Il Ruolo Terapeutico, 1992, 59: 58-61
Paolo Migone
Nel maggio del 1989 invitai in Italia a tenere alcuni seminari Morris N. Eagle, un autore di cui avevo letto alcuni scritti che mi avevano particolarmente interessato. Nel 1984 era uscito il suo libro La psicoanalisi contemporanea, tradotto da Laterza nel 1988 (già ne avevo tradotto un capitolo, "Lo statuto epistemologico dei dati clinici", pubblicato in anteprima sulla Rivista di Psicologia Clinica, 1988, 2: 241-252). Il testo del seminario che tenne allora in Italia fu poi pubblicato su Psicoterapia e Scienze Umane nel n. 1/1991 (in seguito messo in rete da POL.it), e un altro articolo, dal titolo "La natura del cambiamento teorico in psicoanalisi" (che è il testo di un altro seminario tenuto a Bologna nel giugno del 1991), è stato pubblicato nel 1992 (3: 5-33), sempre su Psicoterapia e Scienze Umane. In occasione del primo seminario, che fu tenuto a Bologna il 20-5-89, venne registrato il dibattito che ne seguì. Ho pensato che potrei ora utilizzare lo spazio di questa rubrica per pubblicare questo dibattito, che conserva un forte interesse perché riguarda temi di fondo della psicoanalisi, quali la crisi della teoria delle pulsioni, il problema della teoria della motivazione, ecc. Il lettore interessato, se non l'ha ancora letto, volendo potrà prima andare a leggere l'articolo ("Cambiamenti clinici e teorici in psicoanalisi: dai conflitti ai deficit e dai desideri ai bisogni". Psicoterapia e Scienze Umane, 1991, 1: 33-46), e poi leggere qui la discussione per poterla meglio apprezzare. Ho un po' rimaneggiato il testo, che fu originariamente tradotto da me, conservando solo la discussione tra Morris Eagle e Pier Francesco Galli, che ritengo significativa. Ringrazio Monica Rabaglia che ha trascritto il nastro. Il testo della discussione Galli: Eagle in questa relazione, che abbiamo appena ascoltato, ha toccato molti punti centrali del dibattito attuale nella psicoanalisi. Io riassumerò ora non solo i suoi principali passaggi per vedere come egli si colloca nel dibattito interno alla psicoanalisi, ma cercherò anche di riassumere le implicazioni insite nel suo modo di procedere, allargando quindi il discorso. Come avete visto, un primo punto riguarda il problema del difetto (deficit), ed egli nella sua ricostruzione storica colloca il discorso attuale intorno al problema del difetto come una posizione prepsicoanalitica. Questo che cosa significa? Noi sappiamo che il problema del difetto o deficit dell'Io è un problema posto molto chiaramente da Hartmann, ma è posto nell'ambito del punto di vista strutturale e di una teoria conflittuale, quindi pienamente interno alla psicoanalisi. La tendenza attuale invece è quella di collocare il difetto come una lacuna di un Sé che deve essere riparata. La posizione di Eagle invece è di un altro tipo. Ma prima faccio una parentesi. E' importante ricordare che questo tipo di dottrina del difetto da riparare precede la psicoanalisi del Sé, anche perché già il punto di vista di Adler della compensazione del difetto, e quindi l'idea di porre il difetto come il fattore motivazionale rispetto a cui si struttura una serie di compensazioni, è già più avanzato e conflittuale della tesi del difetto di Kohut, la quale postula un buco o una lacuna da riparare. Eagle invece propone una tesi del difetto nei termini di una "area di ipersensibilizzazione" a tutto quello che si muove attorno a ciò che provoca l'esistenza del difetto, e quindi riesce a recuperare la categoria del difetto all'interno di una tesi conflittuale. Questo è il primo punto teorico rilevante. Quindi da un lato abbiamo il discorso della compensazione del difetto che sta alla base della Psicologia Individuale di Adler, dall'altro abbiamo il fatto che la Psicologia dell'Io ha recuperato in psicoanalisi queste tesi all'interno del punto di vista dell'adattamento; mentre invece queste tesi che puntano sul difetto in sé come qualcosa da riparare sono tesi