La comunità terapeutica come luogo della cura*di Domenico Cosenza* dal volume a cura di L. Colombo, D. Cosenza, A. Cozzi, A. Villa 1) - Attualità e radici del concetto di comunità terapeutica.
Dopo più di mezzo secolo di storia, la comunità terapeutica torna a interrogare gli operatori del campo clinico sul suo valore e sulla sua efficacia . Il consolidamento storico della sua esperienza, la ricerca di un minimo comun denominatoredel suo metodo tra le diversificate esperienze esistenti, la formulazione dei primi bilanci sistematici, aprono di fatto per essa una (1) nuova epoca, che non sembra più essere, per molti, quella dei pionieri e dei capi carismatici, dello sperimentalismo davanguardia e delle utopie antisegregative, ma piuttosto quella, in linea con lo spirito dei tempi, di una rigorizzazione dei suoi criteri e delle sue procedure, che permetta una valutazione più obiettiva, ed un contenimento dei costi economici, dei suoi risultati terapeutici (2). Se negli anni della guerra, lesperimento comunitario era stato un modo di arginare gli effetti paralizzanti prodotti dalla minaccia esterna, costituita dal nemico, sulla nevrosi dei soldati, in tempo di pace la comunità terapeutica diviene un luogo di accoglimento e di possibile trattamento di una amplia e diversificata area di forme di disagio radicale, in cui è in gioco una impossibilità del soggetto a trovare una sua collocazione allinterno del discorso familiare e sociale. La comunità si presenta quindi come luogo per certi versi alternativo allambito di provenienza del soggetto che vi accede; chiunque vi entra a partire da una propria decisione, o comunque da un assenso, lo fa a partire da una supposizione fondamentale: che in essa sia possibile incontrare un altro Altro, un luogo in cui abitare dotato di leggi capaci di pacificare, di mettere ordine, di offrire al soggetto sofferente qualcosa che non ha potuto trovare nel campo familiare, nelle istituzioni sociali, o in altri luoghi terapeutici. Dalla devianza minorile, all e psicosi, fino alle patologie legate alle dipendenze, quali la tossicomania e più di recente lanoressia e la bulimia, la comunità incarna per il soggetto che vi ricorre qualcosa di un luogo di supplenza e di riparazione rispetto ad un cattivo incontro con lAltro che ne ha contrassegnato lorigine(3). Per questa ragione, è in fondo sempre presente in una autentica domanda di entrata in comunità una inclinazione utopica, che racchiude nella cornice di una idealizzazione immaginaria spesso difensiva anche un senso positivo del termine: la ricerca di un luogo mai esistito nella storia del soggetto, capace di operare in lui, nellesperienza di vita quotidiana nellistituzione, una riforma del suo Altro simbolico che possa correggere le bizzarie, le crudeltà, le ottusità inumane che lacerano il soggetto. Spesso chi entra in comunità presenta le caratteristiche di un individuo che nel linguaggio comune può essere designato come intrattabile: tale è la spinta alla distruzione della regola da parte del minore deviante, la ricerca irresistibile della sostanza nella tossicomania e nella bulimia, e in forma qualitativamente diversa lessere fuori-discorso proprio dei soggetti psicotici, per i quali la realtà è abitata da una componente persecutoria per loro insostenibile. Si tratta di soggetti divenuti intrattabili in risposta ad un cattivo incontro con un Altro (costituito dal loro milieu familiare e sociale) da cui sono stati , ad un qualche livello ed in forme diverse, maltrattati, da cui cioè non hanno ricevuto qualcosa di essenziale alla loro costituzione soggettiva, tale da rendere possibile una pacificazione della loro spinta autodistruttiva, una messa in ordine simbolica capace di contenere ed indirizzare le loro pulsioni verso oggetti dotati di valore affermativo. Si tratta di situazioni limite, di casi gravi rispetto ai quali lintrattabilità si è manifestata oltre che nelle difficoltà a stare nel legame familiare e sociale, anche nella estrema fragilità, ed irregolarità quando non nel rifiuto, di ogni situazione di trattamento legata ad un setting di tipo psicoterapeutico in senso ampio, ove gli unici elementi di legame sono dati dal transfert sul terapeuta e dalla regolarità che organizza gli incontri (lorario, il luogo, la centralità della parola come modo di espressione,É). Spesso chi entra in comunità, lo fa sotto la spinta dellurgenza, e solitamente dopo avere provato tutte le strade percorribili a livello di trattamento ambulatoriale. Perlopiù è da parte dei familiari e degli operatori dei Servizi, prima ancora che dai soggetti, che emerge lesigenza dellinvio in comunità. La comunità fornisce a questi soggetti non solo un luogo di ascolto e di elaborazione simbolica, ma anche delle mura reali ed un tetto sotto cui abitare, una quotidianità condivisa ed un insieme di regole di convivenza, rispondendo così ad unesigenza di contenimento della spinta autodistruttiva che nessun dispositivo terapeutico solamente di parola è nelle condizioni di poter offrire. Situata in uno spazio intermedio tra la famiglia e lospedale, listituzione comunitaria