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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



Una comunità di cura psicoterapeutica (1)
Riflessioni a partire da un'esperienza di vent'anni

Paul-Claude Racamier




Questo articolo è tratto dal libro "La Comunità Terapeutica. Tra mito e Realtà"
A cura di A. Ferruta, G. Foresti, E. Pedriali, M. Vigorelli. (Raffaello Cortina Editore)




"Soffrono di vivere
e temono di pensare.
Insieme a noi e con le nostre cure
si mettono in cammino, avanzano
e si ritrovano."



Presentazione

Paul-Claude Racamier ha consacrato la sua vita professionale allo studio delle Psicosi.
Le vie da lui esplorate lo hanno condotto a una visione d'insieme della costituzione psichica, normale e patologica, estremamente originale e al tempo stesso coerente con le ultime concettualizzazioni freudiane.
In questo senso, egli non è solo un erede di Freud ma anche il fondatore di un insieme teorico e pratico fondamentale.
A differenza di altri importanti psicoanalisti, il suo pensiero non indulge all'astrattezza ma si mantiene saldamente aderente alla pratica clinica da cui parte per approdare a geniali concezioni teoriche. Il suo percorso psicoanalitico e la pratica istituzionale rivolta al trattamento di pazienti psicotici, hanno dato luogo ad una felice sintesi che si è espressa in tutti i suoi scritti e nella creatività delle sue esperienze, da Les Rives de Prangins, al XIIIo Arrondissement, a Besançon.
Ancor oggi "La Velotte", la creatura da lui pensata, realizzata e "allevata", rimane un modello attualissimo di presa in carico del paziente, delle problematiche sue e dei suoi familiari.
Discutere del pensiero di Racamier e del suo modello teorico e metodologico d'approccio alle psicosi ha, ancor oggi, un effetto molto stimolante in una realtà come quella italiana, ove la prospettiva concreta di una "Psichiatria senza Manicomio" sollecita la realizzazione di Strutture e Servizi in grado di prendersi cura, di comprendere le sofferenze di pazienti e familiari e di percorrere insieme con loro un cammino evolutivo.
Sotto questo profilo, Paul-Claude Racamier deve essere considerato a pieno titolo un precursore e un maestro.

L'articolo di seguito pubblicato è uno degli ultimi suoi scritti sul tema della cura istituzionale delle psicosi e fornisce una serie di stimoli di grande attualità su questo argomento.




Una comunità di cura psicoterapeutica (1)
Riflessioni a partire da un'esperienza di vent'anni

Paul-Claude Racamier


Una Comunità Terapeutica: la prima che ho conosciuto data da poco più di vent'anni. Lo so: c'ero, l'ho fondata io. Nel suo campo La Velotte era un pioniere, e certamente lo è ancora. Non ho mai cessato di dedicarmi a questo organismo vivente e di trarne insegnamento. Durante questa lunga e appassionante avventura, una cosa ho imparato: che non basta innovare, è indispensabile alimentare una vita e che tutti, nel loro ruolo, vi partecipino.
È noto non solo che è necessario, ma possibile aprire delle porte; ma è altrettanto necessario che non si aprano sul vuoto e sull'angoscia. Cambiare muri non basta: è necessario metterci della sostanza, far sì che il nostro pensiero e quello dei nostri pazienti vi trovino pienamente posto. Cercheremo di riflettere insieme sui mezzi per riuscirci.


