Il Ruolo Terapeutico, 2000, 85: 75-79
Paolo Migone
Negli ultimi due numeri del Ruolo Terapeutico (83 e 84, 2000) avevo parlato del concetto di carattere nell'evoluzione del pensiero psicoanalitico. Rimane però da parlare del concetto di carattere dal punto di vista della psichiatria e della psicologia accademica: anche in queste discipline il carattere ha sempre attirato l'attenzione dei ricercatori, e le soluzioni trovate per studiarlo sono state abbastanza diverse da quelle della psicoanalisi. In questa rubrica vorrei accennare molto brevemente a questa problematica, riprendendo alcune considerazioni che avevo scritto tempo fa per la voce "Carattere" di un volume di una enciclopedia Treccani [L'universo del corpo. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana, 1999, Vol. II, pp. 581-583], dove avevo parlato del carattere come "psicologia dei tratti". Infatti, mentre nella tradizione psicoanalitica si è sempre cercato di comprendere il significato psicodinamico e inconscio del carattere, di individuare una sua struttura intrapsichica che rendesse conto dei sintomi, in genere in psicologia si è studiato il carattere come un insieme di tratti esterni, descrittivi. Un aspetto del carattere, per sua natura stabile nel tempo, in psicologia viene definito "tratto" (oppure anche "fattore" o "dimensione") in contrapposizione a "stato", termine usato per definire una condizione relativamente temporanea (ad esempio ansia, depressione, ecc.) e non raramente scatenata da eventi esterni. In determinati casi, quando uno o più tratti o stati deviano sensibilmente dalla norma, si parla di "disturbo mentale": nel caso di tratti abnormi, si può parlare di "caratteropatìa" o "disturbo di personalità"; nel caso invece di stati abnormi, si parla di "sindrome clinica" (ad esempio "depressione maggiore", "ansia generalizzata", ecc.). La differenziazione tra sindromi cliniche (che possono essere circoscritte e avere durata limitata) e disturbi di personalità (per loro natura stabili e caratterizzanti la persona nel corso di tutta la vita, e che a loro volta possono coesistere con le sindromi cliniche influenzandole negativamente) è stata ufficialmente sancita dalle ultime tre edizioni del "Manuale Diagnostico e Statistico" (DSM) della American Psychiatric Association (rispettivamente il DSM-III del 1980, il DSM-III-R del 1987, e il DSM-IV del 1994), che è il sistema diagnostico più usato oggi in psichiatria, dove le sindromi cliniche (come ad esempio la schizofrenia, la depressione, l'ansia, ecc.) e i disturbi di personalità sono stati collocati in due "assi" diversi, rispettivamente l'asse I e l'asse II [per un approfondimento dei alcune problematiche della diagnosi psichiatrica, rimando alla mia rubrica sul n. 70/1995 del Ruolo Terapeutico, e all'articolo che ho scritto con de Girolamo su Psicoterapia e Scienze Umane, 1995, 1: 41-80]. Un dibattito importante nella psicologia della personalità, vivo soprattutto in America negli anni '40, è stato quello tra i sostenitori di un modello "nomotetico" (in cui è possibili individuare leggi generali applicabili a tutti i soggetti) e di un modello "idiografico" (in cui si ritiene che ogni personalità sia unica, irripetibile, per cui va studiata con metodologie particolari, quali l'empatia ecc., senza arrivare a leggi generali); a questo riguardo, Holt ci ha fornito un resoconto molto dettagliato di questo dibattito, schierandosi a favore del metodo nomotetico e contro il suo maestro di allora, Gordon Allport [R.R. Holt, Individualità e generalizzazione nella psicologia della personalità (1962). Bollettino di Psicologia Applicata, 1963, 57/58: 3-24]. Come si diceva, dunque, nella storia della psicologia accademica la caratterologia (o personologia) è stata essenzialmente una "psicologia dei tratti", identificati nei soggetti studiati con diverse metodiche (test, interviste, questionari, ecc.), e la dicotomia "stato/tratto" (state/trait) ha giocato un ruolo importante. Ma il soggetto può non essere consapevole dei suoi tratti di personalità: dato che il carattere rappresenta la identità stabile di una persona, il proprio modo idiosincratico di concepire se stessi e il mondo, spesso il soggetto può considerare "normale" un suo tratto di personalità. In altre parole, i tratti del carattere in genere sono "egosintonici" (cioè in sintonia con l'Io, quindi non sono visti dal soggetto, facendo parte