recupera della prima la dimensione del coinvolgimento e della partecipazione attiva dei pazienti alle vicende quotidiane dellistituzione, mantenendo della seconda lesigenza terapeutica ed il richiamo alla posizione asimmetrica degli operatori rispetto agli ospiti in quanto responsabili di una funzione curante, spesso difficile da salvaguardare nel clima emotivamente surriscaldato e spesso a rischio di invischiamento proprio della vita comunitaria. Nelle oscillazioni reali che ne caratterizzano lesperienza concreta, la comunità corre spesso il rischio di posizionarsi, in rapporto agli accadimenti che la caratterizzano, entro un ampio spettro di risposte immaginarie coinvolgenti le azioni ed i discorsi degli operatori, oltre che dei pazienti, i cui due estremi mi sembra possano essere indicati proprio in un processo di regressione familiaristica (in cui operatori e pazienti marcano in modo proiettivo la distanza rispetto a quanto è fuori dalla comunità, rischiando di ricadere nel mito narcisistico dellisola felice circondata da un oceano eternamente in burrasca), e dallaltro lato in un processo di distanziamento fobico, difensivo, messo in atto dagli operatori rispetto alla domanda pervasiva dei pazienti. La peculiarità della comunità terapeutica, ciò che più ce ne restituisce la specificità , è data dalla sua capacità di contenere al proprio interno questa vasta gamma di oscillazioni nelle dinamiche gruppali di pazienti ed operatori, facendone la materia di un lavoro di elaborazione permanente, nei momenti della riunione comunitaria, nei gruppi terapeutici, nelle riunioni perioriche dellequipe degli operatori, negli incontri con un supervisore esterno. La lettura degli eventi istituzionali è il motore della vita comunitaria, lincarnazione operativa della Culture of Inquiry di cui parla Main, ed è solo attraverso essa che è possibile rettificare la posizione invischiata degli operatori, lo sbandamento temporaneo di rotta dellequipe, il momento critico interno al percorso di un paziente. La bussola di tale lettura muta a seconda dei modelli di riferimento che permeano listituzione, ma anche in base allesperienza accumulata nella storia particolare della comunità, che porta a volte gli operatori a convincersi sul terreno della clinica della giustezza di una soluzione originale, non preventivata anticipatamente nel corredo della propria formazione di provenienza. E evidente che la lettura istituzionale che può svolgersi tra gli operatori allinterno di una comunità a orientamento cognitivo-comportamentale, per esempio unistituzione che accoglie tossicodipendenti o ragazze bulimiche, sarà distante in modo sostanziale rispetto ad una comunità ad orientamento analitico che ospita lo stesso genere di pazienti. Lo stesso discorso può essere fatto a riguardo di istituzioni che accolgono minori devianti o con tendenze delinquenziali, comunità per bambini autistici, per giovani psicotici, o psicotici adulti. Ritorneremo su questo problema dei diversi modi di lettura istituzionale legati allorientamento clinico di riferimento, quando affronteremo in modo più diretto il problema del lavoro dellequipe nellistituzione comunitaria. Ciò che qui ci preme marcare è che , ritornando alla tesi di Main che ha messo a battesimo questo genere particolare di istituzione, è nel solco di Freud e della teoria psicoanalitica della cardinalità dellinconscio nellesperienza umana, che riteniamo vada rintracciata la matrice più autentica ed efficace della esperienza comunitaria. Ciò non significa chiaramente, come tutti i grandi protagonisti dellavventura comunitaria ispirati alla psicoanalisi hanno sottolineato, da Main a Racamier, da Tosquelles a Oury, fare della psicoanalisi in istituzione, quanto piuttosto assumere lorientamento di Freud nella lettura degli avvenimenti istituzionali, mettendo a fuoco la posizione del soggetto nel campo dellAltro incarnato dallistituzione. Se si assume questa prospettiva, lesperienza comunitaria finisce con lassumere, per un paziente che lattraversa, soltanto come effetto secondario e non necessariamente i caratteri correttivi del riadattamento comportamentale e del riadeguamento cognitivo, posti a cardine del programma normalizzante di matrice cognitivo-comportamentale. Al centro dellavventura comunitaria si situa piuttosto lincontro con un luogo capace, se si vuole in termini bioniani, di funzionare come contenitore e bonificatore della distruttività del soggetto(4) , supplendo così ad una carenza nel lavoro di reverie materna. Spesso è utilizzato per definire lo specifico della comunità il concetto di matrice winnicottiana di luogo transizionale, nella doppia accezione di luogo di passaggio, transitorio, che rende possibile alla fine al soggetto ritornare più o meno integralmente allinterno della vita sociale con una sua progettualità esistenziale prima insostenibile; ed al contempo nel senso di area simbolica entro cui poter costruire o completare un processo di individuazione di sé e di separazione dallAltro materno che nella storia individuale di quel soggetto era stato interrotto. In altri termini, la posta in gioco dellesperienza comunitaria è data dal prodursi nel soggetto, tra la sua entrata e la sua uscita dalla comunità, di un processo di trasformazione che possa riannodare in modo un po più sostenibile per lui, in una forma del tutto particolare propria alla sua singolarità, il rapporto tra spinta pulsionale e legge simbolica, tra modo di godere ed interdetto, forma alternativa a quella devastante, incarnata da un godimento senza legge o da un Super-Io crudele, che fa patire il soggetto che accede nel campo della comunità. 3) - Lentrata in comunità: transfert istituzionale e lavoro preliminare sulla domanda
