Il Ruolo Terapeutico, 2003, 93: 56-64
Paolo Migone
Anni fa mi capitò di partecipare ad un convegno sulla psicoterapia per le tossicodipendenze (vedi Migone, 1992a), e ricordo che rimasi colpito dal fatto che in molte relazioni venivano presentate le più disparate teorie per spiegare questi difficili situazioni cliniche. Mi sembrava di assistere a un florilegio di ipotesi metapsicologiche in cui venivano prese in prestito le teorizzazioni degli autori più diversi, spesso senza curarsi delle differenze tra una teoria e l'altra, e soprattutto, a mio parere, con un grosso divario dalla clinica, nel senso che le stesse teorie potevano spiegare anche altri dati clinici se non addirittura opposti. Raramente come in quella occasione ebbi così netta la sensazione che i nostri modelli teorici rischiano di assumere il ruolo non tanto di una guida che ci aiuta a spiegare la clinica, quanto di "narrative" autorassicuratorie con le quali ci illudiamo di controllare una situazione clinica complessa e frustrante. Può giovare a questo punto aprire una parentesi più in generale sul rapporto tra teoria e clinica, che può essere importante soprattutto in un campo così difficile come quello delle tossicodipendenze. Il problema del rapporto tra teoria e tecnica In psicoterapia, il rapporto tra teoria e clinica (o tra teoria e tecnica) ha sempre rappresentato un problema, nel senso che non sempre è stato coerente, con un polo strettamente connesso all'altro. Anzi, spesso e volentieri venivano costruite delle teorie suggestive o affascinanti che però potevano spiegare dati clinici anche opposti a quelli per i quali erano state create (nel linguaggio di Popper [1957], queste teorie non erano "falsificabili", perché ad esempio erano così elastiche che potevano spiegare tutto e quindi nulla [vedi Migone, 1989]). La teoria della psicoanalisi, come è noto, viene chiamata "metapsicologia", poiché sta dietro, al di là, della psicologia intesa come clinica, cioè come studio del comportamento (allo stesso senso in cui si può intendere la metafisica quella che sta dietro alla fisica, al mondo apparente). Tradizionalmente la metapsicologia è rappresentata dai vari modelli astratti proposti da Freud (ad esempio i concetti di Io, Es e Super-Io, libido, ecc.). Va notato che Freud era ben consapevole che questi concetti metapsicologici erano provvisori, spesso insoddisfacenti, e sperava che in futuro sarebbero stati rimpiazzati da altri più appropriati alla luce delle scoperte che sarebbero state fatte sul cervello e sul funzionamento mentale (l'ambivalenza di Freud verso la metapsicologia era ben testimoniata dal fatto che la chiamava la sua "strega"). Ma i problemi del rapporto tra teoria e clinica non sono solo questi. Un altro grosso problema è derivato dal fatto che spesso il confine tra i due livelli non è chiaro, sono stati confusi tra loro e quasi sovrapposti, scordando la differenza tra descrizione e spiegazione, come se si potesse descrivere un fenomeno clinico direttamente con una formulazione metapsicologia, per di più ipotetica. In molti analisti era diffusa l'abitudine di parlare di un caso clinico direttamente in termini di libido, Es, Edipo, e così via, al punto che la vera storia del paziente veniva scordata e si rimaneva a un astratto livello onniesplicativo (e forse onnipotente) che aveva soprattutto un effetto autorassicuratorio per l'analista, mentre il paziente si allontanava sempre di più, inascoltato e non conosciuto nella sua realtà "clinica". Negli Stati Uniti, dove la psicoanalisi si era diffusa più che in ogni altro paese, questa situazione raggiunse il suo apice a cavallo degli anni 1970, quando la insoddisfazione crescente culminò nella proposta di George S. Klein (1976a, 1976b), uno psicologo americano appartenente al gruppo di David Rapaport, che dichiarò esplicitamente la esistenza di "due teorie psicoanalitiche", quella clinica e quella metapsicologica, ormai divorziate e non più riavvicinabili al punto che una delle due (la metapsicologia) doveva secondo lui essere abbandonata del tutto (molto eloquente è il titolo del libro a cura di Gill & Holzman [1976], Psychology versus Metapsychology, che è appunto una raccolta di saggi in memoria di George S. Klein, all'interno del quale vi è un saggio di Gill [1976] intitolato "Metapsychology is not psychology", cioè "la metapsicologia non è psicologia"). La proposta di George Klein, poiché criticava anche il fatto che la metapsicologia freudiana si reggeva su un impianto energetico-fisicalistico proprio delle scienze naturali e non delle scienze umane, necessariamente