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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



La ricerca di indicatori di trattabilita’ in pazienti ospiti di strutture residenziali

di Giandomenico Montinari*



Vengono presentati i primi risultati di una ricerca volta a mettere a punto uno strumento di valutazione della trattabilita di pazienti ospiti di strutture residenziali. Quantificare in ogni momento il grado di sovra- o sottostimolazione del singolo paziente aiuta a personalizzare i percorsi terapeutico - riabilitativi e a precisare meglio tempi e modi dei cambiamenti da introdurre.

Si è osservata una netta correlazione tra il punteggio ottenuto in base a determinate valutazioni degli operatori e la probabilità, per il paziente, di recepire le stimolazioni terapeutico-riabilitative dei curanti e di dar vita ad eventi giudicati significativi.


Premesse

Le ricerche obiettivanti in Psichiatria Residenziale sono di solito dedicate a documentare il quadro clinico - comportamentale al momento del ricovero e a valutare i risultati conseguiti nel corso della terapia.

Sono ancora poche, a quanto ci consta, quelle che si pongono l'obiettivo di fornire al responsabile dei progetti terapeutici elementi per rispondere a domande come questa: quanto il singolo paziente vuole/può/deve, in un particolare momento, utilizzare ulteriori apporti terapeutici? E quando deve (o non deve) essere incoraggiato a passare da una fase di prevalente protezione ad una di prevalente stimolazione e entro che limiti? Di che entità sono le potenzialità di recupero, le riserve inutilizzate, e tutte quelle energie sopite che, insieme alla motivazione del paziente stesso ad usarle, possono essere compendiate sotto il termine di trattabilità?

Conosciamo tutti benissimo quale valore può essere attribuito alle dichiarazioni verbali degli ospiti al riguardo e, per altro verso, quanto facilmente anche i più esperti di noi sono esposti alla possibilità di sbagliare, se si affidano solo al proprio intuito clinico o a referenti astratti o extraclinici (per esempio di tipo ideologico o economico - gestionale), che spesso, con motivazioni opposte ma concomitanti, impongono di mantenere il paziente in una condizione di costante e aspecifica sovrastimolazione, dal potenziale effetto cronicizzante. E non dobbiamo sottovalutare il rischio che ripetuti errori di valutazione ci inducano, a lungo andare, ad omologare i nostri comportamenti nei confronti di tutti i pazienti, non introducendo nei singoli percorsi terapeutici alcun cambiamento significativo. Questa scelta, di fatto e inconsapevolmente, iperstimola quelli degli ospiti che hanno bisogno di ulteriore protezione e iperprotegge quelli che hanno bisogno di nuova stimolazione. Oltre al fatto ben noto che abbracciare una filosofia di astensione e di passività ci espone al rischio di subire le scelte spontanee dei pazienti e quindi, salvo rare eccezioni, di restare noi stessi coinvolti in forme di operatività che, in pratica, mal si differenziano da comportamenti impulsivi e irriflessi, se non proprio da acting out.

La ricerca di strumenti utili a supportare le decisioni cliniche è invece, a nostro avviso, fondamentale, anche se si scontra con una nutrita serie di ostacoli, che sono anzitutto di natura teorica e metodologica.

Un primo ordine di difficoltà è comune a tutte le ricerche obiettivanti in psichiatria e psicologia clinica e riguarda l'attendibilità delle valutazioni, cioè del lavoro di trasposizione in punteggi di impressioni spesso arbitrarie, inerenti stati d'animo e comportamenti a loro volta frutto di elaborazioni intrapsichiche, per definizione incontrollabili. E' risaputo, infatti, che, mentre è relativamente facile valutare, anche quantitativamente, i sintomi psicotici più evidenti e il loro miglioramento, come pure l'evoluzione positiva o negativa di certi comportamenti abnormi, molto più difficile si presenta l'obiettivazione di atteggiamenti interiori o di posizioni esistenziali del paziente complesse e sfumate, come il modo di porsi verso la malattia, il desiderio reale (in rapporto alla possibilità) di migliorare la propria condizione ecc.

L'elevato tasso di soggettivismo e di precarietà interpretativa che caratterizza queste ricerche ha il suo riscontro anche nella difficoltà di contestualizzare i dati, comunque prodotti, in una cornice di significatività di più ampio respiro, quella dalla quale possono scaturire le indicazioni che più ci interessano. Il che rende molte indagini, anche interessanti e ben condotte, praticamente inutilizzabili sul piano clinico.

Il secondo ordine di difficoltà è invece peculiare della psichiatria residenziale e, a quanto si può constatare, raramente viene affrontato in maniera sistematica. Sappiamo tutti che, in ogni momento, i sintomi e i comportamenti patologici del paziente psicotico (nonché la loro attenuazione) dipendono in larga misura dall'ambiente nel quale egli vive, essendo scontato che non esiste in Psichiatria un'evoluzione o un'involuzione che sia del tutto spontanea e indipendente dal contesto, famigliare o istituzionale che sia. Ciò implica che anche il ricercatore più deciso ad accantonare astratti scrupoli epistemologici non può ignorare che non solo la valutazione, ma anche l'oggetto della valutazione (cioè i miglioramenti o peggioramenti del paziente) è strettamente dipendente dall'ambiente in cui il paziente vive ed è quindi modificato in maniera molto sensibile dal procedimento di valutazione.

In altre parole, se è già precario e discutibile stabilire obiettivamente che cosa sia successo, ancor più lo è discernere chi ne sia l'autore e chi il testimone: che valore (conoscitivo e pratico) si può attribuire a una metodica di obiettivazione che, grazie al maggior coinvolgimento indotto negli operatori nel corso della sua applicazione, contestualmente migliora (o peggiora) lo stato clinico dei pazienti?

Ciò, se è vero in tutti i campi della Psichiatria, ancora di più lo è in una comunità o in un reparto ospedaliero e ci costringe a fare i conti col fatto che quasi tutti gli eventi clinici che si verificano, compresa (come ben sappiamo) una parte non indifferente degli effetti degli psicofarmaci, derivano non solo e non tanto dalle caratteristiche cliniche del paziente, quanto da un insieme di fattori di natura contestuale, che comprendono le caratteristiche e la conformazione del luogo di terapia e del gruppo dei pazienti, il tipo di programma terapeutico, la motivazione, la filosofia operativa e l'esperienza del gruppo dei curanti, nonché la simpatia e la fiducia che il singolo paziente suscita (o non suscita), ecc. ecc. tutte variabili confluenti in un unico fattore finale, che è un insieme di protezione e stimolazione, in proporzioni mutevoli da una persona all'altra e da un momento all'altro.