che chiaramente Eagle colloca come prepsicoanalitiche e in ogni caso fuori dal contesto di una dottrina che voglia chiamarsi tale. Ritengo che questo sia chiaro come posizione di collocazione storica. L'altro passaggio rilevante è la sua posizione nei confronti del discorso di Kohut, e questo su due punti: a) sulla sua dottrina evolutiva del Sé in rapporto ai traumi reali; b) sul piano clinico come elemento riparativo di comprensione dovuto all'empatia. Verso la fine della sua relazione Eagle ha fatto riferimento alle tesi di Fairbairn come iniziatore del punto di vista più radicale della teoria delle relazioni oggettuali. Ora, se vi facciamo caso, in entrambe le tesi di Kohut e di Fairbairn abbiamo due elementi in comune sia sul piano clinico che sul piano dell'impostazione teorica, perché in Kohut troviamo una dottrina del Sé che tende alla coesione, e in Fairbairn troviamo un concetto di Io originario non scisso che nell'incontro con oggetti cattivi si scinde, si separa, per cui la funzione del terapeuta sarebbe quella di ricostruire un ambiente originario che permetta di nuovo l'integrazione, e quindi il recupero di quell'Io originario che potrebbe di nuovo svilupparsi come unico e non come scisso (split). Quindi c'è una vicinanza da questo punto di vista, e una vicinanza sul piano clinico in rapporto alle tesi di ambiente aiutante o ambiente positivo; necessariamente cioè sia Fairbairn che Kohut e i teorici delle relazioni oggettuali devono ipotizzare un ambiente positivo e quindi una dottrina del Sé in positivo, una dottrina della risposta positiva dall'ambiente (le tesi di Winnicott della "madre sufficientemente buona", ecc.). Questa è la posizione della scuola inglese alla quale Kohut non a caso si sentì vicino sul piano clinico. Eagle ci ha mostrato chiaramente come tutte e due queste tesi si collochino al di fuori di una teoria del conflitto, e quindi come questo sia un'altro dei punti centrali della possibilità o meno di collocare all'interno della psicoanalisi questo tipo di discussione, e ciò solleva il problema della esistenza di psicologie separate. Un altro punto rilevante è il fatto che molte di queste posizioni sono il frutto della tendenza a trasformare la psicoanalisi in una psicologia evolutiva, e quindi di perdere di vista il concetto di struttura e di formazione di strutture interno al processo psicoanalitico (e quindi di formazioni di strutture nel conflitto), ma con una concezione di formazioni di strutture proprio in termini che sono molto più simili a quello che intende Piaget per formazione di strutture di quanto non si intenda in psicoanalisi. Ma perché dico una "psicologia evolutiva"? Perché, se stiamo attenti, nell'ambito della psicoanalisi c'è anche una proposta sottile di ipotesi globale che viene dalla linea della Mahler (Mahler e Pine, per intenderci) la quale è di parlare sì delle fasi evolutive, ma tra le righe di ipotizzare una specie di spinta vitale, quindi di mettere un fattore motivazionale, una specie di terza pulsione come spinta evolutiva, rispetto alla quale si creerebbero le lacune nello sviluppo e la crisi dei difetti e del modo come i difetti vengono superati, quindi la posizione clinica della teoria evolutiva. Ora questo è veramente, dal mio punto di vista, il frutto di voler sovrapporre un aspetto di osservazione che è psicologica (cioè il problema della osservazione del bambino e del suo sviluppo) e considerare psicoanalitico questo tipo di osservazione. Il punto poi decisivo che ha posto Eagle è la possibilità o meno di far ruotare tutte queste psicologie, tutti questi punti di vista, attorno al concetto fondamentale di insight, e quindi di collocare di nuovo al centro della possibilità di teorizzazione il recupero del discorso dell'insight e non della trasformazione di strutture che rientrerebbe, nella sua posizione, tra le psicologie non psicoanalitiche o al limite tra le psicologie prepsicoanalitiche. Eagle: Ringrazio Galli per aver