Il Ruolo Terapeutico, 1996, 71: 32-36
Paolo Migone
Nella mia rubrica precedente (n. 70/1995) avevo discusso alcuni problemi della diagnosi in psichiatria, in occasione della pubblicazione del DSM-IV (e precisamente avevo parlato di tre problematiche: validità e attendibilità, sistema categoriale versus sistema dimensionale, sistema politetico versus sistema monotetico). Adesso riprenderò l'argomento del DSM-IV, ma da una prospettiva diversa, più generale: esaminerò criticamente l'impatto del DSM-IV nella nostra cultura psichiatrica, ripercorrendo brevemente la storia della psichiatria italiana, e mettendo meglio in luce i pericoli e limiti dell'utilizzo del DSM-IV. Farò questo riportando l'intervento che lessi l'8 marzo 1994 a Torino, dopo la relazione dello stesso Robert Spitzer (che, come è noto, fu il principale artefice del DSM-III), al corso di aggiornamento "Il DSM-IV: una presentazione critica", organizzato dalla Società Italiana di Psichiatria. Si può discutere il DSM-IV a due livelli diversi: possiamo entrare nel dettaglio delle scelte fatte dalla Task Force riguardo ai criteri di singole diagnosi, oppure possiamo discutere il DSM-IV (e quindi anche i DSM-III) per quanto riguarda il suo impianto generale e l'impatto che la sua diffusione può avere sulla psichiatria, sia come causa che come effetto di vasti cambiamenti. Sceglierò di intervenire a questo secondo livello, anche perché mi sembra che sia più consono allo spirito di questa iniziativa, quella appunto di una "presentazione critica" del DSM-IV agli psichiatri italiani. A questo scopo, ritengo utile ripercorrere brevemente, secondo il mio punto di vista personale (che potrà essere eventualmente discusso), alcuni aspetti della storia della psichiatria italiana, sia per fornire al Dr. Spitzer un quadro più chiaro della nostra realtà, sia per riflettere criticamente tra di noi sull'impatto che può avere la diffusione di questo sistema diagnostico nel nostro paese. Si può dire che la psichiatria italiana storicamente abbia avuto una identità debole, che per certi versi l'ha costretta a dipendere da culture psichiatriche straniere (a grandi linee, la psichiatria tedesca in un primo periodo, poi quella nordamericana in un secondo momento), e a subire ripetute oscillazioni, o mode, in maniera abbastanza marcata se paragonata ad altri paesi. Queste oscillazioni, spesso accettate con la stessa rapidità e assenza di critica con cui sono state poi abbandonate, sono appunto rivelatrici di questa identità debole, che si è manifestata anche nella cultura clinica. La psichiatria italiana si è trovata a crescere in quella che si può chiamare una assenza di tradizione [vedi l'intervista di Carlo Viganò a P.F. Galli intitolata "La psicanalisi in Italia. Conversazione con Pier Francesco Galli. Parte I: L'istituzione psicanalitica". Freudiana, 1984, Vol. 4, pp. 109-116. Parma: Pratiche Editrice]. Infatti una prestigiosa tradizione psichiatrica italiana che in un certo qual modo era emersa ai primi del '900 fu presto interrotta, per prendere una direzione prevalentemente neurologica ed organicista. La neurologia rappresentava la vera identità della disciplina, mentre la psichiatria veniva considerata una "seconda scelta" rispetto alla neurologia, tanto che coloro che andavano a dirigere gli ospedali psichiatrici spesso erano coloro che avevano fallito nella carriera neurologica. Le ragioni per cui la psichiatria perse rilevanza nei confronti della neurologia sono probabilmente attribuibili ai progressi scientifici che in quegli anni avevano caratterizzato la neurologia, conferendole maggiormente il prestigio di una disciplina "scientifica" ricca di prospettive e di possibili sviluppi. La psichiatria dunque, soffocata dai progressi della neurologia, non fece in tempo a radicarsi e a declinarsi pienamente in scuole e in una tradizione universitaria. Anche quando