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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



Possibilità terapeutiche

di Giulio Gasca e Laura Motrassino


Dal libro di G.Gasca: Psicopatologia di comunità
Capitolo 4 ripubblicato on-line per gentile concessione dell'editore LINDAU, Torino




Riprendendo il tema trattato inizialmente è possibile osservare come i fattori di cronificazione e cronicizzazione operino non solo congiuntamente, ma come i diversi fenomeni descritti (apatia, atemporalità, indifferenziazione e i vari aspetti della differenziazione marginale) possono essere comprensibili sia come meccanismi di difesa tipici della schizofrenia (quindi espressione di cronicizzazione) sia come conseguenza di una nevrosi istituzionale (quindi espressione di cronificazione).
A poco a poco in moltissime comunità sembrano riprodursi quelle stesse dinamiche cronificanti (progressivo stereotipizzarsi dei momenti relazionali, impoverirsi dei rapporti umani, la spersonalizzazione degli individui trattati come oggetti tutti identici tra loro) che erano proprie del vecchio ospedale psichiatrico e determinavano la tipica sindrome del paziente ricoverato da lungo tempo e che la psichiatria basagliana dei decenni scorsi, con un'analisi un po' semplicistica, attribuiva all'istituzione totale voluta da una società cattiva ed escludente.
Ma diciassette anni dopo la fine dell'istituzione manicomiale, si possono vedere gli stessi meccanismi di cronificazione-cronicizzazione riformarsi non solo in istituzioni programmate per non escludere né reprimere il paziente, ma anche nell'alto grado di rigidità, stereotipia dei ruoli e immobilità resistente a ogni cambiamento proprio delle famiglie degli schizofrenici in cui i servizi del territorio sono riusciti a mantenere i pazienti evitando il ricovero con un'assidua assistenza domiciliare.
La ragione di ciò appare chiara a chi abbia letto con attenzione il primo capitolo, in cui la sindrome schizofrenica viene interpretata come il manifestarsi, a livello di un singolo individuo e dell'immediato intorno relazionale, di un'insufficiente capacità (determinata da diversi fattori biologici, psicologici, socio-culturali) di integrare nuovi stimoli complessi in un sistema fluido, differenziato, capace di adattamento.
Il sistema intrapsichico dello schizofrenico, come il sistema interpersonale che con lui interagisce, oscilla perciò tra situazioni caotiche, ove è possibile qualsiasi collegamento, senso, interpretazione degli eventi, e situazioni rigide ove un modello, dato una volta per tutte, esclude il nuovo, il diverso.
Manca totalmente l'elemento intermedio tra aree di caos e aree di rigidità, costituito da aree di differenziazione, capaci di organizzare la molteplicità di elementi caotici secondo l'una o l'altra scelta possibile, modificando o arricchendo di nuove possibilità i modelli altrimenti rigidi così da permettere di utilizzarli come principi di ordine nel caos.
Introduciamo allora uno schema interpretativo già usato con efficacia nell'interpretare il funzionamento dei gruppi terapeutici in un centro diurno come fattori capaci di modificare la patologia caotico-rigida propria della schizofrenia: quella della funzione dei segni e dei simboli.
Il segno, riprendendo una definizione dalla psicologia analitica (Jung, 1921), consiste in un significante che designa qualcosa di completamente noto.
Al contrario il simbolo è un significante che rappresenta la migliore espressione possibile di un dato di fatto ancora sconosciuto negli elementi essenziali. Esso esprime, per così dire, la necessità di una sintesi tra elementi incongruenti e contraddittori legati a punti di vista parziali, sintesi che non può ancora (al livello cui è per il momento giunta la coscienza) venir espressa in termini razionali.
Ma possiamo esprimere lo stesso concetto in termini linguistico-epistemologici: il segno è univocamente definito nell'ambito di un linguaggio coerente; il simbolo, al contrario, si trova a far parte contemporaneamente di più linguaggi (ovvero di più modelli di relazione) con strutture differenti e non traducibili l'uno nell'altro. Se da un lato è chiara la funzione del segno nel permettere la reciproca comprensione e l'agire di diversi individui in modo comprensibile e coordinato, il simbolo - si pensi alla sua funzione nei sogni, ma anche nell'espressione artistica e nel pensiero creativo in generale - è anche ciò che permette di uscire fuori da modelli rigidi e precostituiti, di creare a partire da due schemi concettuali parziali, evidenziandone i limiti, uno schema concettuale più ampio che li sintetizzi.
Ora la fase acuta della schizofrenia sembra caratterizzata dal fatto che i segni perdono la loro funzione di segni: poiché il paziente non può valutare quale aspetto di una situazione complessa sia rilevante rispetto allo specifico contesto in cui si muove, sul piano logico affettivo e del comportamento, ogni percetto e/o concetto vengono afferrati da molteplici riferimenti contraddittori (pensiero iperinclusivo di Cameron) fino a sfociare in una completa confusione.
Così tutti noi abbiamo chiaro cosa fare se, entrando in una stanza, il nostro ospite ci invita a prendere una sedia. Non così uno schizofrenico in fase acuta, che non può escludere tra i significati rilevanti (cosa che sarebbe invero giustificata se si trattasse di interpretare lo stesso fatto avvenuto in sogno con libere associazioni) quali l'allusione al seggiolone che usava da bambino o un riferimento al seggio papale in San Pietro.
Ma di più, tale uso impropriamente simbolico del segno è quello che si riscontra tipicamente nei messaggi a doppio legame. Ad esempio il concetto figlio può significare bambino dipendente dal genitore, bisognoso di guida e protezione, o colui che, crescendo, si autonomizza dal genitore stesso e ne costituisce la speranza per il futuro, realizzando magari ciò di cui lo stesso genitore non è stato capace, o che lo sosterrà nella vecchiaia.
Tali significati sono inestricabilmente contraddittori se applicati confusamente allo stesso contesto e alla stessa situazione, anche se, articolati in un progetto esteso nel tempo, possono assumere un senso coerente.(1)
Ma la natura e l'origine del messaggio a doppio legame ci diviene ancora più chiara se lo esaminiamo nei termini della teoria dei ruoli: vengono formulate due o più richieste di "essere" in ruoli tra loro incompatibili: tali richieste sono rigide, secondo la modalità che più avanti descriveremo come progettualità cristallizzata, una progettualità incapace di andare oltre il frammento del presente, di rendersi flessibile per articolarsi e integrarsi in situazioni più complesse. In pratica colui che esprime il messaggio doppio legame giustappone, senza essere capace di confrontarli, due frammenti di ruolo incompatibili tra loro, ma senza essere in grado di comprendere la loro incompatibilità. Ciò genera un'incoerenza cioè una situazione caotica, rispetto ai ruoli complementari con cui chi riceve il messaggio dovrebbe rispondergli.(2)
Nel tipico doppio legame non è che il genitore o il figlio vogliano evitare un conflitto (ciò avviene nella dissociazione e nell'ambivalenza isterica ove due atteggiamenti opposti incompatibili non si vogliono portare alla coscienza assieme: l'isterico è però in grado di esprimere tutto ciò nel suo linguaggio inconscio come dimostra il suo comportamento finalistico e perciò evita il conflitto). Al contrario lo schizofrenico (e il genitore schizofrenogenico, che è spesso a sua volta uno schizofrenico compensato) non dispone di un linguaggio, nemmeno inconscio, capace di esplicitare adeguatamente il conflitto: ne nasce la dissociazione schizofrenica che non consiste nell'escludere opposti incompatibili, ma nella carenza di legami associativi (sarebbe meglio dire logico-programmatici), per cui aspetti obiettivamente incompatibili vengono insensibilmente mescolati.