Ogni entrata di un nuovo paziente in comunità è una scommessa tanto per il soggetto quanto per la comunità stessa. Si scommette su di un buon incontro tra una supposta domanda del soggetto che entra, ed un altrettanto supposto sapere rispondere a tale domanda da parte dellAltro istituzionale incarnato dalla comunità. Quando la domanda del soggetto sincontra con il supposto sapervi rispondere da parte dellistituzione, si attiva quanto definiamo come transfert istituzionale. Esso si distingue dal transfert che si struttura in una analisi o in psicoterapie di vario genere, sia individuali che di gruppo, perché il polo cardinale del transfert, per il soggetto, è incarnato spesso prima ancora che da un particolare soggetto curante, da un luogo in cui il soggetto suppone di poter stare e di potersi curare. Quando nel paziente si attiva il transfert istituzionale, il processo terapeutico interno al dispositivo comunitario può effettivamente considerarsi iniziato. Ciò non garantisce dellesito positivo di tale percorso, ma è comunque condizione necessaria ad ogni possibile buon esito. In alcuni casi, latttivarsi del transfert istituzionale non si produce mai, ed il paziente, anche se varca la soglia dellistituzione, non vi entra veramente. Sono i casi nei quali lesperienza comunitaria è rimasta estranea al soggetto, il quale non ne è stato minimamente scalfito. Vi è entrato fisicamente (e questo vale per la maggioranza dei casi) sotto la spinta della domanda dellAltro (la famiglia, i Servizi, il medico di base, lo psicoterapeuta,É), ma non è riuscito in seguito a fare minimamente propria tale entrata, a condividerla, a soggettivarla almeno parzialmente, cosa che invece la gran parte dei pazienti che portano avanti il percorso comunitario riescono a partire da un certo momento a fare. La domanda di entrata in comunità costituisce in effetti, il campo di lavoro su cui la fase iniziale del trattamento si produce. Essa funziona a molteplici livelli, inerenti tanto il soggetto della domanda (chi domanda lentrata in comunità del paziente?; nei termini di Lacan potremmo dire : qual è il punto di enunciazione effettivo di tale domanda?), quanto la natura di essa (che cosa tale domanda domanda? che cosa chiede questa domanda?). Inoltre, il trattamento della domanda di entrata in comunità comporta al suo interno una funzione di filtro selettivo, un lavoro di valutazione clinica da parte degli operatori sullopportunità dellentrata del soggetto allinterno dellistituzione comunitaria(5). Quando viene meno tale funzione clinica di filtro, lentrata in comunità da parte di un paziente diviene un evento subito tanto dal paziente quanto dallistituzione,
FASE TRATTAMENTO DELLA ACCESSO ENTRATA
Schema 1 Ora, si produce entrata psichica del paziente in comunità, laddove la domanda di comunità non è più mossa soltanto da una spinta al consolidamento di tale fantasmatizzazione immaginaria, che pùò assumere varie configurazioni a seconda della struttura di personalità e della particolarità soggettiva, ma si precisa, in caso di nevrosi, attraverso un primo lavoro di elaborazione simbolica di tale fantasmatizzazione, che fa apparire al soggetto la propria sofferenza di cui si lamenta non come qualcosa di cui è sempre lAltro (la famiglia, la società, i terapeuti,..) ad avere tutta la responsabilità, ma come un enigma in cui è implicato in prima persona. E quanto Lacan chiama rettificazione dei rapporti del soggetto con il reale, e costituisce proprio, nei casi di soggetti a struttura nevrotica (frequenti per esempio nelle patologie da dipendenza come lanoressia e la bulimia, ma anche nella tossicodipendenza) che entrano in comunità, una prima soggettivazione effettiva della domanda di comunità. Nel caso delle psicosi, assistiamo piuttosto ad una modalità di entrata psichica in comunità che diviene riconoscibile, quando il soggetto trova nellistituzione un luogo non persecutorio, regolato ma non Super.