NOTE BREVI PER UNA LUNGA STORIA


A proposito delle impronte della nascita

Per le istituzioni, così come per gli individui, credo alla forza e alla perennità del marchio di origine. Gli auspici sotto i quali un'istituzione è concepita e generata, la sua nascita e i suoi primi anni di vita, come per gli individui, orienteranno il resto della sua vita. Sappiamo che alcuni organismi di cura nascono già vecchi e che altri sono morti prima di nascere. Che fare quindi, perché vivano? Innanzitutto ci vuole metodo e invenzione.
Parliamo delle origini. L'organismo di cui mi occupo da ormai più di vent'anni, La Velotte (che ha preso nome dal quartiere di Besançon in cui ha sede), ha una storia: quella di un incontro, di una perseveranza e di una ricerca.
L'incontro è stato quello di una équipe terapeutica e di alcuni pazienti con le loro famiglie che insieme hanno costituito (nel 1967) un'associazione. Fin dall'origine si è quindi trattato di una co-creazione. Allora eravamo pochi e con pochi mezzi; la nozione di "ospedale di giorno" in Francia non aveva ancora alcuno statuto amministrativo, abbiamo quindi cominciato a vivere con la partecipazione finanziaria dei genitori sino a quando fortunatamente fu possibile convenzionarsi con il Servizio Sanitario Nazionale. Nel frattempo questo organismo di cure, la Comunità, come l'abbiamo chiamato, non era un ospedale di giorno come quelli che nacquero in seguito, era il primo in Francia; con una ventina di anni d'anticipo fu il primo degli appartamenti terapeutici, resta comunque anche oggi unico nel suo genere. Organismo ibrido? Certamente, lo è per il meglio con i suoi slanci e le sue idee. Ma quali idee? Per i genitori erano evidenti: desideravano che i loro figli, giovani adulti, fossero curati vivendo, al contempo, il più vicino possibile al mondo sociale: un'idea chiara e coerente. Così il mondo sociale veniva a costituire la calamita, il trattamento fungeva invece da motore, motore ausiliario nel migliore dei casi, motore principale in alcuni momenti critici. Quanto all'équipe curante, essa avrebbe costituito il filtro e la mediazione tra il paziente e l'altro. Io ero al timone.
Il principio fondamentale era e resta chiaro ed evidente: si trattava, si tratta, di affiancare e orchestrare potenziali diversi: quelli dei pazienti, quelli dei genitori, dei familiari, degli amici, degli operatori, dei medici, degli psicoanalisti. Vero è che se il principio è semplice, la sua messa in opera esige una precisione estrema.


Il rovescio del manicomio

Alcune idee, che l'esperienza mi aveva fatto maturare, le avevo. La prima riguardava l'ospedale psichiatrico. Di fatto la nostra esperienza voltava drasticamente le spalle all'ospedale psichiatrico, con la dura pesantezza e il suo inevitabile anonimato. Ben sapevo, avendolo conosciuto da vicino, quanto questo con la sua inerzia, la sua fredda monotonia, la sua capacità di disattenzione, la sua sottonutrizione affettiva, la sua carenza rappresentazionale può potenziare e inveterare la patologia psicotica. Di ciò avevo già scritto e pubblicato. Non era certo ciò che volevamo. Bisognava rinunciare a questa corazza collettiva, alle sue opacità ma anche alla sua protezione. Bisognava lanciarsi in acqua, sia pur con la nostra scarsa attrezzatura. Sapevo anche che l'esatto contrario del manicomio rischia di costituire un'altra specie di inferno: l'inferno dell''inferno è ancora inferno. Molte nuove soluzioni sono promettenti, ma non ce n'è nessuna che non possieda in sé, quando non sia sufficientemente elaborata, il rischio di diventare a sua volta antiterapeutica.


A partire dalla psicoanalisi

La mia idea guida trova radici nella psicoanalisi. La mia vocazione di fondo è nota: la psicoanalisi; è partendo da lei che mi sono interessato alla psicosi e agli psicotici e di conseguenza alla clinica psichiatrica. In Francia, quando ho iniziato, questo percorso era del tutto nuovo, oggi non lo è più, fortunatamente. Vorrei comunque segnalare che due problemi al riguardo restano ancora attuali. Il primo concerne la possibilità di capire gli psicotici con la psicoanalisi; si tratta di udirli, di ascoltarli e di capirli non solo attraverso ciò che dicono, ma anche e ancor più tramite ciò che fanno e non dicono. Ritengo che la psicoanalisi, partita dalla clinica nevrotica, aveva necessità di strumenti concettuali complementari al fine di giungere a capire gli psicotici; noi abbiamo cercato di costruire questi strumenti partendo dalla pratica. Per parte mia, e seguendo l'esempio del mio maestro Sacha Nacht, non ho mai cessato di andare di pratica in teoria e di teoria in pratica.
Il secondo problema: la psicoanalisi nella forma codificata che conosciamo (parlo della psicoanalisi, quella vera, non dei falsi) non può (o molto raramente) applicarsi tal quale al paziente psicotico e ancor meno al lavoro istituzionale. Il lavoro istituzionale, quello di Lo psicoanalista senza divano, non è un calco della pratica analitica. Non è e non può essere un'imitazione, né un "posticcio" (2); necessita di un lavoro di trasposizione. Di questa trasposizione darò più oltre qualche esempio, ma non ne voglio imporre la teoria. Farò in queste pagine ciò che faccio negli scambi densi e numerosi che da sempre ho alla Velotte con i membri della mia équipe: mi esprimo in termini quotidiani pensando in termini psicoanalitici. Quando accade che i miei collaboratori non capiscano bene, può essere (forse) che sia io ad aver mal detto: mal detto perché ancora insufficientemente elaborato; è allora assolutamente indispensabile procedere a una elaborazione supplementare, andare oltre. E' raro, se ci prendiamo il tempo e la pena, che non si riesca ad arrivare a una comprensione integrata, basata sia su ciò che osserviamo, sia sui sentimenti che proviamo, sulle immagini che sorgono in noi e sulle relazioni che abbiamo con i pazienti. E raro, infine, che non riusciamo a pervenire a una strategia curante pragmatica, percorribile e realista.