Si tratta di un fattore di terapia complesso e articolato, ma dalle componenti inestricabili e indistinguibili e quindi, in definitiva, unico. E ciò ha una singolare e significativa corrispondenza, senza che sia possibile stabilire dei nessi causali in un senso o nell'altro, nel fatto che anche il miglioramento del quadro psicopatologico - comportamentale del paziente ha, in linea di massima, un carattere globale, cioè 1) sincronico, 2) indifferenziato, 3) aspecifico.

- Sincronico perché il miglioramento dei sintomi, quando c'è, riguarda pressoché simultaneamente e in tempi brevi quasi tutti gli ambiti della personalità, quelli almeno sui quali il paziente mostra di esercitare un controllo diretto (nel "costruire" o nell'accantonare un sintomo).

- Indifferenziato perché non vi è grande diversità tra l'entità dei miglioramenti nei vari ambiti della personalità.

- Aspecifico perché il miglioramento non dipende dai singoli interventi terapeutici; tutti questi (con la consueta, anche se non totale, esclusione degli psicofarmaci) sono utili e fattibili nella misura in cui, prima di tutto, accrescono nel paziente il sentimento di adeguata protezione/stimolazione ambientale. Per esempio un intervento psicomotorio migliora sì, la motricità e altre funzioni motorie (come coordinazione, tonicità, modulazione della forza, ecc.), ma migliora anche, contemporaneamente, tutta una serie di altre funzioni (la spazialità, il ritmo, le capacità relazionali, ecc.) e soprattutto rinforza nel paziente la convinzione di essere in quel modo aiutato a stare meglio, pur essendo preservato dal confronto con le temute sollecitazioni dell'ambiente esterno.

La constatazione di tutto ciò ha l'effetto di rinforzare il sospetto che i miglioramenti che si ottengono inizialmente in una comunità siano quasi tutti miglioramenti passivi, se non addirittura illusori e siano in realtà molto simili all'apparente recupero motorio di un tetraparetico immerso nell'acqua. Come l'acqua, riducendo la forza di gravità, permette movimenti altrimenti impossibili, così la protezione comunitaria, allentando la pressione psicosociale sul paziente psicotico, gli permette delle prestazioni psichiche di livello più elevato, impensabili in un ambiente non protetto.

I miglioramenti veri, come ben sappiamo, avvengono solo in un secondo momento, dato che la terapia comunitaria, come la ginnastica in piscina, consiste proprio nello sfruttare l'aumentata (sebbene contingente e passiva) capacità di prestazione per rinforzare certe funzioni, allo scopo di renderle persistenti, anche al di fuori del contesto protetto.

Infatti tutto quello che si fa sul piano riabilitativo ha lo scopo o di rendere evidenti dei miglioramenti occulti o latenti oppure, approfittando dell'attenuazione dei sintomi, di rafforzare funzioni che la malattia ha assopito o leso, nonché di trasmettere nuove abilità lavorative, intellettuali, sociali, alle quali il paziente non potrebbe avere accesso se non si trovasse in condizioni di sufficiente benessere basale.

La maggiore o minore disponibilità attuale del singolo paziente a consentire e alimentare tali processi, con la ragionevole prospettiva di remunerare in futuro gli sforzi dei curanti e con la ragionevole certezza che non ne derivino dei danni, è l'unico dato che veramente ci interessa.

Peraltro, la constatazione della globalità del miglioramento comporta parecchi corollari. Per esempio, che:

  • documentare il miglioramento stesso di un paziente inserito in una comunità o in un reparto non è una misura della qualità e dell'entità delle singole cure prestategli, ma solo di quanto queste cure sono riuscite, nel loro insieme e nel contesto di altre condizioni ambientali, a far sentire il paziente immerso in un ambiente a minore pressione psico-sociale;
  • al contrario, anche il migliore programma terapeutico naufraga e crea anzi le premesse per un peggioramento, se l'intervento complessivo, effettuato in maniera ambigua, incerta o intempestiva, dà al paziente un sentimento di non-protezione;
  • il miglioramento, pressoché immediato e globale, quando si creino determinate condizioni, non significa nulla, in termini di reale autonomia al di fuori dell'istituzione;
  • è molto aleatorio attribuire un miglioramento a una singola tecnica o ad un singolo intervento o, a meno che questo non sia finalizzato a rimuovere un ostacolo ben definito (dovuto per esempio a inesperienza o a coinvolgimento patologico di alcuni operatori o dei responsabili ultimi) che impedisce l'esplicazione e la messa in atto dell'intervento complessivo;
  • qualunque valutazione settoriale e specifica (relativa a singoli aspetti e funzioni), anche nei casi in cui fosse tecnicamente possibile, avrebbe poco senso se non confrontata con il dato relativo alle modificazioni complessive;
  • a rigore, anche documentare l'evoluzione del singolo paziente non ha molto valore di per sé, se non la si confronta con l'evoluzione del gruppo di pazienti nel suo insieme.

Le premesse esposte fin qui delineano lo sfondo su cui deve muoversi questo genere di ricerche, le quali, in ossequio ad una pur condivisibile (ma ingenua) istanza di evidence, sono esposte al rischio di documentare miglioramenti visibili, ma effimeri e non rilevanti (perché ottenuti passivamente), e di trascurare la valutazione di potenzialità meno evidenti, ma autentiche e clinicamente determinanti; di attribuire arbitrariamente ciò che documentano a fattori causali singoli e parziali, senza capire la complessità delle interazioni e la globalità dei fenomeni; di impiegare strumenti che, non riconoscendo gli ineliminabili fattori soggettivi insiti nell'osservazione, di fatto non li controllano e attivano quello che può essere chiamato l'"effetto specchio" [1] .

Una ricerca sulla trattabilità è invece costretta a indagare quello che ancora non si vede, enucleando un fattore individuale, sì, ma contemporaneamente funzione di un contesto, entro cui soltanto diventa "obiettivo" e obiettivabile; di un fattore definito, ma immerso in una globalità, come tutto ciò che riguarda il trattamento comunitario di un paziente psicotico; e infine di un fattore predittivo, ma soprattutto nei limiti entro cui riesce a indurre il contesto stesso a recepire e a fare sue, nei tempi e modi dovuti, le potenzialità evidenziate.

L'obiettivo minimo (e anche quello massimo) che una ricerca sulla trattabilità deve porsi è far emergere un dato unitario e complessivo, che, prescindendo dai singoli sintomi e anche dai singoli miglioramenti conseguiti, esprima l'autonomia potenziale del singolo paziente rispetto ad un certo contesto, e aiuti cioè a prevedere quanto egli sarà in grado di trattenere, al di fuori della protezione ambientale, almeno una parte del miglioramento conseguito grazie alla terapia; fermo restando che, anche per fare questo, egli ha bisogno dell'aiuto e della fiducia dell'ambiente, di quello stesso, cioè, da cui dovrà, in prospettiva, emanciparsi.