-egoico, entro cui potersi ritagliare e costruire una sua nicchia identitaria più sostenibile soggettivamente e socialmente, rispetto a quella folle che si è prodotta attorno a lui nel discorso familiare. La comunità diventa così per il soggetto un luogo di appartenenza, una seconda casa anche se transitoria, un luogo abitato da unatmosfera psichica e relazionale che consente al soggetto di respirare. Larticolazione effettiva di tale passaggio, nel soggetto, presuppone un lavoro psichico che gli permetta di uscire da un guado che lo tormenta spesso, quando entra in comunità, relativo al suo situarsi con la mente ancora nel suo luogo di provenienza, perlopiù la famiglia, e non ancora nel suo luogo di permanenza, la comunità. E a questo proposito che Antonello Correale introduce il concetto di lutto preliminare, come lavoro psichico necessario allingresso effettivo del paziente nel campo istituzionale. Intendo per lutto preliminare, scrive Correale,una complessa operazione affettiva, che il paziente deve operare in se stesso, al momento di entrare per la prima volta in Comunità. Chi entra in Comunità deve operare, infatti, unimportante cesura con la vita precedente, una rinuncia a progetti e sogni legati alla sua casa e alla sua famiglia e una riorganizzazione importante dellimmagine di Sé. La vita quotidiana cambierà, ma anche il contenuto spaziale, affettivo e temporale: al posto dei familiari, il personale curante, al posto della casa, listituzione. Deve scattare inoltre un importante movimento affettivo di affidamento, una fiducia che chi si occuperà di noi sarà più adeguato ed efficiente di chi lo ha fatto finora (Correale, in La comunità terapeutica. Tra mito e realtà , p. 190). Potremmo formalizzare la difficile posizione in cui si trova il paziente nel primo periodo di permanenza in comunità, avvalendoci dei cerchi di Eulero: esso si trova contenuto nellarea di incrocio tra linsieme della famiglia e quello della comunità: Schema 2
Questa particolare posizione conduce il soggetto ad operare continue scissioni dicotomiche tra il dentro ed il fuori della comunità, ove questi si connotano alternativamente per lui di un valore iperidealizzato o ipersvalutato. La comunità diviene spesso anche nel giro di pochi giorni, nel discorso del paziente che vi entra, da luogo di salvezza a luogo infernale, e la famiglia da luogo di dannazione a luogo di riscatto di cui si scotomizza difensivamente la realtà insopportabile. Tutto ciò in unaltalena che caratterizza il periodo iniziale, nel quale il soggetto vive in comunità senza avere minimamente soggettivato il distacco da casa, restando quindi di fatto libidicamente ancorato con la mente agli oggetti del luogo di provenienza. Il paziente è fisicamente in comunità, la sua mente è a casa. La comunità assume alternativamente nel suo discorso il carattere provvidenziale del rifugio, e il carattere opprimente della prigione che limita il soggetto nella sua libertà. Così la società, il modo esterno, diviene alternativamente luogo di dannazione, di tentazione e di crudeltà, e allopposto luogo della vera vita, distante dallartificialità protettiva della vita comunitaria. In diversi casi, lentrata psichica del soggetto in istituzione non si realizza, ed il paziente agisce un prematuro ritorno a casa sullonda di tali meccanismi di difesa regressivi. La fuga prematura dalla comunità, è effetto nel soggetto di una difesa che intende preservare una modalità pervicace di soddisfazione masochistica, un godimento incistatosi nel quadro del legame familiare, che egli tende a riprodurre in ogni luogo, e a cui il paziente non riesce minimamente a rinunciare. Spesso limpatto con le semplici regole della comunità, che organizzano la quotidianità, risulta insopportabile al paziente nella fase iniziale, e lo induce a tornare a casa. Nella mia esperienza istituzionale con pazienti anoressiche e bulimiche, spesso il dover semplicemente compartecipare con gli altri il momento regolare e conviviale del pasto, diviene fonte di unangoscia insopportabile che induce alla fuga. Lentrata effettiva in comunità implica per il paziente un passaggio che trasforma qualitativamente la sua permanenza allinterno dellistituzione. Per un soggetto a struttura nevrotica, il dilemma tra la casa e la comunità viene inizialmente risolto, quando egli arriva a riconoscere che il disagio di cui si lamenta non è in ultima istanza legato ad un luogo più che ad un altro, ma che è qualcosa in cui lui stesso è implicato e che tende a ripetere ovunque. Questa assunzione di responsabilità inconscia rispetto al proprio patire, permette al soggetto di accettare la comunità come luogo più predisposto a tollerare le dinamiche distruttive ed autodistruttive che è spinto fantasmaticamente a ripetere in ogni luogo, ed a superare la dicotomia immaginaria tra un dentro ed un fuori alternativamente buono o cattivo, che coinvolge tanto il rapporto tra la comunità e lesterno, quanto il rapporto tra sé e laltro. Prevale a questo punto per il soggetto il pensiero della comunità come luogo in cui poter cominciare ad affrontare lenigma della propria ripetizione, il perché è costretto a ripetere qualcosa che gli produce sofferenza. Nel caso della psicosi, la comunità può accogliere effettivamente un soggetto se riesce ad essere per lui capace di trattare il suo Altro persecutorio, e dunque di incarnare per lui, nella logica del funzionamento istituzionale che orienta il lavoro degli operatori, un Altro tollerabile, non terrifico né abbandonico, regolato ed insieme al servizio del soggetto psicotico, non invasivo ma insieme allascolto della parola e delle azioni del paziente(7).