Il quadro (3 ) e gli spazi

Torniamo ora alla storia della nostra Comunità di cura.
I luoghi, innanzitutto.
Per lungo tempo abbiamo lavorato in una abitazione di piccole dimensioni che i pazienti abitavano la notte e durante il giorno veniva utilizzata come base per le attività di cura e di terapia: ci si faceva un po' di tutto perché, in verità, non avevamo altri mezzi: prova che l'invenzione conta, più della "fortuna"... All'inizio i pazienti erano quattro, poi sei, poi nove. Ma oggi, e già da parecchi anni, siamo sistemati col nostro ospedale di giorno in una villetta alla periferia della città e in un alloggio a una decina di minuti a piedi, quest'ultimo gestito dall'associazione (ENFASA) da cui pure dipende l'ospedale di giorno. Il nostro effettivo non supera i 12 pazienti, questo è il limite da noi fissato. La loro età: dai 18 ai 30 anni.
Il nostro ospedale di giomo ha di particolare il fatto di essere aperto tutti i giorni dell'anno dalle 10 alle 20. Noi e i nostri pazienti abbiamo buoni rapporti con il vicinato, con cui non abbiamo mai avuto problemi, né loro ne hanno provocati a noi. Credo sia comunque importante precisare che noi ospitiamo pazienti psicotici gravemente disturbati, ma sufficientemente determinati nel loro intimo a curarsi. Con questo certo non ci aspettiamo da loro una domanda precisa e formale, per così dire firmata di loro pugno. Noi rispondiamo solo a una richiesta autentica che viene dal fondo di loro stessi: a noi ascoltarla, a loro farcela sentire.
Da dove vengono questi pazienti? Dalla città stessa, dalla regione, da tutta la Francia, dall'estero anche. Attualmente, la metà proviene dalla regione.


Processo di ammissione

E' questo un punto - a mio avviso - molto importante: i pazienti sono stati tutti selezionati. Le ammissioni, mi preme insistere, sono il fatto di un processo e il frutto di una scelta condivisa: da parte nostra, da parte del paziente, da parte della sua famiglia. Le ammissioni sono preparate con molta cura, preparazione che può durare un minimo di quattro, sei settimane, ma può durare sino a tre anni. E'il tempo che occorre, secondo la mia esperienza, per preparare e liberare il terreno necessario a una alleanza di lavoro terapeutico tra il paziente e noi. Questa preparazione, torno a precisare, è parte integrante del processo di cura. L'ammissione costituirà un contratto di cooperazione, non un contratto a tempo definito (non si tratta infatti di stabilire una durata), ma di reciproca collaborazione.
Arrivati sin qui, immagino che molti interrogativi sorgano nel lettore. Il primo concerne la selezione. A prima vista la selezione va contro il principio del settore, settore che a dire il vero ben conosco, dato che negli anni Cinquanta Philippe Paumelle e io stesso siamo stati gli "ideatori" del primo Servizio di Settore in Francia, quello del Centro di Salute Mentale, zona XIII di Parigi. La selezione è una tappa necessaria e positiva nella cura dei pazienti; non se ne sfugge anche quando pretendiamo di poterla evitare. Ogni istituzione, che sia ospedaliera o extraospedaliera, ha le sue capacità, quindi i suoi limiti; se, ad esempio, parliamo di un litro di capacità, ciò significa un litro, e non mille. E' a noi che compete conoscere i nostri limiti istituzionali, di riferircisi e di farli valere in primis e sopra tutto presso i nostri pazienti (attuali e futuri): essi costituiscono il nostro vero setting. In verità gli psicotici si vogliono e ci vogliono illimitati: onnipresenti e onnipotenti. Illimitati e illimitabili e di conseguenza annientati: azzerati a forza di immensita'. Èquindi nostro compito proporre un modello di pensiero e di esistenza diverso; non imporlo, ma proporlo. Questi limiti assumeranno valore di riconoscimento, per noi e per i pazienti. Parimenti vedremo come all'interno dell'organismo di cure, nel suo setting, le funzioni degli uni e degli altri non sono mai confuse, sono chiare ma non costrittive: sono funzioni, non costrizioni.
A proposito di limiti, sottolineavo che il processo di ammissione si appoggia da subito a questi limiti. Un esempio. Alcuni anni fa incontrai una paziente: un uccello caduto dal nido... e portato da sua madre; va, viene, corre, vola, è colma di angoscia; ha manifestamente bisogno di aiuto, appare dissociata, avida di tutto, passa attraverso tutti i colori dello spettro della patologia nello spazio d'un colloquio, con la fretta di essere ammessa ora, subito. Resisto alla tentazione di captarla al volo. Le propongo di reincontrarci. Sua madre mi fa fretta. La paziente fugge. Ritornerà, questa volta da sola, su sua richiesta, tre anni dopo.
La tempesta ha avuto bisogno di questo tempo per calmarsi e la paziente per poter decidere di curarsi, e deciderlo lei e senza panico. Tempo perso? No, tempo guadagnato.