La metodica della rilevazione dei dati risente, naturalmente, dei condizionamenti su esposti. Per esempio l'inscindibilità reciproca delle determinanti del dato che cerchiamo ha il suo riscontro nel fatto che solo la combinazione di tutte le osservazioni di tutte le persone che vivono col paziente è un dato provvisto di una qualche attendibilità. Osservazioni parziali, invece, come si è constatato dai risultati della nostra ricerca, effettuate da singoli operatori, mostrano, l'una rispetto all'altra, un grado di variabilità talmente grande da far sospettare fortemente della loro attendibilità obiettiva.

Come se ci fosse una sorta di polarizzazione tra la semplicità del dato finale (cioè della maggiore o minore trattabilità) e l'estrema differenziazione dei modi di constatarlo e di quantificarlo, fenomeno che dà corpo a una delle tante contraddizioni con cui deve fare i conti questo tipo di ricerca.

D'altra parte è un fenomeno che non si può ignorare e che è ingenuo considerare una variabile casuale e disturbante, sapendo che si tratta di una caratteristica profondamente intrinseca e anzi consustanziale all'oggetto della nostra indagine, che è necessario riconoscere e padroneggiare.

Lo sforzo va dunque indirizzato nella messa a punto di strumenti idonei a recepire queste caratteristiche dell'oggetto stesso e a incorporarle nella metodica della ricerca.


L'ipotesi della ricerca

Il problema si sposta nel campo dell'individuazione di indicatori, che devono essere tali da facilitare e anzi moltiplicare preventivamente la differenziazione dei punti di vista e delle variabili da osservare, e sufficientemente numerosi da supportare un'osservazione multiforme e multidirezionale, ma che devono anche essere articolati tra loro e accomunati da un'intrinseca coerenza.

E' ovvio però che, moltiplicando gli indicatori, diventa sempre più difficile trovare un denominatore comune esplicitabile, per comportamenti e funzioni, che, per altre vie, sappiamo invece essere collegate; e, per altro verso, diventa sempre più facile introdurre variabili casuali o improprie, potenzialmente capaci di alterare i dati finali. [2]

Comunque, per sottrarsi all'impasse costituita dalla difficoltà di teorizzare l'ineliminabile e intrinseca contraddittorietà dei contenuti e quindi dei metodi, diventa necessario arrischiarsi nella costruzione di un'ipotesi di lavoro impegnativa.

La scelta dei nostri indicatori è partita dall'osservazione che i pazienti più aperti a evoluzioni favorevoli (per esempio lavori protetti o piccoli impegni esterni alla Comunità, ecc.) e in prospettiva più disponibili ad una "dimissione" (nel senso del passaggio a soluzioni abitative meno protette) non sono quelli con sintomi meno evidenti o più contenibili farmacologicamente, né quelli che più chiedono o "rivendicano" maggiori spazi esterni alla comunità (più uscite, andate a casa più frequenti, ecc.) bensì quelli che più degli altri accettano situazioni opposte, che possono sembrare, ad un esame superficiale, di passività e di dipendenza dal gruppo dei curanti e dalla comunità nel suo insieme.

Sembra esistere in sostanza un parallelismo o una simmetria tra la capacità di instaurare e alimentare forme di regressione controllata e la capacità di segno opposto, di accettare le rotture, i tagli, i cambiamenti connessi con l'abbandono totale o parziale della protezione della comunità o del reparto.

Tale parallelismo suggerisce l'idea che le due serie di funzioni siano facce della stessa realtà, cioè di una funzione molto più complessa, che non vogliamo avere fretta di definire concettualmente, ma che ipotizziamo presieda all'efficace interfacciamento tra le profondità insondabili dell'individuo e l'ambiente esterno. Una funzione che, se è sufficientemente forte, consente la convivenza (fatta di contatto e di separazione al tempo stesso) tra un "dentro" e un "fuori"; se è debole, permette commistioni e contaminazioni nei due sensi e provoca un basso livello complessivo di prestazioni.

Questa funzione, oltre ad essere più o meno forte o debole, in certi momenti e, tipicamente, in condizioni di patologia può essere parzialmente assopita, cioè fornire prestazioni inferiori alle proprie possibilità.

Recuperare e rinforzare tali potenzialità è, naturalmente, l'oggetto della terapia psichiatrica nel suo complesso. Ma uno dei segni di tale rinforzabilità sembra essere la capacità del paziente di operare in stretta collaborazione con una soggettività esterna, prestata dal gruppo curante e accettata, nel doppio ruolo, per un verso, di partecipe di aspetti anche piuttosto intimi e personali, per l'altro verso, di elemento promotore di cambiamento, nell'ambito di una volontaria e transitoria rinuncia ad autogestirsi.

Tale sospensione di alcune prerogative della propria soggettività, che viene dunque implicitamente riconosciuta come insufficiente e la sua sostituzione con quella dei terapeuti è una operazione non passiva, bensì attiva, una vicariabilità che dà corpo ad una sorta di "Io virtuale", presumibile espressione del mantenimento, al di sotto della psicosi, di una buona forza residua. E ciò è tanto vero che ci consente di formulare l'affermazione, apparentemente paradossale, che il livello di autonomia che ci si può aspettare da un paziente è proporzionale alla sua capacità di ospitare per un certo periodo di tempo un Io ausiliario, prestato dal gruppo curante.

Il processo di accoglimento di tale Io ausiliario, qualitativamente molto diverso da una posizione di passività compiacente, ha molte facce, dall'accettare la terapia farmacologica (la c.d. compliance) al richiedere consigli, dall'instaurare rapporti di confidenza con i curanti al cercare il contatto fisico, lo scherzo, il gioco, fino al tollerare qualche intromissione nella propria sfera somatica, finalizzata a scopi sanitari o igienici o a terapie corporee o all'aiuto nell'abbigliamento.

Ma, per contro, comprende anche la disponibilità ad accettare restrizioni, norme, sanzioni, orari, rimandi, nuove responsabilità, manifestazioni non manipolabili di autorità, disponibilità al confronto col nuovo e col diverso, cioè quelle attitudini connesse col riconoscimento della presenza, attuale e cogente, dell'altro e del mondo esterno; tutte cose che, come sappiamo, costituiscono nel loro insieme il punto più vulnerabile dell'organizzazione psichica dei pazienti psichiatrici.

