, perché sono valide solo se contestualizzate, mentre le leggi scientifiche sarebbero generalizzabili perché libere dalla storicità e dalla contestualità, Grünbaum afferma che, soprattutto alla luce dei progressi della scienza più recente, la contrapposizione tra scienze naturali (o nomotetiche, o astoriche) e scienze umane (o storiche), è una pseudocontrapposizione: entrambe per esempio comportano una dipendenza dal contesto storico, pur formulando leggi basate su esperimenti replicabili (le spiegazioni storiche o contestuali sono molto comuni in fisica, ad esempio nella termodinamica e nell'elettromagnetismo - non si dimentichi che, come si è detto prima, la principale area di interesse di Grünbaum, prima della psicoanalisi, era la filosofia della fisica). In sostanza, dice Grünbaum, Habermas per sostenere a tutti i costi che la psicoanalisi non può far parte delle scienze naturali, fa riferimento a un concetto di scienza ormai superato. Merita di essere segnalata un'altra critica di Grünbaum ad Habermas, ed è quella molto importante che riguarda il problema della legittimità delle verifiche extracliniche. Mentre Habermas sostiene che l'analizzando è l'unico giudice della validità delle interpretazioni, per cui non sarebbero possibili in psicoanalisi valutazioni indipendenti o esterne alla situazione clinica, così come avviene per qualunque scienza naturale, Grünbaum sostiene che è possibile, per esempio con studi epidemiologici, verificare la validità di determinati interventi o interpretazioni. E a questo proposito cita l'esempio di Freud [Comunicazione di un caso di paranoia in contrasto con la teoria psicoanalitica, 1915. Freud Opere, 8: 159-168. Torino: Boringhieri, 1976] mentre concettualizzava il nesso tra omosessualità e paranoia (come è noto, Freud aveva avanzato l'ipotesi che la paranoia derivasse da una omosessualità rimossa): una diminuzione delle sanzioni sociali contro la omosessualità potrebbe portare a una diminuzione di sindromi paranoidi in una determinata società. Non solo, ma riguardo alla affermazione di Habermas secondo cui è il paziente il giudice unico e ultimo della verità di una interpretazione psicoanalitica, per cui non sarebbero possibili verifiche intersoggettive [p. 21], Grünbaum fa le tre critiche seguenti: 1) quando il paziente non è d'accordo su una interpretazione, l'analista in determinati casi può anche ritenerla vera; 2) i pazienti sono altamente suggestionabili, e l'analista, anche se non consapevolmente, dirige il flusso delle loro associazioni e li influenza in vario modo, come innumerevoli ricerche hanno ormai ben documentato; 3) i ricordi dell'infanzia, che sono importanti per la teoria psicoanalitica, non sono attendibili, perché anche qui, come è stato ben dimostrato da molte ricerche, si sa per certo che la memoria gioca brutti scherzi, nel senso che deforma a seconda delle aspettative, che tende a riempire "buchi" cognitivi, ecc. Infine, Grünbaum attacca anche Ricoeur, e qui per brevità riporterò solo una delle critiche mosse contro questo filosofo ermeneuta francese. Ricoeur [1965, p. 275] afferma che "l'esperienza analitica opera nell'ambito del discorso", per cui "tutta la verità della psicoanalisi è riassunta in fondo nella struttura narrativa dei fatti psicoanalitici", e "le produzioni non verbali dell'analizzando sono escluse dal suo ambito". Secondo Grünbaum [pp. 43, 46], Ricoeur si scorda del fatto che le verbalizzazioni del paziente costituiscono solo "il punto di partenza della teoria", e che Freud ha cercato di spiegare anche molti fatti non verbalizzati, ad esempio non solo il racconto dei sogni, ma anche il fatto stesso che si sogni oppure no. Grünbaum non si limita a criticare la posizione ermeneutica, con la critica ad Habermas e a Ricoeur di cui abbiamo visto i punti più salienti, ma nei capitoli 1 e 11 critica anche le argomentazioni di Popper secondo le quali la psicoanalisi non sarebbe una scienza perché i suoi enunciati non sarebbero falsificabili. A questo riguardo Grünbaum riprende l'argomentazione di Freud a proposito del supposto nesso tra omosessualità e paranoia per mostrare chiaramente come certe formulazioni freudiane non erano per niente vuote di contenuto empirico, ma erano perfettamente falsificabili. Ad esempio Freud [1915] stesso in una occasione considerò la possibilità di abbandonare la