Una co-creazione continua

A questo punto, entriamo anche noi in questo Centro. Come ho detto è nato da una co-creazione. Questo segno della nascita non è stato tradito né smentito. Non solo è stato il frutto di una co-creazione, ma resta una creazione continua, venti, o più, anni, potete ben immaginarlo, non sono cosa da niente. Tre mesi o tre anni: tutto va bene, o quasi, ma dieci, vent'anni, sono un'altra cosa, ci vuole un altro respiro. Quando dò un'occhiata retrospettiva a questa Velotte che vedo? I rischi di ogni esistenza: dubbi ed entusiasmi; speranze e disillusioni; crisi e rinascite. Così va ogni esistenza. Ritengo molto importante questo processo di creazione continua che certamente io animo, ma che è un processo gruppale.


LA CURA: I SUOI RIFERIMENTI, LE SUE COORDINATE


Vorrei con qualche rapido tratto abbozzare le coordinate che nella mia pratica orientano ciò che ormai da lungo tempo chiamo la cura (e che ormai è usuale chiamare così). La prima concerne ciò che chiamerò le complementarità contraddittorie.


L'ambivalenza e l'ambiguità

I pazienti psicotici hanno questo di sorprendente, di grave e di immobilizzante: non conoscono e non praticano l'ambivalenza, i sentimenti contrapposti. Non praticano nemmeno l'ambiguità, ciò che è a cavallo tra due verità.
Non praticano né le contraddizioni né la conflittualità interna: essi si vorrebbero tutti di un pezzo, di un'unica pasta, di un solo colore affettivo; e questo sino a evacuare una parte di loro stessi, ad esempio nel delirio, e questo anche al prezzo di immobilizzarsi in una sorta di eternità che altro non è che il nulla: o ancora a costo di ridursi e ridurci a dilemmi impossibili in cui siamo costantemente sballottati (da loro e con loro) tra soluzioni estreme che si rinviano l'una all'altra e sono parimenti inadeguate. E' nostro compito saper ascoltare questi pazienti con le nostre due orecchie. Ci spetta anche preservare e rianimare le complementarità contraddittorie di cui è tessuta ogni esistenza, ma non la loro. Complementarità che, prima di rianimare nella realtà interna del paziente, dobbiamo far germogliare nell'organizzazione intrinseca della cura.


Tra responsabilità e sicurezza

Una delle complementarità che va ricordata si situa tra la responsabilità e la sicurezza. Responsabilità: non ne parlo in senso di colpevolezza, ma in quanto ognuno di noi porta il peso delle proprie azioni e delle loro conseguenze. Queste due correnti opposte sono complementari e in mutua interazione; dato che questa coppia dinamica vale sia per i pazienti sia per le famiglie e per i curanti. E senz'altro possibile affidare delle responsabilità reali agli operatori, ma non si tratta solo di dire, si tratta anche di fare: si tratta per il medico di accettare che un operatore possa suggerire o anche prendere una decisione secondo la linea comune. Mi si può credere, nel mio Centro sono io che dirigo, ma una cosa non esclude l'altra; abbiamo forse un'eccessiva tendenza a pensare in termini di alternativa o di dilemma; o sono i pazienti che comandano o il responsabile, lui solo. La verità è invece ambigua.
Noi affidiamo alcune responsabilità ai pazienti e ai loro familiari. E infatti quanto abbiamo fatto sin dalle origini poiché al momento della fondazione di questa struttura, senza peraltro rinunciare al mio ruolo, ho implicitamente attribuito ai genitori dei poteri considerevoli. Non va di fatto mai dimenticato quanto la psicosi è esplosiva. Se noi non coordiniamo tutte le energie positive quelle dei pazienti e delle famiglie quanto quelle dell'équipe e dei responsabili - rischiamo di attivare delle angosce intollerabili. Sono rimasto terrorizzato nel constatare come, in alcune istituzioni, sedicenti terapeuti, pretestuosamente per rispetto ai pazienti e agli operatori, lasciassero gli uni e gli altri nell'abbandono più completo, contentandosi di propinare senza attenzione qualche "interpretazione" selvaggia. Eccomi, in contrappunto, all'importanza della sicurezza: la sicurezza necessaria e sufficiente per poter assumere una certa responsabilità.