Tale modo di essere potrebbe anche essere chiamato "collaborazione" o "alleanza terapeutica", se questi termini non suonassero impropri quando applicati a pazienti ospiti di reparti ospedalieri o di comunità, i quali, anche nei casi più favorevoli, raramente, almeno all'inizio, manifestano esplicitamente una volontà di collaborare con i curanti per la propria guarigione.

L'atteggiamento da esplorare, che solo molto più avanti diventerà collaborazione terapeutica, è inizialmente una particolare forma di "docilità" (che etimologicamente vuol dire appunto "docibilità", cioè disponibilità a recepire ammaestramenti) da parte dei pazienti, che, per un verso, consente un più facile accesso al loro mondo interiore o alla loro intimità e, per l'altro verso rende loro possibile l'accettazione di limiti e di stimoli imposti dall'esterno.

Si è voluto includere anche l'osservazione dei comportamenti all'interno di situazioni particolari, come la psicoterapia e le attività espressive e corporee.

Ciò presuppone la soluzione di alcuni problemi aggiuntivi in quanto tali relazioni e attività terapeutiche avvengono in contesti (setting) che, per definizione, mutano la qualità e il significato dei singoli contenuti (per esempio il racconto di eventi passati in psicoterapia o singole rappresentazioni in arteterapia), che perdono la capacità di veicolare informazioni spazio - temporalmente definite, per diventare parti di un'unità sostanzialmente figurativa, con caratteristiche di globalità e del tutto a-storiche.

La psicoterapia e le terapie espressive lavorano infatti proprio attraverso una circoscritta riduzione del carattere di realtà delle esperienze del paziente e, come i test proiettivi, hanno un effetto destrutturante che, sia pure controllato, va nella stessa direzione della psicosi; la forza residua dell'Io si esplica nell'accompagnare tale spinta regressivante, creando però delle strutture di contenimento e di imbrigliamento dei contenuti regressivi, rappresentate dalle forme della narrazione verbale, dell'espressione mimico - gestuale o della creazione artistica.

L'invito ad abbandonare le difese e ad evocare emozioni, ricordi, desideri, è in realtà un invito paradossale ad entrare in una sorta di disorganizzazione di segno psicotico, che, nei pazienti più deboli provoca forti (e giustificate) resistenze oppure un aggravamento della sintomatologia.

Nei pazienti più forti, invece, suscita e rinforza la capacità di creare delle barriere e dei contenitori accettabili, in grado di far convivere i contenuti della regressione con una loro presentazione credibile e comunicativa, ciò che costituisce la base del transfert, nella psicoterapia verbale, o dell'entrata in una dimensione rappresentativa (artistica, teatrale, ecc.) nelle altre terapie.

La capacità, prima, di lasciar emergere e, poi, di organizzare i contenuti della regressione, sotto forma di ricordi strutturati come narrazioni o di prodotti artistici o di personaggi teatrali, può essere assunto, almeno in via ipotetica, come indicatore di trattabilità. Tenendo presente che le informazioni diagnostico - prognostiche che possono essere tratte da questi contesti non sono legate alla tipologia dei contenuti (le "scene infantili" e i "simbolismi" evocati) e neanche alla loro successione o ai criteri della loro concatenazione (come pensava Freud), bensì alla consistenza e alla qualità delle strutture mentali che li sostengono, e cioè, in definitiva, al funzionamento nel paziente di tutte quelle funzioni e abilità cognitivo - motorio - espressive necessarie per alimentare una situazione cosiddetta transferale.

Tutta una serie di item sono così dedicati a saggiare quanto il paziente è in grado di entrare, controllandola, nella particolare situazione regressivante che gli viene proposta con la psicoterapia o con le terapie espressive. Il suo modo di rappresentare interiormente il setting e di vivere il transfert (cioè di differenziare qualitativamente ciò che avviene in quei contesti dalle esperienze esterne ad essi) sono considerati una ulteriore misura della sua capacità strutturale di distinguere il "dentro" dal "fuori" e quindi della sua trattabilità complessiva.

Queste le ipotesi che sottendono la ricerca, le cui implicazioni teoriche, ovviamente molto ampie e complesse, non possono essere né confermate né smentite da una semplice indagine statistica, per estesa e articolata che sia.

Quello che si persegue è anzitutto una prospezione a tutto campo, che, effettuata sistematicamente in un contesto omogeneo, permetta, proprio in virtù della sua ampiezza e multidirezionalità, di far sì che anche valutazioni arbitrarie, opinabili, parziali, imperfette, nonché punti di vista, sia tecnici sia personali, disparati, si integrino, si rinforzino oppure si elidano a vicenda, concorrendo a formare un punteggio complessivo, provvisto di una sua obiettività. Tale punteggio, presumibilmente, rende visibile e quantifica una funzione immateriale, complessa ma unitaria, attribuita agli ospiti, ma esprimentesi tramite atteggiamenti, modi di essere e relazioni interpersonali che si instaurano all'interno delle comunità, così come vengono vissuti dagli operatori.

In secondo luogo abbiamo voluto saggiare l'esistenza o meno, su una base abbastanza ampia di pazienti, di rapporti obiettivabili tra il punteggio così ottenuto e il verificarsi o meno di eventi che, almeno in una certa misura, prendono corpo in un ambito esterno al mondo della comunità. L'obiettività di tali rilevazioni è anch'essa lungi dall'essere assoluta, e, soprattutto, realmente indipendente dal campo comunitario, ma presenta il vantaggio di essere ottenuta con strumenti diversi, quali testimonianze di famigliari, di operatori dei servizi invianti, di datori di lavoro, di persone comunque estranee alla vita comunitaria.

La correlazione tra il punteggio attribuito dagli operatori e il verificarsi (obiettivo per quanto è possibile) di determinati eventi esterni sembra poter dare una ragionevole garanzia sulla adeguatezza e sulla validità dell'indagine, il cui significato profondo resta comunque da precisare.

      
I questionari

In considerazione di quanto sopra esposto, i questionari rispondono a una serie di criteri.

