INTRODUZIONE
Il 15 novembre 1999 si è svolto nella sala "La Sacrestia" del complesso della Camera dei Deputati in Roma, il Convegno "Responsabilità, uguaglianza, diritti dei figli nelle separazioni coniugali", organizzato da alcuni esponenti politici e da rappresentanti di associazioni dei genitori separati. Il Convegno era esteso a tutte le forze professionali interessate al problema, ma in sala era presente un solo, il responsabile della Commissione per i Disordini Alimentari del Ministero della Sanità. Assenti invece i rappresentanti della Magistratura e delle varie categorie professionali coinvolte nel problema.
Vi erano poi i rappresentati di diversi partiti, e tra loro il segretario politico del partito organizzatore, che ovviamente si è detto disponibile ad allargare a tutte le forze politiche il dibattito sul problema delle separazioni.
I: IL CONVEGNO E I PARTECIPANTI: CHI OSSERVA CHI ?
Di fondo, è stato questo il primo convegno indirizzato alle associazioni dei genitori separati, i quali - i veri protagonisti dell'incontro - sono giunti da tutta Italia, e tutti a spese proprie: e ciò già all'arrivo in sala dava la netta sensazione di quanto il problema degli affidi dei minori sia sentito soprattutto da chi ne è coinvolto, o travolto, in prima persona.
Parlando con i singoli intervenuti, la prima impressione era esattamente questa: la "gente" che subisce il problema in prima persona pensa - sicuramente con grande o tutta ragione - che l'"establishment" che si occupa di separazioni (quell'insieme di giudici, avvocati, psicologi, psichiatri, che fa e disfa pareri, decisioni, sentenze, che cambieranno in modo irrevocabile la vita di adulti e bambini) non ha mai dato a questa "gente" - e a torto - dignità di soggetto da ascoltare.
Al contrario, le famiglie della separazione si sentono considerate - e in gran parte lo sono, in netta contraddizione con le regole utilizzate per descriverle e intervenire su esse - come mero "oggetto" dell'osservazione, e i loro comportamenti conflittuali bollati come il risultato di una patologia totalmente autarchica e monadica rispetto all'ambiente e al contesto nel quale si esprime.
Personalmente, ritengo che questo è esattamente ciò che avviene, e lo ritengo - proprio in termini "sistemici" - una mistificazione: perché non si può utilizzare una prospettiva - appunto - "sistemica" per leggere un fenomeno e limitare poi l'osservazione dichiarandosi estranei al fenomeno su cui si interviene. La logica circolare non esiste solo nelle famiglie (conflittuali o no che siano) ma in tutto il contesto in cui il problema emerge e viene risolto. D'altra parte, non esiste un solo articolo o pubblicazione scientifica che, opera di coloro che si occupano della separazione coniugale da un punto di vista professionale, si chieda qual è l'effetto non tanto del singolo professionista, ma di tutto questo "sistema", sulle famiglie conflittuali.
E questo anche se la maggior parte degli autori dichiara esplicitamente che il tema delle separazioni coniugale e del relativo affidamento minori, possa essere affrontato solo attraverso "il riconoscimento della complessità" (Cigoli, 1998) di esso, vale a dire come problema non più solo individuale o di coppia, ma "multidimensionale". A nostro avviso, però, ciò non significa solo fermarsi a esaminare il ruolo avuto nella genesi delle singole conflittualità dalle problematiche socioeconomiche, culturali, transgenerazionali (e via dicendo), ma uscire da una lettura lineare delle causalità in atto, per leggere il fenomeno nella sua dimensione ricorsiva - vale a dire considerando come la conflittualità delle famiglie in via di separazione sia una qualità emergente non solo dalla coppia che si separa ma da tutto il sistema di relazioni in atto. Occorre dunque pensare per "andirivieni", come dice Morin: "comprendere il tutto conoscendo le parti, e conoscere le parti conoscendo il tutto" (Morin, in Bocchi e Ceruti, 1985).
Tutto ciò equivale a dire, a mio avviso, che di fatto siamo in presenza di un violento e psicopatogenizzante artefatto epistemologico, nel quale chi gestisce il problema vuole ignorare di esserne causa attiva e circolare, e utilizza i concetti "sistemici" proprio per non ripensare il proprio ruolo e le proprie responsabilità nel problema: Sto sostenendo, detto in altri termini, che un intero sistema di professionisti, con un giro di affari di miliardi annui e molti poteri forti che ne derivano, si mantiene in vita proprio grazie al fatto che indica - e legittima - nella conflittualità della coppia la ragione del proprio esistere per poter gestire la conflittualità della coppia.
D'altra parte, è proprio in tale prospettiva che accolgo sempre le continue doglianze di coloro che operano nel contesto professionale dedicato alle separazioni coniugali e si dicono sgomenti per i danni e le tragedie cui assistono. Sono dichiarazioni che mi fanno lo stesso effetto che mi farebbero le argomentazioni degli arbitri di pugilato preoccupati per i danni provocati dalla boxe. Mi sembrerebbe quanto meno curioso se ne sentissi uno sostenere che si duole per i pericoli del ring e che il suo compito è limitare i danni e impedire i colpi scorretti. Se poi ripenso a certe polemiche fra avvocati, magistrati, periti più o meno di parte, nonché a quella larghissima rappresentanza di genitori che ricorrono consapevolmente alla rissa giudiziaria per mettere definitivamente ko l'altro genitore, il paragone con la boxe mi si rafforza ancora di più.
Da questo punto di vista, il convegno in questione è stato un vero e proprio punto di svolta rispetto a tale logica, perché ha in qualche modo sancito che il problema non è affatto risolvibile dividendo il contesto in modo arbitrario, dunque senza la partecipazione attiva di coloro che sono sempre stati la "parte". E' evidente infatti che è proprio questa "parte" che può indicare efficaci modelli di soluzione, dato che questo dramma l'hanno vissuto come personale - ed elaborato successivamente in una prospettiva sociale e culturale (e il più delle volte riuscendo solo così a non esserne travolti).
La partecipazione di tutti i presenti è stata dunque quanto mai appassionata - e a tratti anche molto sostenuta, altalenante fra la presentazione di interventi già scritti e l'interruzione estemporanea di chi - nelle parole dall'oratore - era costretto a rivivere quelle che comunque percepisce - e in fondo sono davvero - sofferenze e ingiustizie .
Non si è trattato solamente di un Convegno, dunque, ma di una parte di un insieme - di un gruppo di gruppi - che per la prima volta si è incontrato come tale e ha parlato di sé come soggetto del proprio incontrarsi: ed è stato esattamente questo aspetto dell'evento in questione che mi ha indotto a scrivere un resoconto che non fosse solo una relazione sui lavori e gli interventi presentati al convegno, ma anche un articolo di approfondimento su quanto è emerso da questo evento e sulle problematiche che ne sono alla base.
A intervenire per primi sono stati ovviamente i pochi politici presenti, legati o al partito organizzatore, o a Commissioni parlamentari interessate al problema. Si è udito qualche stereotipo, molte promesse di impegno, la rassegna - a tratti quasi preelettorale - dei compiti svolti dalle varie commissioni, e quello che a me, e ad altri, è sembrato un generico impegno a darsi da fare.
Mancavano comunque moltissimi deputati invitati, e questo - a quanto dicevano gli organizzatori - per la contemporanea votazione alla Camera della Legge Finanziaria. Al proposito è arrivato anche, ed è stato letto, qualche telegramma di doglianza per l'assenza.
Occorre però rimarcare la piena assenza dell'on. Lucidi, relatrice della nuova proposta di Legge sulle separazioni e l'affido dei minori: una legge che da ben quattro legislature stenta a muovere anche qualche passo concreto in Parlamento. E la relatrice di essa ben sapeva quali erano, al proposito, gli umori dell'uditorio. Una indiscrezione del Convegno - peraltro non confermata e non confermabile - assumeva poi che questa legge potrebbe non passare del tutto, almeno sino a che ad esserne relatrice sarà appunto l'On. Lucidi, non gradita ad alcuni colleghi della Commissione. Il che la dice lunga sull'interesse della classe politica a risolvere un problema che affligge, peraltro, oltre un milione di bambini.
Dopo gli interventi dei politici, hanno parlato i rappresentanti delle associazioni dei genitori. E il primo vero nodo che si afferrava ascoltandoli è che loro - i genitori separati, cioè i "clienti", o "pazienti" o "periziandi", a seconda della relazione professionale cui partecipano - non sono solo disperati, e non sono solo "dei disperati": sono anche drammaticamente soli. E lasciati a gestire - spesso con cinismo e indifferenza da ogni struttura e ogni professionista che si è deputato ad assisterli - storie sempre più disperate che il sistema che dovrebbe aiutarli riesce solo ad esasperare.