Una mutualità che agisce

Va comunque da sé che se noi puntiamo solo sulla sicurezza rischiamo di organizzare un annidamento puro e semplice, un sistema di perpetuazione della patologia; avremmo messo in piedi dei rifugi per grandi invalidi psichici. D'altra parte senza una minimale sicurezza non faremmo che rinforzare l'angoscia e attivare la follia.
Un esempio di questa bipolarità complementare che ritengo fondamentale: nella nostra struttura, sin dall'inizio, i pazienti sono per lo più accolti anche la notte (attualmente in un'abitazione costruita e arredata a questo scopo). Ora, di notte, non è mai stata predisposta la presenza degli operatori (4.) Questa è la responsabilità che implicitamente, ma attivamente, abbiamo affidato agli stessi pazienti. Nel contempo è una responsabilità che noi stessi ci siamo assunti (come si immagina non sono mai stato insensibile al fatto che se fosse accaduto qualcosa di grave ne sarei stato personalmente responsabile). Tutto sommato - ed ecco mostrarsi qui l'altro polo di questa coppia dinamica - questa responsabilità condivisa (5 ) comporta un complemento: da sempre i pazienti possono raggiungere telefonicamente operatori o medici e chiedere aiuto. Ciò è accaduto raramente; abbiamo certamente subito qualche chiamata impropria o superflua, ma ne abbiamo soprattutto ricevute di estremamente importanti. Ad esempio: una notte sono chiamato da un paziente che mi informa che uno dei suoi compagni ha intenzione di suicidarsi. Ho preso l'auto, guidando a tutta velocità, sono arrivato in tempo: si era verificato un mutuo aiuto, i co-partecipanti si erano anche loro assunti la responsabilità.
Questo esempio non è che il modello di un impegno solidale in un'avventura collettiva calibrata e calcolata. Si potrebbe pensare, e questo mi è stato talvolta obiettato, che se noi lasciamo i pazienti, di notte, senza alcuna presenza curante, questi non sono poi così gravemente disturbati. E' un errore: alcuni sono al limite dell'ospedalizzazione completa.
Non è però sufficiente accordare fiducia e tentare l'avventura, è anche necessario renderla vivibile. Sicurezza vuole anche dire previsione:precauzione essenziale per evitare l'insonnia dei pazienti e la nostra. Certamente non si può mai prevedere tutto, ma un fondamentale lavoro di riflessione ci ha indotto, tutti insieme, a prendere alcune disposizioni. Affidare ai pazienti e solamente a loro la responsabilità di una casa è confidare loro una responsabilità valorizzante a cui sono sempre stati assai attenti. Quanto alla sicurezza, può semplicemente consistere nel parlare con loro prima del buio, in quel momento così delicato e cruciale in cui si risvegliano le angosce e in cui i cuori si aprono: l'avventura ci permetteva di toccare con mano alcune verità forse banali, ma nello stesso tempo essenziali.


Tra continuità e discontinuità

Un'altra complementarità dinamica è quella della continuità e della discontinuità. Non possiamo certo lavorare unicamente sul registro della continuità che condurrebbe a una chiusura, sia che si tratti di un ospedale psichiatrico o di qualunque struttura extraospedaliera. Non possiamo neanche lavorare unicamente sul registro della discontinuità; quanti pazienti hanno percorso quel periplo che fin troppo bene conosciamo: da crisi ad accessi, da miglioramenti a ricadute, da entrate a rientri e così via. E' contro questa discontinuità negativa che lottava il principio del settore. L'importante non è oscillare tra continuità e discontinuità, ma associarle positivamente. Ecco un altro esempio. Una volta, parecchio tempo fa, abbiamo chiuso la struttura per alcuni giorni. Era Natale. Tutti tornavano a casa. Magnifico! Che illusione! Natale è una festività difficile per molti, ma per gli psicotici è un periodo spesso spaventoso. Cosicché il nostro tentativo, l'unico, è fallito, tutti sono rientrati prima del tempo e in grandissima difficoltà. Una catastrofe. Da allora l'istituzione non chiude mai i battenti, apre tutti i giorni anche per un solo paziente, e noi abbiamo capito che il suo valore sta anche nella sua esistenza permanente, continua e discontinua. Anche per la presenza medica è indispensabile la stessa complementarità: la mia presenza è sempre stata discontinua (solo alcuni giorni la settimana) ma da più di vent'anni è sempre stato possibile raggiungermi telefonicamente in qualsiasi momento e ovunque fossi. Sono stato perfino raggiunto telefonicamente in Canada (dove mi ero recato per impegni scientifici) nel momento in cui il mio corresponsabile si era gravemente ammalato. In quell'occasione ci siamo organizzati con scambi telefonici regolari; ciò ci ha anche permesso di scoprire nuovi potenziali e ha messo in luce capacità latenti nelle risorse dell'équipe e dei pazienti.