  1. Anzitutto, rinunciando a perseguire una discutibile obiettività del comportamento del paziente, rivolgono la propria attenzione prevalente alla qualità della relazione e ai vissuti degli operatori. Quindi si muovono nell'ambito di una sorta di soggettivismo programmatico, nella convinzione che, confrontando e incrociando centinaia di valutazioni soggettive, tutte inevitabilmente arbitrarie, si possa pervenire a una forma di obiettività.
  2. In secondo luogo, spesso, invece di indagare il comportamento spontaneo del paziente, prendono in considerazione la qualità della risposta di quest'ultimo a iniziative e proposte degli operatori.
  3.      
  4. Si rivolgono a tutti gli operatori (medici, psicologi, educatori, ecc.), con domande in parte differenziate e relative ai differenti contesti di interazione.
  5. I questionari sono stati somministrati agli operatori di sei comunità, con caratteristiche molto omogenee, costituite da pazienti psicotici cronici, per lo più schizofrenici, ospiti da sei mesi a parecchi anni, tutti trattati farmacologicamente con neurolettici e tutti inseriti in programmi comunitari di tipo psico- e socio-terapeutico.

Le comunità ospitano gruppi da 15 a 20 pazienti, di età tra i 20 e i 50 anni, con diversi anni alle spalle di assistenza psichiatrica intensiva e/o di residenza in comunità. I curanti, in numero anch'essi di 15 - 20 per gruppo, sono costituiti da operatori, educatori professionali, adest, infermieri, tecnici della riabilitazione di vario tipo, psicologi, psichiatri e altre figure professionali, con diversi tempi e tipi di presenza in Comunità.

Le domande (88 in totale) sono rivolte agli operatori e si riferiscono specificamente al rapporto del singolo paziente con loro, all'interno della propria area professionale e del proprio ruolo. Le domande sono divise in quattro gruppi, per medici, psicologi, operatori di base, terapisti espressivi (arteterapia, musicoterapia, teatroterapia). Ciascun operatore risponde quindi a 20 - 30 domande circa.

Appartengono a due serie:

  • A. Le domande volte ad esplorare un insieme di atteggiamenti e di rapporti genericamente indicativi di una disponibilità a lasciar accedere l'operatore alla propria intimità, ovviamente in maniera controllata e circoscritta e nel rispetto dei confini di ognuno. Essi vanno dalla compliance con lo psichiatra nell'assunzione dei farmaci, alla richiesta (reale) di consigli che poi il paziente applica, all'interesse (rispettoso e non intrusivo) per la vita personale dell'operatore, alla tolleranza/richiesta di contatti fisici (carezze, abbracci, ecc.), alla disponibilità al gioco e allo scherzo, ecc., fino alla manifestazione di aspetti transferali, nei contesti che lo prevedono. Agli psicoterapeuti viene chiesto soprattutto quanto il paziente discrimina il "dentro" e il "fuori" della seduta, cioè quanto riesce a capire e a introiettare il setting e a dar vita a situazioni "transferali", mentre ai terapeuti espressivi viene chiesto di valutare quanto il paziente riesce entrare nella particolare situazione della seduta espressiva (artistica, teatrale, ecc.) e con quanta forza riesce a viverla, differenziandola qualitativamente dalle altre situazioni terapeutico - relazionali dell'istituzione.

  • B. Le domande che esplorano la disponibilità effettiva del paziente a modificare alcuni propri comportamenti (sintomatici o meno) in funzione di regole, orari, impegni, prese di posizione autorevoli, nonché a relazionarsi col mondo esterno alla comunità, o a verificarsi in situazioni nuove e diverse. In generale saggiano con quanta incisività ed efficacia il mondo esterno, cioè l'esistenza dell'"Altro da sé", nei suoi aspetti più forti e meno manipolabili, riesce ad essere rappresentata nell'interiorità del paziente, nella fondata convinzione che una rappresentazione forte sia l'espressione (causa o conseguenza?) di una sorta di barriera in grado, tra l'altro, di arginare e contenere efficacemente i vissuti psicotici.

Gli operatori possono dare un punteggio da 1 a 5, oppure saltare la domanda. Non possono dare punteggio 0.

Le valutazioni si riferiscono al comportamento del paziente in comunità negli ultimi tre mesi e non in precedenza.

Non si fa cenno, in tutto il questionario, né al quadro clinico, sintomatologico e diagnostico, né al livello prestazionale effettivo dei pazienti, bensì si opera trasversalmente rispetto a tutte queste osservazioni. Già in partenza, pertanto, non è previsto che a un punteggio alto corrisponda una sintomatologia meno grave o addirittura un quadro di tipo non schizofrenico.

Il questionario è stato ripetuto dopo tre e nove mesi, con le stesse domande, consapevoli del fatto che sia il gruppo dei pazienti sia quello degli operatori erano in parte cambiati e che quindi un diverso punteggio del paziente esprimeva non solo una sua evoluzione individuale, ma anche un diverso collocamento nel contesto comunitario [3] .


I risultati

La grande quantità di dati ha richiesto, per essere gestita, un'assistenza informatica piuttosto intensiva, tenendo conto del fatto che ogni operatore partecipante alla ricerca ha emesso, per ogni singola ricerca, da 400 a 600 valutazioni (20 - 30 item per 15 - 20 pazienti) e che, per converso, il punteggio finale di ogni paziente è espressione, mediamente, di altrettante valutazioni, date da 15 - 20 operatori.

Ogni singola ricerca si basa pertanto su 5-8-10.000 valutazioni, e quindi la massa dei dati è tale che ogni singolo file ha un'ampiezza vicina a un megabyte.

Si è riusciti comunque a mettere a punto uno strumento in grado di elaborare e gestire i dati, un volta inseriti, praticamente in tempo reale.

Si è visto che non tutte le valutazioni potevano essere accettate senza un controllo preventivo, nel senso che quasi tutti gli operatori, ciascuno in un ambito diverso, corrispondente a uno o più item, tendevano a dare punteggi sistematicamente o troppo alti o troppo bassi a tutti i pazienti. Il fatto che a tutti i pazienti di un gruppo, per un certo item, venga dato punteggio 1 o punteggio 5, è considerato indicativo del fatto che l'operatore stesso non è in grado di utilizzare quell'item per differenziare i pazienti, cioè che o non capisce o non utilizza la particolare modalità relazionale che ci sta sotto. Se, per esempio, alla domanda (ipotetica) "il paziente X ride alle tue barzellette?", la sua risposta è per tutti i pazienti "1", significa che l'operatore in oggetto non vuole o non sa raccontare barzellette. Se alla domanda (sempre ipotetica) "ti è simpatico il paziente Y?", tutte o quasi le risposte sono "5", significa che l'operatore attribuisce un significato del tutto particolare (e irrealistico) alla parola "simpatico" e che comunque ciò non esprime per lui qualcosa in grado di differenziare un paziente dall'altro.

Ogni operatore ha le sue "zone d'ombra", in numero di quattro o cinque per ciascuno e queste sono diverse da una persona all'altra: accettare tali punteggi, chiaramente irrealistici creerebbe degli artefatti, che renderebbero meno precisi i dati finali. Si è deciso di eliminarli, privilegiando i punteggi più differenziati, indicativi di un uso proprio di ciò a cui l'item si riferisce.