Il disagio, l'angoscia del precipitare continuamente nella confusione riguardo alle molteplici possibilità di interpretazione della realtà circostante e della sua stessa identità, spinge lo schizofrenico a cristallizzare a poco a poco tali pseudo simboli in schemi stereotipati, rigidi, riduttivi, sfuggendo e rifiutando di riconoscere ogni ambiguità e complessità.
Così dalla fase acuta si passa a una progressiva cronicizzazione: qui non è la funzione di segno ma quella di simbolo a essere perduta. Esaminando la cosa in termini di teoria dei ruoli, è noto che, accanto alla dimensione somatica (che riguarda l'insieme di caratteristiche e funzioni corporee che permettono di attualizzare un determinato progetto), ciascun ruolo presuppone una dimensione sociale e una dimensione immaginale.
La dimensione sociale riguarda l'insieme di modalità di comportamento, aspettative, norme convalidate consensualmente, che permettono un'interazione coerente con il collettivo: si può dire che corrisponde al concetto di segno.
La dimensione immaginale consiste nella molteplicità di significati che l'immagine del ruolo può assumere nel mondo interiore del protagonista ed è collegata col mondo delle possibilità, dell'innovazione creativa, della ricerca di un senso: corrisponde al concetto di simbolo.
Così possiamo dire che, se nella schizofrenia acuta è persa la dimensione sociale dei ruoli del paziente, invasi e assorbiti nella dimensione immaginale, nella schizofrenia cronica la dimensione immaginale viene progressivamente soppressa, per essere sostituita da una dimensione sociale ipersemplificata, ridotta cioè ad alcuni ruoli poveri e stereotipati, esenti da contraddizioni, oppure alla rigida dimensione sociale di ruoli adattati alla pseudocomunità paranoide (Ca-meron, Magaret) che, semplificando il suo pensiero iperinclusivo con l'esclusione del confronto con la realtà, il paziente si è costruito attorno.
In quest'ottica i messaggi a doppio legame appaiono come la logica espressione, a livello familiare, di ruoli inizialmente invasi da una dimensione immaginale irrealistica (il Figlio, la Madre, idealizzati fondendo in tali ruoli aspetti contraddittori) e successivamente riportati a una dimensione pseudo-sociale stereotipata e riduttiva. Persa la dimensione immaginale, la capacità di accettare la fantasia e l'ambiguità come distinti dalla realtà, ma anche come suggeritori di nuove soluzioni applicabili nella realtà stessa, il sistema familiare come il sistema intrapsichico del paziente divengono del tutto incapaci di elaborare sia il messaggio a doppio legame, che le tensioni e le aspirazioni che l'hanno generato.
Ritornando ai gruppi terapeutici di un centro diurno, che avevano dato risultati nettamente migliori, come incisività e come durata nel tempo, rispetto alle ormai diffusissime attività risocializzanti, l'analisi del loro funzionamento aveva portato a dividerli in due gruppi (Gasca, 1989).
a) Gruppi che agiscono a livello di realtà concreta (ceramica, falegnameria, lavoro su rame, preparazione del pranzo, fotografia). Tali gruppi sono caratterizzati dal fatto che ciò che ai pazienti viene richiesto inizialmente è estremamente semplice e verificabile in termini di risultati immediati.
Ai segni cioè viene restituita la funzione di segni, si crea una situazione priva di complessità e ambiguità, in cui i pazienti, a partire dalla dimensione somatica possono recuperare la dimensione sociale dei propri ruoli.
Ma, a differenza di centri di risocializzazione dove gli operatori, presi da una sorta di furor riabilitativo, finiscono per sviluppare una sorta di crosta di ruoli esterni adattati (ridotti a una pura dimensione sociale) che copre i conflitti del paziente, conflitti che rimangono ignorati e irrisolti, nei gruppi esaminati la dimensione segnica e sociale che via via si traduce nel riaddestrare il paziente a una sempre maggiore complessità di rapporti e di progetti, è sviluppata senza perdere di vista il mondo interiore e la dimensione simbolica del paziente stesso, ed è sinergica al secondo tipo di gruppi.
b) Gruppi di espressione analogica (arte-terapia, musico-terapia, espressione corporea, sociodramma, psicodramma) che incarnano il pensiero divergente, le sue possibilità molteplici, la sua flessibilità creativa. Essenziale in tali gruppi è l'operare con profondità analitica, ma attraverso immagini, anziché parole. Contrariamente alle espressioni verbali che presuppongono un vero o un falso, un affermare o un negare, la dimensione analogica evoca un mondo in cui la realtà soggettiva e l'inconscio del paziente, senza preoccuparsi del giusto e dello sbagliato, del sano o del pazzo, possono liberamente confrontarsi con altri inconsci e altri mondi (di altri pazienti e anche di operatori) così dalla molteplicità dei significati, messo tra parentesi il principio di non contraddizione, secondo un percorso che potremmo definire più estetico che teoretico, si creano una struttura e dei riferimenti collettivi che portano a differenziare ed elaborare schemi coerenti.
Ai simboli che, impoverendoli, venivano usati come segni, viene restituita così la funzione simbolica e, attraverso di essi il mondo interiore viene ritrovato e riportato alla realtà della coscienza collettiva.
Si crea inoltre un contesto in cui il paziente apprende a vivere come libertà costruttiva quella fluidità dell'esperienza che in precedenza viveva come ambiguità ansiogena.
Ora, in una ricerca comparativa fatta anni fa (Gasca, Munizza) sui risultati di interventi terapeutici di un gruppo di utenti di un centro diurno gestito secondo i principi sopra enunciati, e di un gruppo di pazienti cronici simili per storia clinica e sintomatologia inseriti nelle comunità, si rimane colpiti dalla differenza quantitativa e soprattutto qualitativa dei risultati, a favore del centro diurno. In particolare l'elaborazione di simboli, immagini e problemi profondi avviene soprattutto nel centro diurno ed è collegata a un mutamento della qualità di vita che rimane, nei casi seguiti abbastanza intensamente e a lungo, stabile nel tempo.