teoria omosessuale della paranoia quando esaminò una paziente paranoica in cui non aveva trovato alcun segno di omosessualità rimossa, e in un'altra occasione [Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni). Lezione 29: Revisione della teoria del sogno, 1932. Freud Opere, 11: 123-144. Torino: Boringhieri, 1979] di fatto modificò una sua teoria, quella del sogno, per tener conto dei sogni dei pazienti affetti da nevrosi traumatiche. Ma la critica di Grünbaum a Popper non è diretta solo contro la supposta non falsificabilità della psicoanalisi, in quanto attacca anche le argomentazioni popperiane tese a screditare l'induttivismo come critero di demarcazione tra scienza e non-scienza. Popper fu un acerrimo nemico dell'induttivismo, che a parer suo era incapace di screditare la psicoanalisi in quanto riteneva che accettasse la tesi che esistono abbondanti conferme empiriche delle teorie freudiane. E' per questo motivo che, secondo Grünbaum, il vero nemico di Popper non è la psicoanalisi, ma l'induttivismo, e che egli usa la psicoanalisi come "testa di turco" per la critica all'induttivismo, da lui ritenuto troppo permissivo. L'operazione che fa Grünbaum quindi è quella di andare alla radice del problema, attaccando Popper proprio in merito alla sua concezione dell'induttivismo, e dimostrando come questa sia limitata e tendenziosa, e si riduca ad essere semplicemente una caricatura della tradizione induttivista [p. 280]. Si può dire che buona parte del libro di Grünbaum [cap. 2-10] riguardi direttamente o indirettamente il dibattito con Popper sull'induttivismo, e quindi non tanto o non solo il giudizio sulla psicoanalisi come scienza, quanto uno dei problemi di fondo della filosofia della scienza come viene espresso nel dibattito tra due diverse scuole di pensiero. Come è noto, l'induttivismo, cioè la filosofia della scienza associata a Bacone e a Mill, prevede che dall'esame di uno o più casi particolari si possa giungere a una conclusione la cui portata si estende al di là dei casi esaminati. Se per esempio noi scopriamo che una isterica è stata sedotta nell'infanzia, potremmo indurre che la seduzione infantile è la causa dell'isteria, e in questo modo, come dice Popper, arrivare a considerare ogni comportamento come prova delle teorie psicoanalitiche. Ma, osserva Grünbaum, questo ragionamento (detto "induzione per enumarazione", o nel linguaggio di Mill "metodo dell'accordo") rappresenta solo una visione parziale dell'induttivismo, il quale prevede anche una controprova delle ipotesi tramite l'esame di gruppi di controllo (nel linguaggio di Mill "metodo della differenza"). Non ci si deve cioè limitare a trovare casi di isteriche che siano state sedotte nell'infanzia, ma si deve anche verificare che l'isteria è meno frequente nelle donne che non hanno subito una seduzione infantile che in quelle che l'hanno subìta. Ma tralasciamo la parte del lavoro di Grünabum che è critica nei confronti degli ermeneuti e di Popper, e veniamo alla parte, altrettanto interessante, di autonoma valutazione della psicoanalisi. La fondamentale operazione che fa Grünbaum quindi è quella di rimettere con forza e con autorità la psicoanalisi all'interno alle scienze naturali, e di porla di fronte alle sue responsabilità. E' inutile tentare di fuggire - sembra che dica Grünbaum alla psicoanalisi - e cerchiamo veramente di vedere se si tratta di una scienza oppure no. Innanzitutto Grünbaum si può dire appartenente al postneopositivismo in quanto supera la fase di osservazione neopositivista, e dice che non è facile trovare un criterio di demarcazione tra affermazioni scientifiche e non scientifiche: l'importante è che una teoria contribuisca a una conoscenza sistematica e controllata del mondo, suggerisca agli scienziati un possibile sentiero di ricerca. Secondo Grünbaum la psicoanalisi può essere una scienza, a patto che sottoponga le proprie ipotesi a una analisi critica, e a un controllo costante. In questo senso Grünbaum pare non tanto attaccare o distruggere la psicoanalisi, come moli credono, ma porre una sfida seria e salutare alla teoria psicoanalitica, sfida che va colta, essenzialmente attraverso l'arma della ricerca scientifica e controllata. Ma veniamo al punto centrale delle tesi di Grünbaum. Egli sostiene che la psicoanalisi è una scienza nella misura in cui reggono i nessi logici