Bastava parlare pochi secondi con i rappresentanti delle varie associazioni, e comprendere come i mondi della psicologia e del Diritto - quei mondi deputati appunto a gestire il problema - siano enormemente distanti dalle realtà su cui intervengono e totalmente incapaci - e forse anche indifferenti - a gestire il reale spessore traumatico delle tragedie vissute.
L'articolarsi di questi mondi in "articoli", "ricorsi", "istanze", "parcelle", "consulenze", "decreti" e "sentenze", non è assolutamente in grado di incarnarsi nella vita delle persone cui si rivolge con la consapevolezza che agirà con forza spaventosa su universi affettivi delicatissimi e sconvolti, e con effetti esclusivamente peggiorativi. Da parte dei genitori separati, dunque, la percezione che si ha di questi "mondi" della Psicologia Forense e del Diritto, è, salvo rarissimi casi, una percezione molto poco felice: il più delle volte le varie figure professionali sono considerate dei nemici - da temere o di cui assicurarsi la costosissima alleanza.
Dalle famiglie coinvolte nel problema sembra dunque arrivare un solo, vero messaggio, spesso "inconscio": il vero conflitto non è esclusivamente con l'ex partner, bensì con il sistema socioculturale che si occupa delle separazioni coniugali e dell'affido minori, un sistema percepito non solo come potente e inarrestabile input al conflitto, ma soprattutto come un centro di potere altamente redditizio in termini di vantaggi sociale ed economici per chi vi lavora.
D'altra parte, su tutto quel che si poteva dire e pensare, aleggiava una constatazione: se in Italia esistono un centinaio di associazioni che tentano di rappresentare, tutelare, aiutare, i genitori che vivono il dramma della separazione, questo può significare solo una cosa: c'è un vuoto spaventoso che nessuno è riuscito a colmare.
Anzi: c'è un vuoto che si aggrava ogni volta che il sistema deputato ad offrir soluzioni a questo problema, ne mette una in opera.
Le associazioni dei genitori separati dai figli sono dunque anche, forse soprattutto, gruppi di "autoaiuto" o self-help che dir si voglia: non è un caso che qualunque sito WEB, qualunque volantino, qualunque scritto che li rappresenti, contiene sempre un numero di cellulare per le "urgenze" e il "S.O.S".
Il significato di questo numero è presto chiarito, e basta parlare con i responsabili delle associazioni, che a loro volta sono coloro che i problemi li vivono, per capirlo: siamo in un territorio, psicologico e sociale insieme, di confine, in cui la possibilità del gesto improvviso, potenzialmente drammatico e definitivo - l'omicidio plurimo, il suicidio, la violenza grave, per intenderci - è una costante cronicamente in agguato, ma alla quale nessuno offre alcuna reale rete di contenzione elettiva, che non è compresa come bisogno da nessuno, e non ha nulla e nessuno su cui confrontarsi: e confortarsi. Il giudice, una volta che dà la sentenza (come vedremo) è indifferente se non impotente a intervenire ancora - anche per tentare di farla eseguire realmente. Il CTU non ha come compito quello di gestire il disagio, e - il più delle volte - non ne ha nemmeno la voglia. Spesso, si sente addirittura "strumentalizzato" dai genitori, che lo vogliono convincere della rispettiva validità delle posizioni, e non mette invece in contro che anche questa posizione sottende una misconosciuta - e non apprezzata - richiesta d'aiuto.
Rimangono dunque - a fronteggiare questo disagio sempre presente - solo i "rappresentanti" delle parti, cioè gli avvocati: ma costoro non hanno certo la preparazione e la voglia, e forse nemmeno il dovere etico, di occuparsi di tali aspetti del problema: ed è proprio in tutto questo aspetto del discorso la dimostrazione che il contenzioso coniugale può alimentare solo una logica di parte e non di insieme: non c'è nessuna, se non coloro destinati a far la guerra, che possa fronteggiare la sofferenza che ne emerge.
Questa incolmabile - e a mio parere colpevole - distanza, fra soggetti della separazione e mondo che se ne occupa, emerge anche dalla lettura di un dato che - se non considerato attentamente - può anche sorprendere: quello relativo alla composizioni delle associazioni dei genitori separati.
Vi sono infatti le associazioni che difendono principalmente gli interessi dei padri, che solo raramente si definiscono associazioni di padri (usano più facilmente il termine di "genitori", per il timore di passare per "faziosi"); vi sono poi le associazioni dedicate esclusivamente alle "madri separate" - che non hanno problemi nel definirsi tali e che tentano di tutelare gli altrettanto gravi e complementari problemi delle mamme affidatarie.
Entrambi le categorie - padri che non hanno in affidamento i figli, madri rimaste sole ad assumersene costi e responsabilità - chiedono, paradossalmente, la stessa cosa: che la genitorialità sia condivisa, e non solo da un punto di vista economico. Il problema è dunque non in una lotta sessista fra due ruoli, ma nella capacità che ha il contenzioso giuridico per l'affido minori di esasperare oltre ogni livello di accettabilità le problematiche conflittuali della coppia. In altri termini, crea una separazione che separa ancora di più (Capri e Giordano, 1990).
Occorre però porre una notazione - che in un articolo volto a esplorare la complessità di questo problema soprattutto da un punto di vista delle scienze psicologiche appare indispensabile.
Secondo i pareri di alcuni esponenti delle associazioni dei genitori, parte delle scissioni che si sono verificate tra le stesse associazioni di genitori riguardano proprio il problema della conflittualità con l'altro genitore. Alcuni esponenti di associazioni, in specie quelle dei padri, tenderebbero infatti ad utilizzare lo strumento associativo o come strumento per combattere il proprio ex coniuge o comunque per impostare, senza dichiararlo esplicitamente, una vera e propria guerra al ruolo complementare al proprio.
A prescindere da quanto sia spiegabile - o comprensibile - un comportamento del genere, è comunque evidente come il punto centrale ritorni ad essere la difficoltà a gestire il conflitto senza entrare nel conflitto - vale a dire superando una logica legata all'obiettività e ai "giochi a somma zero". La separazione separa sempre di più, sembrerebbe dedursi, quando se ne cerca la soluzione in una logica di conflitti.
Occorre comunque tener presente un altro punto di vista. Attualmente, l'affido monogenitoriale è di fatto un "atto dovuto" da parte dei Tribunali, che concedono quello congiunto solo se vi è piena armonia fra i coniugi. In una tale logica, è implicito - sino a che non cambia la legislazione - dover riaffermare che qualsiasi criterio di legittimità e legalità che si voglia invocare non può che basarsi sul diritto dei padri a vedersi affidati i figli.
II: CIFRE, STORIE E PERCORSI DI INGIUSTIZIE E PATOLOGIE COLLETTIVE
Le cifre sono esplicative di quanto accade: i padri si sentono spaventosamente discriminati - perché quasi mai la richiesta di affido da parte di un padre viene esaudita. Il 93% (cifra ISTAT) (Istat, 1998) degli affidi avviene alle madri, e questo significa la quasi totalità dei casi, se si eccettuano situazioni con madri gravemente o totalmente impossibilitate ad adempiere al proprio ruolo. Queste cifre non cambiano di molto nel corso di separazioni giudiziali, o di conflitti fra ex conviventi davanti al Tribunale dei Minori, e sia che intervengano o no una CTU o una osservazione dei servizi sociali.
Dal momento che lo scontento si esprime in entrambi le categorie, il nodo centrale (e ciò - come vedremo - è stato sottolineato in tutti gli interventi) è rappresentato dall'affido monogenitoriale, che distrugge ogni possibilità che il figlio mantenga valide relazione con entrambi i genitori, e spinge a livelli sempre più ingestibili dallo stesso sistema giuridico i comportamenti che emergono nell'impatto con coppie problematiche.
La dimensione paradossale - e patogenizzante - di questa modalità di affido è infatti dimostrata proprio dal fatto che i comportamenti che esso lascia emergere, e i problemi che crea, sono molto più gravi di quelli che hanno preceduto l'intervento del sistema giudiziario che lo impone come soluzione, e sfuggono del tutto alla capacità dello stesso sistema di gestirli.
In altri termini, l'affido monogenitoriale non solo crea un disagio mentale ancor più grave di quanto non fosse prima del ricorso al giudice, ma diviene fonte di ingiustizia e violazione del Diritto all'interno stesso della materia che disciplina.
Ho conosciuto al Convegno Fabiola L., una signora arrivata apposta da Varese come indipendente, cioè per rappresentare sé stessa e il problema che l'ha travolta.