enormemente arricchito il mio discorso. Vorrei fare un commento, se ho capito bene le implicazioni del suo intervento, e ammesso che ciò non sia una proiezione di quello che ho voluto vedervi io. Voglio dire che oggi non vi è tanto il bisogno che siano formulati nuovi insight all'interno della tradizione psicoanalitica, quanto il bisogno di riformulare una nuova versione della teoria delle pulsioni che sia più vicina alla patologia piuttosto che respingerla o ignorarla. Per esempio è molto interessante che si possa leggere tutto Kohut trovando che l'unico riferimento alla sessualità e all'aggressività sia che esse sono "prodotti di disintegrazione". Come potrebbe essere vero tutto questo per la natura dell'uomo? Galli: Sono d'accordo sulla posizione di Eagle perché quando si parla di nuova teoria dobbiamo innanzitutto chiederci che cosa intendiamo, e allora prima di respingere la teoria delle pulsioni chiediamoci proprio che alto livello di sofisticazione teorica ci dà la teoria pulsionale dal punto di vista dello studio delle motivazioni. Infatti tutte le altre posizioni che possiamo collocare nell'area del bisogno e non del desiderio sono tutte posizioni molto piatte dal punto di vista delle variabili teoriche che vengono prese in considerazione: uno dei motivi che ha determinato storicamente una specie di rigetto della teoria pulsionale era stato il fatto che sia il punto di vista di Kohut sia certe implicazioni cliniche riguardanti in particolare l'identificazione proiettiva e il controtransfert (le quali provenivano dall'impostazione della scuola inglese e dell'indirizzo kleiniano, che sembravano più vicine alla clinica) non venivano confrontate con le implicazioni della teoria pulsionale, ma con il fatto che la teoria pulsionale era stata accettata dal punto di vista della teoria della tecnica come un indicatore da cui dedurre la tecnica, e ciò ha prodotto una concezione statica della tecnica classica. Allora quello che è entrato in crisi è una falsificazione della concezione della tecnica, e anziché riconoscere la crisi di un certo tipo di teoria della tecnica alcuni preferiscono "buttare a mare" il concetto stesso di teoria generale e di metapsicologia. Eagle: Voglio solo aggiungere che quello che ho cercato di accennare nella mia presentazione di oggi è che io vedo la possibilità, anche se per ora solo a livello intuitivo, di una riformulazione della cosiddetta teoria delle pulsioni in cui possa essere incluso l'elemento motivazionale che comprenda anche desideri così potenti come ad esempio quelli in relazione a figure di attaccamento, includendo in questi anche i problemi della sessualità e dell'aggressività. Questo sarebbe un notevole progresso. Galli: Sono di nuovo pienamente d'accordo, perché significa non raccogliere soltanto il problema dell'attaccamento nei termini di Bowlby, dove il concetto di attaccamento-separazione diventa in modo riduttivo l'unico elemento motivazionale; ma permette di considerare l'elemento pulsionale non come tesi separate (sessualità e aggressività), ma come problema della differenziazione e discriminazione degli affetti, e quindi di un problema che ha a che fare con la formazione di strutture e con la formazione delle differenziazioni, insomma tutto il discorso degli affetti che è centrale in psicoanalisi e che è posto sul piano teorico dalla teoria classica. Mentre molte posizioni cercano di rifiutare la teoria pulsionale considerandola residuo di biologismo (si pensi soprattutto al rigetto del concetto di energia), noi troviamo che per recuperare una tesi conflittuale tutte le altre posizioni fanno ricorso a termini di misura molto rozzi di tipo quantitativo, del tipo "eccesso di difetto" o "eccesso di trauma". Questo è un sistema di misura molto rozzo rispetto alla sofisticazione teorica che permette l'uso delle tesi pulsionali. Eagle: Vorrei aggiungere alcuni commenti a proposito del problema del cambiamento di paradigma in psicoanalisi. Io