sfociò nella soluzione ermeneutica, continuata poi da altri ex-allievi di Rapaport come Schafer (1976), Spence (1982), ecc. (vedi Gill & Holzman, 1976; Gill, 1976; Rubinstein, 1967, 1952-83, 1980; Fabozzi & Ortu, 1996; Dazzi, 1985; ecc.). Ovviamente per il progetto scientifico freudiano la teoria doveva essere invece una sola, con un saldo legame con la clinica e con diversi livelli diversi di astrazione a seconda dei dati che si intendevano spiegare. Invece la proposta di George S. Klein, come si è detto, fu di abbandonare la teoria metapsicologica e di mantenere solo una teoria clinica, rifondata su nuove basi (purtroppo la sua prematura morte gli impedì di completare la sua ricerca [per un profilo biografico di George S. Klein, vedi Migone, 1995a, pp. 229-232]). Altri autori (tra cui si possono includere Peterfreund [1971, 1983], Rosenblatt & Thickstun [1977], Rubinstein [1952-1983], Holt [1989], Bowlby [1969], ecc.), pur riconoscendo a George S. Klein il merito di aver posto con chiarezza questa problematica, non furono d'accordo con la sua proposta che sembrava solo una provocazione, e proposero semplicemente di migliorare o modificare la metapsicologia (ricorrendo ad esempio alla teoria dei sistemi o dell'informazione, o alle neuroscienze) per ricucire lo strappo tra teoria e clinica, non essendo possibile alcuna clinica senza una teoria più generale alle spalle (una "clinica senza teoria" infatti semplicemente non può esistere). Se guardiamo alla storia della psicoanalisi (in cui certi passaggi in fondo sono stati paradigmatici per la storia di tutte le psicoterapie), vediamo che Freud partì da determinati quadri clinici, quelli che lui chiamò isterici, per formulare le sue ipotesi teoriche: prima il modello topico (conscio, preconscio, inconscio), poi quello strutturale, cioè la seconda topica (Io, Es, Super-Io), e così via. Se osserviamo come la teoria si è andata modificando nel corso del Novecento, arricchendosi continuamente in un processo che oggi è tutt'altro che completo, notiamo che quasi sempre le più grosse spinte alla innovazione teorica sono venute dalla sperimentazione clinica con quadri "al confine" della patologia tradizionale, cioè con situazioni cliniche spesso considerate non adatte alla psicoanalisi. A volte si è trattato di veri pionieri che, andando contro le direttive freudiane, sperimentavano la tecnica psicoanalitica in situazioni eterodosse rischiando persino l'espulsione dal movimento psicoanalitico; non raramente decenni dopo si è assistito al recupero, da parte della psicoanalisi ufficiale, delle idee di alcuni pionieri facendole passare come "nuove" acquisizioni. Facendo un breve panorama di questi sviluppi, tra i primi e più noti ricercatori che tentarono la psicoanalisi in quadri precedentemente esclusi fu Sullivan, il quale lavorò fin dagli anni 1920 con gli psicotici, formulando quello che poi verrà conosciuto come approccio "interpersonale" e al quale poi si avvicineranno settori della psicoanalisi ufficiale. Un'altra figura importante che sperimentò la psicoanalisi in situazioni cliniche nuove fu Melanie Klein, che provò ad utilizzarla coi bambini (con la tecnica del gioco), contribuendo alla formulazione di ipotesi teoriche originali che furono in seguito foriere di sviluppi che arricchirono l'intero bagaglio psicoanalitico (si pensi solo al concetto di identificazione proiettiva [Migone, 1988]). Altre situazioni cliniche di confine che permisero grossi avanzamenti teorici sono state i disturbi di personalità, in particolare quello narcisistico (dove l'opera di Kohut ha rappresentato una delle sfide forse più interessanti alla tecnica classica [vedi Migone, 1993]), quello borderline (si pensi a un Kernberg [vedi Migone, 1990, 1991a, 1999a, 1999b]), e così via; inoltre le famiglie (anche questa un'importante area applicativa che ha portato a una ricchissima messe di studi e di critiche all'approccio tradizionale, si pensi solo a quelle provenienti dall'area sistemica), i gruppi, gli adolescenti, i disturbi alimentari, la delinquenza, ecc. Ebbene, è il caso di dire che oggi una delle ultime frontiere è proprio quella della tossicodipendenza, per la quale la psicoanalisi classica in genere veniva considerata poco efficace se non controindicata. Gli operatori che lavorano quotidianamente con i tossicodipendenti devono considerarsi quindi degli eroici esploratori che avanzano in una terra avversa e sconosciuta e che rischiano costantemente insuccessi e frustrazioni, ma che nel contempo rischiano anche di fare scoperte, di esplorare nuovi territori arricchendo il bagaglio