Fabiola L. Non vede la figlia Donatella - che il Tribunale le ha affidato anni fa - da tre anni. Non sa quanto sia alta, né che viso abbia ora. Non sa mai quando ha la febbre, non sa se soffre, non sa che compiti deve fare per domani.
Non si tratta di un rapimento, o di una sottrazione internazionale (altra spaventosa piaga nella piaga): il padre di Donatella - per tutti uno stimatissimo assicuratore - vive a pochi chilometri dall'ex partner: a un tiro di schioppo, per così dire. Uno schioppo che, se non fosse stato perché Fabiola è fin troppo mite - fors'anche vittima "patologica" del proprio ex partner - sarebbe uno schioppo già saltato fuori, o come tale, o sotto le forme di un'altra arma o tragedia che esplode sempre "inaspettata" .
Voglio dire, in altri termini, che solo chi vive il mondo delle separazioni coniugali dall'interno delle separazioni, si rende conto che per sopravvivervi - mentre gli altri ci guadagnano in prestigio e denaro e scrivono articoli come questo per parlare di questa sofferenza - bisogna diventar matti per non diventar folli.
L'ex marito di Fabiola è stato definito dalla CTU come un caso psichiatrico (e ad ascoltare la storia sicuramente siamo in presenza di una qualche patologia): ma è riuscito però a convincere la figlia a vivere con lui, facendole credere che la madre è una prostituta, che di notte la droga a sua insaputa, che le somministra psicofarmaci per poter incontrare i suoi amanti la notte, e via dicendo. Appena Fabiola L. tenta di incontrare la figlia, l'uomo riesce in tutti i modi a impedirglielo. Una volta, convocato dai Carabinieri, ha addirittura sostenuto, contro ogni evidenza, di essere lui l'affidatario della ragazza. Non gli è successo niente. Quando Fabiola tenta di avvicinarsi alla figlia, è addirittura lui - che la detiene contro ogni sentenza - a chiamare le forze dell'Ordine. Occorrerebbero ovviamente anche approfondite riflessioni sulla natura di queste relazioni fra i due partner, per spiegarsi come mai una figlia che vive con la madre, decida tout court di credere al proprio padre, alle sue calunnie e ai suoi regali.
Ma è altrettanto ovvio che tutto ciò solo per un versante può essere letto esclusivamente nell'ottica della "problematica conflittuale" della singola famiglia.
Il "sistema" famiglia - come ho personalmente messo in luce al convegno - può essere descritto come "sistema" solo se isolato artificialmente dal resto dell'ambiente: può sì derivarne una comoda lettura (specie per certi livelli di intervento), ma occorre comunque ricordare che - ad un altro livello descrittivo - la "famiglia" è una parte di un contesto più ampio, in cui operano comunque le regole circolari dei sistemi. E osservando le cose da questo più ampio contesto interpretativo, si vede emergere un dominio di interazione nel quale quei comportamenti che ci viene automatico attribuire alla "famiglia in conflitto" diventano nessi di tutto il contesto sociale che accoglie e gestisce il problema.
Divengono cioè nessi del nostro convivere.
Vi sono due aspetti tragici, dunque, nella vicenda di Fabiola (e in tutte quelle che abbiamo ascoltato): e rendono ragione di come il problema sia estremamente complesso e non possa essere risolto limitandosi appunto a "monadizzare" la famiglia col problema (cosa che a sua volta si è tentati di fare all'interno della famiglia, allorché leggiamo i comportamenti del "singolo" come svincolati dalle relazioni familiari in cui emergono). Occorre infatti sempre - a mio avviso - ricordarsi che è appunto nel dominio dell'interazione tra "famiglia" e "sistema socioculturale che si occupa delle separazioni coniugali" che emergono "comportamenti" che in altri domini interattivi non emergerebbero.
Il primo spunto drammatico della storia di Fabiola è dunque nei particolari della vicenda: particolari che parlano di crudeltà e sofferenze mentali senza fine, che emergono tutti come conseguenze del contenzioso giuridico, ma che sono estremamente difficili e lunghi da raccontare.
Anche qui, la quotidianeità non paga, perché rimane sempre sulle spalle dei singoli: non interessa a nessuno, non è alleviata da nessuno, non può essere raccontata - nemmeno in un articolo come questo - perché occupa troppo spazio, perché porta con sé la banalità del gesto quotidiano, perché non è sentita come problema da nessuno.
L'altro spunto è che questa spaventosa sofferenza mentale - comunque evocata dal conflitto legale - rende la legge, come detto, impotente a gestire i frutti del proprio stesso intervento. Nello specifico della storia di Fabiola e Donatella, infatti, nessuna autorità legale è mai riuscita a far rispettare la sentenza di affido di Donatella alla madre. Né i tanti Tribunali coinvolti, né le Forze dell'Ordine, né i servizi sociali cui ora Donatella è stata affidata.
Il clima paradossale, e per certi versi tragicamente grottesco di queste situazioni è dunque dimostrato dall'ultimo "rimedio" che il Tribunale ha - dovuto o saputo ? - escogitare per affermare il diritto della madre a vedere la figlia: revocare l'affido di Donatella alla madre, e darlo ai servizi sociali, sperando così che il padre della ragazza fosse costretto a rispondere ad una autorità pubblica, ipotetica garante della tutela dei rapporti tra figlia e madre.
Ovviamente, tale provvedimento non ha modificato nulla e niente: adesso a non vedere Donatella, e a non saperne nulla, non è solo la madre, ma anche i servizi sociali.
Secondo Fabiola, il problema è dunque nell'assenza di sanzioni contro il genitore responsabile di comportamenti tesi a distruggere i rapporti tra il figlio e l'altro genitore. Il mio personale parere è che la soluzione giuridica del conflitto coniugale crea una inarrestabile ricorsività del conflitto, e che nessuna sanzione funzionerà mai.
La cronaca del Convegno torna qui ad essere importante: allorché Fabiola ha raccontato la propria storia, vi è stato un commento che aggiungeva amarezza all'amarezza: Elvia Ficarra, responsabile delle pubbliche relazioni della GESEF di Roma (Genitori Separati dai Figli) ha fatto presente che per una madre che non vede il figlio da anni, si muove sempre mezzo mondo, mentre per i padri questa cancellazione del diritto di visita - utilizzato a propria discrezione dalle madri affidatarie - è la regola, una regola che non smuove alcuna autorità giuridica o poliziesca. In Italia - ha continuato la dr.ssa Ficarra - è normale, e che una madre strumentalizzi e coercisca la volontà e le sofferenze dei figli per impedire ai padri di vederli.
Un'altra vicenda che mi è sembrata emblematica al proposito è quella di Lorenzo V., che arrivava al Convegno da un paesino del Sud in qualità di rappresentante della locale associazione di genitori separati. Nel giro di quattro anni Lorenzo è stato denunciato quattro volte dalla ex convivente, e tutte le volte è risultato innocente. La prima volta per violenza sessuale ai danni del proprio figlio: l'uomo venne immediatamente privato della potestà genitoriale dal Tribunale dei Minori, e senza che fosse ascoltato da nessuno: solo dopo che la Procura della Repubblica archiviò il suo caso la potestà genitoriale gli venne ridata ma, benché innocente per tutti, fu costretto - perché questa "è la prassi" - ad avere con il figlio incontri protetti, cioè solo in presenza di assistenti sociali. Non si sa perché, dato che appunto non aveva combinato nulla ed era innocentissimo.
Mentre era ancora sottoposto al regime dei cosiddetti "incontri protetti" Lorenzo fu denunciato dall'ex convivente per atti di libidine e, subito dopo, per inadempienza gli obblighi di mantenimento del figlio. In entrambi queste due volte il caso fu archiviato proprio mentre Lorenzo terminava i suoi incontri protetti. Venne però archiviata anche la sua denuncia contro la ex moglie per calunnia.
Fu allora che Lorenzo venne nuovamente denunciato, perché avrebbe coinvolto il piccolo in riti satanici. Gli venne di nuovo sospesa la patria potestà, e solo ora che la faccenda è caduta, gli è stata ridata - in teoria - la possibilità di incontrare il figlio.
In realtà Lorenzo non vede il bambino da un anno: nel frattempo, infatti, in questa logica sempre più "dirimente", il Tribunale dei Minori ha revocato l'affidamento alla madre, e il piccolo - pur conviventi con costei - è ora affidato ai servizi sociali della locale ASL.
Ma i servizi sociali - benché le disposizioni del magistrato siano quelle di stabilire un calendario di incontri fra Lorenzo ed il figlio - non hanno ancora predisposto alcun incontro: e così Lorenzo, pur avendo diritto ad incontrare il bambino, non può vederlo perché i responsabili del servizio non lo rendono possibile.