della sua stessa identità), non sono "egodistonici" (egodistonico è un tratto riconosciuto dal soggetto, ed eventualmente da lui criticato se patologico). La dicotomia "egosintonico/egodistonico", introdotta da Franz Alexander nel 1930, ha avuto una certa importanza nella tradizione psicoanalitica, dove ad esempio è stata utilizzata per differenziare appunto un "disturbo del carattere" (per definizione egosintonico) da una "nevrosi sintomatica" (per definizione egodistonica). Ad esempio, un paziente affetto da un disturbo ossessivo-compulsivo può sentirsi costretto a lavarsi ripetutamente le mani, pur disapprovando questo suo comportamento e riconoscendolo come un disturbo, mentre un paziente con un carattere ossessivo-compulsivo può ritenere le sue estreme pulizia, precisione, e meticolosità come perfettamente normali e non rendersi assolutamente conto di quanto siano invece patologiche, di peso ai familiari o disturbanti nelle sue attività lavorative. Molti sono i sistemi formulati per classificare i tratti del carattere. Uno dei più noti storicamente è quello di Eysenck [Genetic and environmental contributions to individual differences: the three major dimensions of personality. Journal of Personality Disorders, 1991, 58: 245-261], che prevede tre fattori: estroversione, nevroticismo, e psicoticismo, misurati con uno strumento chiamato Eysenck Personality Inventory (EPI). I primi due di questi fattori (la estroversione e il nevroticismo) sono le più importanti dimensioni della personalità, e sono presenti in quasi tutte le classificazioni; secondo i vari modi con cui si combinano è possibile ricreare, secondo Eysenck, i quattro "umori" individuati da Galeno nel II secolo dopo Cristo (sanguigno, melanconico, flemmatico, e collerico). Le persone con un alto grado di estroversione sono socievoli, dinamiche, vivaci, e alla ricerca di stimolazioni interpersonali (gli introversi, al contrario, mostrano il comportamento opposto). Il nevroticismo indica la tendenza alla instabilità e al turbamento emozionale (un punteggio basso di nevroticismo, al contrario, corrisponderebbe all'umore "sanguigno" della classificazione galenica). Il terzo fattore individuato da Eysenck anni dopo, lo psicoticismo, indica tratti impulsivi e aggressivi, a volte un basso grado di coinvolgimento nei rapporti interpersonali e anche tratti antisociali; questo fattore (il cui nome forse è improprio, in quanto non è collegato al concetto di "psicosi", casomai a quello di schizoidia), non viene ripreso da altre classificazioni. Secondo Eysenck un grado patologico di queste tre dimensioni può corrispondere approssimativamente ai tre raggruppamenti (cluster) dei dieci disturbi di personalità elencati nell'asse II del DSM-IV: rispettivamente, un'alta introversione sarebbe tipica dei disturbi del cluster A (dove prevale "stranezza o eccentricità": personalità paranoide, schizoide, e schizotipica), un alto psicoticismo sarebbe tipico del cluster B (dove prevale "iperemotività o drammatizzazione": personalità antisociale, borderline, istrionica, e narcisistica), e un elevato nevroticismo sarebbe tipico del cluster C (dove prevale "ansietà o paura": personalità evitante, dipendente, e ossessivo-compulsiva). In Nordamerica il modello a tre fattori di Eysenck è stato ormai sostituito da un modello a cinque fattori (chiamati Big Five), formulato da Costa & McCrae [From catalog to Murray's needs and the five-factor model. Journal of Personality and Social Psychology, 1988, 55: 258-265], e lo strumento usato si chiama NEO-PI-R, dalle iniziali dei fattori in inglese. I cinque fattori sono: nevroticismo, estroversione, gradevolezza, scrupolosità, apertura all'esperienza. I primi due fattori (nevroticismo ed estroversione) sono praticamente gli stessi di Eysenck. Il terzo e il quarto (gradevolezza e scrupolosità) provengono da una distinzione operata all'interno del terzo fattore individuato da Eysenck (psicoticismo): rispettivamente, la gradevolezza indica la presenza di calore emotivo contrapposto a freddezza, e la scrupolosità indica autocontrollo contrapposto a impulsività. La quinta dimensione (apertura all'esperienza) è stata introdotta più tardi, e indica la capacità immaginativa contrapposta alla inibizione. Come si può vedere da questi modelli, i tratti del carattere di origine più strettamente temperamentale o innata non sono facilmente distinguibili da quelli