di tutti i terapeuti. La psicodinamica delle tossicodipendenze Chiudiamo ora questa lunga parentesi sul difficile rapporto tra teoria e clinica, e torniamo alle riflessioni che feci a quel convegno. Quel convegno, a cui parteciparono molti operatori della Emilia Romagna, veniva dopo un lavoro di cinque anni di supervisione che avevo fatto al SerT di Reggio Emilia, per cui era un importante momento di confronto sulle rispettive esperienze di lavoro. Mi rendo ben conto che anch'io difficilmente potrei sfuggire alla critica di essermi illuso di comprendere la psicodinamica della tossicodipendenza e di trovare strategie terapeutiche efficaci. Esporrò quindi alcune mie osservazioni libere, senza alcuna pretesa di sistematicità, ben consapevole che sono modeste e soggettive. Discutendo in quei cinque anni di supervisione molti casi clinici con gli operatori del SerT, sono stato colpito non solo dalla enorme difficoltà della psicoterapia con i tossicodipendenti, ma anche da alcuni loro peculiari comportamenti che mi sembrano rivelatori di un grave disturbo psicologico. Per fare un esempio eclatante, si pensi alla pratica del test delle urine come prova dello stato di non assunzione della sostanza durante una psicoterapia. Questa prassi a me non solo sembra umiliante perché implica una totale sfiducia nel paziente, ma a ben vedere rivela anche un grosso problema nel paziente stesso il quale sa che le sue parole non vengono credute nella misura in cui solo col test delle urine può dimostrare che non assume sostanze. Ci si può chiedere quale possa essere la sua capacità di funzionare in un rapporto introspettivo e di fiducia quale è la psicoterapia se non riesce neppure ad essere sincero col proprio terapeuta, o ad allentare le massicce difese di cui è vittima (negazione, scissione, ecc.) le quali forse non gli fanno neppure prendere piena consapevolezza della paradossalità delle sue motivazioni. Non a caso è un luogo comune dire che il tossicodipendente è una persona poco attendibile, o che per sua natura spesso mente. Tutti forse abbiamo avuto esperienza di un tossicodipendente che durante una psicoterapia, da lui liberamente scelta per comprendere meglio se stesso e con l'esplicito progetto di interrompere l'uso di una sostanza, dopo settimane o mesi di lavoro apparentemente soddisfacente confessa al proprio terapeuta di aver sempre mentito, assumendo regolarmente sostanze e in certi casi truccando il test delle urine. Ma peccheremmo di poca sofisticazione psicologica se pensassimo a un semplice inganno da parte del paziente nei nostri confronti, in quanto si tratta di un inganno nei confronti di se stesso, a causa appunto di ben precisi conflitti causati dalle difese a cui accennavo prima (negazione, scissione, proiezione, ecc.). Non a caso, considerata la gravità di questa patologia, molti autori (e molti relatori a quel convegno) hanno parlato della presenza di tratti "narcisistici", di incapacità di un effettivo "rapporto oggettuale", di tendenza all'acting out, della incapacità di simbolizzazione, e così via. Il problema che si presenta qui, e che mi sembra uno dei più difficili che abbiamo di fronte come psicoterapeuti impegnati in questo settore, è quello di stabilire se la tossicodipendenza sia la causa di questa psicopatologia oppure una sua conseguenza, cioè un sintomo, tra i tanti, di un altro disturbo (ad esempio di un disturbo di personalità). Questo è un problema controverso, importante però da affrontare con chiarezza in quanto dalla sua soluzione deriva l'impostazione del nostro progetto psicoterapeutico [per una revisione della letteratura, vedi, tra gli altri, Clerici et al., 1991]. Non pretendo certo di risolverlo qui, mi limito solo a chiarirlo, a discuterlo. Un altro modo di vedere questo problema è quello dell'inquadramento diagnostico: possiamo considerare i tossicodipendenti sostanzialmente un'unica categoria diagnostica, che cioè presenta problemi simili che andrebbero affrontati con strumenti simili, oppure hanno diagnosi diverse, in cui l'assunzione di sostanze è solo un sintomo aggiuntivo rispetto a una patologia sottostante? Nel primo caso (cioè se consideriamo i tossicodipendenti un'unica categoria diagnostica), a mio parere si rafforza l'ipotesi che la grave patologia psicologica e comportamentale caratteristica del tossicodipendente non sia la causa dell'uso di sostanze, ma la sua conseguenza. Per fare un esempio, il tossicodipendente, proprio a causa delle alterazioni (anche "biologiche") indotte nel suo organismo dalla sostanza, sarebbe spinto a continuarne l'uso anche a costo di