Non si tratta solo della qualità tecnica e della complessa interazione di diversi tipi di gruppo coordinati tra loro che caratterizzava nel decennio '83-'93 il centro diurno considerato (e che non si riscontra abitualmente in centri puramente risocializzanti). Infatti tali caratteristiche tecniche non risultano agevolmente trasferibili, nonostante la buona volontà di alcuni operatori, nell'area comunitaria. Il fatto è che una comunità, in quanto residenziale, fa sì che gli aspetti specificamente terapeutici dell'interazione in gruppo, vengano a poco a poco assorbiti da quelli assistenziali, da cui nessun momento di vita della comunità può prescindere. La priorità che in essa non può non essere data al nutrire, curare l'igiene e le eventuali malattie somatiche del paziente ed evitare ventiquattr'ore su ventiquattro comportamenti lesivi a sé o agli altri, finisce per caratterizzare in modo predominante i ruoli assunti dagli operatori e i ruoli a questi complementari sviluppati dai pazienti-ospiti.
D'altra parte l'atmosfera rassicurante e abitudinaria, priva di obiettivi incerti (le cosiddette attività risocializzanti finiscono per avere sempre obiettivi concreti, definiti e immediati nel tempo) è assai meno ansiogena per il paziente, che tende ad adagiarvisi, ma produce a lungo termine una cronificazione.
È un riscontro frequente che pazienti inseriti nel centro diurno con buoni risultati autonomizzandosi da una famiglia assai patogena, dopo un inserimento in comunità abbiano perso ogni interesse e ogni stimolo ai gruppi terapeutici prima frequentati.
Non è quindi quasi mai sufficiente assistere il paziente in comunità e curarlo in parallelo fuori da essa. L'unica soluzione appare pertanto un intervento non solo attraverso gruppi terapeutici (che possono essere usati, comunque, in parallelo) ma attraverso la stessa rete di ruoli che si sviluppa in comunità. In base all'analisi esposte in precedenza tale via appare estremamente difficile ma non impossibile.
Abbiamo visto come siano da evitare gli eccessi assistenziali, che generano dipendenza nell'ospite, ma anche l'iperattivismo risocializzante che stimola ruoli esterni residui adattati del paziente, trascurando il mondo interiore e la parte malata, conflittuale di esso.
Per rifarci al modello precedente, del rendere al segno la funzione di segno, si può prendere le mosse dal fatto che, nell'area comunitaria come in ogni altra situazione, il paziente tenderà a strutturare la propria esperienza sulla base delle esperienze precedenti. Così, nel capitolo precedente Luciana assimilava la propria esperienza attuale a quella dell'infanzia in collegio, assumendo a volte il ruolo di "madre superiora autoritaria" verso altre pazienti più remissive, a volte il ruolo "allieva sottomessa/nascostamente ribelle" verso operatori attivi ed energici. L'operatrice poteva da un lato analizzare e comprendere l'agire attuale della paziente come precipitato di un insieme di esperienze passate, dall'altro approfondire il senso di queste attraverso la loro "rievocazione drammatica" nella quotidiana vita di comunità di Luciana, e, aiutandola a rapportare elementi del passato raccontati e del presente agiti, dargliene coscienza.
Ma tutto ciò sarebbe rimasto a livello verbale, senza l'agire da parte dell'operatrice in ruoli periferici (forse simili a quelli della paziente), non rientrati nello schema dominante persona autoritaria/ bambina impotente, ma di volta in volta adattati a nuove situazioni concrete (la "Pet Therapy", o momenti di passatempo) sì da incoraggiare Luciana a riattivare, sviluppare e differenziare altri ruoli via via più complessi.
Un altro paziente, Aldo, comincia a un certo punto a vedere come sovrapposte al volto dell'operatrice che più si occupa di lui e con la quale sta stabilendo un rapporto particolarmente significativo, una serie di altri volti: talvolta un uomo con i baffi, talvolta una chiromante conosciuta in passato, una ex fidanzata, un infermiere psichiatrico maschio che l'aveva curato in passato, o Mao Tze Tung.
L'operatrice, anziché spingerlo a compiere varie attività normali cosa che il paziente avrebbe comunque rifiutato, cerca di coesistere con lui in una sorta di spazio intermedio (transizionale) nel quale, senza alcun fine immediato, si può parlare di queste cose. Aldo inizia a raccontare le storie relative a questi personaggi e rileva i tratti del rapporto con ciascuno di essi che potevano di volta in volta essere comuni o similari a tratti del rapporto con l'operatrice. Riesce così, anche se solo in certi momenti, a differenziare la reale percezione del volto dell'operatrice, dalle percezioni che su esso sovrappone, rendendosi conto della loro origine da proprie dinamiche endopsichiche.
In questi casi l'operatore ha usato anziché l'interpretazione verbale, una interpretazione della situazione attraverso l'interazione col paziente volta a sviluppare specifiche relazioni non ambigue. Attraver-so i ruoli assunti dal paziente e i ruoli da lui attribuiti provocati negli altri operatori è possibile spesso addirittura ricostruire la costellazione di ruoli dominanti nella famiglia di origine del paziente e mettere a fuoco (e quindi elaborare attraverso un'opportuna interazione) ambiguità, rigidità ed elementi conflittuali.
Ogni volta che attraverso questa interazione chiarificante e per così dire pedagogica, il paziente riconquista l'uso corretto (a livello segnico-sociale) di un insieme di ruoli, si può, a partire da questi, complessificare la situazione con l'introdurre gradualmente nuovi varianti o riattivando ruoli poco sviluppati, abbandonati in passato dal paziente: quelli che sono stati nella precedente trattazione definiti ruoli periferici.
Con questo si può combattere la regressione verso una progressiva semplificazione dei ruoli: riprendiamo qui per criticarlo, il concetto di fusione simbiontica di Searles riportato a p. 90 di questo libro. Il termine simbiosi, preso dalla zoologia e dalla botanica, può essere alquanto fuorviante se riportato in campo psicosociologico.
Esso propriamente indica l'associarsi di due forme vitali capaci di svolgere funzioni diverse e complementari, con reciproco vantaggio. Una sorta di simbiosi in senso proprio si potrebbe allora avere nel caso di una coppia di coniugi caratteriologicamente diversi (tipo pensiero iperrazionale lui, capace di progettare a lungo termine, tipo sentimento, sensazione, dotata di capacità pratiche e relazionali nell'immediato, lei) che, vivendo insieme, delegassero all'altro le funzioni a ciascuno dei due meno congeniali, rinunciando a svilupparle in proprio. Ma ciò determina un'interdipendenza sì, ma per nulla una fusione, anzi una accentuata differenziazione. Ciò che si riscontra nel caso della schizofrenia è invece:
a) nella famiglia di origine l'attribuzione di ruoli caotici, non ben differenziati o, a volte, l'incapacità dei genitori di distinguere dai propri sentimenti e progetti, quelli dei figli: si tratta di confusione, dovuta all'inadeguata differenziazione dei modelli di ruolo, e non di fusione;
b) uscire da tale confusione, comporta per genitori e figli il rifugiarsi in ruoli stereotipati, rigidi, che verranno riprodotti da pazienti e operatori in comunità (la difesa di nuovo dalla confusione, dal caos, non da un'inesistente fusionalità simbiotica). Tali ruoli rigidi però comportano un'impossibilità del paziente di adattarsi alle situazioni esterne più complesse e quindi rafforzano la sua dipendenza dal sistema. Ma ciò, a differenza che in una forma di simbiosi, è legato non a differenziazione di specifiche funzioni ma a sdifferenziazione.