la psichiatria, come insegnamento universitario, fu scorporata dalla neurologia (la prima cattedra di psichiatria fu nel 1959 a Milano, e grazie ad una convenzione con l'Amministrazione Provinciale), essa è stata utilizzata come terreno di caccia per nuove cattedre che di fatto per molti anni sono state assegnate a neurologi che in media erano abbastanza poco preparati o poco motivati alla psichiatria. Le persone seriamente interessate alla psichiatria si contavano sulle dita; vi erano ad esempio alcuni fenomenologi, abbastanza isolati, che erano costretti a trovare punti di riferimento all'estero. Erano anni in cui chi era interessato alla psichiatria doveva parlare tedesco, non inglese come avverrà anni dopo. La cultura psicoanalitica, che nella prima metà del secolo si era rapidamente diffusa in altri paesi come ad esempio gli Stati Uniti, dove aveva contribuito ad arricchire l'identità della disciplina e la pratica clinica con una serie di intuizioni sullo sviluppo e sulla dinamiche interpersonali, in Italia invece ha fatto molta fatica a diffondersi. Gli ostacoli principali non furono solo il fascismo e la chiesa cattolica (anche se quest'ultima non va sottovalutata, se si pensa che fu addirittura denunciato un noto psichiatra per "presentazione di oscenità" per aver usato il T.A.T e il Rorschach); probabilmente la resistenza maggiore alla penetrazione di idee psicodinamiche in psichiatria fu dovuta all'immobilismo accademico, che in Italia ha sempre avuto toni particolarmente accentuati e ha inibito intelligenze e competitività. La psicoanalisi quindi per anni è rimasta relegata nel ghetto dei privati, fuori dalla università (va detto che di questo "splendido isolamento" furono responsabili anche non pochi degli stessi psicoanalisti), e la sua cultura era diffusa più nell'ambito letterario che professionale. Si può dire che il primo grosso movimento culturale nella psichiatria italiana, che ha avuto ed ha tutt'ora risonanza all'estero, è quello che va sotto il nome di "antipsichiatria", il cui principale esponente fu Franco Basaglia, che si diffuse a livello di massa tra gli operatori psichiatrici negli anni 1960-70. Basaglia, che all'origine aveva una impostazione fenomenologica, negli anni 1950 era uno dei pochi che si interessavano di psichiatria. Si noti però che anche nell'etimologia del termine "antipsichiatria" vi è una identità in negativo, più che in positivo, quasi a segnare ancora una volta una difficoltà a definirsi se non come in opposizione a qualcos'altro: il movimento basagliano si è presentato come una bufera ideologica contro la psichiatria manicomiale che, assieme a positivi sviluppi, ha portato con sé anche vari difetti come l'impostazione antitecnicista del facile sociologismo di allora. Questo movimento inoltre ha subito l'influenza dell'onda portante di un altro movimento culturale, quello della contestazione studentesca degli anni 1960. In questa situazione la psichiatria accademica non riusciva a porsi come punto di riferimento culturale autonomo e propositivo, essendo schiacciata dalla contestazione antistituzionale e antipsichiatrica, da un lato, e dall'attrazione della neurologia, dall'altro, perpetuandosi così un ritardo culturale; non dimentichiamo che proprio negli anni 1970, quando la psichiatria italiana era impegnata in questa lotta su due fronti e perdeva terreno, all'estero avvenivano importanti dibattiti scientifici, come quelli sulla efficacia delle tecniche psicoterapeutiche, degli psicofarmaci, ecc., dibattiti che con enorme ritardo dovevano poi essere ripresi in seguito dalla psichiatria italiana. Il movimento antipsichiatrico, essenzialmente un movimento di psichiatria sociale, aveva una forte componente antipsicoanalitica, e più in generale antipsicoterapeutica, privilegiando l'intervento sociale (ricordiamo che in certi Centri di Igiene Mentale allora veniva