usare massicce difese primitive (negazione della realtà esterna, scissione, proiezione, "bugie", ecc.) o di adottare comportamenti antisociali (non a caso la personalità antisociale è la più rappresentata in campioni di tossicodipendenti, con percentuali che vanno dal 22% al 55%, mentre in alcuni studi la personalità narcisistica è presente nel 18% dei casi, e quella borderline nel 14% [vedi Craig, 1979, 1988; Khantzian & Treece, 1985; Kosten et al., 1982; ecc.]). Nel secondo caso (cioè se non consideriamo i tossicodipendenti un'unica categoria diagnostica, ma affetti da diversi disturbi come diagnosi primaria) la caratteristica psicopatologia del tossicodipendente si relativizza, non è più per così dire una variabile indipendente, e assumono maggiore importanza altre variabili (ad esempio un disturbo di personalità o un disturbo dell'umore come diagnosi primarie, oppure fattori socio-culturali). Questo distinzione ha precise implicazioni terapeutiche, perché ci indica in che direzione muoverci. Subito qui molti direbbero che "non si può fare di tutte le erbe un fascio" (è curioso qui l'uso del termine "erba", che è usato anche per la marijuana), ovvero che vi sono molti tipi di tossicodipendenti con problemi diversi, o che vi sono almeno le due grosse tipologie prima descritte che vanno distinte affinando le nostre capacità diagnostiche per poi tentare di risolvere più efficacemente i loro problemi. Ma nella misura in cui facciamo generalizzazioni sulla psicologia del tossicodipendente (come è accaduto spesso anche in quel convegno) a ben vedere ricadiamo nella prima posizione, dove l'aspetto unificante e caratterizzante è semplicemente l'assunzione di una sostanza, e quindi si rafforza l'ipotesi che la grave psicopatologia ne sia la conseguenza, non la causa (e in effetti, nella misura in cui esistono dei servizi specialistici come i SerT, è questa l'ipotesi sottostante). L'ipotesi che il vero problema sia la semplice assunzione di una sostanza, dopo averla cacciata dalla porta, pare rientri dalla finestra. E se osserviamo come si muovono operativamente vari gruppi e istituzioni che lavorano efficacemente in questo settore (comunità terapeutiche, gruppi di self-help, ecc.), emerge che è questa l'ipotesi adottata, anche se non sempre consapevolmente elaborata. Anche nel dibattito psicoanalitico, specialmente in certi paesi anglosassoni (vedi ad esempio Brickman, 1988), viene adottata sempre di più la posizione che il vero problema da curare per primo, e che è causa di gran parte dei problemi psicologici, è la semplice assunzione della sostanza. Ma analizziamo meglio questa ipotesi. Sulla base della nota constatazione che la psicoanalisi classica si è rivelata poco efficace nelle tossicodipendenze, si ritiene che la tradizionale interpretazione del "sintomo droga" vada capovolta: non è vero che il paziente assume droga perché ha determinati problemi psicologici, ma che ha determinati problemi perché assume droga. Ma, a ben vedere, anche questa è una interpretazione. La tossicodipendenza potrebbe essere concepita come una comune malattia fisica, ad esempio come il diabete o la polmonite, che va innanzitutto curata con mezzi specifici altrimenti non passano i disagi originati da questa "malattia". In genere noi non interpretiamo il diabete o la polmonite come risultato di un conflitto psicologico (anche se in certi casi possiamo considerare una malattia fisica come psicosomatica, dobbiamo essere cauti, casomai parlare di concause, e comunque curare anche la malattia fisica con i mezzi fisici appropriati). Anche se a prima vista questo sembra un approccio "medico", in realtà utilizza una precisa interpretazione "psicologica" del possibile utilizzo difensivo dell'ipotesi psicogenetica della tossicodipendenza. Ritengo che questo approccio sia interessante, anche perché amplia la nostra capacità interpretativa e può benissimo essere inserito all'interno di un discorso psicoterapeutico. Questo approccio infatti propone in certi casi di interpretare l'interpretazione stessa del sintomo come difensiva per il paziente e per il terapeuta stesso, nel senso che certe nostre teorie esplicative (spesso "metapsicologiche", appunto, cioè troppo distanti dalla realtà clinica) possono servirci per non cambiare, per illuderci di aver compreso il problema quando invece non sappiamo perché il paziente non cambia e facciamo fatica ad accettare questa realtà. In questi casi la psicoterapia del tossicodipendente può diventare inconsapevolmente una sorta di delirio di onnipotenza, una pericolosa folie à deux, una connivenza con le resistenze