Lo sviluppo della cultura della Comunità Terapeutica in Italia tra legge di riforma e criteri aziendalidi Enrico Pedriali(lavoro presentato alla Conferenza di Windsor 1998)La storia degli ultimi trent'anni della psichiatria in Italia è stata fortemente caratterizzata dal grosso impegno per superare la cultura manicomiale e le resistenze che si opponevano al cambiamento. Il movimento di riforma ha assunto, a volte, atteggiamenti antiistituzionali in senso lato, arrivando quasi all'identificazione con un movimento politico che contribuì, nel 1978, alla promulgazione della legge 180, altrimenti nota come "legge Basaglia", pietra miliare di un percorso che avrebbe portato alla chiusura dei manicomi. Si trattò indubbiamente di una grossa svolta. Per alcuni dei protagonisti e dei loro sostenitori fu come piantare la bandiera su una cima inviolata: in Italia, primo paese del mondo occidentale, sembrava decretata la fine di un'epoca. Il forte carattere antiistituzionale determinò tuttavia una sottovalutazione, anzi una certa ostilità per quel filone di pensiero che molti anni prima aveva prodotto, in Inghilterra e altrove, la sperimentazione e la concreta realizzazione delle prime Comunità Terapeutiche. I rari tentativi di sviluppare queste esperienze anche in Italia furono guardate con diffidenza o aperta avversione.
La nuova legge fu salutata da più parti come il sole che avrebbe rischiarato l'avvenire della Psichiatria, consentendo la realizzazione di un mondo migliore e una miglior qualità della vita e il numero che la contrassegnava (180) venne usato quasi per esorcizzare non solo i lugubri fantasmi del manicomio, ma gli stessi angosciosi problemi delle psicosi. Purtroppo, la legge non prevedeva anche l'abolizione della malattia mentale. Ben presto ci si accorse della necessità di pensare e realizzare strutture idonee ad accogliere i problemi di un'utenza che certamente non aveva trovato risposte adeguate nel vecchio Ospedale Psichiatrico, ma neppure le trovava nel vuoto creatosi immediatamente dopo la "180". Un particolare importante è che, malgrado lo spirito della legge fosse chiaro, alla chiusura dei manicomi non si è affatto giunti con rapidità: si calcola che all'inizio del 1997, negli Ospedali Psichiatrici italiani fossero ancora internate 24000 persone circa che non erano state dimesse o per obiettive difficoltà o, più frequentemente, per resistenze opposte ai dettami della legge. Solo nel corso degli ultimi due anni il processo di chiusura è stato accelerato in virtù, si badi bene, di esigenze di bilancio della spesa pubblica. La scure che si è abbattuta sulla spesa sociale ha impresso un'accelerazione indiretta agli intenti della "180". In realtà, le nuove leggi finanziarie, impostate sempre più decisamente sul principio dei costi-benefici, hanno avuto buon gioco nel sancire la chiusura definitiva del manicomio (un'azienda sicuramente improduttiva oltre che improponibile), ma al tempo stesso hanno posto le possibili alternative di fronte ad una serie di ostacoli e strettoie.
Le attuali politiche sanitarie infatti, oltre ad imporre tagli sensibili, tendono a privilegiare quelle proposte che, sulla carta, vantano i risultati più "convenienti" o, come si dice nel linguaggio della statistica sanitaria, gli indicatori di qualità e di esito più affidabili. Il raggiungimento di qualche risultato apparente, possibilmente in tempi brevi e con la minor spesa possibile è diventato il maggior assillo di chi opera in psichiatria.
Il tema della conferenza di quest'anno, se preso alla lettera, potrebbe indurre una sensazione di euforia, ma molto opportunamente gli organizzatori hanno aggiunto un invito a non compiacersi troppo, anzi a confrontarsi con le nuove realtà e i nuovi strumenti di conoscenza di cui oggi disponiamo. Sarebbe forse più appropriato, in Italia, parlare, più che di ritorno, di crescita e sviluppo di una cultura di Comunità. I fermenti comunque non mancano e sono promossi dall'urgenza di colmare quei vuoti che la "legge Basaglia" ha involontariamente creato e dalle esigenze degli operatori che sono quotidianamente a contatto con la realtà dei pazienti. Si sta assistendo ad un proliferare di strutture che si qualificano come Comunità Terapeutiche anche se, molte volte, lo sono più di nome che di fatto. Le caratteristiche principali di questo movimento in atto, si possono così sintetizzare:
- molteplicità di orientamenti teorici (psicodinamico, psicosociale, cognitivo-comportamentale, sistemico-relazionale, modello integrato); talvolta si assiste ad un eclettismo sconcertante o ad una carenza allarmante di modelli teorici;
Mi limiterò a trattare la questione delle Comunità che accolgono soprattutto pazienti psicotici di una certa gravità.