Il punto cardinale che organizza il trattamento comunitario è dato dalla capacità degli operatori di lavorare insieme seguendo un orientamento comune nella cura, risultato continuo della lettura collettiva degli avvenimenti istituzionali che si produce nelle riunioni periodiche di equipe. E infatti proprio sulla base di tale lettura condivisa, che gli interventi degli operatori possono trovare pur nella loro particolarità il loro punto di orientamento, che fa dellatto di ciascuno al contempo un atto soggettivo delloperatore e insieme un modo di incarnare nella pratica le indicazioni emerse dalla lettura collettiva. E proprio nel gioco di questa dialettica continua tra la lettura istituzionale prodotta dallequipe e lintervento particolare degli operatori, che si costruisce il processo di trattamento allinterno dellistituzione comunitaria. La qualità di tale dialettica risulta essenziale rispetto agli effetti terapeutici che si producono sullatmosfera e sul funzionamento istituzionale, sul modo di legame del gruppo dei pazienti, nonché sullo stato di ogni singolo soggetto che vive in comunità, operatore o paziente che sia. Il funzionamento di unistituzione comunitaria tende quasi fisiologicamente ad alternare momenti in cui lequipe come insieme riesce a funzionare come principio orientatore degli atti dei singoli operatori che la costituiscono, e momenti in cui l'equipe non riesce a configurarsi come insieme orientato per i suoi operatori, producendo così effetti di frammentazione nella loro pratica che si riverberano sul gruppo dei pazienti, amplificando la dimensione immaginaria e regressiva interna alla dinamica di gruppo presente in istituzione. Nel primo genere di momenti, lequipe comunitaria, in quanto insieme in cui gli operatori si riconoscono, funziona come istanza terza che riduce la frammentazione interna al gruppo dei pazienti , bonificandone simbolicamente le dinamiche distruttivo/autodistruttive, ed aprendo per ciascuno nuovi spazi di soggettività. Alla tendenza allagito, tanto nei pazienti quanto negli operatori, si sostituisce la messa in parola, nei gruppi, nelle riunioni, nei colloqui individuali, di quanto il soggetto tende a ripetere in comunità per rispondere ad una spinta fantasmatica inconscia da cui è mosso in modo irresistibile, al presentarsi di una determinata situazione istituzionale che lo coinvolge. Nel secondo genere di momenti allopposto, il vuoto di simbolizzazione che può insinuarsi nell'equipe degli operatori, allentandone o deformandone la lettura degli avvenimenti istituzionali, apre un varco alla penetrazione amplificata di dinamiche frammentarie e speculari nel lavoro e nella vita comunitaria, alimentando tra gli operatori il senso di angoscia e di impotenza, di aggressività e sfiducia reciproca, nella sensazione che si sia perduta la rotta nella direzione della cura. E in questi momenti che più forte diventa la spinta dei singoli operatori ad un intervento parcellizzato sui pazienti, svincolato dal riferimento ad un orientamento comune, che perlopiù alimenta tra gli operatori il senso di sfiducia reciproca e di impotenza, aprendo il campo a dinamiche speculari di tipo fantasmatico tra gli operatori ed i pazienti. E proprio in questo genere di momenti che il narcisismo delloperatore lo può condurre a Ôdelirare in rapporto al paziente, ossia a pensare di poter essere lui, indipendentemente dallistituzione e dal lavoro dei suoi colleghi, a poterlo curare, incarnando per il paziente (sia che si tratti di uno psicotico, di un tossicomane o di una bulimica) la fantasia della madre onnipotente, non castrata, nutrice inesauribile. E a questo riguardo che Racamier formula il concetto di seduzione narcisistica, indicandovi la dinamica di ricaduta delloperatore in una relazione di tipo speculare col paziente, animata da una fantasia di onnipotenza terapeutica, che di fatto opera contro il trattamento comunitario che lequipe ha predisposto per quel soggetto (Racamier, Il genio delle origini, 1993, p. ) Nella mia esperienza di lavoro in comunità, la rotta della cura può essere ripristinata ogni volta riposizionando lequipe e la sua lettura collettiva degli accadimenti in istituzione come luogo simbolico del transfert di lavoro per ciascun operatore. Solo se lequipe funziona per gli operatori che la costituiscono come momento chiave di ricomposizione e di orientamento del lavoro di ciascuno, allora latto del singolo operatore può assumere per il paziente un valore inedito, non più riassorbibile tout court nel quadro di una dinamica immaginaria a due. E lequipe che attraverso latto particolare delloperatore interpella in questo caso il paziente. Latto delloperatore si configura in questo caso come un atto orientato, cioè un atto non legato allarbitrio senza legge di un singolo, né alla semplice esecuzione di un comando che garantisce chi lo compie da ogni rischio. Piuttosto un atto orientato è un tentativo di interpretare nella pratica, da parte delloperatore, lorientamento dellequipe in rapporto allincontro clinico quotidiano che egli ha in prima persona col paziente. Quando lequipe funziona come luogo simbolico del transfert di lavoro, non deresponsabilizza affatto loperatore, ma piuttosto lo rende più deciso nellassumersi in prima persona la responsabilità del suo atto. Tutto ciò produce un effetto sensibile dal lato del gruppo dei pazienti, per i quali la comunità può funzionare come Altro retto da una legge non sregolata né persecutoria (quale invece quella della famiglia di provenienza), solo nella misura in cui nellazione degli operatori è possibile riconoscere una trama unitaria che salva dalla frammentazione. In questo senso, possiamo sostenere che in comunità, in ultima istanza, tanto per gli operatori quanto per i pazienti, lequipe è il soggetto curante, il responsabile della direzione della cura. La cura nellistituzione si configura così in questo quadro come una pratica plurale dotata di una sua logica unitaria di funzionamento, una clinique à plusieurs, come qualcuno ha voluto definire il lavoro di una istituzione belga a orientamento analitico per bambini psicotici, che assume tuttavia qui per noi un valore per certi versi paradigmatico(8). Questo non significa affatto tuttavia, che lequipe eserciti un sapere assoluto sulla cura dei pazienti,e che lunico problema essenziale consista nel convincere il paziente ad adeguarsi al programma prestabilito per lui. Questo genere di ottica, di stampo più medicale e rintracciabile in istituzioni di matrice cognitivo comportamentale, in particolare in diverse istituzioni comunitarie che si occupano del recupero dei tossicodipendenti, esce fuori dal solco freudiano che da Main in poi orienta il dispositivo della comunità terapeutica, ponendosi in un certo senso come alternativo se non antitetico ad esso. Nella comunità terapeutica a orientamento analitico, lequipe si rivolge sempre al paziente come soggetto affinché siano le sue parole e d i suo atti a suggerire nella lettura degli operatori landamento del suo singolare percorso terapeutico. Ciò diventa possibile nella misura in cui lequipe stessa si riconosce come sottomessa alle leggi dellinconscio, e quindi chiamata ad una elaborazione collettiva permanente rispetto al non- sapere che la riguarda e che produce i suoi effetti nella vita dellistituzione e nel trattamento dei pazienti. Per questo, lequipe è chiamata a produrre periodicamente una lettura del caso clinico che si annoda ad una lettura del funzionamento complessivo dellistituzione e di se stessa come istanza orientatrice del trattamento.