che legano le affermazioni teoriche ai dati clinici, e conclude che vi è un solo argomento centrale in psicoanalisi che deve ancora essere dimostrato e che è l'unica sua difesa epistemologica: è il famoso "Tally Argument", cioè "l'argomento della concordanza". Come Freud stesso affermò in un importante passaggio [Introduzione alla psicoanalisi. Lezione 28: La terapia analitica, 1917. Freud Opere, 8: 597-611. Torino: Boringhieri, 1976], le interpretazioni dell'analista devono contenere qualcosa di vero, che corrisponde (tally) con ciò che vi è di vero nel suo mondo interiore e nella realtà obiettiva. E' evidente qui la contrapposizione con le tesi ermeneutiche, secondo le quali non vi è pretesa di verità nelle storie che paziente e analista si raccontano. Per Freud invece, e per il Tally Argument, le interpretazioni devono corrispondere a ciò che è vero (tally with what is real) e solo in questo caso esse sono mutative. L'unica garanzia di verità della teoria psicoanalitica allora, dice Grünbaum, sono i successi terapeutici della psicoanalisi, che devono essere dimostrati non tanto con ricerche cliniche, quanto con ricerche extracliniche, cioè di tipo epidemiologico o sperimentale. L'indagine clinica infatti, che è quella tradizionalmente fatta dallo psicoanalista nel lavoro col paziente, non sarebbe attendibile in quanto troppo inquinata dalla suggestione e da altre interferenze del terapeuta. Ma questa sintetica esposizione del Tally Argument di Grünbaum richiede una trattazione più dettagliata, poiché è veramente centrale nell'opera di questo filosofo. Si ricorderà che poco prima, a proposito della discussione con Popper pro e contro l'induttivismo, si è detto che secondo Grünbaum una corretta concezione dell'induttivismo implica anche una controprova delle ipotesi cliniche tramite controlli extraclinici, cioè con l'esame di dati che non provengono direttamente dalla situazione del trattamento psicoanalitico. Se non si attua questa verifica extraclinica, la psicoanalisi secondo Grünbaum è incapace di ricevere validazione da quello che Mill aveva chiamato "metodo della differenza", per cui al massimo può validare l'ipotesi più debole che una determinata teoria funziona per i nevrotici, ma non per i normali. E' fondamentale quindi validare le asserzioni psicoanalitiche anche con ricerche sperimentali extracliniche. Ed è proprio a questo proposito che Grünbaum riprende l'importantissima argomentazione di Freud, contenuta nella Lezione 28 della Introduzione alla psicoanalisi, intitolata "La terapia analitica" [1917], che definisce "il passo più ricco da un punto di vista epistemologico di tutti gli scritti [di Freud]" [p. 138]. Qui Freud prende in seria considerazione il rischio che nella terapia analitica si influenzi o si suggestioni il paziente, anche in modo inconsapevole, nella direzione delle teorie che noi vogliamo dimostrare, ma afferma poi che in ultima analisi il paziente guarisce solo se gli sono state date quelle rappresentazioni anticipatorie che concordano con la realtà che è in lui. Ciò che era inesatto nelle supposizioni del medico viene a cadere nel corso dell'analisi, e va quindi ritirato e sostituito con qualcosa di più giusto [Freud, 1917]. E' proprio grazie a questa affermazione di Freud sulla "concordanza" tra le interpretazioni dell'analista e la realtà che è nel paziente, che Grünbaum arriva a formulara una coraggiosa tesi, da lui definita appunto "Argomento della Concordanza" (Tally Argument), la quale è costituita dalla congiunzione di due condizioni causalmente necessarie: 1) solo il metodo psicoanalitico di interpretazione e di trattamento può produrre o trasmettere al paziente un corretto insight nella patogenesi inconscia della sua psiconevrosi; 2) il corretto insight del paziente nella eziologia del suo disturbo e nelle dinamiche inconscie del suo carattere è, a sua volta, causalmente necessario per la cura della sua nevrosi [pp. 139-140]. Grünbaum chiama la congiunzione di queste due affermazioni di Freud "Tesi della Condizione Necessaria" (TCN), e, data la sua importanza, in un lavoro del 1983 l'ha anche chiamata "Proposizione Principale di Freud" (P. Repetti, a cura di, L'anima e il compasso. Saggi su psicoanalisi e metodo scientifico. Roma: Theoria, 1985, pp. 87-138]. La TCN, se si dimostrasse vera, darebbe alla psicoanalisi lo statuto