Quando Lorenzo, a furia di fax ed esposti, ha potuto parlare con i magistrati, si è sentito rispondere che loro possono solo disporre che un servizio si occupi di provvedere a questi incontri, ma non possono materialmente attivarsi per garantirli nel concreto.
Ineccepibile risposta: sta di fatto, però, che il provvedimento di revoca della potestà genitoriale viene eseguito sempre con prontezza indiscussa e indiscutibile, e nessuno si sognerebbe mai di infrangerlo con tanta leggerezza. "Le Volanti arriverebbero a sirene spiegate" dice Lorenzo "mentre nel mio caso arrivano invece se tento di far eseguire il provvedimento del magistrato"
Dato che Lorenzo ha ora denunciato i servizi sociali per omissioni d'atti d'ufficio, il risultato è che non solo non incontra più il piccolo Marco, ma non può nemmeno sapere come sta, cosa fa a scuola, se va tutto bene o se - come purtroppo appare probabile - va tutto male. Pare che il responsabile dei servizi sia malato e non possa dare spiegazioni a Lorenzo da oltre un mese.
Abbiamo dunque un nuovo delinquente: le uniche volte che Lorenzo ha visto i figli, in oltre undici mesi, è stato allorché, infrangendo il decreto del Tribunale che lo obbliga a vedere i figli solo tramite i servizi sociali - che però non si sentono minimamente obbligati a farlo - si è recato davanti la scuola dei figli per vederli di lontano.
Esistono infinità di storie come quella appena narrata - e personalmente al Convegno ne ho ascoltate molte, fra un intervento e l'altro. Sollevano non pochi interrogativi: sulla disparità che si ha nel decidere qual è il genitore più idoneo all'affido dei minori, e sulla differente severità con cui la nostra società percepisce colpe e responsabilità in tema di abusi e la violenza sui minori, quando deve discriminare fra i genitori.
Il discorso è difficile, ma va fatto: statistiche alla mano, il padre pedofilo o maltrattatore viene considerato e trattato - nella maggior parte dei casi - sempre come colpevole, salvo prova contraria e anche se, come avviene in gran parte delle abusate denunce di questo tipo, se ha solo fatto il bidet al figlio. Viene immediatamente privato della patria potestà, non incontra il figlio per mesi, e se risulta responsabile, viene regolarmente condannato.
La privazione della potestà genitoriale, in questi casi, può avvenire a sua totale insaputa, a volte sulla base di una semplice segnalazione in fax di una assistente sociale.
Come hanno dimostrato invece - e con statistiche di livello internazionale - Paolo Capri, psicologo forense, presidente del CEIPA di Roma e Anita La Notte, psicoterapeuta e psicologa forense, la madre - genitore responsabile della stragrande maggioranza casi di figlicidio - viene regolarmente assolta perché incapace di intendere e volere al momento in cui ha ammazza il proprio bambino .
In altri termini, la "madre" non si macchia mai di alcuna colpa e ammazza il bambino solo se "non è in sé". Il padre è - invece - sempre un criminale allorché compie una violenza sul figlio. E' estremamente chiaro che siamo in presenza di due valutazione diametralmente opposte rispetto alle responsabilità e alle connotazioni attribuite alle figure genitoriali dalla nostra cultura. E a mio parere, è proprio nelle radici più profonde di tale atteggiamento che si genera comunque l'attitudine a considerare il minore un oggetto - dunque a creare le premesse perché altri (quelli che poi diverranno, da "estranei" o a volte da "genitori", "veri" violentatori e "veri" pedofili) possano a loro volta ritenerli a loro disposizione.
E' stato dimostrato (AA.VV, 1997) che una enorme percentuale di denunce di abuso sessuale contro i padri è frutto di una fantasia, o di una serie di fantasie, più o meno pilotate, dei figli della separazione, così come è dimostrato (Capri P., - Lanotte A., in AA VV-1997) che i sintomi della riferita violenza subita - sintomi comportamentali aspecifici, indicatori di disagio ma non necessariamente di abuso sessuale - sono spesso da attribuirsi in realtà alle gravi problematiche indotte nel minore dalla conflittualità genitoriale, di cui la sua strumentalizzazione come pretesa vittima fa appunto parte.
E' dunque possibile che la diagnosi di abuso sessuale venga confermata con un grave eccesso di facilità proprio in quei casi nei quali è strumentale ad un conflitto (Capri, 1997) e dunque proprio in quei casi in cui è proprio questa conferma ad aggravare ancora di più le condizioni del minore, il quale sa molto bene - e lo paga sulla propria pelle - che è la sua falsata percezione dei fatti a condannare un genitore innocente per legittimare la sopraffazione dell'altro.
D'altra parte, Bernardini - Pace (Bernardini - Pace, in AA. VV, 1997) ha descritto un vero e proprio quadro comportamentale che contraddistingue le madri implicate nelle denuncie di abuso sessuale sporte ai danni dei padri nel contesto della azione di giudizio di separazione e rivelatesi calunniose: oltre alla errata lettura dei sintomi (più o meno dolosamente posta in opera) in cui spesso la accompagnano anche gli specialisti del settore, si tratta con grande frequenza di madri iperapprensive che spronano i figli a riferire e denunciare, pongono sempre ricorsi urgenti all'Autoreità Giudiziaria, li correggono quando vengono interrogati dal Giudice, vogliono essere presenti a tutti gli interrogatori che i figli subiscono, e via di seguito.
In altri termini, si tratta di un vero e proprio quadro comportamentale - a mio parere una vera e propria sindrome - che dovrebbe essere preso in considerazione come suggestivo per una "diagnosi" (il confine fra la psichiatria e la psicologia forense e il Codice Penale è qui labilissimo e forse è solo frutto di un nostro volerla porre) di falso abuso sessuale sui minori la cui denuncia è strumentale ad un conflitto coniugale.
Il vero problema è che il padre che subisce una tale accusa, non solo viene privato della patria potestà nell'immediatezza della notizia, e viene reintegrato solo allorché se ne dimostra la falsità, ma anche che - come detto per Lorenzo V. (e come avviene regolarmente per tutti gli altri) - pur se innocente, è obbligato ad avere incontri protetti con i figli anche dopo il reintegro della patria potestà.
Va detto, a questo punto, che rarissimamente una madre che crea o induce accuse del genere è condannata per calunnia, o tantomeno subisce una revoca della potestà genitoriale. Riaffiora qui la disparità di valutazione circa i comportamenti paterni e materni, la netta evidenza che nella nostra cultura la figura materna è priva di colpa e peccato e la conseguente evidenza non esiste, di fatto, la percezione di un obbligo alla tutela dell'individualità e dell'autonomia del minore.
Nella nostra cultura, ciò che viene realmente tutelato è il potere genitoriale (Capri-Giordano, 1990), soprattutto quello materno, e come detto - la possibilità di disporre del figlio come mero strumento di potere personale.
Il punto veramente espressivo di tutta tale problematica lo si ha allorché si riflette su un dato.
Questo: è banale ripetere che è proprio la separazione coniugale uno dei contesti nel quale meglio si dimostra come sia proprio nel rapporto fra genitori e figli che il minore è considerato solo un oggetto di piacere e di potere.
Ma è anche mistificatorio tacere che questa banalità è tale, perché tutto ciò avviene col consenso di tutti e a nessuno interessa che non rimanga solo una banalità.
E questo è possibile solo a due condizioni: che la strumentalizzazione del minore nel conflitto coniugale è a sua volta strumentalizzata - in altri giochi di livello superiore, e che anche la mistificazione di cui è oggetto il suo ruolo di figlio è altrettanto mistificata negli stessi altri giochi di livello superiore: quelli appunto che concorrono a formare "tutto" il sistema socioculturale che si occupa delle separazioni coniugali e dell'affido minori.
Di fatto, nessun articolo è riportato in letteratura sull'influenza che ha sul conflitto le gestione giuridica che se ne fa, ossia se questa agisce con una sua retroattività circolare.