Siamo qui costretti a formulare una critica esplicita a certi luoghi comuni di origine psicoanalitica, che pur essendo ormai del tutto superati continuano a venir usati impropriamente nell'interpretazione della schizofrenia. In coincidenza con le prime scoperte psicoanalitiche, circa un secolo fa, si ingenerò una tendenza entusiasta a interpretare ogni fenomeno riportandolo agli schemi della nuova scienza. Accanto a seri e accurati studi clinici sulla nevrosi si produssero una serie di interpretazioni storiche, sociologiche, antropologiche - si pensi ad esempio al freudiano Totem e tabù - non su eventi osservati dagli autori, ma su leggende, finzioni letterarie, o ipotesi non corrispondenti alla realtà, ma diffuse nella cultura di allora e la cui unica virtù era di essere facilmente assimilabili ad alcuni concetti della psicoanalisi. Per quanto riguarda la schizofrenia se alcuni autori di formazione psicoanalitica, quali Jung (che allora non si era ancora distaccato dalla corrente freudiana), 1908, e Binswanger fondarono le loro teorizzazioni sull'osservazione diretta dei pazienti schizofrenici, molti altri svilupparono elaborate costruzioni interpretative sugli schizofrenici quali loro li immaginavano.
Lo stesso Freud sviluppò un'importante interpretazione del delirio sul caso Schreber non studiando il paziente stesso, bensì una versione letteraria della sua malattia.
Più recentemente Lacan formulò delle ingegnose teorizzazioni sulla psicosi lavorando sulla versione letteraria di Freud della versione letteraria di Schreber. Tali modelli di psicosi sono indubbiamente stimolanti e interessanti, ma ci sembrano aver assai poco a che fare con gli schizofrenici da noi osservati nella reale pratica clinica.
Alcune somiglianze della psicoanalisi con la filosofia scolastica - il principio di autorità, la tendenza a privilegiare troppo spesso a priori alcuni dogmi riconosciuti dalla tradizione adattando forzatamente ad essi i dati osservati - ha costretto spesso molti dei più brillanti psicoanalisti contemporanei interessati alla schizofrenia a oscillare tra lo studio obiettivo dello schizofrenico reale e la tendenza a vederlo secondo modelli precostituiti a lui estranei e non sempre pertinenti.
Troppo spesso gli schizofrenici finivano per essere oggetto di interpretazioni Als ob (come se) (Jaspers) che, prendendo in considerazione solo alcuni elementi conformi a una teoria precostituita, isolati dalla personalità globale del paziente, spiegavano (apparentemente) i suoi sintomi, ma erano ben lontani dal comprendere i suoi vissuti.
In particolare certa vetero-psicoanalisi (non tutta la psicoanalisi fortunatamente, si pensi a Mitchell e agli orientamenti relazionali) è vittima di due pregiudizi di base nell'interpretare la schizofrenia:
1) La teoria della fissazione-regressione. Tale teoria usata rigidamente ha portato alcuni psicoanalisti a interpretare ogni malattia psichica come una regressione a un particolare punto della storia passata dell'individuo. Di conseguenza ogni diagnosi (come nella chimica ogni elemento corrisponde a un posto nelle scale di Mendelejeff) trova una sua collocazione in uno specifico punto della linea di sviluppo del bambino. Tale meccanica vuole che tanto più è grave la sintomatologia, tanto più si torni indietro. Risultato: la schizofrenia e la psicosi maniaco-depressiva venivano fatte corrispondere ai primi mesi di vita.
Ma abbiamo visto che la schizofrenia ha una genesi multifattoriale (biologica, psicologica, socio-culturale) e in particolare, come ampiamente dimostrato dagli studi sistemici, la matrice familiare schizofrenogenica preesiste al paziente e continua ad agire, in netta interazione con lo strutturarsi dei sintomi, fino all'età adulta di questi. Ogni semplificazione riduttiva porta a disconoscere la complessità del fenomeno schizofrenico. In particolare la regressione dello schizofrenico non è affatto, al di là di alcune somiglianze superficiali, un ritorno al comportamento infantile, ma piuttosto, nel senso jacksoniano, è la perdita di alcune funzioni più complesse (per deficit dei fattori cognitivo-affettivi che le rendono possibili) con il conseguente emergere di funzioni che, in quanto semplici, sono meno danneggiate.
2) L'uso delle metafore. Un'altra tendenza che si riscontra in alcuni psicoanalisti è, quando usano metafore, specie somatiche e biologiche, il finire per abolire ogni distinzione tra la metafora stessa e l'evento metaforizzato. Ad esempio l'internalizzazione, cioè il "costruirsi un modello" del comportamento di un oggetto o di una persona, (che presuppone complesse integrazioni tra imitazione, rappresentazione di eventi possibili nello spazio mentale, assimilazione - in senso piagetiano - e accomodamento) viene riportata a una sorta di "mangiare" l'altro, disconoscendo del tutto l'aspetto di assunzione ed elaborazione dell'informazione che ne è il fattore essenziale.
Il concetto di simbiosi applicato alla schizofrenia è frutto del sommarsi di queste due distorsioni: l'arbitraria assimilazione del comportamento neonatale a quello schizofrenico e la confusione tra metafora biologica ed evento metaforizzato (in realtà interpretabile in termini sistemico-informatico-relazionali).
Così il concetto di fusione o fusionalità, usato da Searles, accomuna e mescola sotto un improprio paragone biologico quattro eventi del tutto diversi tra loro:
a) il prevalere di elementi caotici, iperinclusivi che, disorganizzando i ruoli, creano una situazione iperfluida in cui i singoli individui possono non distinguersi come ruoli l'uno dall'altro. Il che non significa affatto che si fondano;
b) una rigidità eccessiva dei ruoli (situazione opposta alla precedente, verso cui costituisce una reazione) che rende gli individui, chiusi in ruoli nettamente differenziati l'uno dall'altro, fortemente interdipendenti;
c) un progressivo impoverimento dei ruoli-progetto di ciascuno che, restando ognuno rigidamente chiuso nel suo ruolo, rende all'osservatore esterno tutti gli individui simili per la graduale perdita di caratteristiche che li differenzino.
d) L'incapacità di taluni schizofrenici di compiere alcune attività necessarie alla loro sopravvivenza che li rende fisicamente incapaci di sopravvivere e quindi dipendenti dall'istituzione, ma che non presuppone affatto una fusione psichica o di altro genere.
Tali quadri, che possono talora sovrapporsi, combinarsi o succedersi nella storia del singolo paziente, devono essere però ben distinti nella mente dell'operatore, in quanto presuppongono differenti dinamiche e significati e richiedono ciascuno una differente impostazione terapeutica.