del paziente, un ritardare una ulteriore comprensione del problema (ad esempio, lavorare con un paziente seguendo l'ipotesi che la causa della sua tossicodipendenza risieda in un conflitto infantile o in un difficile rapporto che ha avuto coi genitori potrebbe essere solo un modo per evitare di affrontare il problema, per perdere tempo, ecc., cioè una difesa transferale, controtransferale, o entrambe, cioè una collusione tra paziente e terapeuta per non prendere coscienza della "verità", che consiste nella tossicodipendenza e basta). I pericoli della psicoterapia per i tossicodipendenti A questo proposito mi viene in mente una interessante osservazione che feci tempo fa, alla fine egli anni 1980, durante i cinque anni di supervisione al SerT di Reggio Emilia. Vari colleghi, portando in supervisione le loro psicoterapie con i tossicodipendenti, raccontavano che i pazienti venivano volentieri, si aprivano, parlavano di sé, raccontavano le loro dinamiche interpersonali, parlavano del loro problema con l'uso della droga ecc. La psicoterapia era stata loro offerta come uno dei tentativi di risposta al problema della tossicodipendenza, e l'avevano accettata volentieri sulla base del loro desiderio esplicito di interrompere l'uso di sostanze. La psicoterapia quindi procedeva bene, anche i terapeuti erano soddisfatti perché vedevano che i pazienti erano coinvolti ed esploravano sempre di più il loro mondo interiore. Ma se io mi azzardavo a chiedere come in realtà andava il "sintomo droga", spesso emergeva un fatto sorprendente: la quantità di eroina assunta giornalmente era salita a circa il doppio di quella assunta prima di intraprendere la psicoterapia! Questo reperto ci lasciava sbigottiti: come era possibile, che senso poteva avere questo aumento dell'uso di eroina dopo l'inizio della psicoterapia? Per fortuna, lavorando per anni continuativamente con questi operatori, ebbi molto tempo per riflettere con loro su questo fenomeno sulla base di tanti casi clinici discussi insieme. Ecco l'ipotesi interpretativa che feci: i tossicodipendenti, prima di intraprendere una psicoterapia, sono soli di fronte alla sostanza e lottano quotidianamente per controllarne l'uso. Cercano di fare sforzi di volontà, e tra le altre cose si rivolgono al SerT per chiedere una terapia che li aiuti a uscire dalla dipendenza più facilmente o con meno dolore. Quando viene loro suggerita una psicoterapia, la accolgono di buon grado, credendo che in questo modo sarà più facile per loro smettere l'eroina. Appena entrano in terapia, scatta in loro più o meno una dinamica per cui è come se inconsciamente si dicessero: "Adesso sono in terapia, il mio dovere l'ho fatto, posso smettere di lottare, qualcun altro si occuperà di me, posso finalmente lasciarmi un po' andare ed affidarmi al terapeuta" (tra l'altro, non è proprio questo quello che richiede lo psicoanalista, "lasciarsi andare", non avere obiettivi precostituiti, fare le "associazioni libere"?). Dato che è faticoso e doloroso smettere l'uso di droga, il tossicodipendente, grazie al fatto che "ora si sta facendo curare e si è affidato allo specialista", può riposarsi un po', e subito cedere alla tentazione della droga. A livello psicoanalitico, ecco come si può concettualizzare questa dinamica: il paziente proietta il Super-Io (cioè le sue funzioni di controllo) sul terapeuta, sarà lui a guarirlo, ci penserà lui, come in una sorta di pensiero magico, di idealizzazione onnipotente dell'altro come "salvatore" (che non a caso, con un'altra proiezione, diventerà subito il colpevole non appena nel paziente crescerà la frustrazione per non aver fatto nessun passo avanti rispetto alle precedenti aspettative onnipotenti – e tipicamente molti terapeuti cadranno nella trappola di questa identificazione proiettiva, sentendosi tremendamente in colpa di fronte alle accuse dei pazienti appena finisce il ben noto fenomeno della "luna di miele" terapeutica [per il concetto di identificazione proiettiva, vedi Migone, 1988]). Dobbiamo quindi concludere che non è possibile fare una terapia psicoanalitica ai tossicodipendenti? Tutt'altro. Chi conosce le mie posizioni sulla identità della psicoanalisi [vedi ad esempio Migone, 1991b, 1992b, 1992c, 1994, 1995b, 1998a, 1998b, 1998c, 2000, 2001, 2003b] sa che la psicoanalisi non deve intendersi come una tecnica spicciola ma come qualcosa di più ambizioso, come una teoria applicabile alle più diverse situazioni cliniche. Si tratta quindi di individuare una tecnica appropriata in questi casi particolarmente difficili. Se postuliamo che i tossicodipendenti, a causa