Ritornando al problema specifico del contenzioso giuridico per l'affido dei minori, è chiaro ed evidente - ed è una grave e mistificante rimozione del nostro ordinamento sociale e giuridico non averne preso atto - che l'attuale modello di intervento nelle separazioni coniugali, che indica come soluzione al problema il conflitto legale, ha fallito totalmente il suo compito, e - soprattutto - è in grado di creare esclusivamente ricorsività del conflitto e dunque sempre più evidenti patologie e ingiustizie. Un interessante e tragicamente "divertente" esempio degli impossibili "puzzle" giuridici che in tali casi si possono creare sono in quei veri e propri - per così dire - " edifici giuridici" che sembrano veramente dipinti da Escher e che si costruiscono allorché il diritto è chiamato a dirimere contenziosi di affido che riguardino le cosiddette famiglie "ricostituite" o estese, nate cioè dalla fusione di nuclei emergenti da precedenti dissoluzioni familiari. In questi casi, la specularità di "diritti" e "doveri" tra figure familiari (e dunque giuridiche) omologhe, crea concatenazioni veramente impossibili (Giordano-Satto), 1990), (Giordano in AA VV, 1991) ed evidenzia come il contenzioso giuridico in tema di relazioni familiari sia un paradosso psicopatogenizzante mistificato come giustizia.
III: IL DIRITTO NELLA FAMIGLIA TRA PARADOSSI, RUOLI DEI POLITICI E DEI PROFESSIONISTI DELLA SEPARAZIONE, E CONTAMINAZIONI
Come espresso, dunque, il Diritto assume un ruolo patologico, e paradossale, dal momento che - emergendo come richiesta di garanzie e riduzione del rischio - produce invece ingiustizia e patologia, contraddicendo cioè le proprie premesse. Ciò è ben spiegabile comprensibile alla luce di quel che dice Luhmann a proposito del diritto.
Secondo Luhmann (Luhmann, 1984) il Diritto è un sistema sociale destinato a ridurre la complessità delle nostre possibilità di essere nel mondo; non è quindi un ordinamento coattivo, ma un rimedio generalizzato verso le aspettative: tende a ridurre considerevolmente il rischio implicito nelle relazioni umane e la sua funzione risiede nella sua efficienza selettiva, dunque nella sua capacità di selezionare aspettative comportamentali generalizzabili a tutte le relazioni umane. E' considerato un sistema autoreferenziale e autopoietico perché definisce da se i propri limiti: tutta la sua catena operativa si configura nello stesso codice ricorsivo, che è la distinzione fra "diritto" e "non-diritto". La sua funzione è dunque quella di essere garanzia e conferma delle aspettative di ottenere diritto (C.F. Campilongo, 1997), (R. De Giorgi, 1995), (Neuenschwander Magalhães J., 1997).
E' pertanto impossibile che una coppia in grave conflitto per l'affido della prole non vi faccia ricorso: una volta che il "sistema-famiglia" entra in crisi, e il rischio di perdere il controllo della propria genitorialità non è più gestibile all'interno del "sistema-famiglia", l'aspettativa di una protezione forte contro tale rischio sarà infatti altissima: fino a che il contenzioso giuridico verrà dunque offerto come "la" protezione forte contro tale rischio, sarà impossibile per ciascun partner di una coppia tendente alla conflittualità non cercare di garantirsi la "vittoria", dato che l'altro rischio è la sconfitta e non l'accordo.
Il reale problema è che tale protezione non è affatto una protezione e non è nemmeno - come abbiamo visto - tanto "forte", perché arriva dall'utilizzo di quei particolari "giochi a somma zero" che sono i procedimenti giuridici.
Il problema è che una lite per i figli non è dello stesso livello "logico" del contenzioso, poniamo, sui confini di un terreno: mette in gioco affettività molto più importanti e non può avvalersi del ricorso all'"obbiettività" come strumento per concordare esperienze e dunque tentare di condividere un sistema di torti e ragioni in modo più o meno equo. A rovescio, ciò è dimostrato dal fatto che anche in procedimenti giudiziari banali il sentimento di giustizia ricevuta o negata è molto più legato a variabili affettive personali e relazionali che non alla acquisizione di obbiettività.
Il punto centrale del mio intervento al convegno è stato dunque questo: nei conflitti coniugali il ricorso alle premesse - e soprattutto alle "promesse" - di oggettività del diritto diviene un fattore di instabilità perché compare un terribile "tertium non datur" tra i contendenti che è il figlio, il quale non ha una misurabilità che possono avere un terreno, una casa, un danno più o meno risarcibile.
Se nei contenziosi relativi dunque a terreni, case, danni e via di seguito, il ricorso all'obiettività aiuta a dirimere le discordanze sui punti di vista, offrendo spiegazioni in qualche modo concordabili in quanto inerenti a spazi di interazione non eccessivamente affettivizzati, nelle separazioni coniugali la possibilità di accettare un metro comune di valutazione non esiste, perché il figlio è "misurabile" solo ricorrendo ad un paradosso patologico, e cioè solo confondendo il suo essere una persona verso la quale altri hanno dei diritti e dei doveri (come se fosse appunto una casa o un terreno in comune) assimilandolo al suo esistere come figlio, dunque al suo esistere come individuo che esprime una globalità di relazioni che non è dello stesso livello logico della somma (di diritti e doveri altrui, in questo caso) che la determina.
In altri termini, il figlio come tale esiste solo all'interno di una relazione, e non è gestibile, né è riducibile, alla somma di diritti e doveri che emergono dalla somma dei diritti e doversi che hanno verso di lui le persone che tali diritti e doveri detengono .
Ciò fa implodere la capacità del Diritto di produrre certezze attraverso il ricorso all'oggettività e a regole concordate in nome di essa: in sostanza, il contenzioso giuridico può solo distruggere il "figlio" (perché distrugge la sua realtà di nesso di una relazione: la "somma", non essendo espressione di un "totale", gli sottrae molto più di quanto non gli dà) e, conseguentemente, indurrà solo una logica ricorsiva, nel quale il conflitto sarà l'unica possibile soluzione a sé stesso, dal momento che - come una macchina su un terreno scivoloso - ogni attuazione del diritto in quanto tale all'interno di questo contesto dovrà essere riapplicata di continuo proprio perché fallirà rispetto agli obiettivi che le si affidano (la tutela di un quid non tutelabile in quei termini).
Detto in altri termini, o si crea un loop senza fine - in cui una soluzione fallimentare si ripropone a livelli sempre più elevati come soluzione al proprio fallimento, o, se una coppia andrà d'accordo, sarà perché riesce a fare a meno della logica su cui si fonda l'intervento giuridico (ed è proprio partendo da tale assunto che ho strutturato, insieme ad altri collaboratori, specifiche proposte di intervento giuridico in tema di separazioni coniugali).
Conseguentemente, la ricorsività che si riesce a ottenere nel tentativo di risolvere la soluzione a questo livello (e ogni volta che questo livello verrà offerto come la soluzione), darà un'unica escalation di risultati: l'accentuazione sempre più estesa del conflitto, e la conseguente perdita, per i figli dei separati, sia dei legami affettivi col genitore debole, cioè col non affidatario - dunque col padre - sia, ad un livello più elevato - il senso stesso della relazione come unico spazio possibile per la propria affettività.
Personalmente ritengo che sia molto difficile uscire da questo uso paradossale del diritto, dal momento che a mio parere esso esprime un tema di fondo della nostra cultura, nella quale il conflitto è al tempo stesso un problema, da risolvere appunto attraverso l'obiettività (vi sono un torto e una ragione da assegnare) - ma anche, come detto prima, la soluzione a sé stesso. Per quanto mi riguarda, fino a che l'obiettività avrà un ruolo principale nella nostra scala di valori, il conflitto tenderà sempre ad essere ricorsivo, in qualunque contenzioso umano o giuridico, solo che in molti casi gli effetti di tale ricorsività superano, sul piano della convivenza, i problemi che crea (ma c'è gente che manda avanti cause di qualunque tipo per anni, spendendo molto più di quanto guadagnerebbe vincendo).
Nei casi di contenzioso giuridico per l'affido minori, tale ricorsività esplode, genera situazioni irrisolvibile, e l'affido monogenitoriale alla madre è il risultato di questa impossibilità del diritto di dirimere un contenzioso in cui compare appunto il "tertium non datur" del figlio.
Parlando una volta con un politico sul problema delle separazioni coniugali, mi sentii dire che questo degli affidi era un problema privo di spendibilità politica. A cavalcare infatti la battaglia dell'affido congiunto, mi disse, ci si inimicava non solo la metà dei votanti separati, ma anche - come pare e come ho accennato precedentemente - le opinioni di magistrati, avvocati, psicologi, psichiatri, e assistenti sociali varii.
Non mi stupì molto quel che il politico disse dei vari più o meno liberi professionisti della separazione, perché vi è un vastissimo hinterland di operatori che a livello scientifico e deontologico predicano la mediazione del conflitto come arma contro il disagio dei minori, e nella prassi quotidiana trovano però il loro tornaconto nell'assecondare il contenzioso giuridico: ma mi stupì molto ciò che quest'uomo politico attribuiva ai magistrati, vale a dire il timore di perdere, con l'introduzione dell'affido congiunto, l'inalienabile facoltà di decidere secondo il proprio convincimento. Personalmente, se questa opposizione esiste, e non ci credo, a me sembra quanto meno frutto di una ambigua lettura dei dati: i magistrati, infatti, e non sembri provocatorio il dirlo, non hanno in realtà alcuna possibilità di decidere alcunché nei contenziosi di affido minori, né come categoria, né come singoli operatori posti di fronte al singolo caso.
