Il Progetto Pontedi Antonio ZanardoIl Progetto Ponte è nato nel 1992. L'idea iniziale e i suoi successivi sviluppi, hanno creato nel Progetto Ponte una specificità nel trattamento delle tossicomanie di copertura, in prevalenza legate a disturbi di personalità o a psicopatologie correlate all'aids. Gli inserimenti vengono concordati con la fase di accoglienza, che si occupa della presa in carico e della prima valutazione del caso. Il progetto prevede un lavoro con gruppi chiusi (di 6/8 unità), che mantengono la loro composizione iniziale sino al termine del percorso. L'obiettivo cardine dell'autonomia e del "cambiamento", passa attraverso l'analisi della dinamica relazionale e la sperimentazione di nuovi ruoli sociali e valoriali. Il Progetto Ponte è un percorso residenziale, della durata di circa 24 mesi e suddiviso in 4 livelli di crescita personale. La comunità mantiene però le caratteristiche di una "struttura aperta". L'impostazione del lavoro terapeutico prevede il creare una rete di intervento integrata (es. programma interno, psicoterapia individuale esterna, eventuale trattamento farmacologico, consulenza familiare, eccetera), con un accompagnamento specifico a seconda dei bisogni e delle necessità emergenti. La comunità agisce come una sorta di polo di coordinamento, mantenendo la propria centralità sul sostegno e sul lavoro educativo di base. Nella maggior parte dei casi ciò è reso necessario dalla difficoltà a mantenere costante il livello di "investimento" relazionale, che necessita di continue rielaborazioni al fine di favorire il processo di ristrutturazione interno. E' quindi importante una impostazione dinamica e flessibile della struttura, che alterni momenti di "contenimento" a momenti di "autonomia", spazi di gruppo a spazi personalizzati. Il percorso, da un punto di vista pratico, prevede al suo interno l'uso di strumenti educativi classici, con una particolare attenzione alle regole sulla convivenza, sull'autocontrollo e naturalmente sull'astenersi dall'uso di qualsiasi droga (alcool compreso) e ogni forma di violenza. Questa impostazione, di matrice prettamente comportamentista, consente di fornire adeguate "garanzie", sia al mantenimento di una vita sociale "protetta", sia come strumento per misurare nel tempo le capacità di tolleranza della vita sociale stessa. Di per sé infatti, con questo tipo di pazienti, un'unica azione terapeutica centrata sul comportamento non provoca cambiamenti significativi, se non nell'immediato qui ed ora, "disperdendosi" successivamente quando non viene adeguatamente integrata da forme di relazione di una certa qualità. La violazione delle regole può, nei casi più gravi, prevedere l'espulsione dalla comunità. Nella maggior parte dei casi comunque, la trasgressione alla regola, viene utilizzata come segnale di crisi e rielaborata nel suo significato. Non è pensabile che, a fronte di meccanismi ripetitivi e profondi, non vi siano "incidenti" di percorso. La ricaduta nell'uso di droga, è la manifestazione più tipica dell'atteggiamento di negazione del sé. Ciò è spesso il risultato di una incosapevolezza della propria identità e patologia, del rifiuto ad accettare una realtà fatta di ruoli interni disgregati, che non riescono a trovare il modo di coordinarsi. Alcune volte, l'aiuto fornito da un supporto farmacologico adeguato, favorisce l'innescarsi di una spirale adattiva volta alla ricerca dell'equilibrio interno necessario per "potersi pensare" diversi. Nella comunità, nell'arco della settimana, vengono svolte due attività di gruppo: una essenzialmente a carattere socio-educativo e riguardante le problematiche inerenti al momento del percorso (dinamica di gruppo, rispetto delle regole, uscite, competenze sociali, eccetera) e una a carattere psicologico che tratta aspetti esistenziali quali la storia personale, la consapevolezza di sé, la relazione. Per quest'ultimo la comunità si avvale della collaborazione di una Psicologa esterna. Vengono inoltre garantiti con costanza colloqui individuali con gli educatori della comunità. Dal