Ma tornando al discorso del ritrovare una differenziazione non marginale, ma reale, si deve introdurre un'ulteriore analisi sul funzionamento dei ruoli-progetto.
Ogni ruolo-progetto nel suo divenire è caratterizzato da tre momenti in continua interazione tra loro:
a) il momento della progettualità, proteso all'attualizzazione di potenzialità future e che, in relazione a queste, dà un senso al mondo circostante;
b) il momento della necessità, inteso come tutto ciò che è già dato, il passato immutabile come fondamento del presente, le sue conseguenze inevitabili, legate alla causalità e quindi le conseguenze delle stesse scelte del soggetto, che, una volta effettuate da possibilità future, si irrigidiscono in necessità di un passato già accaduto. In altri termini la necessità rappresenta il duro resistere del mondo ai progetti, ma anche la stabilità della realtà con cui essi si confrontano e su cui si fondano;
c) il momento del caos, cioè tutto ciò che è incompiuto, i diversi significati che eventi determinati possono assumere a seconda di nuovi punti di vista introdotti dai nostri progetti. Esso è lo spazio in cui la nostra progettualità può muoversi per superare i limiti della necessità, ma anche quello da cui possono configurarsi impreviste, inquietanti necessità che frustreranno i nostri progetti.
Un'interfaccia quanto più possibile frastagliata tra questi momenti è quella che permette di rispondere adeguatamente alla situazione e di organizzare la propria esistenza. Ad esempio un giovane che, per dare un senso alla propria vita, abbia deciso di fare lo psichiatra dovrà tener conto di limiti e ostacoli. Non potrà infatti realizzare il suo progetto senza laurearsi, specializzarsi e aver trovato un posto dove lavorare. Il superare questi ostacoli presuppone altri progetti a raggio più limitato che a loro volta lo porteranno a incontrare altri ostacoli minori e così via, fino al dare significato ad atti minimi, quali regolare la sveglia per il mattino seguente.
Un disturbo dell'asse progettualità-necessità è tipico della psicosi maniaco-depressiva. Nella fase maniacale esiste solo il momento progettuale: in mancanza del suo antagonista esso non si individua, differenzia e concretizza in una serie di progetti parziali articolati tra loro, ma si effonde come un'onda, una massa di progetti debordanti, indifferenziati, fluidi che scivolano sulla realtà circostante, senza interagire adeguatamente con essa.
Al contrario nel depresso, svanito il momento progettuale, la necessità domina il campo. Il passato - la retentio biswangeriana - ciò che è, immutabile e indifferente ai progetti del soggetto, occupa tutto lo spazio delle possibilità future, concretizza le eventualità più sfavorevoli e, come un immenso blocco di pietra, schiaccia sotto di sé la volontà e l'esistenza stessa del depresso.
Nell'uno e nell'altro caso il caos, l'indeterminazione sono spinte ai margini, non hanno alcun luogo nell'esperienza vitale del paziente.
Nello schizofrenico, invece, è l'asse progettualità-caos a essere in primo piano.
Nella schizofrenia acuta, per l'impossibilità di scegliere il rilevante dall'irrilevante, il pertinente dal non pertinente, la progettualità viene assorbita dal caos delle possibilità, si diluisce in esso fino a perdere del tutto il suo senso originario.
Certo chiunque abbia realmente vissuto con un paziente schizofrenico cercando di comprenderlo e non di interpretarlo secondo schemi riduttivi, si rende conto che ciò è proprio il contrario di un cosiddetto senso di onnipotenza. I timori, i terrori, le possibilità prive di senso si materializzano da qualsiasi tentativo di progetto, che si scioglie in tale confusione senza poter andare oltre un semplice abbozzo.
Per sottrarsi a tale intollerabile situazione il paziente non può che fissare la sua identità, i suoi ruoli, in frammenti minimi di progetto che escludano la complessità magmatica e mutevole del mondo circostante. Si passa così gradualmente alla cronicità.
In essa la progettualità appare rigida, cristallizzata in una serie di ruoli puntiformi ripetuti all'infinito, sempre identici, stereotipati, incapaci di adattamento. Così Binswanger descrive la dissociazione schizofrenica: "L'essere nel mondo dissociato non abbozza più alcun progetto di mondo, oppure è in grado di progettare soltanto frammenti di mondo che non hanno più alcuna connessione... l'esistenza non matura più nella rete temporale che consiste nel trattenere il passato e nel maturare il futuro, ma viene a trovarsi in una serie di punti istantanei".
Il caos, l'indeterminato, il possibile è escluso dal mondo del razionalismo morboso, fatto di certezze schematiche applicate all'intera realtà. L'ambiguo, il non certo viene così negato.
Ma anche la necessità è esclusa: per il paranoide non è mai un'impossibilità fisica o logica a ostacolarlo, ma sempre una progettualità ostile. E tale progettualità non è un Altro complesso e imprevedibile, le cui intenzioni devono essere esplorate e capite, ma un Altro speculare, una progettualità uguale e contraria cristallizzata che non si definisce se non nel suo opporsi alla progettualità cristallizzata del paziente.
Dice Minkowski: "Il malato tenta di esprimere ogni situazione insolita mediante idee prese dalla vita anteriore" per cui "le differenze legate ai valori individuali di ciascuno svaniscono, la somiglianza è l'unico punto di vista da cui considerarle" fino a che "tutta la complessità della vita psichica dell'essere vivente è scomparsa per lui, non ci sono che manichini schematizzati. Le nozioni di coincidenza, di caso, di atti non intenzionali, di atti incoscienti non esistono più".
La "sensazione di essere inanimati" descritta da Searles è, tra l'altro, comprensibile in questi termini. È vero che, come abbiamo visto, lo schizofrenico riesce a sviluppare i normali modelli percettivo-motori per rapportarsi agli oggetti, non investiti dal caos della famiglia di origine, mentre questo caos invade pesantemente i modelli di relazione con l'Altro, che presuppongono il rappresentarsi un'intenzionalità e una progettualità, assai più complesse e ambigue. Il futuro paziente è portato a rifugiarsi nei più sicuri modelli meccanici, riducendo il suo mondo interiore a un mondo di oggetti. Ma anche e soprattutto la progettualità cristallizzata riducendosi a schemi ultrasemplificati, ripetitivi e prevedibili, finisce per essere del tutto simile alla necessità causale priva di intenzionalità: gli altri e se stesso allora possono venir assimilati a robot, oggetti inanimati, meccanici. L'apatia descritta in precedenza, è chiaramente correlabile a tale cristallizzazione della progettualità, che le impedisce di andare oltre il frammento di mondo per dar spazio e respiro al progetto: questo si riduce a nulla di più che un modello meccanico prevedibile e ripetitivo. Riducendo se stesso a oggetto, incapace a vedersi in altro modo, lo schizofrenico cronico esorcizza così il caos, che per lui è implicito nella molteplicità di possibilità non determinate a priori, nella multivocità (Aversa, 1987) che equivale per lui ad ambiguità.