data agli operatori l'indicazione di non fare mai sedute di psicoterapia). L'insufficienza di strumenti tecnici adeguati a fronteggiare lo specifico dei disturbi psichici determinò la crisi, la frustrazione e il riflusso di una generazione di psichiatri disillusi delle profetiche promesse dell'ideologia basagliana, i quali, a partire dagli anni 1970, si buttarono alla rincorsa delle tecniche nel tentativo di evitare il burn-out. E' stato questo il periodo cosiddetto della "fame di tecniche" da parte di tanti giovani operatori che nel possesso di una tecnica trasferivano la stessa sete ideologica, nel senso che questa rincorsa all'apprendimento di modalità operative si può considerare l'altra faccia della medaglia della fase precedente: vi fu una rincorsa acritica all'apprendimento, da una parte, della psicoanalisi (con un florilegio di ortodossie dogmatiche fatte di freudismi, kleinismi, lacanismi, junghismi, ecc.), e, dall'altra, della terapia sistemica con le ben note colorature ideologiche di "militanza dello specchio unidirezionale" e di pretese terapeutiche tanto totalizzanti quanto mistificanti (con la terapia sistemica e con i suoi spettacolari interventi paradossali era possibile guarire in poche sedute l'anoressia mentale e la schizofrenia - basterebbe questo per dare un'idea del basso livello di cultura clinica presente in molti psicoterapeuti di quegli anni). Altri operatori si sono dedicati all'approfondimento dell'uso dei farmaci, all'apprendimento di altre pratiche terapeutiche, come le terapie sessuali, la terapia cognitivo-comportamentale, ecc., e alcuni si sono recati all'estero. In ogni caso, l'apprendimento della psicoterapia è avvenuto prevalentemente in canali privati, essendo l'università poco attrezzata in questo settore, e questo ha contribuito al formarsi di false separatezze (come quelle tra psichiatria e psicoanalisi, o tra farmaci e psicoterapia, oppure tra psicotici, in genere seguiti dal servizio pubblico, e nevrotici, più spesso seguiti nel privato, e così via). Più recentemente si è assistito al diffondersi di altre mode, come l'epidemiologia, che ha raccolto molti reduci dal fronte basagliano sensibili ad una psichiatria calata nel sociale. Ma l'ultima grande oscillazione della psichiatria italiana, alla quale assistiamo oggi, è quella della psichiatria biologica, che vede il mondo accademico ritornare all'antico splendore del suo spirito organicista. Di fronte alla identità difficile di una psichiatria con anime diverse e necessariamente bio-psico-sociale, emerge, in modo rassicurante e quindi difensivo, l'identità forte di una psichiatria biologica come "scienza dura". E' possibile che molti giovani operatori ora vedano nella psichiatria bio-farmacologica una nuova chimera, peraltro non sorretta da reali nuove scoperte nel campo dei farmaci, nonostante quanto viene reclamizzato dalle campagne pubblicitarie (lanciate dai mass media in Italia così come negli Stati Uniti) per gli Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina (gli SSRI, ad esempio il famoso Prozac) come panacea di tutte le depressioni ed anche di altri disturbi (a questa campagna per la terapia esclusivamente farmacologica della depressione hanno partecipato anche autorevoli psichiatri italiani, mentre sono state attentamente ignorate alcune recenti ricerche meta-analitiche internazionali sulla terapia della depressione dove la psicoterapia risulta nettamente superiore ai farmaci [vedi ad esempio B. Wexler & J. Nelson, "Il trattamento dei disturbi depressivi maggiori" (1993), Rivista Sperimentale di Freniatria, 1994, CXVIII, 1: 7-50; vedi anche: P. Migone, Superiorità della psicoterapia rispetto ai farmaci nel trattamento della Depressione Maggiore. In: SIPSOT, 1999]; gli antidepressivi SSRI, peraltro, si sono rivelati di pochissimo superiori al placebo, tanto che se la loro efficacia è statisticamente