Se infatti osserviamo il problema non dall'interno della singola apparente potestà di decidere, ma dall'esterno delle cifre complessive, scopriamo che c'è una metaregola molto forte e - per così dire - non ancora giuridica, che toglie a ogni giudice la facoltà di scegliere caso per caso la soluzione migliore.
A mio parere, dunque, quello che noi vediamo emergere nelle aule di Tribunale come comportamento scontato e prevedibile di ogni singolo magistrato - cioè l'affido ad oltranza alla mamma - è una risposta paradossale e patologica di un sistema autopoietico come il Diritto alla richiesta altrettanto patologica e paradossale di cui ho detto prima e di cui lo investe la nostra cultura: quella di definirsi come Diritto violando i diritti del figlio a esistere come tale.
Tale richiesta diviene infatti la richiesta (al diritto) di contraddire la propria capacità di produrre solo diritto, e ciò distrugge appunto la natura autopoietica del diritto, di cui parla Luhmann, e produce una regressione dei modelli decisionali ad uno stadio per così dire antropologicamente antecedente al Diritto: l'affido alla madre diviene così la soluzione più affidabile e rassicurante, perché - essendo paradossale qualunque alternativa interna al Diritto - quelle più vicine all'istintualità e alla biologia divengono elettivi modelli decisionali.
Il problema è che tale soluzione giuridica al contenzioso coniugale per l'affido minori (vale a dire: l'affidamento monogenitoriale) è fallimentare proprio perché (ed è qui di implicazioni affettive), come hanno poi detto esplicitamente tutti gli esponenti delle associazioni, l'affido monogenitoriale viola apertamente la Costituzione Italiana stessa (art. 30 comma 1), il Codice Civile (art. 155 del C.C.), la legge n. 176 del 27/5/91, con la quale il nostro paese ha ratificato la Convenzione Internazionale che si esprime tutta la paradossalità del conflitto come soluzione al conflitto in un contesto ricco di implicazioni affettive: ognuna di queste norme prevede che al bambino sia garantita una continuità di rapporti col genitore anche non convivente.
E' stato sottolineato al convegno che un altro dei punti alla base di tale violazione (che si concretizza appunto nella predilezione per l'affido monogenitoriale in un contesto che indica come eque solo soluzioni opposte), vi è poi il fatto che nella nostra giurisprudenza non esiste una vera definizione del concetto di "interesse del minore", mentre a livello di tutela internazionale tale interesse è - da questo punto di vista - identificato nella stabilità e continuità di relazione con entrambi le figure genitoriali: dunque nessuna legge - e nessuna sentenza - funzioneranno mai, in Italia, se non saranno realmente "puerocentriche" (termine utilizzato da Aurelia Passasero), dunque fondate non sulla scelta del genitore "più" idoneo, ma - semmai - su una puntuale - ed efficace - definizione di "maggiore interesse del minore".
Ed è qui che vi è un certo dibattito nelle associazioni dei genitori: alcuni preferiscono continuare a parlare di affidamento congiunto tout court - altre voci sostengono invece il fallimento di tale possibilità e la necessità di ricorrere a nuovi strumenti per l'esercizio della potestà genitoriale: "In sostanza" afferma Marino Maglietta, di Crescere Insieme, associazione di Firenze "il mutamento può sintetizzarsi dicendo che il genitore non convivente col figlio anziché limitarsi a 'vigilare', partecipa invece alla cura e all'educazione dei figli secondo modalità stabilite caso per caso, assumendo i relativi oneri: una formula ben diversa sia dall'affidamento monogenitoriale oggi in auge, sia dall'attuale definizione di affidamento congiunto (secondo cui tutto deve essere concordato) perché conserva pari dignità ai genitori, ma attribuisce loro compiti distinti, diversi nella quantità e nel tipo, e soprattutto consente ai figli di relazionarsi liberamente con ciascuno di essi, potendo queste misure, e la convivenza stessa presso l'uno e l'altro, mutare nel tempo senza bisogno del giudice e quindi in modo non traumatico in funzione delle loro esigenze".
Altre voci sostengono invece la necessità comunque di riaffermare la condivisione totale della potestà genitoriale, e dunque la necessità di creare strumenti di intervento affinché ciò sia facilitato dalle strutture che dovrebbero occuparsi della Mediazione fra genitori in conflitto.
L'altro punto in discussione è quanta discrezionalità debba essere lasciata al giudice nel decidere sull'affidamento congiunto: non è un caso che gran parte degli emendamenti proposti alla primitiva proposta di legge (la cosiddetta bozza Lucidi-Tarditi), tendono proprio a stemperare l'automaticità di un tale affido e ridare al magistrato gran parte dei poteri per decidere un affido monogenitoriale in altre forme. Di fatto ciò implica non solo la possibilità - tutta italiana - di non cambiar nulla ostentando invece un cambiar tutto, ma di far proseguire ad oltranza il tragico clima dei contenziosi coniugali. Un altro dei punti molto toccati in questo senso dai vari intervenuti al Convegno è stato di dimostrare che l'attuale sistema di gestione del conflitto coniugale comporta appunto un giro d'affari annuo valutato in diversi miliardi e crea poteri forti.
Da questo punto di vista alcune critiche sono state mosse alle posizioni dell'AIAF, Associazione Italiana degli Avvocati per la famiglia e per i minori, che - oltre a valide proposte (delle quali si può prender nota nel relativo sito WEB) - invoca la "presenza del difensore in ogni fase dei procedimenti concernenti la famiglia sia di volontaria giurisdizione sia di natura contenziosa" ed esprime "ferma contrarietà all'affidamento congiunto dei figli", e di fatto appare del tutto disinteressata a proporre qualsiasi alternativa all'attuale affido monogenitoriale, il che implica comunque - e solamente - il conflitto delle parti, dunque la continua necessità (peraltro esplicitamente invocata dall'AIAF) di ricorrere ai servizi del legale (il sito dell'AIAF è all'indirizzo: *.aiaf-avvocati.it/ ).
Circa tale opposizione dei gruppi di opinione legati agli avvocati, vi è stato un intervento di Fabio Nestola, dell'associazione "Ex- Centro Assistenza Genitori Sepratai" di Roma.
Fabio Nestola ha riferito di un suo colloquio con l'on. Lucidi, per comprendere il quale è opportuno riferire uno specifico e determinante precedente.
Circa tre anni fa, trentadue associazioni italiane di genitori separati, presentarono all'On. Lucidi un documento, firmato congiuntamente, nel quale esponevano tre punti considerati irrinunciabili rispetto alla nuova legge sulla separazione.
I tre punti erano (e sono):
1) abbandono completo di ogni forma di affido genitoriale, da sostituire comunque con l'affido a entrambi i genitori;
2) sostituzione dell'assegno di mantenimento diretto con il contributo del coniuge non convivente per capitoli di spese;
3) inasprimento delle pene per ogni forma di inadempimento alle norme di affido (ivi compresi, soprattutto, quei comportamenti che ostacolano i rapporti fra il minore ed il genitore non convivente).
Secondo quanto Fabio Nestola ha riferito, è stata l'on. Lucidi stessa a dirgli - in un incontro personale - che l'attuale legge non passa perché questi tre punti - considerati irrinunciabili dai genitori - sono invece considerati improponibili dai ventidue avvocati che compongono la commissione incaricata di promuovere la legge (la metà di essa, dunque).
Sono poi considerati improponibili anche dai consulenti esterni chiamati a fornire alla commissione il loro parere.
E' il caso di denunciare che ad essere chiamati come "consulenti" di una simile legge sono stati in gran parte proprio notissimi avvocati matrimonialisti, i cui nomi sono accessibili a chiunque e il cui interesse professionale a mantenere elevata la possibilità di conflitti legali è quanto meno ipotizzabile.
Unanimi dunque al Convegno le voci sulla scarsa - se non assente - volontà politica di risolvere il problema, e - consequenzialmente - sulla mancanza di volontà di porre fine sia alle tragedie della separazione, sia a quella che è la vera illegittimità presente nel problema: l'affido monogenitoriale, di cui - come accennato prima - il Convegno ha posto in luce il netto disattendere sia la Convenzione Internazionale sui Diritti dell'Infanzia (ratificata in Italia con la legge n. 176/1991), sia il Diritto di Famiglia, sia - secondo il parere di non pochi giuristi - persino la nostra Costituzione.