Praticamente il programma prevede un filtro preliminare, che, per ogni gruppo e per ogni singolo operatore, esclude gli item il cui punteggio medio sia più di 4 o meno di 2. Il filtro può variare leggermente da gruppo a gruppo e va deciso ogni volta, segnalandolo in un'apposita casella: per esempio "3.9 - 2.3", oppure "4.1 - 1.9", ecc.. In qualche caso il filtro non è necessario, perché modifica in maniera irrilevante i punteggi finali.

Si è osservato che di solito la necessità di uso dei filtri è inversamente proporzionale all'esperienza dei gruppi, anzi che è una misura praticamente diretta dell'anzianità di lavoro dei gruppi stessi.

Tutti i dati che hanno superato i filtri di cui si è parlato sopra, concorrono a formare un punteggio base, che rappresenta la media di tutti i punteggi dati al paziente, riportati nella tabella 1:

Tabella 1 . Sono riportati, a titolo esemplificativo, i dati di 3 comunità, denominate "A", "B" e "C", a distanza di tre mesi l'una dall'altra, essendo "1" riferito alla prima rilevazione e "2" alla seconda

Il secondo punteggio preso in considerazione, "I.V." nella tabella 1, è l'Coefficiente di Pearson, o indice di variabilità, ottenuto dal rapporto deviazione standard/media. E' indicativo del grado di differenziazione dei singoli punteggi tra di loro e cioè di quanto il paziente suscita valutazioni più o meno discordanti, da persona a persona e da momento a momento. Si può assumere come un misuratore della "volatilità" della singola osservazione e quindi, presumibilmente, del grado di stabilità e della consistenza (o, al contrario, di compromissione) di certe strutture e funzioni.

Come si vede dalla tabella 2, i punteggi base sono chiaramente distribuiti secondo una gaussiana, intorno a un valore medio che è 3. Il fatto si riproduce in tutte le comunità esaminate, con piccole differenze nel profilo della curva.

Tabella 2 .Istogramma delle rilevazioni effettuate nelle comunità A B e C, a distanza di tre mesi (v. Tab. 1)

Tabella 3 . Paziente a punteggio alto confrontato con la media del suo gruppo

La curva di ciascun paziente può o sovrapporsi a quella del suo gruppo oppure discostarsi in più o in meno, avendo il paziente ricevuto, rispetto alla media, un maggior numero di punteggi 4 e 5 oppure 1 e 2. Nelle tabelle 3 e 4 sono riportati i grafici di due pazienti, uno a punteggio alto e uno a punteggio basso, confrontati col grafico del loro gruppo (a destra). V. tabelle 3 e 4:

Tabella 4 . Paziente a punteggio basso confrontato con la media del suo gruppo


Il confronto dei dati

Il punteggio così ottenuto indica la valutazione che il gruppo degli operatori nel suo complesso dà a ogni paziente.

Si tratta di valutazioni, che, ripetiamo, hanno la caratteristica di essere trasversali rispetto alle forme cliniche e alla gravità obiettiva dei pazienti, non solo, ma anche relative al gruppo (dei pazienti, ma anche degli operatori), al cui interno la singola persona si colloca e di cui è considerato un'espressione.

Il punteggio (alto o basso) non equivale quindi ad una valutazione assoluta, bensì a una certa posizione, attuale, all'interno di una ben determinata e contingente realtà. Un paziente, spostato in un altro gruppo (per esempio in una comunità a più bassa protezione e quindi a più alta richiesta di autonomia) riceve quasi sempre un punteggio più basso. Più alto, viceversa, se la seconda comunità è a più alta protezione.

Non solo, ma anche un paziente che non ha modificato il proprio comportamento può veder cambiare la sua posizione in classifica in funzione dei cambiamenti di altri pazienti oppure della mutata composizione del gruppo.

Si tratta quindi, come conseguenza delle premesse dichiarate in precedenza, di una valutazione fortemente legata al contesto e quindi all'hic et nunc del gruppo in cui viene fatta la rilevazione. All'interno di questo ambiente si crea chiaramente una netta di situazione di "più" e di "meno" rispetto a un media: vi sono cioè pazienti che vengono accreditati dagli operatori di avere una capacità di risposta più alta della media e pazienti che vengono accreditati di una capacità di risposta più bassa.

Abbiamo poi pensato di confrontare il punteggio di ciascun paziente con "eventi" verificatisi nelle varie comunità in un dato periodo di tempo.

Per "evento" si intende un fatto in qualche misura nuovo, un'azione non ripetitiva, circoscritta e ben definita, di cui il paziente è, almeno in una certa misura, responsabile in prima persona, e che rappresenta l'espressione di una sua volontà al di fuori della routine oppure un suo assecondamento di sollecitazioni dei curanti, ma avvenuto al di là delle aspettative e dell'entità delle sollecitazioni stesse.

Tutti noi che lavoriamo con pazienti psichiatrici sappiamo che tali eventi sono di piccola portata, in assoluto, se riferiti a persone normali, ma hanno una notevole importanza per gli ospiti di una comunità, non inclini, per tutta una serie di motivi, a dare vita a qualcosa che esuli dal campo protettivo - consuetudinario della comunità.

A ciò si aggiunga che la comunità, un po' per l'ineliminabile connotazione normativa, che le deriva dalla sua natura riabilitativa e quindi pedagogica, un po' per la stretta interdipendenza che si instaura tra i suoi membri (in parte determinata dalla patologia, in parte comune a tutte le realtà similari anche fuori del mondo della malattia mentale) finisce sempre per avere un forte potere di omologazione sui comportamenti delle persone. Pertanto, anche se animata dalle migliori intenzioni, esercita una forte pressione a che "non succeda niente di imprevisto"… niente di distruttivo di natura sintomatica, ma in parte anche niente di costruttivo e propositivo.

Pertanto gli eventi di cui ci occupiamo, sono, sì, "micro - eventi" in assoluto, ma derivano da una spinta motivazionale e da un'energia tutt'altro che irrilevanti, essendo il risultato di un'opposizione a forti spinte, volte a omologare e a mantenere l'omeostasi.

Quindi anche un piccolo cambiamento, una minima deviazione da una traiettoria che per sua dinamica e per determinazione esterna andrebbe in un'altra direzione, va colta e valorizzata adeguatamente, come se fosse l'uscita, non facile e non casuale, di un corpo da un campo gravitazionale.

Tabella 5 . Eventi individuati nelle sei comunità prese in esame. I colori sono quelli usati nella tabella 6.