di una loro struttura di personalità o della forza che su di essa esercita la droga, tendono ad avere meno risorse psicologiche e a fare ricorso alla forza dell'altro, o, come ho detto prima, a proiettare sull'altro una propria deficitaria funzione di controllo, allora questa dinamica va subito interpretata chiaramente e va impedito che venga agita. Ad esempio, alla luce di quei primi fallimenti noi imparammo (oltre che a monitorare attentamente la raccolta delle urine) che è molto importante che i terapeuti chiariscano fin dall'inizio, nelle regole di base della terapia, che "la psicoterapia non serve assolutamente a far smettere l'uso della sostanza", ma solo a discutere di eventuali problematiche psicologiche collaterali se il paziente ne sente il bisogno. Per interrompere l'uso di droga il paziente è sempre e necessariamente solo, deve far leva sulle proprie forze, deve faticare molto e nessuno può aiutarlo tranne se stesso. Vanno cioè interpretate le eventuali illusioni o aspettative magiche appena si manifestano, ribadendo che l'aiuto non può venire dall'esterno ma solo da dentro di sé, poiché è inutile illuderci, nessuno fa miracoli in questo campo. Questo tipo di messaggi, oltre ad essere semplicemente veri e ad essere percepiti come tali dai pazienti che nel profondo sanno bene come stanno le cose, hanno l'effetto di evitare il più possibile che si inneschi quel pericoloso meccanismo di deresponsabilizzazione di cui si è parlato prima. A ben vedere, questo tipo di intervento mirato a smantellare la proiezione (o meglio, la identificazione proiettiva) è lo stesso usato da Kernberg nella sua tecnica per i borderline (Clarkin, Yeomans & Kernberg, 1999), dove nel contratto iniziale chiarisce ai pazienti che i tentativi di suicidio "non riguardano la psicoterapia", per cui il terapeuta non li affronterà mai, ma sarà un'altra figura o istituzione a gestirli (e nel contratto si stabilisce dettagliatamente il modo con cui dovranno essere affrontati pena la interruzione definitiva della terapia). Nella psicoterapia si può parlare dei "significati" dei comportamenti, ma spetta al paziente gestirli concretamente (ovviamente se ne è capace, altrimenti non è un problema perché la terapia semplicemente non inizia). In altre parole, Kernberg postula che il paziente borderline abbia una difficoltà specifica a controllare i gesti suicidiari e altri comportamenti impulsivi (proprio come il tossicodipendente ha una difficoltà specifica a controllare l'uso della sostanza), e per evitare che il paziente proietti sul terapeuta la responsabilità o il controllo di questi comportamenti impulsivi (e che poi regolarmente "gli dia la colpa" quando accadono) fin dall'inizio stabilisce delle regole per cui non si fa mai coinvolgere da queste dinamiche (onde evitare la cosiddetta "manipolazione", tipica dei borderline). Kernberg cioè in questa tecnica utilizza una precisa ipotesi sulle "relazioni oggettuali interiorizzate" di questi pazienti, cioè sulle loro fantasie inconsce. Non a caso, se la terapia inizia, si osserva la cessazione di questi comportamenti impulsivi, perché cessa il motivo per cui venivano messi in atto (per un approfondimento, vedi Migone, 1999a). Come è noto, spesso si dice che è inutile farsi illusioni, e che una delle poche terapie efficaci per i tossicodipendenti è la comunità terapeutica. Non a caso nelle comunità terapeutiche (si pensi a San Patrignano) viene rinforzata la fantasia di una autorità esterna forte che contiene e controlla il paziente. Gli ospiti hanno delle restrizioni, si conformano a regole a volte ferree, quando entrano non vedono mai i familiari per un certo periodo di tempo, se abbandonano la comunità possono non venire riammessi ecc. Quelli che "guariscono", molti dei quali non a caso poi lavorano a loro volta come operatori di comunità, spesso presentano tipici atteggiamenti duri, rigidi, a volte moralistici nei confronti della droga. Queste guarigioni possono apparire come una riproposizione della stessa patologia caratteriale in modo uguale e contrario, cioè in termini psicoanalitici come "non guarigioni", nel senso che cambia il comportamento ma rimane intatta la struttura intrapsichica sottostante, che in questo caso è la difficoltà a regolare una funzione (nel senso che o non controlla niente o controlla tutto). Un identico meccanismo di "cura" è quello utilizzato per un'altra dipendenza, quella dall'alcool, dagli Alcolisti Anonimi (AA), che non concepiscono un bere "un po' meno" o "ogni tanto", ma solo una astinenza completa, perché nella ideologia degli AA esistono solo due