significativa - solo due punti della Scala di Hamilton! - non è clinicamente significativa, e non a caso di questo non se ne parla quasi mai [vedi: P. Migone, Farmaci antidepressivi nella pratica psichiatrica: efficacia reale. Psicoterapia e Scienze Umane, 2005, XXXIX, 3: 312-322]).Presso molti operatori dei servizi psichiatrici, la cultura farmacologica pare rimanga sempre di più l'unica cultura psichiatrica incontrastata. Ad esempio, in molti Centri di Igiene Mentale italiani, mentre alcuni anni fa si dava enfasi all'approccio psicoterapeutico (con discussione di casi, supervisioni, attenzione alle dinamiche interpersonali, ecc.), ora la pratica psichiatrica rischia di essere impostata quasi totalmente sull'impiego dei farmaci, con un disinteresse per l'attenzione alle concause ambientali, psicologiche e della storia personale del paziente; i singoli psichiatri passano la maggior parte del loro tempo seguendo ambulatoriamente i propri pazienti in cura farmacologica, con pochi scambi tra loro, seguiti dall'attenta cura dei nuovi "supervisori clinici": i rappresentanti farmaceutici (proprio quelli che una volta durante gli anni della contestazione poco eufemisticamente venivano chiamati "servi del capitale e delle multinazionali"). Inoltre, pare che vi sia poco interesse in molti colleghi nel domandarsi come mai sia avvenuto questo cambiamento, come se essi avessero vissuto in una specie di sogno, o fossero sotto l'effetto di una forma di omertà, di una rimozione del proprio passato. Questa relativa assenza di riflessione in molti luoghi di lavoro sembra ricalchi, a livello microscopico, il fenomeno più generale, cioè il disinteresse e la quasi assenza di dibattito critico a livello nazionale attorno alla nuova moda della psichiatria biologica. Veniamo ora ai due DSM-III e al DSM-IV. L'onda portante del DSM-III ha sicuramente contribuito a spingere in questa direzione. Ma sarebbe ingenuo considerare il DSM-III la causa di questi cambiamenti: il DSM-III fu solo la conseguenza di più complesse trasformazioni della psichiatria avvenute precedentemente a livello internazionale, quando, da una parte, la crisi dell'immagine della psicoanalisi sia a livello sociale che nel mondo scientifico fece oscillare il pendolo della psichiatria in senso inverso, e, dall'altra, dietro pressioni economiche ed esigenze di accountability, ci si orientò verso una psichiatria che permettesse una maggiore verifica dei risultati a breve termine, dove si potesse raggiungere un più facile accordo su quali pazienti modificare, che risultati visibili raggiungere, e con interventi che fossero facilmente replicabili. Ma se i DSM-III e il DSM-IV sono solo una delle tante conseguenze e non la causa di questi cambiamenti, a loro volta possono diventare una concausa di altrettante trasformazioni nella psichiatria, nel training dei giovani psichiatri, e nella cultura psichiatrica in generale. Il rischio è che la cosiddetta "cultura del DSM-III" (ora si dovrebbe dire del DSM-IV), se trasmessa acriticamente alle nuove generazioni di psichiatri, faccia scomparire in breve tempo quel prezioso bagaglio di cultura psichiatrica interpersonale che in Italia stava faticosamente cominciando a formarsi negli anni 1970-80. Non va dimenticato che, mentre la cultura della psichiatria clinica nordamericana aveva una identità più forte di quella italiana per l'influenza di circa mezzo secolo di cultura psicodinamica e interpersonale (si pensi che Sullivan negli Stati Uniti faceva sentire la sua voce già a metà degli anni 1920), in Italia invece il DSM-III spesso è stato assorbito fuori dal contesto di una matura cultura clinica in cui esso doveva essere inserito, come una specie di "pacchetto" che andava applicato acriticamente alla pratica clinica e trasformato quasi in un "nuovo" approccio psichiatrico, se non addirittura usato come un manuale di