Una volta entrato psichicamente in comunità, il paziente può portare la sofferenza di cui patisce nei diversi luoghi e momenti che listituzione offre, mosso da un transfert effettivo verso listituzione ed i suoi operatori, carico di tutte l e ambivalenze e le oscillazioni che esso comporta nel corso della cura. Larticolazione di tale transfert è ciò che permette al soggetto di manifestarsi portando la propria sofferenza nel luogo della parola e più in generale dello scambio simbolico, ossia condividendola con altri allinterno di un discorso: è quanto avviene quotidianamente nellesperienza comunitaria e nel motore dinamico che fa di essa per molti unesperienza trasformativa, il funzionamento del gruppo comunitario come luogo di trattamento della sofferenza centrato sullazione e sulla sua simbolizzazione nel campo di un discorso collettivo. E questo un primo asse fondamentale che rende possibile incidere sul patire che il paziente ci porta: lazione della parola e del simbolo nella vita comunitaria sottrae alla malattia una quota del godimento che la caratterizza, il quale non si presenta più come un godimento silenzioso, come un attaccamento muto e assoluto alla propria sofferenza, ma tende a configurarsi come un godimento parziale, svuotato, che apre al soggetto lo spazio per unaltra forma possibile di soddisfazione che passa attraverso il medium della domanda. Da un godimento muto, mortifero, assoluto, solitario, al una soddisfazione che passa nella parola, entra nel discorso, richiede la presenza di altri, si coordina alle leggi istituite dallAltro istituzionale entrando con esso in dialettica, perde parte della sua assolutezza mortifera per aprire nel soggetto uno spazio di enigma. Il trattamento comunitario spinge il soggetto verso una riforma del suo modo di soddisfarsi, che punta ad alleggerire lassolutismo implacabile che lo lega al suo patire, per renderlo disponibile a forme di soddisfazione più dialettiche, legate al rapporto con lAltro. Lottare contro la dittatura dellAltro sul soggetto (quale si può constatare nelle psicosi), e insieme contro lautarchia del soggetto rispetto allAltro (che ritroviamo spesso nella tossicomania, ma anche nellanoressia e nella bulimia), contro un godimento tirannico dellAltro sul soggetto e insieme contro un godimento senza Altro (9), adialettico, fortemente presente nelle nuove forme del sintomo proprie della società contemporanea a capitalismo avanzato. La comunità diventa così un laboratorio di vita entro cui il soggetto può tornare a prendere contatto con un Altro diverso da quello terrifico, abbandonico, inaffidabile o invasivo che ha incontrato nel corso della sua esistenza. E un luogo di ricostruzione di un rapporto più sostenibile con lAltro, animato da una fiducia non cieca, ma tuttavia effettiva, che riapre al soggetto la possibilità di una vita mossa dal desiderio, o comunque articolata su nuovi legami con altri significativi per lui. Perché questo divenga possibile, la comunità deve fornire inoltre e prima di tutto qualcosa di reale che non è dellordine della parola, ma che crea le condizioni di accesso alla parola nel discorso per soggetti che vi sono refrattari o che faticano ad accedervi. Si tratta di tutto quanto fa della comunità un luogo reale di regolazione e di interferenza sul godimento, condizione per il suo funzionamento come luogo simbolico di dispiegamento della parola del soggetto. Il paziente che entra in comunità, per poter parlare di quanto lo riguarda in un contesto gruppale, abbisogna di qualcosa di più di un semplice dispositivo psicoterapeutico di gruppo: gli servono i muri della comunità, la sua stanza, il bagno, le regole dellistituzione, il calendario della giornata e della settimana, la presenza e lassenza degli operatori di giorno e di notte, un direttore che interviene di persona nei momenti critici del suo percorso, un lavoro continuo da parte degli operatori con i familiari del paziente e con le loro oscillazioni rispetto alla sua permanenza allinterno dellistituzione, uno scambio continuo con gli operatori dei Servizi di provenienza del paziente. La formula generale del trattamento comunitario può quindi venire espressa in questa sintesi: elaborazione simbolica più interferenza reale sul godimento. Evocando una celebre massima di Kant, potremmo dire che lelaborazione simbolica senza interferenza reale sul godimento autodistruttivo è vuota, mentre la seconda senza la prima è cieca: il trattamento comunitario efficace è sempre una risultante della sintesi tra queste due assi di intervento sul dolore psichico. E evidente che per un paziente tossicodipendente, lesclusione della presenza della sostanza dal contesto istituzionale è una precondizione fondamentale perché la sua esperienza nei dispositivi di parola divenga effettivamente possibile senza scadere nella chiacchera: con questa regola di base, la comunità opera per il soggetto tossicomane una interferenza preliminare rispetto alla sua passione per la sostanza, senza cui laccesso al funzionamento del gruppo rischierebbe