Ferma poi, da parte di alcuni presenti, la condanna verso i Tribunali dei Minori e i metodi con cui affrontano sia gli affidi dei minori (di genitori non sposati), sia le altre problematiche civili di cui si occupano.
Aurelia Passasero (presidente del Coordinamento Internazionale Associazioni Tutela Diritti dei Minori) al proposito ha evidenziato come il Tribunale dei Minori sarebbe un Tribunale Speciale, e come l'Italia sarebbe stata sanzionata tre volte dalla Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo, proprio per le violazioni ai Diritti Civili operate dal Tribunale dei Minori.
La notizia mi è stata confermata esplicitamente dal dr. Del Moro, della sezione triestina della FIDH italiana, il quale ha chiarito che "con una legge del 1983 l'Italia si era impegnata - recependo nell'ordinamento legislativo un Trattato Internazionale firmato in proposito, ad abolire i Tribunali Speciali, il che implica che la presenza del Tribunale dei Minori è in netto contrasto con tale legge e con il relativo Trattato Internazionale".
Di fatto, stando a quanto afferma l'esponente della FIDH, il Tribunale dei Minori decide per decreto - dunque con un provvedimento temporaneo, ma a tempo indefinito, spesso senza convocare le parti coinvolte, spesso in assenza di qualsiasi contraddittorio, e spesso senza ascoltare i minori né i loro genitori.
E' un Tribunale, cioè, che disporrebbe di strumenti che privano i cittadini di diritti civili fondamentali, riconosciuti dalla Costituzione, e - sempre a quanto sembra - senza le garanzie del processo civile codificato: può dunque operare e decidere (ad esempio che un padre o una famiglia non vedano più il figlio per mesi) in totale assenza di qualsiasi garanzia, per il cittadino oggetto del provvedimento, di essere ascoltato da un giudice terzo, di avere un legale che ne difenda i diritti, di fornire la propria versione dei fatti, di addurre prove a discarico e far sentire i propri testimoni, di essere seguito da un proprio consulente.
Da questo punto di vista sembrerebbe quindi poter avere, a totale discrezione dei giudici che lo compongono, tutte le caratteristiche di un Tribunale Speciale. A dire di alcuni esponenti delle associazioni genitoriali, è proprio tale logica che renderebbe estremamente produttiva la strumentalizzazione della querela penale contro uno dei genitori, un'arma frequentemente utilizzata dalla controparte per impedire i rapporti con l'ex figlio, perché sembra - sottolineo il "sembra" - molto facile che il Tribunale dei Minori, investito della cosa, operi in modo da rendere impossibili - o "protetti" da assistenti sociali o altre figure professionali - i rapporti fra il minore e il genitore accusato, di cui può decretare sine die la "temporanea decadenza" della patria potestà.
La storia di Lorenzo è in questo senso esemplare: il Tribunale ha revocato la potestà genitoriale e impedito al padre di incontrare i figli prima ancora che le sedi giudiziarie deputate a pronunciarsi sulla stessa ammissibilità delle accuse, si fossero pronunciate.
Uno degli obbiettivi espressi più o meno chiaramente da parte di alcuni rappresentanti delle associazioni presenti è dunque far sì che il Tribunale dei Minori torni ad occuparsi dei compiti per cui fu istituito immediatamente prima della guerra - vale a dire ad avere competenze esclusivamente penalistiche, facendo in modo (questa è la proposta di alcuni gruppi politici) che delle problematiche relative alla genitorialità e alla famiglia in genere si occupi un apposito Tribunale della Famiglia: ma al proposito è stato anche sottolineato - a microfoni ovviamente "spenti" - che taluni progetti di legge che ne prevedono l'istituzione, considerano il Tribunale della Famiglia una emanazione dell'attuale Tribunale dei Minori; in più, il progetto risentirebbe della prima proposta di Legge relativa all'istituzione di un Tribunale della Famiglia, una proposta che appariva molto venata di atteggiamento confessionale.
Il discorso si sposta dunque - a dimostrazione della sua drammatica complessità, ignota a chi non ne subisce le conseguenze - sugli aspetti politici della situazione. Il problema è - come molti hanno lasciato intendere - che la tragedia delle separazioni coniugali non ha una sua "spendibilità" politica, perché tocca interessi molto contrastanti e divergenti. Come ha fatto notare ancora Fabio Nestola, sia la Legge sulla fecondazione assistita, sia quelle sulle "donne-soldato" sono state approvate a tamburo battente, anche se la prima riguardava poche centinaia di persone l'anno, mentre la seconda comporta adeguamenti strutturali dai costi imponenti.
I figli delle separazioni sono oltre un milione, e la legge sull'affido a entrambi i genitori (unito ai vari punti suddetti), non solo non comporta alcuna spesa per lo stato e sana situazioni drammatiche, ma migliorerebbe comunque il bilancio delle famiglie vittime del problema.
Il che equivale a dire che di questa puntuale strage di innocenti (che oigni anno riguarda settantamila nuovi bambini) a nessuno importa nulla proprio perché tocca interessi professionali forti.
Per quanto riguarda lo specifico della psicologia e della psicoterapia, è stato accennato - in specie dal prof. Campanelli - come le attuali sentenze di affido rendano quantomeno facile, se non certa, quell'evenienza distruttiva che è la pressoché totale perdita dei rapporti con il genitore non affidatario. Ma ovviamente quello che qui appare descritto in poche righe, significa - in quello che ci appare come il "quotidiano" - il completo segnarsi vite intere su questo problema.
Molti i nodi evidenziati al proposito. In primis la funzione del CTU, che attualmente proviene da un apposito elenco di cui possono far parte anche coloro che si occupano indifferentemente di Mediazione Familiare o di perizie private.
Il dato non è di poco conto, perché tutte le problematiche inerenti alla psicologia e alle scienze del comportamento come scienze "molli", trovano una loro drammatica esasperazione allorché si confrontano con le premesse e le conseguenze tipiche della psicologia forense. Il problema è dunque nella "obiettività" delle scienze del comportamento, e nella possibilità che la sua ricerca venga in qualche "contaminata" da altre premesse, più influenzata da altre prospettive. Sembrerebbe dunque molto opportuno far sì che il ruolo del CTU, quello del CTP e quello del Mediatore Familiare fossero incompatibili l'uno con l'altro, con tutte le garanzie che da ciò conseguirebbero (Capri P., Giordano G., 1999). D'altra parte, proprio una vivace polemica si è avuta in sala al proposito, allorché uno dei convenuti ha fatto presente - interrompendo la senatrice presidente di una commissione parlamentare che auspicava l'espandersi della Mediazione come chiave di risoluzione del conflitto - che sono proprio coloro che magnificano la Mediazione Familiare nei convegni, e in altre occasioni ufficiali, ad essere - proprio per tal motivo - apprezzati CTU, e conseguentemente, a divenire richiestissimi, e ben pagati, CTP.
Un tipico esempio di questi problemi di contaminazioni e compatibilità vi è in un altro caso, quello di Fiorella L., un'italiana trasferitasi temporaneamente a Rio de Janeiro per lavoro, della quale ho personalmente accennato nel mio intervento.
Il punto centrale della vicenda è nel fatto che l'avvocatessa di Fiorella (siamo al Tribunale Civile di una grande città del Sud), ufficialmente molto propensa - in articoli, lezioni universitarie e via dicendo - a caldeggiare l'affidamento congiunto, non esitò, alla prima udienza in cui la propria assistita non era presente (e sino ad allora era sempre giunta in aereo) a modificare in senso drasticamente peggiorativo per la propria cliente gli accordi che costei era riuscito a strappare - in una precedente udienza e, paradossalmente, in assenza della propria avvocatessa - all'ex marito, e che sarebbero valsi nei mesi in cui la donna rientrava in Italia (per tre o quattro anni Fiorella avrebbe passato in Italia tre o quattro mesi all'anno: mentre, in attesa del rientro definitivo della mamma, Marisa avrebbe vissuto col padre e la nonna paterna).
Letteralmente, la d.ssa Franchi ridusse così i giorni in cui Fiorella avrebbe incontrato la figlia nei periodi in cui sarebbe stata in Italia, pose limiti agli orari che la donna aveva per telefonare dal Brasile e dall'Italia alla figlia, diminuì il numero di pernottamenti che la bambina avrebbe avuto in casa della madre.