psichiatria: non a caso gli assi IV e V del DSM-III (coi quali in un certo qual modo si includeva il ruolo dei fattori psicologici e ambientali) sono stati quasi completamente ignorati, e la cultura che ne è emersa è una cultura della psichiatria in cui il ruolo del rapporto interpersonale viene estremamente relativizzato, seguendo alcuni aspetti deteriori e fraintendimenti di quello che da alcuni è chiamato "modello medico" di malattia. Ma sono solo fraintendimenti, perché nel modello medico è tenuta il alta considerazione la problematica del rapporto medico-paziente, ed è proprio dal modello medico classico che è nato il concetto di placebo e che si è imposta l'esigenza di non trascurare le variabili del rapporto interpersonale. Il modello esplicito dei DSM-III e del DSM-IV, quello che si nasconde dietro il cosiddetto "approccio ateorico", è un modello in cui vengono utilizzati prevalentemente i dati descrittivi o "obiettivi" (cioè attendibili, verificabili a prima vista da più osservatori). Se questo modello, di per sé legittimo e appartenente a una seria tradizione scientifica, viene trasferito oltre i confini della semplice diagnosi descrittiva e utilizzato nella clinica dimenticando le complesse variabili del rapporto interpersonale, si assimila la psichiatria non tanto ad altre specialità mediche, quanto addirittura a discipline non cliniche, come la biologia o l'anatomia. Può emergere l'immagine di un paziente che esiste solo sul tavolo autoptico, mai nella realtà clinica. Gli aspetti caratterizzanti degli ultimi tre DSM (criteri diagnostici, approccio categoriale, ecc.), e l'utilizzo delle interviste strutturate, sono molto funzionali alla razionalizzazione delle prestazioni sanitarie e alla loro elencazione, ma, come hanno ripetutamente fatto notare allarmati anche vari autori americani [in primis John S. Strauss, "The person-key to understanding mental illness: towards a new dynamic psychiatry", British Journal of Psychiatry, 1992, 161: 19-26], comportano il rischio della reificazione, della frammentazione, della negazione della "persona" che sta dietro ai sintomi sui quali può avere una influenza (sono interessanti le posizioni che Strauss ha esposto in vari articoli negli ultimi anni, perché sembra segnalino un'area di "pentitismo", e rivelino la crisi di una certa cultura del DSM-III, riproponendo concetti classici della psichiatria dinamica, anche se con termini nuovi per dare l'illusione che si tratti - nelle sue parole - di una "nuova psichiatria dinamica"; infatti non è più di moda usare termini psicoanalitici, e molti preferiscono essere compiacenti e dire le stesse cose con altre parole). Sappiamo che la psichiatria non può essere tutta compresa all'interno di un approccio descrittivo: la psichiatria, infatti, diversamente da altre specialità mediche, contiene un livello molto basso di tecnologia, e implica, proprio nel suo statuto scientifico, il rapporto interpersonale come strumento di intervento. Un problema centrale quindi è come poter mantenere questo aspetto centrale e caratteristico della nostra professione in una psichiatria che prevede l'utilizzo di strumenti diagnostici come i DSM-III e il DSM-IV. Sappiamo benissimo che i membri della Task Force dei DSM-III e DSM-IV hanno tenuto presente questo problema. Come capo della Task Force del DSM-IV è stato eletto addirittura uno psichiatra ad orientamento psicodinamico; nell'asse II sono elencati i disturbi di personalità, che risentono della cultura psicoterapeutica e ai quali hanno lavorato anche alcuni psicoanalisti; vi sono gli assi IV e V, che in un certo qual modo riguardano gli aspetti reattivi e socioambientali dei disturbi; e nell'appendice B del DSM-IV vi è la proposta di un asse per il funzionamento relazionale e per i meccanismi di difesa. Inoltre nell'Introduzione al DSM-IV si legge testualmente: "Il DSM-IV è una classificazione