secondo livello del progetto, è prevista una attività lavorativa nel laboratorio interno alla comunità. Ciò consente una strutturazione della giornata coerente con il mondo esterno e permette di sperimentarsi in responsabilità concrete in un ambito protetto. In alcuni casi viene previsto il recupero scolastico con insegnanti volontari. Il terzo livello prevede un trattamento individuale. Il significato dell'interruzione del gruppo strutturato è di offrire adeguati momenti di riflessione sui cambiamenti e sul percorso svolto. L'ambito gruppale infatti, sulla distanza, può limitare il riconoscimento dei progressi del singolo, mettendo in atto dinamiche copionali che suggeriscono più la negazione del cambiamento che la sua valorizzazione. I colloqui vengono quindi centrati sul "rinforzo" di alcune caratteristiche emerse sino a quel momento, e sullo "specchio" fornito dall'educatore, che mira a valorizzare le reali potenzialità dell'utente. I pazienti iniziano la ricerca di un lavoro esterno, supportati e guidati dall'educatore. Nella maggior parte dei casi è necessario un inserimento protetto, che possa garantire il mantenimento di relazioni "sane" e che sia consono alle caratteristiche personologiche presenti. Il quarto livello prevede una fase di accompagnamento allo svincolo dal programma terapeutico. Dopo il periodo di interruzione, che corrisponde nei fatti ad un periodo di disinvischiamento, viene ripreso lo strumento del gruppo con cadenza settimanale. Si è notato come sia più semplice, a fronte della maggiore possibilità di sostenere i propri progressi con eventi oggettivi (lavoro, vita sociale, ecc.), l'interazione e l'integrazione relazionale all'interno del gruppo. La fase di sganciamento comporta molte difficoltà, nonostante la costante promozione all'autonomia. Il lavoro è di gran lunga agevolato dalla precedente costruzione di una rete sociale/terapeutica esterna. Il terapeuta esterno, in questa fase viene maggiormente investito del compito di aiutare il paziente a "separarsi" dalla comunità, intensificando a volte le sedute o ridefinendo il contratto per il futuro. E' essenziale che l'utente uscito dalla comunità possa usufruire di un sostegno o un appoggio a lungo termine, che garantisca stabilità e riferimenti precisi. La soluzione abitativa rappresenta molto spesso un punto interrogativo. Può risultare contraddittorio l'aver svolto un lavoro pressante sull'autonomia e riproporre in seguito un ritorno in famiglia, dove la dipendenza appare come la più alta forma di relazione·.. Non sempre però è possibile da parte della comunità, trovare una soluzione ideale per ogni situazione e spesso è necessario ricorrere a compromessi. Le famiglie, durante il percorso, vengono invitate a partecipare ai gruppi di sostegno, tenuti da operatori volontari precedentemente formati, e all'incontro mensile con gli educatori. Nella fase di accoglienza gli operatori provvedono alla raccolta anamnestica e alla valutazione della situazione familiare, verificando le possibilità di intervento. A volte vengono previsti incontri periodici per monitorare la situazione familiare, in altri casi i familiari vengono inviati da un terapeuta della famiglia. Gli educatori che iniziano il loro lavoro al progetto hanno una formazione di base e in seguito vengono programmati aggiornamenti periodici. Uno psichiatra esterno si occupa della supervisione con cadenza settimanale. La supervisione è un momento fondamentale per il lavoro dell'équipe. E' indispensabile la graduale acquisizione di competenze specifiche su tutti i fronti. Per poter mantenere dei rapporti di collaborazione proficua, è necessario acquisire un linguaggio comune, un linguaggio tecnico/scientifico e competenze personali sul ruolo. In assenza di tali presupposti, i rischi di burn out aumentano vertiginosamente. La Psicologa esterna che si occupa dei gruppi inoltre, partecipa all'équipe settimanale e offre il suo supporto tecnico agli educatori in alcuni giorni della settimana.
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