Ciò che vorrei esprimervi in sostanza è che, nella mia esperienza con pazienti psicotici, ho sempre incontrato difficoltà ad applicare coerentemente i criteri di base della Comunità, almeno secondo un'impostazione classica. I celebri principi di Rapoport, che ho sempre considerato come i quattro punti cardinali, anziché indicarmi una rotta da seguire, si sono spesso presentati ostacoli apparentemente insormontabili. Mi sono chiesto allora cosa potavano significare per uno psicotico le stesse cose che a me parevano chiarissime e fuori discussione. Cosa può voler dire infatti Democracy per chi vive interiormente la dittatura di fantasmi, angosce e coercizioni che sono si persecutorie ma a cui sembra così profondamente attaccato; oppure Communalism per chi rifugge la relazione con l'oggetto come fonte di pericolo o di drammatiche delusioni; o Reality Confrontation per chi vive una realtà interna che spesso entra in conflitto con quella esterna? Confesso di essermi trovato più volte ad un bivio: o abbandonare gli psicotici al loro destino, o rinunciare al miraggio di una Comunità adatta alle loro esigenze. La premessa che mi pare indispensabile nel rapporto con lo psicotico è innanzitutto l'accettazione della sua realtà come base di partenza per qualsiasi progetto evolutivo: il resto verrà dopo, nella misura in cui sarà possibile. Stabilire un'intesa con questi pazienti significa, a mio parere, esprimere la disponibilità a stare-con, cioè a stabilire una relazione in cui le aspettative di cambiamento non rappresentino l'unica moneta di scambio, ma un'opportunità da sviluppare. E' questa una capacità che contrasta con un malinteso istinto di cura: non è sempre facile scegliere consapevolmente di astenersi da una qualsivoglia iniziativa se non quella di testimoniare al paziente, con la propria presenza, l'accettazione della sua diversità, piuttosto che impegnarlo in un attivismo senza scopo. Spesso nelle fasi iniziali di inserimento in Comunità, all'operatore è richiesto di svolgere un compito di Io ausiliario in un'opera a volte di sostituzione, a volte di integrazione dell'Io deficitario del paziente. Le patologia psicotiche gravi, richiedono, prima ancora della ricerca di un'alleanza con l'Io residuale non-psicotico, l'accetazione e la capacità di comprensione degli aspetti sintomatici, come espressione di bisogni e di compromessi fra parti non integrate del Sé. In altre parole, ogni progetto di cambiamento passa attraverso la preliminare comprensione e vicinanza alla sofferenza profonda del paziente.
Sul piano propriamente clinico, non si tratta di avviare una ricerca semantica dei significati dei gesti e delle parole del paziente per inquadrarlo in una categoria diagnostica o per scoprirne qualcuna di nuova, né di fornirgli interpretazioni sul suo modo di essere né di tentare di sedurlo perché rientri nei binari della coerenza e della razionalità, ma di realizzare una sorta di area intermedia dove la sua soggettività possa incontrarsi con delle presenze non giudicanti e non ottusamente normative.
Tutto ciò, si concilia col concetto di Comunità Terapeutica ? A mio parere sì, se a partire da un atteggiamento di Permissiveness, si realizzano le condizioni di un ambiente mediamente prevedibile, capace di preoccupazioni materne primarie e di svolgere una funzione di holding che trasmettano al paziente la sensazione, direi quasi tangibile, di trovarsi in un millieu rassicurante, in grado di contenere, riconoscere e valorizzare i suoi bisogni.
Quando cominciai la mia prima esperienza comunitaria, mi insegnarono a considerare il gruppo come una specie di sacramento cui il paziente doveva avvicinarsi con religiosa devozione e quasi con sentimenti di gratitudine; oggi non mi permetterei mai di chiedere ad uno psicotico l'impegno obbligatorio alla partecipazione a qualsiasi tipo di gruppo. Non so se tutto questo a voi sembri uno stravolgimento dei "sacri" principi della Comunità Terapeutica. Io mi sto formando la convinzione che con questo genere di pazienti la Comunità debba andare maggiormente incontro alle loro esigenze piuttosto che richiedere un'adesione preliminare alle proprie. Personalmente non sono mai riuscito a convincere uno schizofrenico che molti pregi della Comunità (Communilism, Democracy, Reality Confrontation) erano migliori del suo delirio o delle sue allucinazioni. Ho invece imparato che l'accettazione di queste manifestazioni che per il paziente rappresentano a volte dei veri e propri bisogni, consentivano di sviluppare un'intesa e di modificare a poco a poco il suo rapporto con la "malattia", aprendo un varco alla possibilità di un cambiamento magari parziale. Per contro, ho constatato spesso il fallimento di progetti terapeutici, l'espulsione di pazienti, il burn-out degli operatori quando le aspettative di cambiamento insite nel progetto Comunitario e ingigantite da una buona dose di idealizzazione venivano anteposte alla comprensione delle evidenze cliniche e dei bisogni dei pazienti.
Per concludere io credo che il campo delle psicosi rappresenti una sfida per la cultura della Comunità che contiene in sé le potenzialità per affrontarla a patto di uscire da una visione statica e immodificabile dei suoi metodi e dei suoi principi. |