possibilità: l'astinenza totale o il precipitare nell'alcolismo, dove l'alcool non a caso viene visto come il male anche in termini morali (il retroterra ideologico degli AA, da cui sono nati, è quello religioso anglosassone, protestante). Una esperienza in un reparto ospedaliero per tossicodipendenti Il fatto che i tossicodipendenti possano trarre benefico all'interno di un setting terapeutico forte, autorevole (se non autoritario), che li contenga o che controlli il loro comportamento mi fa venire in mente una interessante esperienza che feci alla fine degli anni 1970 quando lavoravo negli Stati Uniti. L'ospedale in cui lavoravo prevedeva una mia rotazione di alcuni mesi in un reparto per tossicodipendenti, in cui i pazienti rimanevano ricoverati 2-3 settimane per ottenere la disintossicazione dall'eroina (Drug Addiction). Il caso volle che pochi giorni dopo che presi servizio in quel reparto, quando avevo fatto appena in tempo a imparare come funzionava, il primario (Attending) si ammalasse e rimanesse assente per più di un mese, per cui, dato che io ero l'unico assistente, mi trovai completamente solo a dover dirigere l'intero reparto, con vari infermieri, assistenti sociali, altro personale paramedico, e 20 pazienti tossicodipendenti abbastanza difficili provenienti per la maggior parte dallo Spanish Harlem, un quartiere dell'Upper East Side di New York (il mio ospedale era il Metropolitan Hospital, un ospedale pubblico). Voglio raccontare questa mia esperienza perché mi sembra rivelatrice di dinamiche caratteristiche di questi pazienti. Il reparto funzionava con delle regole rigide che non permettevano deroghe. Al momento del ricovero il paziente veniva visitato, venivano gestiti eventuali problemi medici o psichiatrici collaterali, e veniva stabilita la dose di Metadone orale che veniva poi diminuita di 5 mg. al giorno fino alla totale sospensione. La dose iniziale veniva decisa in modo insindacabile dal primario sulla base della anamnesi, cioè di quello che diceva il paziente (quanta droga prendeva, quanto spendeva al giorno, ecc.) e soprattutto sulla base delle tracce nere (tracks) sulle vene delle braccia, dato questo più affidabile perché più obiettivo, considerato che si dava per scontato che i pazienti potevano mentire allo scopo di prendere più Metadone. Oltre al Metadone, i pazienti ricevevano dosi giornaliere di ansiolitico (Oxazepam) uguali per tutti. Come ci si può immaginare, non era facile indovinare sempre la dose giusta di Metadone, per cui nei primi giorni di disintossicazione alcuni pazienti risultavano sonnolenti e altri troppo agitati. Ma – e questo è uno degli aspetti interessanti che voglio sottolineare – mai la dose veniva aggiustata dal primario a seconda del bisogno, anche per facilitare o accelerare la disintossicazione, ma restava quella fissata all'inizio, che comunque veniva poi ridotta di 5 mg. al giorno. Le lamentele dei pazienti non venivano ascoltate, anche perché, si sa, potevano fingere. Vi erano altre regole rigide, ad esempio i pazienti potevano parlare col primario solo una volta al giorno, dalle 13 alle 14, e solo se si erano precedentemente prenotati lasciando il nome all'infermiere, e chi si scordava di prenotarsi doveva aspettare il giorno successivo. Inoltre era esplicitato che chi veniva trovato in possesso di droga naturalmente veniva espulso (con la regola però che mai più in vita sua poteva tornare in quel reparto – curiosamente, anche questa regola ricorda quella del contratto coi borderline di Kernberg, che chiarisce che se un paziente tenta il suicidio, rompendo quindi il contratto che si era impegnato a rispettare, la terapia viene interrotta e il paziente non può più riprenderla con lui). Questa era più o meno la situazione che trovai in quel reparto, e naturalmente non ero d'accordo con quella eccessiva rigidità. Soprattutto trovavo disumano lasciar soffrire quei pazienti a cui per errore era stato prescritto troppo poco Metadone, così pure trovavo eccessivo non permettere a un paziente di parlare col medico solo perché si era scordato di prenotarsi, e così via. Certo non potevo modificare la gestione del reparto, non essendone io il responsabile, e mi limitai a esporre i miei dubbi al primario, il quale però, forte di molti anni di esperienza ed essendo io un giovane psichiatra, semplicemente mi disse che quello era il modo migliore di aiutare questi ragazzi, e che avrei capito in seguito. Fatto sta che improvvisamente si ammalò e mi trovai solo, per cui non vidi l'ora di poter fare a modo mio. Decisi ad esempio che era permesso parlare col medico, cioè