LA CURA: ALTRE RIFLESSIONI


Questa mutualità tra il paziente e l'équipe fa pensare alla qualità essenzialmente transizionale o intermediaria delle nostre azioni terapeutiche, quando sono ben studiate e ben messe in opera. Questo intermediario, questo tra-due, rappresenta un modello concettuale di intervento.


Transizionale: tra psichico e pragmatico

Mi sembra essenziale avere in mente e cercare di mettere in opera idee e azioni che convoglino sia l'ordine psichico che l'ordine pragmatico. Non sono mai del tutto soddisfatto (e neppure nessuno della mia équipe lo è) sino a quando una certa misura pratica che ci può venire in mente non arriva a corrispondere al suo peso di realtà psichica personalmente vissuta dal paziente, e da noi in contrappunto. Parimenti, io non dò credito a una elaborazione psichica o a una concettualizzazione che non sfocerà un giorno o l'altro (non sempre subito, ma un giorno...) in una qualche messa in opera pragmatica. Qualcuno forse ricorda che avevo, tempo fa, utilizzato il termine ambasciatore della realtà per situare la psicoanalisi con lo psicotico: ambasciatore al tempo stesso della realtà psichica e di quella materiale. Noi riterremo il termine: ha la sua età, ma la nozione non è troppo invecchiata.
Prima di parlare degli oggetti che parlano, vorrei sottolineare un altro valore transizionale: ciò che nella cura appartiene nello stesso tempo al paziente e a noi. Credo infatti che nei casi più favorevoli la cura si effettua in una coproduzione feconda tra il paziente e noi stessi. Freud, è noto, diceva che il metodo psicoanalitico gli era stato suggerito da una sua paziente. Il merito di Freud è di aver saputo ascoltarla, e di avergli dato forma. Il nostro merito è di saper intendere ciò che spesso senza saperlo i pazienti ci suggeriscono. Ciò che noi facciamo (delle cure) appartiene quindi sia ai pazienti che a noi, senza che sia esclusivamente o loro o nostro. Riconosciamo qui non tanto un paradosso ma la doppia natura del famoso orsacchiotto che ognuno di noi conosce dalla sua infanzia, e che un bel giorno Winnicott ha saputo guardare con occhio intelligentemente nuovo, sottolineando come questo oggetto intermediario sia al tempo stesso e del bimbo e della madre, appartiene a lui bebè e non a lui: appartiene indistintamente a entrambi.


Doppia affermazione per una doppia qualificazione

Questa doppia affermazione, questa ambiguità feconda e positiva si oppone in tutto e per tutto a ciò che riscontriamo nei nostri pazienti: non già una doppia affermazione da parte loro, ma un doppio diniego.
Infatti, essi hanno la tendenza a negare sia di essere malati e sofferenti sia di avere una salute. Essi de-negano ora l'una ora l'altra, in verità il diniego colpisce contemporaneamente l'una e l'altra realtà. Quanto a noi, curanti, proponiamo loro, pazienti, un modello esattamente opposto: noi procediamo per doppia affermazione; sin dai primi contatti manifestiamo all'eventuale paziente che lo vediamo sofferente, e anche che egli è capace, capace di lavorare sul piano psichico in modo relativamente sano, ed è anche per questa ragione che noi siamo in grado di accoglierlo nella nostra struttura (ho parlato di modo relativamente sano perché nessuno, neppure noi ovviamente, saprebbe funzionare in modo assolutamente e completamente sano). La nozione di malattia non è per noi questione di norma, bensì questione di sofferenza. Doppia sofferenza, tutto sommato: la nozione di malattia, quella che il paziente subisce e quella che egli stesso infligge. E nel momento in cui gli parlo della sua sofferenza e delle sue risorse, io gli fornisco una doppia qualificazione.