di diventare sterile, rendendo impossibile al soggetto lavorare sulla propria spinta passionale. La comunità si pone in questo caso come divaricatore nella realtà tra il soggetto tossicomane e la droga, creando così le precondizioni per una parola possibile del soggetto sulla sua passione accecante. Nel caso di una bulimica o di una anoressica, per le quali loggetto di godimento, il cibo, non può, come nel caso della droga, essere espulso dalla comunità, il compito dellistituzione consiste comunque anche nel produrre una politica che ne regolamenti la presenza in modo tale da ridurre o arginare la spinta pulsionale verso di esso, rendendo possibile uninvestimento libidico del soggetto nei luoghi di parola. Altrettanto evidente risulta a quanti lavorino in istituzione con pazienti psicotici il peso che può avere sul percorso terapeutico del soggetto una comunicazione improvvisa da parte dei genitori , magari angosciati o depressi per la sua lontananza da casa, la quale può anche spezzare un tragitto di passi faticosamente costruiti insieme a lui. Di qui la necessità di un lavoro permanente con i familiari dei pazienti psicotici in comunità, di cui spesso sono i pazienti stessi a segnalarci la necessità come condizione stessa del proseguimento del loro lavoro: si tratta per gli operatori di provare un po a regolare, prendendosene cura effettivamente come soggetti in gravi difficoltà, un padre e una madre che per il nostro paziente hanno funzionato come un Altro sregolato vissuto come persecutore. In assenza di tali operazioni iscritte nella presa in carico del paziente in istituzione ma da reiterare continuamente nel corso del trattamento, non è possibile per il paziente giungere a soggettivare qualcosa in modo permanente sulla propria condizione attraverso il lavoro svolto nei dispositivi simbolici offerti allinterno del setting comunitario. .Quando parlo di dispositivi simbolici interni allistituzione comunitaria, intendo tutti quei luoghi predisposti dallistituzione entro cui gli accadimenti istituzionali trovano la possibilità di una loro messa in discorso, di una loro articolazione che rende tali eventi metabolizzabili e rappresentabili simbolicamente da parte dei pazienti, riducendone la portata terrifica o comunque caotica. Questi luoghi possono essere senza dubbio dei luoghi di parola, come gruppi (con finalità più mirata a trattare la dinamica interna al gruppo dei pazienti) o riunioni (con un obiettivo più pragmatico-organizzativo della vita quotidiana, e coinvolgente pazienti e operatori); ma anche momenti nei quali le forme della simbolizzazione passano attraverso altre modi rappresentativi, come in attività di messa in scena (psicodramma), o in ateliers e laboratori (centrati spesso su di una pratica che passa attraverso un fare manuale o corporeo, e che mette quindi al centro il corpo come veicolo di una produzione reale dotata di valore simbolico per il soggetto e per il gruppo).
Lasciare la comunità non è solitamente meno problematico di quanto lo sia entrarvi, e spesso le due cose, come sottolinea Racamier, sono legate a doppio filo: il modo in cui un soggetto compie la sua entrata in comunità getta le basi della sua modalità di uscita (La comunità terapeutica come una delle possibili forme di intervento nel trattamento degli psicotici, intervista del 3/6/1981, p. 9). Nel processo della valutazione clinica del percorso terapeutico del soggetto in comunità, è essenziale situare il momento nel quale tale partenza si produce, rileggendola come esito di tale processo complessivo. Infatti, il tempo della partenza può assumere un valore alquanto diverso, che può restituircene il valore per il soggetto di una non-entrata, di una interruzione, e infine di un percorso dotato di una sua conclusività. Per distinguere queste modalità diverse di dipartita del paziente dalla comunità, ci è utile riferirci alle scansioni del tempo logico con cui Lacan ha articolato il rapporto del soggetto con lAltro nel quadro della relazione intersoggettiva (Lacan, Scritti, pp. 191-207). Una partenza dalla comunità che si configura come effetto necessario di una non entrata, è quanto sperimentiamo in tutti quegli ingressi in comunità che abortiscono nella fase iniziale, non riuscendo a produrre nel soggetto una elaborazione simbolica anche minima della propria domanda di entrata. Una situazione tipica di partenza dalla comunità risultante di una non entrata è data, in pazienti bulimiche, dallingresso iperidealizzato nella comunità immaginata come luogo di controllo della pulsione e di ripristino dellideale anoressico. Non appena si verifica un cedimento rispetto a questo ideale superegoico del controllo sulla pulsione orale, per alcune pazienti risulta insopportabile la permanenza in comunità e la coesistenza con altre pazienti: di qui la loro fuga dalla comunità come effetto dellincrinarsi del loro progetto di una restaurazione immaginaria del controllo sulla pulsione. La medesima cosa può essere detta per la situazione rovesciata incarnata dai casi di anoressia