Come si vede dalla tabella 5, gli eventi "positivi" sono delle andate a casa avvenute con successo (da parte di pazienti che non lo facevano da anni), l'inizio di piccoli lavori protetti, un aumento di responsabilità, ecc.; si noti bene che, come già detto, viene considerato "evento" anche l'assecondamento da parte del paziente di un'iniziativa autonomizzante dei curanti.

Eventi "negativi" sono degli acting out più o meno gravi come tentativi di suicidio, fughe, aggressioni e altre forme di passaggio all'atto di stati d'animo o idee, che prescindono dal contesto, per incapacità di contenere o rimandare o esprimere in maniera mediata e condivisibile un bisogno, un fastidio, un'emozione.

Eventi "positivi" ed eventi "negativi" sembrerebbero espressione di due modi opposti di interpretare una recuperata capacità di autoaffermazione e autonomia dall'ambiente, rispettivamente all'interno o all'esterno di una logica di integrazione con le esigenze e l'esistenza stessa degli altri.

E sono comunque fatti obiettivi, facilmente riscontrabili che si verificano, entro certi limiti, fuori del campo di controllo e di influenza diretta della comunità.

Abbiamo selezionato ottantaquattro "eventi", positivi e negativi, verificatisi nelle comunità in oggetto, nei periodi immediatamente successivi alle valutazioni e li abbiamo riportati su una griglia in cui sull'asse delle ascisse è posto il punteggio medio, su quello delle ordinate il coefficiente di Pearson.

Ogni evento è stato riportato su un grafico (v. tabella 6) in base ai punteggi ottenuti dal suo autore nella precedente rilevazione. Il numero corrisponde all'evento descritto nella tabella 5. Sono su sfondo giallo gli eventi positivi, su sfondo normale quelli blandamente negativi e su sfondo grigio quelli fortemente negativi).

 

Tabella 6 . Eventi della tabella 5 riportati su un grafico in base ai punteggi ottenuti dal loro autore nella rilevazione precedente. I colori si riferiscono alla qualità degli eventi: su sfondo giallo quelli giudicati positivi, su sfondo grigio quelli giudicati nettamente negativi, su sfondo bianco quelli debolmente negativi.


Discussione

Come si vede, c'è una corrispondenza nettissima tra eventi giudicati positivi o negativi e i punteggi attribuiti al paziente nella rilevazione immediatamente precedente. Va sottolineata l'estrema rarità di eccezioni, anche a costo di correre il rischio di vedere invalidata l'attendibilità dei dati, sospetti di essere stati manipolati.

Si possono quindi individuare due aree, una "positiva" e una "negativa", nel senso che pressoché tutti gli eventi positivi si collocano in un'area a punteggio alto (e basso indice di Pearson), mentre pressoché tutti gli eventi negativi si collocano in un'area a punteggio basso (e alto indice di Pearson). Il fatto che, quando il suo punteggio va a posizionarsi in una di esse, il paziente sia esposto alla probabilità di dar luogo ai rispettivi eventi, positivi o negativi, non è altrettanto dimostrato dai dati, ma è verosimile, come il fatto che, se non entra mai in tali aree, la sua probabilità di dar luogo agli eventi corrispondenti, anzi di dar luogo a eventi tout court, è molto minore.

Non è sembrato il caso, nell'attuale fase iniziale della ricerca, di saggiare statisticamente tale probabilità e quindi il grado di determinanza del punteggio. E' sembrata sufficiente, per il momento, la constatazione della nettissima correlazione esistente, in positivo e in negativo, tra la qualità degli eventi e i rispettivi punteggi.

Per quanto una maggiore precisazione sia auspicabile e rientri tra i possibili sviluppi futuri dell'indagine, sembra legittimo ipotizzare che un punteggio alto e un indice di Pearson basso comportino una capacità potenziale del singolo paziente di produrre eventi positivi e di non produrre eventi negativi. Viceversa nei casi di punteggio basso e indice di Pearson alto.

L'interesse di questa constatazione è massimo nel caso dei pazienti che, pur trovandosi, in base al loro punteggio, in una certa area, non hanno dato luogo agli eventi corrispondenti. Si può presumere che ciò significhi o che l'evento è solo rimandato ma più o meno imminente, o che il paziente ha bisogno di maggiore aiuto da parte dei curanti per concepirlo e produrlo, o che comunque ha, sempre a quanto si può ipotizzare, un'autonomia potenziale superiore a quella richiesta al paziente medio di quella comunità; autonomia che è compito dei curanti "slatentizzare" e rendere in qualche modo attuale.

Ci sembra dunque logico pensare che l'appartenenza alla fascia alta significhi che il paziente è, in questo preciso momento, in misura maggiore o minore, sottostimolato: il non cogliere tempestivamente questa realtà può comportare il rischio di una cronicizzazione superiore a quella indotta dalla malattia o addirittura una riacutizzazione dei sintomi.

Nel caso degli eventi negativi, al contrario, si deve prendere coscienza del fatto che il paziente ha un'autonomia potenziale inferiore all'apparenza ed è, al momento attuale, sovrastimolato; con la conseguenza che, se non si provvede a mettere in atto provvedimenti di minore stimolazione e di maggiore protezione, la probabilità di acting out o comunque di peggioramenti (iatrogeni, a questo punto, si badi bene) è alta.

I pazienti dell'area intermedia, semplicemente, sono in attesa di decidere dove collocarsi e necessitano di tempo e di una blanda stimolazione.

Dall'osservazione dei dati emerge che, a distanza di tre o di nove mesi, alcuni pazienti hanno mantenuto un punteggio molto stabile, mentre molti altri hanno visto cambiare in maniera sensibile i loro punteggi.

Per i pazienti appena inseriti in Comunità, ciò può dipendere da una diversa e più precisa valutazione da parte degli operatori (conseguente a una migliore conoscenza). In altri casi, più rari, se il turn over del gruppo dei pazienti è stato elevato, può dipendere da una diversa collocazione all'interno del gruppo stesso che è cambiato.

Escludendo queste due situazioni potenzialmente fuorvianti, la prima delle quali facilmente individuabile, la seconda piuttosto rara, le modificazioni di punteggio non sono da considerare artefatti.

Sempre aperto è il problema del significato reale, profondo di questi dati, problema che non può certo essere risolto in maniera rapida e facilmente esaustiva.