Di più: verbali alla mano, l'avvocatessa non difese in alcun modo Fiorella allorché venne accusato di disturbare e turbare la piccola Marisa con le "continue" telefonate dal Brasile, di non versare alcunché per il mantenimento della bambina (mentre era dimostrabile che oltre ad un assegno mensile, Fiorella pagava mediante un proprio conto corrente le spese per le utenze dell'acqua e dell'energia elettrica della casa dell'ex marito, nonché le rate per l'arredo della camera della piccola).
Il punto, pare, era che l'avvocatessa in questione era intima amica del prof. D.M., un neuropsichiatra grande assertore della Mediazione del Conflitto, e dunque stimatissimo CTU del locale Tribunale e, conseguentemente, richiesto CTP in moltissime cause di separazione. In quel momento, il Prof. D.M. era Consulente Tecnico di Parte in un'altra causa dell'avvocatessa di Fiorella, e tante altre volte sarebbe stato - come lo era stato in precedenza - CTU in cause analoghe.
A prescindere dunque dalla personale inappuntabile etica con cui nella stragrande parte dei casi vengono condotte le cause di affido minori nel contenzioso coniugale, è chiaro che occorre prevedere comunque regole molto ferree di compatibilità fra i diversi ruoli nei contenziosi giuridici in questione.
Personalmente, ho cominciato ad occuparmi di Mediazione del Conflitto nel 1984, e, fra i primissimi in Italia e nella mia, attivai una struttura di Mediazione del Conflitto nella quale erano coinvolti anche dei legali. Il fallimento del Centro fu totale e - all'epoca - senza appello: operare al di fuori del contenzioso giuridico e senza identificarsi nelle figure professionali che lo accompagnano, era impossibile. Successivamente, la Mediazione Familiare ha cominciato a prendere piede, ed ora è molto utilizzata, anche se in gran parte proprio da coloro che comunque continuano ad operare anche come consulenti e del giudice e delle parti. E questo è a mio avviso è incompatibile con le premesse della Mediazione Familiare: ciò che emerge dalla possibilità di interpretare ruoli plurimi, è infatti disturbante proprio perché il "rumore di fondo" che deriva da questa indifferenziata compatibilità crea ancora più incertezza di quanta già non ce ne sia in un campo in cui il Diritto non è sempre applicabile col rigore che può avere altrove.
Un rimedio a tale incertezza è contenuta nella c.d. Carta di Noto (AA VV, 1997), che presenta una serie di linee guida relativa ai comportamenti del perito nell'esame dei minori. Nello specifico, la c.d. Carta di Noto è rivolta ai casi di violenza sessuale, ma offre delle premesse in base alle quali si può estendere quanto viene raccomandato circa le perizie in tema di violenza sessuale ai casi di affido minori.
La Carta di Noto si basa sulla premessa, implicita, che la psicologia non offre il tipo di coerenze offerte da altre scienze ritenute oggettivanti. Viene dunque raccomandato non solo che il perito utilizzi metodologie scientificamente affidabili ma anche che renda espliciti i modelli teorici di riferimento utilizzati. In più, e ciò sottolinea come l'osservazione peritale emerga da un qui ed ora non riproducibile con le evidenza delle scienze c.d. "dure", che utilizzi video- o audio- registrazioni nell'acquisire dichiarazioni o manifestazioni di comportamenti.
Quello che appare di gran interesse è una serie di inviti a una separazioni dei ruoli: viene infatti raccomandato che il CTU e lo psicoterapeuta o psicoriabilitatore siano ruoli incompatibili tra loro, che l'assistenza psicologica al minore in giudizio non sia fornita dal CTU, non interferisca con l'attività di questi, e che l'operatore che la fornisce non possa esprimere valutazioni sull'attendibilità del minore assistito. Questo perché confondere i significati della psicologia sono compatibili ma non contaminabili con le verità che il diritto definisce come tale.
L'altro punto molto discusso al Convegno è stato il ruolo della Mediazione del Conflitto: al proposito, e pur sottolineando che il suo stesso termine le evocava una logica potenzialmente "fascista", Aurelia Passosero ha sottolineato che la vorrebbe praticamente coattiva: ovviamente, altri rappresentanti non erano affatto d'accordo. C'è stato però chi ha fatto notare che la Mediazione, così come è concepita adesso, ha una collocazione paradossale perché, in sostanza, chi percorre l'iter della Mediazione ha già buoni rapporti col partner, ed è intenzionato a continuare ad averli. La Mediazione, ha dunque successo laddove quasi non serve, nelle coppie in cui il conflitto quasi è assente e i partner sono ragionevoli.
La proposta che ho presentato al Convegno, e a cui ha collaborato appunto lo psicologo forense Paolo Capri, è basata invece non su quello che ritengo un inutile invito al buon senso (dal momento appunto che in Mediazione ci va chi non litiga) ma sul fare in modo che sia lo stesso contenzioso giuridico per l'affido minori a limitare il contenzioso giuridico per l'affido minori.
Questo ruolo paradossale del diritto ha già un suo precedente proprio - e forse non è un caso, date le comuni radici antropologiche e culturali del problema - nei contenziosi per il riconoscimento di paternità. Come tutti sanno, prima di iniziare un riconoscimento di paternità in sede giudiziaria, occorre che una Corte si pronunci, prove alla mano, sulla ammissibilità del procedimento.
Di norma passano anni: è dunque paradossale un ordinamento che prevede anni prima che un padre possa soltanto esser chiamato ad una verifica della propria responsabilità di essere padre (e questo a prescindere dalle polemiche su quanto egli può decidere in merito ad una interruzione di gravidanza); passano però pochissimi giorni per poter togliere l'affido a lui o - comunque - ad un genitore.
La proposta mia e del dr. Capri è di applicare la stessa logica ad entrambi i casi, e dunque di disporre l'affido congiunto come soluzione obbligata in ogni separazione (e qui si può discutere fra condivisione totale o condivisione ripartita delle competenze genitoriali), ben evidenziando quale sia dunque l'interesse del minore.
Il procedimento civile - sempre impiantato presso il Tribunale Civile con un rito non differente da altri procedimenti civili - riguarderebbe solo ed esclusivamente l'ammissibilita di una richiesta di affido monogenitoriale.
In altri termini, allorché uno dei genitore volesse intentare causa per sostituire all'affido congiutno quello monogenitoriale, una apposita causa civile in Tribunale dovrebbe valutare la fondatezza e la ammissibilità di tale richiesta, con un iter civile e in cui tutte le parti, minori compresi, vengano tutelati da un proprio consulente (e qui è prevedibile la nomina di un difensore del bambino, come suggerito più volte da varie parti).
Solo una volta che - anche in più gradi di giudizio - ci sia sentenza di ammissibilità di una tale richiesta, il genitore potrebbe adire le vie legali per richiedere l'affido monogenitoriale del minore.
In tale spazio di giudizio di ammissibilità della richiesta, potrebbero trovare spazio efficace l'intervento del giudice che obbliga o suggerisce a suo giudizio l'eventuale ricorso alla Mediazione del conflitto, e una serie di norme volte a scongiurare penalmente la strumentalizzazione del minore e quella dell'intervento giudiziario per procacciarsi l'affido monogenitoriale.
Con le ovvie garanzie del caso, dovrebbero divenire reato tutti quei comportamenti che allontanano, anche psicologicamente, il minore dall'altro genitore (perché di veri e propri maltrattamenti e lesioni sempre si tratta), e l'utilizzo strumentale dell'accusa penale - che dovrebbe essere perseguita con forza (a tutt'oggi, la calunnia e la diffamazione in sede di contenzioso giuridico per l'affido minori sono praticamente depenalizzate).
Il Convegno "Responsabilità, uguaglianza, diritti dei figli nelle separazioni coniugali" si è concluso con un intervento del segretario del partito organizzatore, abbastanza applaudito se non altro per l'impegno preso ad occuparsi del problema, e un obbiettivo - indicato da tutti i rappresentanti delle associazioni presenti e da svilupparsi esplicitamente senza alcuna predilezione di parte: la costituzione di una rete per il coordinamento delle varie associazioni. Per aggiornarsi sui risultati raggiunti, un nuovo incontro si svolgerà nella seconda metà di gennaio.
Gaetano Giordano
N.B.:
Le persone di cui sono stati citate le dichiarazioni hanno tutte dato il loro consenso alla citazione e confermato espressamente le dichiarazioni attribuite loro. Nei casi in cui non sono riuscito a rintracciare l'autore/trice di qualche affermazione, ho usato la generica espressione di "un partecipante", o similare.
Per tutte le storie personali narrate è stato chiesto il consenso di chi le ha narrate; vi sono state poi apportate modifiche che rendessero non identificabili i protagonisti, specie se minori. Va comunque detto che vi sono migliaia di storie sovrapponibili le une alle altre.
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PM
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