di scienza, ed eviterebbe ogni necessità di ricorrere ai dati extraclinici per validare la teoria. Le due premesse della TCN di Freud renderebbero insostituibile la terapia psicoanalitica, e implicherebbero le seguenti due conseguenze: 1) le interpretazioni psicoanalitiche sono vere, cioè "concordano con la realtà"; 2) solo la terapia psicoanalitica guarisce la nevrosi. Ma sfortunatamente, dice Grünbaum, non è vero che solo la psicoanalisi guarisce le nevrosi, in quanto varie ricerche hanno mostrato molto bene che certi sintomi nevrotici possono essere eliminati anche con altre terapie (ad esempio con la terapia comportamentale), nè giova teorizzare, come hanno cercato di fare alcuni difensori della psicoanalisi, che i sintomi guariti dalle terapie non psicoanalitiche erano "sintomi fantasma", rimasti come abitudine dopo che era stato risolto il conflitto sottostante: questa difesa è molto pericolosa, perché taglia il legame tra teoria e clinica, contraddicendo una delle due premesse della TCN. Chi garantisce infatti che anche i sintomi guariti dalla psicoanalisi non possano essere stati dei "sintomi fantasma"? A proposito della dubbia terapeuticità della psicoanalisi va ricordato inoltre che anche lo stesso Freud alla fine della sua vita, in Analisi terminabile e interminabile [1937], espresse un certo pessimismo sulla efficacia terapeutica della psicoanalisi, contraddicendo quindi quello che egli stesso aveva precedentemente sostenuto. Ne consegue, secondo Grünbaum, che la TCN non regge, perché le sue premesse sono empiricamente false. Ma non è vero che la psicoanalisi, come afferma Popper, non è una scienza, in quanto essa può essere, in linea di principio, una scienza, che però per ora non trova conferma nei fatti: se si può dire, conclude Grünbaum, che la psicoanalisi è scientificamente viva, non si può dire che essa stia bene [p. 278] (per una sintesi del pensiero di Grünbaum sulla psicoanalisi, vedi il suo lavoro del 1998 "Un secolo di psicoanalisi: bilancio e prospettive", al sito Internet http://www.pol-it.org//ital/9grunbau.htm). Conclusioni In sintesi, la sfida che Grünbaum pone alla psicoanalisi consiste nel prendere molto sul serio questa disciplina, e nel darle una possibilità di legittimazione all'interno delle scienze naturali (cosa che né i neopositivisti nè Popper avevano fatto). Non è questa la sede per approfondire ulteriormente le dettagliate argomentazioni di Grünbaum, né per tentare di formulare certezze o risposte definitive in merito a un dibattito che è tuttora in corso (Psicoanalisi: obiezioni e risposte, 1986. A cura di Marcello Pera. Roma: Armando, 1988]. Va sottolineato comunque che la risposta che il movimento psicoanalitico deve dare non può essere altro che quella dell'affinamento dei propri metodi di ricerca, sull'esempio di quella schiera di ricercatori in psicoanalisi già da tempo molto sensibili ai problemi sollevati da Grünbaum (in particolare vanno menzionati Luborsky, Dahl, Gill, Holt, Weiss & Sampson, Silverman, e tanti altri). Va sicuramente incentivata la ricerca extraclinica, vitale per la dimostrazione dell'efficacia della psicoanalisi come terapia, ma anche la ricerca all'interno della situazione clinica, tentando di individuare ed attuare metodologie rigorose controllando i vari fattori inquinanti. Già vari ricercatori stanno rispondendo a questa sfida di Grünbaum, cercando di dimostrare che è possibile testare scientificamente specifiche ipotesi psicoanalitiche [J. Masling, editor, Empirical studies of psychoanalytic theories, 2 volumi. Hillsdale, NJ: Analytic Press, 1983; M. Conte & N. Dazzi, a cura di, La verifica empirica in psicoanalisi. Bologna: Il Mulino, 1988; L. Luborsky, Le ragioni per sminuire il modo in cui il Professor Grünbaum tratta il metodo dell'inferenza clinica di Freud. In: Psicoanalisi: obiezioni e risposte, 1986. A cura di Marcello Pera. Roma: Armando, 1988, pp. 132-137; ecc. - per un panorama sulla storia del movimento di ricerca in psicoterapia e sullo stato attuale delle ricerche, vedi Migone P., "La ricerca in psicoterapia: storia, principali gruppi di lavoro, stato attuale degli studi sul risultato e sul processo". Rivista Sperimentale di Freniatria, 1996, CXX, 2: 182-238. Edizione su Internet: http://www.psychomedia.it/spr-it/artdoc/migone96.htm].
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