L'empatia:condizione per capire

Vero è che nel lavoro che noi effettuiamo, non arriviamo mai a evitare del tutto sia i difetti che i rischi. Non ho ancora trovato il modo di evitare del tutto le molte trappole che sono in agguato; alcune sono, peraltro, ben descritte ed elaborate. Chi volesse evitarle a tutti i costi, rischierebbe di procedere di male in peggio. Noi ci caschiamo sempre almeno un poco: non è dopo tutto una condizione per capire? Ciò che possiamo fare è evitare di essere sopraffatti: individuare a tempo gli ostacoli e farvi fronte. Un po' compromessi lo siamo e lo saremo sempre. Lo affermo da lungo tempo a proposito del controtranfert Alcuni pretendevano che anche con gli psicotici sarebbe stato opportuno attenersi a una completa neutralità interna. Illusione: è normale vivere, soprattutto con pazienti psicotici, emozioni e affetti intensi, dalla tenerezza alla collera. E'inevitabile. Ciò che però possiamo evitare è di soffrirne, di restarne intrappolati e schiavi, e di infliggerli di ritorno al paziente. I membri della mia équipe sanno da tempo che questi sentimenti noi li proviamo, ma che è naturale viverli ed essenziale è poterne parlare tra noi. Sono anche convinto che dobbiamo viverli noi prima che i nostri pazienti possano tollerarli. Sta a noi aver a che fare in prima istanza con ciò che viene da loro prima e affinché essi possano, a loro volta, riuscire a sopportarlo.


Le parole, le immagini e il pensiero

E'ora tempo di precisare che cos'è la psicosi: l'orrore di pensare e il terrore di immaginare. Quale temibile condizione estrema e quale deserto, la privazione di immagini, la privazione di pensiero e il tradimento delle parole! E' stato molto ben descritto (in particolare da Jeammet) come le parole siano spesso vissute da questi pazienti come traditrici o truccate. Ciò non significa che con loro bisogna tacere, vuol dire che in ogni caso lo sproloquio non serve a nulla; e se può piacere a qualche falso analista o rassicurarlo, non fa però alcun bene ai pazienti. Ciò che prima di tutto ci spetta e ci compete è pensare, continuare a pensare, cosa non sempre facile. Sta a noi, in équipe e coi pazienti, rianimare le immagini viventi Si configurano qui gli oggetti parlanti, così come le azioni parlanti. Entrambi vengono ad assumere un valore transizionale, in quanto stanno tra il paziente e noi, così come stanno tra il mondo della realtà pragmatica e quello della realtà psichica. Essi assumono qualità di sostanza vivente, indispensabile alle nostre strutture di cura, quali che siano le mura - o le non-mura - e ovunque si trovino. Propongo quindi un cammino distante, molto distante dallo sproloquio e da certa logomachia di cui alcuni falsari ci danno sconcertante esempio, un cammino che conduce dal "mettere in pensiero" e dal "mettere in immagini" al mettere in azioni.


Un oggetto parlante

Che cos'è dunque un oggetto parlante? Emiliana è una schizofrenica dalla pelle porosa (parlo ovviamente della sua pelle psichica); si espelle negli altri e assorbe come una spugna l'angoscia che si sprigiona intorno a lei: si immischia, non è da nessuna parte e dovunque; ne soffre molto, ma si fa una gran fatica ad avvicinarla; si tenderebbe di più a compenetrarsi psichicamente con lei. Tenendo conto di questa caratteristica, abbiamo utilizzato la pratica degli avvolgimenti umidi, metodica da me riportata tempo fa dagli Stati Uniti dove era allora stata ripristinata. Come aiutare Emiliana a rifarsi una pelle sufficientemente buona? Discutiamo in équipe a più riprese di questo problema, che ci pone continue difficoltà sia emozionali che pragmatiche. Qualcuno accenna ai larghissimi maglioni in cui Emiliana si avvolge. Mi viene allora l'idea di un poncho. Glielo propongo: la paziente lo adotta immediatamente. Il poncho verrà acquistato dai genitori, scelto dalla paziente e il suo uso sarà assicurato dall'équipe (che svolge la funzione di garante). Tutti avranno quindi le mani in pasta... Emiliana indosserà questo involucro sino alla fine dell'estate ogni volta che si sentirà angosciata; in un secondo ulteriore periodo Emiliana ne farà minor uso, e solo in piena eruzione d'angoscia. Verrà il momento in cui questo poncho non avrà più alcuna utilità. E'giusto, infatti, che gli oggetti parlanti abbiano un tempo e facciano "il loro tempo".