Le dimensioni pre-schizofreniche, descritte da Mundt, di fatto rispecchiano, anche se si presentano prima e non dopo la fase acuta, lo stesso meccanismo di difesa dal caos della fase cronica: nella forma astenica e in quella amorfa la progettualità del soggetto, impossibilitata a intrecciarsi secondo una linea estremamente frastagliata e fluida con la progettualità altrui, si richiude in piccoli frammenti o, rispettivamente, scivola in un unico frammento, apparentemente esteso, ma in realtà ipersemplificato e identico a se stesso (tali forme corrispondono nella nostra esposizione alle difese riduzione del campo di interessi e dissociazione) mentre nella variante autistica cerca la sicurezza articolandosi su se stesso. Ma ciò nello schizofrenico cronico porta a un progressivo impoverimento per perdita di informazione e autoassimilazione dei modelli: fino alla rigidità del razionalismo morboso e alla ripetitività del delirio cronico.
L'atemporalità a sua volta è conseguenza del fatto che l'esperienza del tempo è essenzialmente quella del succedersi e dell'articolarsi dei diversi progetti come parti di progetti a più lungo termine, in relazione con gli ostacoli della progettualità altrui e della necessità del mondo fisico e del già accaduto.
In un mondo cristallizzato, geometrizzato, di piccoli frammenti chiusi su se stessi è impossibile vedere e pensare oltre un presente che si dà come già passato, ripetuto all'infinito.
Il "quando sarò grande" ovvero "quando sarò guarito" di Gavino non sono, in tale contesto, che modelli tagliati fuori da ogni confronto con la complessità dell'Altro e della realtà, e perciò al tempo stesso vaghi e schematici, stereotipati.
Le immagini socio-storiche-politiche di Carlo ugualmente sono sotto la loro apparente differenza sempre identiche, espressione vaga di un atteggiamento stereotipato: manca loro, sotto l'apparenza storica, proprio l'essere inserite in un reale divenire storico continuo, ciascun momento del quale sia unico proprio nel senso specifico della sua articolazione con gli altri. In ambedue i casi è persa la dimensione simbolico-immaginale, con il suo costruire e confrontare sequenze ricche di significato. I simboli (immagini del futuro personale o della storia dell'umanità) decadono a semplici segni che, senza più alcuna potenza prospettica, designano un frammento di progetto, incompiuto e svuotato dal paziente. La sua pseudo identità appunto.
L'incapacità a ricordare (o meglio a ripescare, nel contesto dell'esperienza attuale, ricordi significativi ad esso collegati) persone e momenti rilevanti dell'infanzia, di cui abbiamo in precedenza parlato, come si è visto è il risultato di questa perdita della prospettiva della propria storia e dell'essere il paziente ridotto a nulla più che un frammento di ruolo, senza la profondità che viene dalla continuità tra significato della storia passata e capacità di proiettarsi nel futuro. È come se del paziente non restasse che un pezzo di guscio ormai vuoto. La sola dimensione sociale di un ruolo ridotto ai minimi termini, senza il contenuto, la complessità dello spazio interno immaginale, riduce il paziente a un semplice riflesso o eco del mondo circostante, un mondo ristretto dal presente vuoto e ripetitivo della comunità.
Da questi momenti tutti uguali consegue inevitabilmente l'indifferenziazione.
In effetti anche la differenziazione marginale degli etero-diretti descritta da Riesmann, può essere intesa come conseguenza della perdita dei valori interiori, che nell'individuo autodiretto erano generati dalla propria continuità storica.
In conseguenza della priorità assoluta da lui data ad adattarsi a ogni nuovo gruppo, l'individuo eterodiretto diviene (sia pure senza essere considerato patologico, perché si trova a corrispondere allo standard sociale di appartenenza) una personalità borderline, vale a dire un individuo privo di Sé unitario, di un progetto di vita globale, il cui essere è di volta in volta determinato dal contesto.
E la differenziazione marginale è chiamata a compensare tale vuoto interiore con una specie di Falsi-Sé, che, come maschere dai tratti fortemente accentuati, nascondono la carenza di senso che sta loro dietro.
Lo stesso vuoto, la stessa perdita di un progetto significativo e unitario dell'esistenza, pur avendo origine e dinamica ben diversa, si manifesta nella differenziazione marginale dei nostri pazienti.
Se il borderline, causa la mancanza di un progetto unitario di esistenza di cui investire il mondo circostante, non riesce a provare emozioni profonde, che vadano al di là del semplice stimolo sensoriale, o prova, con un senso di depersonalizzazione autopsichica, anche un senso di "inconsistenza e di irrealtà del mondo esterno" (depersonalizzazione allopsichica), lo stesso avviene ai nostri pazienti schizofrenici con il naufragare del loro progetto unitario in tanti frammenti pietrificati.
E la stessa cosa avviene in alcuni pazienti non schizofrenici, ma ad esempio etilisti o caratteriali o altri vari disturbi di personalità, che sono approdati all'area comunitaria dopo una serie di fallimenti sul piano relazionale ed esistenziale.
A poco a poco, mostrano un repertorio di ruoli sempre più poveri, stereotipati e soprattutto ridotti alla sola dimensione sociale, senza più alcuno spazio immaginale interiore.
La nevrosi istituzionale li rende indistinguibili a prima vista dagli schizofrenici cronici.
La dimensione simbolica è persa e sostituita da una dimensione segnica iperadattata al povero ambito sociale comunitario.
L'iperattività risocializzante e riabilitante di alcuni operatori, generata forse dalla sensazione che in Comunità chi si ferma è perduto, il muoversi sempre, non importa per far cosa, è l'unico mezzo per non restar pietrificati, agisce solo sul versante segnico-sociale dissociato dal mondo interno, e tende a peggiorare tale tendenza.
Esemplificativo è il caso di M.D., approdato in Comunità quando un progressivo miglioramento, ottenuto con anni di frequenza al centro diurno, lo aveva indotto a lasciare la famiglia di origine, pesantemente patogena e disconfermante. Le infermiere che allora gestivano la Comunità insistettero per un inserimento in attività normali, ben adattate socialmente, iscrivendolo a un corso professionale finalizzato a obiettivi di reinserimento concreto. Interrompendo così la sua frequenza ai gruppi ludici e analitici del centro diurno. Agirono ignorando del tutto il mondo interno e le dinamiche del paziente, in un'ottica puramente riabilitativa.
Di fronte alle prime difficoltà di inserimento in un ambiente in cui non si sentiva in grado di competere alla pari con i soggetti normali, il paziente produsse sintomi regressivi quali lamentarsi di stanchezza e disturbi fisici, cui le infermiere reagirono incoraggiandolo affettuosamente, vezzeggiandolo e accompagnandolo in macchina alla scuola. Ben presto si produsse una sorta di escalation complementare, al termine della quale il paziente aveva del tutto rinunciato alle acquisizioni precedenti.