maggiormente derivati dalle influenze ambientali (nel modello a cinque fattori, ad esempio, si ritiene che solo la gradevolezza derivi da influenze ambientali, mentre gli altri quattro fattori avrebbero una forte componente ereditaria): ciò mostra quanto sia difficile separare, nella personalità, il carattere dal temperamento (come dicevo anche nella mia rubrica del n. 83/2000, p. 48, il "temperamento" si riferisce alle caratteristiche innate e biologicamente determinate della personalità, il "carattere" si riferisce alle caratteristiche acquisite socio-culturalmente, e la "personalità" costituisce il prodotto della interazione di queste due componenti, anche se di fatto è difficile mantenere queste separazioni). Altri modelli sono ad impronta decisamente temperamentale (come il modello EAS di Bluss & Pomin, che prevede tre fattori evidenziabili fin dalla prima infanzia: Emotività, Attività, e Socievolezza) o neurochimica (come il modello di Cloninger, legato a variazioni dei livelli dei neurotrasmettitori cerebrali e basato su quattro fattori: ricerca della novità, evitamento del pericolo, dipendenza dalla gratificazione, e persistenza). Siever & Davis, a questo proposito, hanno ipotizzato l'azione dei neurotrasmettitori cerebrali su quattro dimensioni del carattere: cognizione-percezione (dopamina), impulsività-aggressività (serotonina), instabilità affettiva (noradrenalina o acetilcolina), e ansia-inibizione (GABA o norepinefrina). Tra i modelli più strettamente psicologici, vanno ricordati i modelli "interpersonali", in cui i tratti considerati riguardano prevalentemente le modalità di relazione. Negli anni '50 Timothy Leary (una figura che diventerà molto nota anche fuori dai circoli accademici come esponente del movimento di opposizione culturale degli anni '60 in California) fu il primo a formulare un modello "quadrante" (circumplex model), poi rivisitato da Wiggins e ancor meglio dalla Benjamin [Diagnosi interpersonale e trattamento dei disturbi di personalità (1996). Roma: LAS, 1999]. Quest'ultima ha proposto la SASB (Structural Analysis of Social Behavior), un complesso modello "triplo" (nel senso che vengono considerati i modelli del Sé, degli altri, e degli introietti) a due dimensioni (Indipendenza o Autonomia versus Dipendenza o Coinvolgimento, e Deaffiliazione o Rabbia-Repulsione versus Affiliazione o Avvicinamento-Piacere) collocate su due assi che si incrociano al centro di un cerchio producendo molte combinazioni [ho parlato del modello di Lorna Benjamin nella mia rubrica n. 74/1997 del Ruolo Terapeutico]. La Benjamin ha anche provato a decodificare tutti i 93 criteri diagnostici dei disturbi di personalità e a introdurli nella SASB per vedere che tipo di configurazioni emergevano, cercando così di studiare un tipo di validazione indiretta dell'asse II del DSM-IV. Tra i modelli "clinici" (dotati di molte dimensioni descritte in modo più specifico) si possono ricordare quelli di Livesley (18 dimensioni), Torgensen (17 dimensioni), Tyrer (24 dimensioni), e così via. Inoltre Millon (un importante teorico della personalità che ha avuto un ruolo di primo piano nella progettazione dell'asse II del DSM-III e delle successive edizioni) ha formulato una teoria della personalità basata su principi evoluzionistici. Non posso dilungarmi su questa problematica, anche perché si fa sempre più complessa, e quello che mi ero proposto era di farne una semplice introduzione. Per ulteriori approfondimenti sugli studi della personalità dal punto di vista della psicologia accademica e della psichiatria, rimando ai classici manuali di Caprara & Gennaro [Psicologia della personalità. Bologna, Il Mulino, 1994], Pervin [Handbook of Personality: Theory and Research. New York, Guilford, 1990], Clarkin & Lenzenweger [I disturbi di personalità (1996). Milano, Cortina, 1997], ecc. (un panorama su alcune delle principali teorie è presentato anche da Clarkin nel video tratto dal corso intensivo di tre giorni sui disturbi di personalità da lui tenuto a Parma nel 1997: vedi Il Ruolo Terapeutico, 75/1997, pp. 50-51). Inoltre, per i riferimenti alle mie precedenti rubriche sul Ruolo Terapeutico, ricordo che ora sono tutte pubblicate integralmente su Internet, all'indirizzo http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt-rubri.htm (come avrete visto, dal numero scorso questo indirizzo Internet compare sotto il titolo della mia rubrica).
|