con me, anche senza prenotazione, bastava chiedermelo. Inoltre il primo giorno che mi trovai a visitare i nuovi pazienti e a dover decidere con quanto Metadone iniziare la disintossicazione, decisi che non avrei esitato a correggere la dose a seconda della risposta dei pazienti e del mio buon senso. E così via. Vi chiederete a questo punto cosa accadde con la mia nuova gestione "democratica" del reparto. Contro ogni mia previsione, fu un vero disastro, accadde il finimondo. Appena un paziente vide che io avevo aumentato il Metadone a un paziente che soffriva, subito lo pretese anche lui, e quando glielo negai incominciò ad urlare e insultarmi. Altri gridarono o si lamentarono, la tensione in reparto crebbe sempre di più. Tutti volevano tutto. I pazienti che precedentemente parevano seguire abbastanza bene il programma di disintossicazione incominciarono a soffrire tutti fisicamente, a dire che era troppo difficile disintossicarsi. Gli infermieri si misero a lamentarsi anche loro e minacciare di rivolgersi alla direzione sanitaria. Insomma stava peggiorando tutto il reparto, e fu lì che incominciai a capire che se non fossi tornato alle regole di prima rischiavo di non far più funzionare bene l'intero programma di disintossicazione. Tornai quindi alle regole rigide, tenni duro per vari giorni, e gradualmente riuscii a "ristabilire la disciplina" (colpisce qui il dover usare una metafora militare): i pazienti lentamente si calmarono, smisero di lamentarsi, e ripresero a disintossicarsi. Naturalmente riflettei molto su quello che era accaduto. Feci proprio le stesse considerazioni che ho esposto prima sulla difficoltà di certi tossicodipendenti di autoregolarsi senza una autorità esterna: i pazienti hanno forti tensioni interne che fanno fatica a tenere a bada (il craving per la droga che è dolorosissimo, problemi di aggressività, ecc.), e se una istituzione o una figura esterna si pone come forte, autorevole (se non addirittura nemica), allora si calmano, stanno un po' meglio, possono diminuire la conflittualità interna nella misura in cui in un certo qual modo vivono come "esterna" (cioè proiettata all'esterno) quella loro parte aggressiva. Allora si compattano, si calmano (dato che il nemico è esterno, non è dentro di loro) e possono lavorare ad uno scopo (ad esempio per disintossicarsi). Se invece gli viene chiesto di autoregolarsi, se cioè vengono "rispettati", se vengono lasciati liberi di decidere da soli, paradossalmente le loro contraddizioni e conflittualità esplodono nuovamente (per un accenno a questa dinamica a proposito di un altro problema, la gestione del paziente terminale, vedi Migone, 1996). Quando tornò il primario, discussi con lui di queste mie riflessioni, e lui le confermò. Tra le altre cose, ricordo che rimasi colpito dal modo con cui spiegò quale era secondo lui la filosofia del reparto: non certo quella di curare i pazienti (cosa ben difficile e complessa), ma semplicemente di "abbassare il tasso di criminalità nel quartiere", nel senso che la disintossicazione aiutava certe persone a diminuire il bisogno di assunzione quotidiana di eroina e quindi a compiere meno furti per reperire i soldi per comprarla. La tossicodipendenza (come la microcriminalità) a Spanish Harlem per lui era endemica, quello che si poteva fare era solo moderarla un po', e i pazienti ricorrevano saltuariamente al suo reparto per essere aiutati ad abbassare la dose giornaliera da cui dipendevano quando scappava loro di mano e non potevano più sostenerla coi loro piccoli furti giornalieri. Più tardi appresi da vari pazienti, conosciuti in altri reparti in cui avevo lavorato, che ad Harlem tutti avevano molta stima per quel reparto, dicevano che era duro e che il primario era un po' un "bastardo", ma che era l'unico che sapeva aiutarli veramente, mentre i reparti di Drug Addiction di altri ospedali non davano la stessa garanzia. Quando volevano veramente disintossicarsi, era al Metropolitan Hospital che andavano, non certo in altri ospedali anche se ricevevano un trattamento più umano e rispettoso. Mi ha fatto piacere aver ricordato questo vecchio ricordo e di averlo raccontato, non solo per le emozioni che mi sono tornate alla memoria, ma anche per le interessanti riflessioni teoriche che si possono fare. Bibliografia Bowlby J. (1969). Attachment and Loss. Vol. 1: Attachment. London: Hogarth Press (2nd ed.: New York: Viking Penguin, 1984) (trad. it.: Attaccamento e perdita. Vol. 1: L'attaccamento alla madre. Torino: Boringhieri, 1976 [1a ed.], 1989 [2 a ed.]). 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