restricter nei quali la comunità in entrata viene utilizzata come luogo di radicalizzazione adialettica dellanoressia, conducendo inevitabilmente lequipe al ricovero forzato in reparti ospedalieri di nutrizione clinica o di psichiatria, e spesso alle dimissioni della paziente. In tutti questi casi in entrata, nei quali si constata una impossibilità da parte del soggetto a rendere più mobile la propria identificazione monolitica al sintomo, si riscontra unimpossibilità altrettanto massiccia a prendere le distanze dal suo Altro familiare di provenienza. Diventa in altri termini impossibile per questi soggetti fare lesperienza del lutto preliminare, della perdita temporanea del legame quotidiano con i familiari, come condizione dentrata psichica in comunità . Il paziente si ferma a quanto Lacan chiama listante dello sguardo: gli è risultata impraticabile una qualsivoglia elaborazione sul suo ruolo rispetto a ciò di cui si lamenta, la radice di ciò che lo tormenta è fuori di sé, è negli altri che vede e da cui non può che cercare di fuggire, ovunque si trovi. Per quei pazienti che riescono a trovare nella comunità un luogo in cui poter vivere, distanti dal luogo di provenienza costituito perlopiù dalla famiglia, lentrata psichica in comunità attiva un tempo per comprendere che si dipana lungo il loro percorso di convivenza in comunità, e che rende possibile un processo di storicizzazione simbolica del proprio problema nel quadro del discorso comunitario. E allinterno di tale tempo dellesperienza comunitaria che può prodursi un modo di partenza che può essere definito nei termini di una interruzione. Spesso essa viene facilitata da dei fattori precipitanti, legati ad eventi comunitari o a fattori esterni allistituzione, a volte a questioni burocratiche legate ai tempi di pagamento delle rette da parte dei Servizi, che sanciscono dei termini che sovente non sono in accordo con i tempi di elaborazione soggettiva delluscita dalla comunità. Una tipica uscita in questa fase è data dalla Ôfuga nella guarigione, nella quale il paziente interrompe il trattamento comunitario alla luce di una riacquistata maggiore capacità di controllo sul proprio sintomo (penso soprattutto ai casi di tossicomania e di bulimia), ma anticipatamente rispetto ad una condizione che gli permetta di iniziare ad elaborare la perdita della comunità prima di lasciarla. Molti pazienti lasciano la comunità in questo modo, evitando il momento simbolico di elaborazione del lutto, per la gran parte di essi intollerabile. Di fatto, per moti pazienti si rivela impossibile unuscita che si spinga sul piano dellelaborazione, più in là di questa. Spesso in pazienti nevrotici, luscita anticipata funziona come meccanismo di difesa che permette loro di aggirare il momento traumatico della perdita e della sua elaborazione dellesperienza compiuta in comunità: allelaborazione del lutto per la separazione imminente si sostituisce lagito di fuga, che permette illusoriamente di staccarsi senza sentire la mancanza di ciò che si perde. Il lutto non elaborato simbolicamente si ripresentifica per il soggetto fuori dalla comunità facendolo in un certo senso ancora sentire dentro, ancora non uscito, e spesso questo è causa di ricadute nella patologia. Nei pazienti psicotici è perlopiù impraticabile una vera simbolizzazione delluscita, ed il problema maggiore quando decidono di lasciare la comunità in un tempo che per lequipe è anticipato, laddove non sia più possibile trattare tale precipitazione intervenendo anche con i familiari ed i Servizi, diventa essenziale permettergli di uscire rendendogli possibile una continuazione del lavoro con altri mezzi, in un punto della rete di assistenza fuori dalla comunità, evitandogli un salto nel vuoto che può riprodurre le condizioni di uno scatenamento. Vi sono uscite per le quali invece è forse più preciso parlare di separazione e non solo di partenza dallistituzione. Si tratta di uscite nelle quali il paziente ha storicizzato il proprio percorso in comunità nel quadro della propria esistenza, giungendo a riconoscere nel periodo comunitario lesperienza di un incontro che ha lasciato il segno su di lui, sul suo modo di soddisfarsi, sul suo dare una direzione e un valore alla sua vita. Tali uscite avvengono in consonanza ad una elaborazione del momento del distacco perlopiù sofferta, avvertita come dolorosa ma arrivati ad un certo punto inevitabile. Luscita conclusiva dalla comunità, più conforme ad un vero processo di separazione, non molto frequente in realtà, è anchessa una qualcosa di non standard, di singolare,ma lascia sempre nel soggetto il marchio di un incontro incancellabile che lo spazio comunitario gli ha reso possibile: quello di se stesso con un Altro capace di restituirgli la dignità ed il diritto ad una soddisfazione non autodistruttiva, annodata al suo essere desiderante.
1) Badaracco, Jorge E. Garcia, La comunità terapeutica psicoanalitica di struttura multifamiliare, Franco Angeli, Milano 1997 (1989).
Note:
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