A un esame clinico più sottile compiuto successivamente alle rilevazioni e avendo davanti agli occhi il punteggio, si è potuto osservare che i pazienti della fascia alta, tra l'altro:

  • hanno una maggiore capacità di contenere i deliri e tutta la patologia (che pure li affligge in misura non dissimile dagli altri);
  • si avvantaggiano di più del rapporto con persone esterne all'istituzione;
  • esplicitano di più i propri problemi e li comunicano adeguatamente ai curanti;
  • hanno una concezione aperta della conduzione della loro terapia, nel senso che richiedono spazi e prospettive allargate e cambiamenti;
  • parlano in maniera diretta e non paradossale e sono quindi più attendibili nelle loro affermazioni e richieste;
  • incorporano gli apporti terapeutici e gradiscono nuovi stimoli.

I pazienti della fascia bassa, per contro:

  • lasciano trabordare i loro contenuti patologici senza contenimento;
  • preferiscono i rapporti con le persone interne alla comunità;
  • hanno difficoltà a verbalizzare e a rendere comprensibili i loro problemi;
  • hanno una concezione chiusa della loro terapia e non gradiscono aperture e cambiamenti;
  • parlano in maniera criptica, indiretta e paradossale, che deve essere interpretata;
  • dissipano almeno una parte degli apporti terapeutici e non gradiscono nuovi stimoli.

Un problema al quale non siamo ancora in grado di dare una risposta soddisfacente è quanto l'appartenenza a una fascia o all'altra sia un dato di personalità, quanto faccia parte dell'evoluzione spontanea (positiva o negativa) della malattia e quanto invece sia un portato della terapia (per esempio farmacologica, o ambientale, o psicoterapeutica). Sebbene sia scontato che le tre componenti, come è ovvio e come è stato ampiamente esplicitato nei paragrafi introduttivi, si intersechino in maniera praticamente inscindibile, sarebbe interessante capire un po' meglio quale è il peso relativo dei vari fattori.

Nei circa due anni di sperimentazione, comunque, moltissime decisioni cliniche sono state prese tenendo sottocchio i dati della ricerca e si è constatato che essi costituiscono uno strumento altamente affidabile, nell'aiutare a prevedere le conseguenze delle decisioni stesse, nel senso che qualunque proposta nuova, impegnativa, inedita, fatta al paziente, se quest'ultimo è della fascia alta, con molta probabilità andrà a buon fine e si tradurrà in una crescita di autonomia permanente; esattamente il contrario se il paziente è della fascia bassa [4] .

Conclusioni

La conclusione della ricerca è che il questionario da noi elaborato sembra permettere una ragionevole previsione, per quanto è possibile in clinica psichiatrica, della probabilità e la qualità degli eventi (positivi o negativi) cui il singolo paziente, in base al suo punteggio, potrà dar vita.

Va però ancora una volta precisato che ciò non vuol dire che il paziente autonomamente farà certe cose, bensì che potrà (anzi dovrà) essere accompagnato dai curanti a concepirle e a metterle in atto. Si tratta pur sempre di una propositività e di una capacità di iniziativa latenti, che necessitano di essere stimolate, protette, assecondate, prima di essere acquisite dal paziente stesso e diventare effettive.

Oltre a ciò i risultati della ricerca aiutano a leggere meglio sintomi e comportamenti, che, apparentemente simili, assumono significati diversi in base al punteggio del paziente [5] . Ma soprattutto aiutano a ridefinire tutta l'impostazione tattica e strategica della terapia, tenendo conto della collocazione della singola persona nelle scale su esposte.

In tale contesto diventa compito precipuo dei curanti far collimare spazi e tempi dei propri interventi (stimolanti e protettivi) con la maggiore o minore recettività attuale del paziente.

I risultati della ricerca ci dicono quando è giunto il momento per arrischiarci in certe scommesse (grandi o piccole che siano), con la ragionevole certezza di poterlo fare con più o meno successo e comunque senza danno. Contemporaneamente ci dicono quando non è il caso di farlo, se non vogliamo esporre il paziente a rischi superiori alle sue attuali possibilità.

Sbagliare espone all'eventualità di provocare effetti iatrogeni da sovrastimolazione e da sottostimolazione, che possono essere anche gravi o gravissimi.



[1] Fenomeno frequente in psicologia e psichiatria, tale per cui l'osservatore, senza accorgersene, osserva soprattutto se stesso.

[2] Anche se è vero che l'enfasi posta sull'importanza della globalità e della contestualità di tutto ci mette abbastanza al riparo da questo tipo di errori. Nel corso della ricerca, anzi, ci siamo fatti la convinzione che anche item irrilevanti o deliberatamente non pertinenti potrebbero contribuire a precisare il punteggio finale.

[3] Mantenere costanti tali variabili non sarebbe auspicabile. Oltre che impossibile nella pratica (perché non si ha il potere di costringere un paziente o un operatore a restare in comunità contro la sua volontà) e deontologicamente scorretto (perché non si può dilazionare, per finalità, per così dire, euristiche una dimissione ritenuta utile sul piano clinico), farebbe riferimento e confermerebbe una improbabile filosofia di stabilità e di obiettività a tutti i costi, dannosa agli scopi e allo spirito della ricerca, nonché possibile fonte di artefatti. In sostanza una ricerca di maggiore correttezza formale riuscirebbe solo a produrre delle conclusioni inapplicabili alla realtà delle strutture comunitarie.

[4] Naturalmente neanche questo modo di procedere è immune dall'obiezione che la conoscenza del punteggio possa influenzare in un modo o nell'altro l'attuazione di un certo evento. Si può solo controbattere che raramente le persone impegnate nell'esecuzione dei vari progetti terapeutici sono tutte al corrente della ricerca e che, anche quelle che lo sono, raramente si sentono impegnate a confermare o a confutare un'ipotesi di lavoro di questo tipo.

[5] Per esempio la richiesta, avanzata da un paziente, di una maggiore autonomia, in linea generale, può essere presa letteralmente e incoraggiata se il paziente è della fascia alta, mentre va intesa in senso paradossale (come richiesta di maggiore contenimento), se il paziente è nella fascia bassa. Ovviamente sempre con la dovuta prudenza e col supporto di altre considerazioni cliniche.


* Giandomenico Montinari, psichiatra, responsabile sanitario della Comunità “La Conchiglia” di Monastero Bormida (AT), con la collaborazione degli operatori della stessa, oltre che di quelli delle Comunità “La Braia” di Terzo (AL) e “Residenza S.Rocco” di Grondona (AL).

Consulenza statistica: Prof. Vincenzo Balestra, docente di Metodologia Epidemiologica Clinica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Genova.

Consulenza informatica: Ing. Emmanuele Sordini, Genova.

Indirizzo dell’Autore: Dott. Giandomenico Montinari, Via Cecchi, 3/3, 16129 Genova.

E-mail: montinari@panet.it 


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