Azioni parlanti

Domandiamoci ora in che cosa consiste un'azione parlante. Eccone un primo esempio. Tempo fa, in epoca manicomiale, una paziente si trovava in completo e desolante abbandono in una cella i cui muri lei stessa imbrattava delle sue materie fecali. Questi muri erano dipinti di color cacca. Arrivai in qualità di giovane responsabile del servizio, atterrito da ciò che vi trovavo e risoluto a non trattenermi a lungo; ci sono invece restato dieci anni: il tempo di trasformarlo. Mi viene domandato cosa fare per questa paziente: "Tinteggiamo la sua camera di bianco". Tutti credono che io scherzi; insisto; voglio un bianco opaco: il più delicato; a questo punto si pensa che io sia matto. Essendo piuttosto perseverante, ho perseverato; la camera è stata imbiancata; non abbiamo fatto né detto null'altro. Non ho bisogno riportare il seguito, lo si immagina, la paziente ha cessato di imbrattare, poi si è messa a parlare. Questo mostra l'importanza dei muri, ma ancora più importante dei muri è ciò che ci sta dentro, il pensiero, e l'intenzione che ci si mette; con un'azione che parlava da sola avevo offerto a questa paziente profondamente prostrata e ferita una testimonianza della mia fiducia nel suo Io, lei a sua volta mi aveva semplicemente risposto.
Ecco ora Berenice. Ogni volta che si presenta una difficoltà si barrica sbattendo le porte e insultando il mondo intero, e allora fugge a cercar rifugio presso i genitori, che alternativamente o simultaneamente la trattengono con tutto il cuore o la rifiutano con vigore. Noi, di riflesso, avevamo la tendenza a trattenerla ("Ci si deve comunque curare!") o a rispedirla in famiglia ("Vada a fare otto giorni dai suoi!"). In altre parole: "Se è questo che vuole provare, lei e i suoi, un assaggio d'inferno familiare!". Di sicuro non pensavamo a questi estremi: era però necessario pensarci, riflettere, cercare un'altra strada. Ecco come: ho accreditato a Berenice un conto di trenta ore di presenza settimanale nella struttura, rappresentato da un blocchetto di biglietti improvvisati, fabbricato con un foglio di carta che - sotto i suoi occhi - ho piegato a fisarmonica, a lei il compito di conteggiare le ore, di sceglierle, di utilizzarle al meglio, di elaborare dei progetti, e di domandare per questo consiglio all'équipe. Il rapporto tra la paziente e l'équipe veniva a trovarsi così capovolto. Questa paziente assai autoritaria e molto difficile ha perfettamente capito e rispettato il contratto, e utilizzato quello che poi da lei è stato soprannominato "la fisarmonica" che al tempo stesso era affar suo e nostro; è lei stessa a fabbricarla ogni settimana, una volta utilizzata la conserva, è proprietà sua e ci tiene molto. Si arguirà che un tocco di creatività non è male nel nostro lavoro; diciamo pure che è indispensabile per sopperire la difficoltà a pensare e a immaginare propria dei pazienti psicotici; è altrettanto indispensabile a noi per apprezzare il nostro lavoro. Aggiungerei che ci vuole anche un pizzico di humour.


PER CONCLUDERE

Ogni riflessione circa il valore e le metodiche delle cure extra-ospedaliere va tenuta in grande considerazione. Sarebbe un grosso rischio immaginarsi che basti chiudere l'ospedale psichiatrico perché tutto vada per il meglio, nel migliore dei "mondi curanti". Molti arrivano oggi a vedere nell'ospedale psichiatrico una sorta di tumore. Se anche lo fosse non basterebbe asportarlo per evitare la diffusione di metastasi. La struttura comunitaria ha l'immenso merito di obbligarci a riflettere molto sul nostro lavoro. Si sa, non è sufficiente nascere, bisogna vivere. Non basta far nascere, bisogna poi far vivere. Sarà quindi essenziale operare in modo che noi possiamo vivere e sopravvivere in strutture di cura nuove. Vivranno? E vivranno bene? Non è l'ideologia che le farà vivere. Ci vuole dell'altro: un ideale ben temperato, coraggio e riflessione, capacità di traversare le crisi, capacità di disilludersi senza deprimersi e senza irrigidirsi in una sorta di paranoia istituzionale. Ci vuole ancora, e soprattutto, la capacità di inventarsi non solo dei luoghi, degli spazi, ma dei metodi; ed è anche necessario, anzi indispensabile, il piacere della scoperta e del lavoro comune. Noi abbiamo un nemico: la noia. In tutto ciò che ho sempre fatto - sia da solo che nel mio lavoro istituzionale - penso di non essermi mai annoiato. I miei collaboratori nemmeno.
Questo è l'augurio che formulo a chiunque si appresti a intraprendere un'analoga avventura...


NOTE

(1) Questo articolo è apparso, in lingua originale, sul numero 1 (1997) di Psychiatrie Française, pp 137-152. La traduzione italiana è di Simona Taccani.

(2) Gioco di parole tra "pastiche' (contraffazione) e "postiche" (posticcio, finto) pressoché intraducibile in italiano. (NdT)
(3) Usiamo la traduzione letterale del termine francese "cadre", anche se in Italia preferiamo, in senso forse un po' diverso, il termine setting (NdT).
(4) Il corsivo è mio (NdT).

(5) I1 corsivo è mio (NdT).


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