La Comunità aveva infatti riprodotto la dinamica del nucleo familiare del paziente, nel quale madre e sorelle gli avevano dato un vero e proprio addestramento negativo: il ruolo di malato, prima fisico, poi psichico, era l'unico non conflittuale che gli permetteva di sfuggire a messaggi a doppio legame (devi essere un uomo forte, ma non sei in grado di esserlo) ottenendo tanti piccoli vantaggi. M.D. che non era schizofrenico, ma poteva osservare e prendere a modello degli schizofrenici, apprese ben presto, quando compiva trasgressioni più o meno gravi, che poteva evitare qualsiasi sanzione o rimprovero affermando che tali comportamenti (sempre per lui vantaggiosi) gli erano stati ordinati da pretese allucinazioni acustiche.
Tramontata ogni possibilità di inserimento lavorativo o scolastico, riprodusse ben presto il ruolo prevalente sviluppato in lui dalla famiglia di origine, di individuo cui essere malato giustificava l'essere indolente, impulsivo, disordinato. Prigioniero di questo ruolo, non riuscì più ad uscirne, pur essendone profondamente insoddisfatto, anche perché tale situazione era rinforzata da ruoli complementari giocati dalle operatrici.
Il paziente, in realtà un caratteriale, assunse per gli operatori una pseudo identità di schizofrenico cronico, così ben stabilizzata che in seguito non fu più possibile ottenere mutamento.
Emblematicamente contrario a questo percorso è quello di Marco, descritto nel capitolo precedente. In questo caso le operatrici, due psicologhe, si misero in particolare in rapporto non (o meglio non solo) con la sua parte socialmente adattata, ma con una parte periferica dal paziente abbandonata in gioventù, anche perché poco rispondente a conferme e aspettative dell'ambiente di riferimento familiare.
Si devono qui sottolineare come elementi essenziali nel produrre un risultato positivo:
1) le operatrici non si sono messe in rapporto con il paziente attraverso il ruolo di colui che cura, sostiene o dà assistenza (cui il paziente non avrebbe potuto che rispondere con il ruolo complementare di malato, bisognoso di sostegno, non autosufficiente) ma secondo una gamma di ruoli potremmo dire non istituzionali, espressione della creatività delle operatrici;
2) il contatto (come avviene spesso con giovani psichiatri e psicologi per cui il lavorare col paziente psichiatrico è sentito come un'occasione e uno stimolo per una ricerca sulla propria psiche) non era limitato a una interazione stereotipata col ruolo professionale ufficiale, ma era giocato anche attraverso l'entrare in gioco di una costellazione di ruoli interiori, ricchi di dimensione immaginale, delle psicologhe. Tali ruoli-progetto interni non venivano esclusi, ma lasciati interagire (pur con un certo controllo) con il paziente;
3) il paziente, anziché venir riportato a modelli rigidi, efficientistici e per così dire sovrapposti dall'esterno al suo mondo interiore, veniva non solo ascoltato, ma anche incoraggiato a recuperare gli aspetti non finalizzati del pensiero intermedio e del mondo immaginale.
È infatti proprio l'esonero (per usare un'espressione di Gehlen) dalla pressione diretta del presente che consente all'uomo di aprirsi all'indescrivibile molteplicità di situazioni in cui il mondo si offre, premessa necessaria per giungere in seguito a controllarle e dominarle. Certo Marco non è guarito secondo i canoni di certa riabilitazione normalizzatrice: non ha trovato lavoro tale da renderlo autosufficiente, non si è sposato, e così via. Ma ha recuperato interessi, capacità di rapportarsi a nuove situazioni, spesso in modo più efficiente, e soprattutto, l'inesorabile impoverirsi del mondo interiore che tanto spesso vediamo impadronirsi poco a poco dei pazienti delle comunità, non solo si è arrestato, ma in larga misura è stato ridotto alla minima rilevanza che aveva nella fase iniziale della malattia. E il paziente, reintrodotta la dimensione simbolica, è ora in grado, sia pure in piccola parte, di riprendere in modo fluido alcuni aspetti del suo mondo delirante, confrontati con le pressioni della matrice familiare di origine. Ciò gli dà una sia pur minima possibilità di comprenderli e controllarli.
Se infatti lo schizofrenico acuto (o meglio il livello di funzionamento "acuto", cioè caotico in uno schizofrenico) necessita di quel che abbiamo chiamato il rendere al segno la funzione di segno, attorno a cui iniziare a orientarsi, lo schizofrenico cronico necessita, per andare oltre il mondo della progettualità cristallizzata, di recuperare al simbolo la funzione simbolico-immaginale.
Essa è capace infatti di contenere e rielaborare in sé ambiguità e contraddizioni, fare da ponte tra linguaggi e sistemi di ruoli diversi e contraddittori - i ruoli rigidi e inadeguati dei familiari, ormai internalizzati dal paziente - di superare, cogliendone il senso e integrandolo, i messaggi a doppio legame.
Aldo, che già prima abbiamo nominato, vive in una sorta di mondo infero. Egli è convinto di essere morto dal periodo della sua prima crisi acuta, e di vivere da allora, essendo dannato, all'inferno.
L'inferno ha le stesse caratteristiche del mondo reale, ma non ne è che una riproduzione. Le persone che lui incontra sono in realtà dei demoni, ma insieme dei manichini o dei robot, che stanno recitando per lui. Egli stesso è prigioniero di questo inferno, e privato della sua anima, è come un robot, comandato da un Dio-Diavolo che ha il solo scopo di fargli scontare tale pena.
In altri termini al caos iniziale il paziente ha sostituito una situazione ripetitiva, uniforme, cristallizzata e devitalizzata. Lui come gli altri sono privi di anima (robot o minkowskianamente manichini) cioè di una reale progettualità. In questo senso il paziente è morto (la sindrome di Cotard che qui si riscontra eccezionalmente in uno schizofrenico anziché in un depresso ha lo stesso significato: la progettualità aperta alle possibilità future è persa per sempre, il paziente è confinato in un mondo infero, cui non può che ripetere, mera ombra impotente, quello che è stato).
Come avevamo premesso qui possiamo rovesciare l'interpretazione di Searles sul rapporto tra morte e schizofrenia. Lo schizofrenico non cerca di fuggire l'idea di morte, con un supposto obiettivo a non affrontarla. Al contrario è incapace di rappresentarsi la morte come lo fa il soggetto normale. L'immagine della morte infatti si dà come il limite oltre il quale non esistiamo più come progettualità ma che, ciò nonostante, nel nostro protenderci verso il futuro (coi suoi momenti di necessità e caos) siamo costretti a raffigurarci. Ma la progettualità cristallizzata è incapace di andare oltre un presente infinitamente ripetuto, in cui in definitiva vita e morte sono identiche.