prendevo a prestito il termine di Kuhn ma lo usavo in modo molto libero. Se si seguono i suoi criteri, i cambiamenti avvenuti all'interno della psicoanalisi non sarebbero propriamente cambiamenti di paradigma, cioè non costituirebbero alcun cambiamento concettuale né metodologico. Ma un aspetto positivo di questi cambiamenti è a livello della teoria a cui si riferiva Galli, in quanto questo fermento potrebbe spingere verso una riformulazione della teoria psicoanalitica che possa includere quello che era importante e legittimo nella teoria pulsionale e del conflitto. Un altro cambiamento positivo è a livello clinico, e si esprime in due modi: come ho detto nel mio lavoro, anche se ciò dovrebbe essere stato sempre ovvio, penso di aver ricordato a tutti come può essere utile clinicamente quello che gli psicologi del Sé chiamano atteggiamento empatico. Ricordo che leggevo Kohut mentre stavo lavorando con una paziente molto difficile, diventava furiosa dopo ogni interpretazione che facevo, e una volta disse, come se lei avesse letto Kohut (e non l'aveva letto), "tutto quello che per ora voglio è che lei comprenda quello che io sento, non voglio spiegazioni"; e infatti cercai di assumere quell'atteggiamento, e posso dire di considerarmi fortunato per averlo fatto perché è stato molto utile per la terapia. Infine, sempre secondo questa linea, penso che il legittimo e importante concetto di neutralità analitica è diventato essenzialmente una caricatura da parte di molti analisti tradizionali, come se lo "ehm...ehm..." fosse la comunicazione analitica per eccellenza. Naturalmente so che questa è la natura dialettica di tutti gli sviluppi, io già prevedo il pericolo che anche l'atteggiamento empatico diventi anch'esso una caricatura, e di fatto l'ho visto in alcuni dei miei colleghi. Ho un collega che da quando è diventato uno psicologo del Sé parla con una voce talmente soffice, dolce e melodica che mi fa diventare matto. Questa è una caricatura tale e quale a quell'altra della freddezza dei tradizionalisti. Questo dimostra che non ci sono mai scuse per non essere autoriflessivi, ma naturalmente penso che ci sono dei potenziali positivi di cambiamento. Vorrei infine concludere con delle riflessioni sociologiche sulla natura del cambiamento teorico in psicoanalisi. Oggi vengono tenute all'interno della Società Psicoanalitica tante posizioni molto diverse tra loro che prima invece sarebbero state tacciate di eresia. Ad esempio la posizione di Alexander sulla "esperienza emozionale correttiva", che fu a suo tempo molto criticata, oggi invece tutto sommato verrebbe facilmente accettata. La mia opinione è che queste posizioni oggi vengono tenute dentro perché la psicoanalisi adesso è in una posizione più debole e non può permettersi di espellere nessuno. Ma ci sono anche altre ragioni, alcune sono politiche e sociologiche, altre più interne alla clinica e alla teoria. Le politiche e le sociologiche penso che includano il fatto che la psicoanalisi tradizionale ha meno figure dominanti, non c'è un'altro Freud, e quindi è più difficile etichettare qualcuno come eretico ed espellerlo. La ragione clinica più importante penso sia che molti analisti giovani e anche non molto giovani hanno sentito per lungo tempo intuitivamente e nella loro esperienza clinica che la teoria delle pulsioni, almeno quella tradizionale, non comprendeva o non ritraeva adeguatamente il loro lavoro con i pazienti; e probabilmente non ritraeva neanche l'esperienza della loro stessa vita. Fu quindi per loro molto facile far proprie le teorie della Psicologia del Sé e delle relazioni oggettuali, e quello che rese ancora più facile accettare queste teorie senza essere espulsi dagli istituti psicoanalitici (a differenza dagli anni '40, al tempo dello scontro con i seguaci di Sullivan), fu il fatto ad esempio che una figura come Kohut scelse di non uscire dal suo istituto psicoanalitico.
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