dei disturbi mentali formulata per essere usata in setting clinici, di training, e di ricerca. Le categorie e i criteri diagnostici, e le descrizioni nel testo, devono essere utilizzati da individui che abbiano già un appropriato training clinico ed esperienza nella diagnosi. E' importante che il DSM-IV non sia applicato meccanicamente da individui inesperti. Gli specifici criteri diagnostici inclusi nel DSM-IV devono servire come linee guida per il giudizio clinico e non per essere usati come ricette di cucina. Ad esempio, l'esercizio del giudizio clinico può giustificare una determinata diagnosi per un individuo anche se la presentazione clinica non riesce a soddisfare tutti i criteri diagnostici purché i sintomi presenti siano gravi e persistenti" (American Psychiatric Association, DSM-IV, Washington: APA, 1994, p. xxiii). Gli autori del DSM-IV (così come quelli dei DSM-III) sarebbero quindi consapevoli dei rischi insiti in un uso clinico inappropriato di questi strumenti. Come ha più volte fatto notare Spitzer a chi muoveva delle critiche ai DSM-III, questo sistema diagnostico non deve affatto essere inteso come quello che non può e non vuole essere, cioè vuole essere solo uno strumento, anche potente e sofisticato, utile però solo per gli scopi per i quali è stato progettato. Più che per la clinica, esso è utile per la ricerca, per la quale rappresenta un grande progresso scientifico, e non occorre qui ricordarne i motivi [per brevità, rimando all'articolo mio e di G. de Girolamo "Il DSM-IV e i problemi della diagnosi in psichiatria (Con una intervista a Robert L. Spitzer)", Psicoterapia e Scienze Umane, 1995, 1: 41-85]. Va detto anche che è pregevole lo sforzo ideale di mantenere non separate ricerca e clinica, nel senso di non proporre due differenti set di criteri diagnostici, uno per il ricercatore e l'altro per il clinico (come invece ha preferito fare l'ICD-10), anche se questo a livello pratico può comportare dei rischi. Inoltre l'esplicitazione, internamente coerente, di questo sistema diagnostico non può che essere di stimolo per gli approcci non descrittivi e per la psichiatria nel suo complesso, come una salutare sfida che fa riflettere sul ruolo della diagnosi, sulla coerenza dei criteri usati, sulla metodologica della nostra pratica clinica. E' proprio per questo suo ruolo di stimolo che io nel 1983 presentai il DSM-III in Italia [vedi i miei due articoli sul n. 4/1983 di Psicoterapia e Scienze Umane, e la mia risposta al dibattito sul n. 2/1985], sottolineandone l'importanza come propulsore di cambiamenti anche per la cultura psicodinamica. Il DSM-III comunque, mentre viene ampiamente usato dai ricercatori, continua ad essere ignorato dalla maggior parte degli psichiatri clinici, i quali rimangono abbastanza impermeabili ad esso, e continuano ad usare le proprie tradizionali gestalt diagnostiche conscie o preconsce, oppure, nella migliore delle ipotesi, lo utilizzano a posteriori come razionalizzazione di una diagnosi già fatta da loro in precedenza. Potrebbe essere questa resistenza una forma di autodifesa, che indica che il DSM-III non risponde alle primarie esigenze del clinico. Infatti, se questo strumento risultasse veramente utile al clinico, potremmo ipotizzare che esso sarebbe penetrato di più nella loro cultura. In conclusione, ritengo che il DSM-IV (così come il DSM-III e DSM-III-R) possa essere considerato un buon strumento per determinati scopi, ma che può diventare pericoloso se viene utilizzato in modo ideologico, cioè per scopi per i quali esso non è stato creato. E' su questo problema che dovremmo discutere col Dr. Spitzer e tra di noi, su come favorirne un uso ottimale, anche sulla base di un decennio di sperimentazione dei DSM-III nella ricerca, nella clinica e nel training degli specializzandi in psichiatria.
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