Ma le operatrici, accettando di entrare nel mondo delirante del paziente, senza però aderirvi, ma anzi creando una sorta di spazio intermedio o transizionale, cioè in cui le dicotomie vero-falso, giusto-sbagliato, buono-cattivo sono poste tra parentesi, giunsero a ristabilire, al di là della cristallizzazione progettuale, un rapporto vitale con il paziente. Il mettersi in rapporto con la complessa intenzionalità umana delle operatrici gli permette di differenziarle dallo sfondo piatto e semplificato del mondo delirante (quello dei demoni-robot) e di ritrovare verso di esse una fiducia di base. Ma gli permette anche di rivitalizzare alcuni aspetti del delirio, che connessi con la sua storia passata divengono comprensibili.
Nei suoi primi anni di vita, racconta Aldo, la madre non lo chiamava con il suo vero nome, ma lo chiamava Elio, e da una serie di indizi si poteva arguire che il figlio fosse davvero per lei un'immagine solare, un ideale luminoso, destinato a realizzare le sue più impossibili aspirazioni, ma proprio per questo, totalmente estraneo al grigio mondo reale.
Col passare degli anni il paziente si sente chiamato col nome anagrafico Aldo dal padre e dagli altri parenti, e anche dalla madre riluttante, che lo stimolano a inserirsi nel mondo reale. Ma nei pensieri più intimi della madre continua a rimanere Elio.
La situazione precipita quando mentre il paziente a 23 anni fa il suo primo tentativo di sistemarsi fuori dalla famiglia, la madre si ammala di un tumore cerebrale e muore.
Aldo racconta di aver avuto la percezione allucinatoria che il sole gli cadesse addosso e di essere da allora morto, morto e vivo nello stesso tempo, perché divenuto egli stesso il sole, non può morire: così spiega il fallimento di ben cinque tentativi di suicidio. Anche la madre, morta, e viva insieme, continua a parlargli dall'inferno ed egli sente di continuo la sua presenza. In pratica Aldo è rimasto prigioniero di un'immagine ideale che di lui aveva la madre, il cui pensiero e la cui volontà continuano a vivere in lui. Ma, come in certi miti solari, Elio, la sua natura-sole è, con la madre, prigioniera degli inferi e dell'oscurità. Essi sono un non mondo che, come l'Ade dei Greci o gli inferi assiro-babilonesi racchiude coloro che furono vivi, ridotti a ombre, cioè a un'immagine che, come i ricordi che i vivi hanno dei morti, non può mutare, evolversi, trasformarsi, ma solo ripetere vanamente, disinserita dal divenire del mondo reale, gli atti e i gesti che più, in vita, l'hanno caratterizzata. Prigioniero del mondo nato dalla progettualità cristallizzata dalla madre che esiste in lui, Aldo-Elio ha sottratto, per alimentare questo mondo, ogni energia progettuale al mondo reale circostante, fino a ridurlo un teatro di vuoti simulacri, il cui unico senso è di riecheggiare il mondo infernale: un mondo in cui, come nelle fantasie nascoste della madre, gli altri reali non erano percepiti in se stessi, ma solo come ostacoli e minacce che volevano distorgliela dalla realizzazione di un desiderio ideale fuori da ogni realtà.
Certamente Aldo non è guarito e il cammino verso ulteriori miglioramenti è così irto di difficoltà da apparire impossibile. Eppure riteniamo che l'aver restituito un valore vitale al rapporto con le due operatrici che lo curano e poche altre persone, il poter con loro vivere qualche sprazzo di progettualità non cristallizzata, sia pure con obiettivi minimi, il poter parlare e condividere con qualcuno il suo mondo interno delirante, sia per lui incomparabilmente meglio di quanto avrebbe prodotto un intervento riadattativo solo esteriore. Questo infatti al più l'avrebbe portato a compiere alcuni atti più o meno complessi, magari a svolgere un semplice lavoro, come un robot del suo mondo infernale, senza annettere a tali attività alcun significato. E a continuare a vivere dentro di sé, ugualmente senza alcun significato, senza possibilità di comunicare con nessuno, il suo mondo delirante immobilizzato per sempre in poche schematiche immagini, immutabili, vane, ma non per questo meno disperate.
Riportandoci da questo difficile caso a un discorso più generale possiamo dire che in questo esempio, come nelle altre situazioni esaminate, la terapia attraverso l'interazione di ruoli presupponga una continua ed equilibrata sinergia tra l'intervento a livello di segno - recupero della dimensione sociale e quello a livello di simbolo - recupero della dimensione immaginale.
In conclusione possiamo sintetizzare come dettami volti a evitare la cronicizzazione-cronificazione nelle comunità terapeutiche:
a) il fare partecipare i pazienti a una serie di gruppi, non solo di addestramento (al lavoro o ad apprendere tecniche secondo uno schema univoco), ma a gruppi espressivo-ludici, cioè gruppi al di fuori di schemi tipo giusto-sbagliato, vero-falso, buono-cattivo, che privilegino non i ruoli socialmente adattati, ma quelli propri del mondo interiore, originale e creativo ancorché irrealistico o conflittuale del paziente;
b) lo stimolare e il mettersi costantemente in rapporto non solo con il ruolo dominante del paziente, cioè quello più differenziato che tende a essere maggiormente impersonato, ma con ruoli marginali, meno abituali, su cui si sente meno sicuro, ma che ha avuto in un lontano passato o che avendoli osservati in altri ha sviluppato allo stato potenziale;
c) evitare la stereotipia di ruoli rigidi da parte dell'operatore, attraverso un opportuno lavoro di supervisione e attraverso la partecipazione - da intendersi come formazione professionale permanente - a gruppi espressivi che mantengano attivi e fluidi i suoi ruoli marginali e le sue potenzialità creative.


NOTE

(1) Il "messaggio doppio legame" consiste essenzialmente nell'usare lo stesso concetto contemporaneamente secondo le regole di due linguaggi (modelli, sistemi di valori) incompatibili, trattandolo però e pretendendo che venga trattato come appartenente a un solo linguaggio coerente.
Si prenda ad esempio un genitore nel ruolo di insegnante serio, moderatamente severo che aiuta il figlio a fare i compiti, un genitore scherzoso che gioca col figlio, un genitore affettuoso che consola il figlio che ha avuto un insuccesso: l'assunzione di ciascuno di questi ruoli (comunicato attraverso segnali che chiamiamo di contesto) comporta che il figlio assuma un ruolo coplementare (allievo solerte attivo, bambino allegro che gioca, bambino bisognoso di conforto) in ciascuno dei quali il mondo va visto in modo differente.

'2) Non si tratta, come pur giunge a dire Ciompi, troppo preoccupato di conciliare la sua ottima interpretazione della schizofrenia con alcune semplicistiche, ma di diffuse credenze psicoanalitiche, di una confusione di immagini del "Sé e dell'oggetto, nelle loro versioni buone e cattive". Si tratta invece della sovrapposizione tra diversi ruoli (o, nei termini di Mead, di Sé parziali) ciascuno di per sé adeguato a certi obiettivi, ma incompatibili tra loro se non usati in contesti distinti e di conseguenza di contraddittorietà e incoerenza dei controruoli evocati e pretesi nel figlio da tali ruoli del genitore.


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