ESTER DREIFUSS-KATTAN: CANCER STORIES.
INTRODUZIONE ALLA PSICO-ONCOLOGIA
a cura di Antonella Strangio e Domenico A. Nesci
In questo numero di Strumenti in Psico-Oncologia segnaliamo il libro Cancer Stories - creativity and self-repair di Ester Dreifuss-Kattan. Nella Rubrica Periscopio abbiamo pubblicato un'intervista con l'Autrice dell'opera, che ci ha autorizzato a tradurne un capitolo (Introduzione alla Psico-Oncologia) per pubblicarlo sul nostro Psycho-Journal, cosa che facciamo con grande piacere in questa Rubrica di Segnalazioni Bibliografiche.
Ester Dreifuss-Kattan
INTRODUZIONE ALLA PSICO-ONCOLOGIA
"... nella letteratura... Là soltanto si verifica la condizione che sola potrebbe riconciliarci con la morte..."
(Freud, 1915, p. 139)
Ogni periodo storico è stato caratterizzato da una malattia che, in modo particolare, ne ha influenzato l'immaginario collettivo. In tempi Biblici era la lebbra che diffondeva terrore e turbamento. Nel Medioevo e durante il Rinascimento vi era la peste, la "morte nera", inarrestabile e devastante demone che solo a Firenze stroncò 60.000 abitanti in un anno, ispirando a Giovanni Boccaccio la scrittura del celebre Il Decamerone. Nel diciannovesimo secolo fu invece la tubercolosi, la "morte bianca", a divenire il simbolo del male incurabile. Ne La Montagna Incantata, Thomas Mann descrisse i sintomi dei pazienti malati di tubercolosi e ne tratteggiò psicologicamente i vissuti, il loro sentirsi consumati dalla tisi. Prima della scoperta che la tbc fosse un'infezione batterica, il paziente tubercolotico era sempre considerato un paziente terminale.
Oggi è il cancro la malattia che evoca le angosce più profonde. Il termine cancro può essere fatto risalire a Ippocrate, che associò l'aspetto dei vasi venosi che si irradiavano dai noduli dei tumori del seno alla forma del granchio.
I cancri, come i granchi, si insinuano con imprevedibili movimenti in tutte le direzioni, invisibili, subdolamente, simili a primitivi animali notturni. Come il granchio, protetto dal suo guscio, il cancro è aggressivo e inaggredibile; infligge dolore e si attacca tenacemente alla sua vittima per divorarla e distruggerla fino alla morte.
Nel 1798 lo scrittore tedesco Novalis descrisse i tumori come "parassiti pienamente evoluti, capaci di crescere, di essere generati, di generare, di avere strutture proprie, di secernere sostanze e di nutrirsi" (citato in Sontag 1979, p. 13). Freud definì il cancro della sua cavità orale come il suo "mostro" (Schur, 1972). "Il malato di cancro si raggrinzisce, si accartoccia", scrisse Alice James (1964, p. 225) nel suo diario, un anno prima di morire di un tumore mammario maligno che lei chiamava "questa sacrilega sostanza di granito nel mio seno" (p.225).
Nessun'altra malattia è capace di attrarre su di sé una tale massa di simboli personali e di equivalenze metaforiche. Basta solo sentire la diagnosi "cancro" per iniziare ad immaginare un lento processo di distruzione corporea e di morte inevitabile.
L'idea che il cancro sia una malattia fisica, che di frequente può essere arrestata o addirittura curata, è psicologicamente irrilevante. Il cancro fa emergere invece l'immagine di una morte lenta e devastante ed è subito associato alla fine della propria vita.
Un attacco cardiaco è solo un attacco cardiaco, il cancro invece è una punizione per una vita vissuta in modo inadeguato, o per una repressione della propria aggressività, o anche, rappresenta il culmine della propria disperazione. Queste ed altre interpretazioni personali influenzano costantemente la propria percezione della malattia. Esse non scaturiscono da una involontaria suggestione provocata dalle parole di un medico o di un infermiere. Ogni paziente dà subito la propria interpretazione della malattia, così come fanno pure i suoi familiari, sebbene spesso la metafora della famiglia sia significativamente diversa da quella del paziente.
é importante per il medico e per il paziente riuscire ad esprimere queste metafore e capire che, in ogni caso, l'interpretazione che si dà del cancro è stata filtrata dalle percezioni del paziente, dalla sua personalità e dalla sua complessiva esperienza di vita. Le prime domande dell'oncologo al paziente dovrebbero sempre essere: che cosa ti ha provocato la malattia? Quali fantasie hai fatto sul perché ti è venuta? Ascoltare le risposte a queste domande consente di entrare immediatamente in familiarità con la persona che ci sta davanti.
Per dirlo con le parole della paziente/scrittrice Maxi Wander, citando dal suo diario di malattia (1980): "pensare al cancro è come sentirsi chiusi a chiave in una stanza con un assassino. Non sai mai quando, dove, come e se ti attaccherà" (p. 15).
La Psico-Oncologia tenta di accostarsi, in una prospettiva terapeutica, alle realtà psicologiche sottese a queste metafore ed alle difese che il paziente e il medico utilizzano contro questo potente scenario immaginario; essa prende in considerazione le reazioni psicologiche alle varie terapie per il cancro ed alle loro conseguenze traumatiche per il paziente, la famiglia ed il team oncologico integrato; cerca infine di promuovere l'elaborazione dell'angoscia di morte e di tutte le paure che vengono vissute all'inizio e, successivamente, durante tutte le fasi della malattia.
Thomas Percival scrisse nella sua Etica Biomedica pubblicata nel 1803: "I sentimenti e le emozioni dei pazienti in circostanze critiche, devono essere riconosciuti e trattati non meno dei sintomi fisici della loro malattia". (citato in Meerwein, 1980, p. 13). Negli ultimi anni, la Psico-Oncologia ha ricevuto una crescente attenzione dai mass media e si è guadagnata il posto che le compete nella ricerca scientifica, sia medica che psicologica. Questi sviluppi sono dovuti ad un insieme di fatti:
* il cancro costituisce la seconda causa prevalente di morte;
* i progressi nei metodi di cura (chirurgici, radioterapici e chemioterapici) hanno prolungato la vita dei pazienti con cancro e in molti casi incrementato le possibilità di guarigione incidendo però negativamente, nello stesso tempo, sulla qualità di vita dei sopravvissuti, spesso trasformati in pazienti cronici;
* i pazienti hanno il diritto, e ne sentono la necessità, di essere partner attivi nella cura della loro malattia, nonché di essere coinvolti nel processo decisionale attraverso cui si opera una scelta tra le varie procedure mediche;
* in questo nuovo scenario i pazienti oncologici si aspettano, al giorno d'oggi, che il loro trattamento integrato comprenda anche un approccio ai loro timori partendo dal presupposto che liberarsi dall'angoscia può essere importante nella loro lotta personale contro la malattia;
* il cancro di solito è un processo lento, in cui avvengono numerosi cambiamenti psicologici ed è possibile osservarne l'evoluzione in un lungo periodo di tempo.
La metafora del cancro contiene, comunque, uno strano paradosso. Se cancro, o carcinoma in latino, significa tumore maligno, in greco, neoplasia, significa invece "formazione del nuovo". La minaccia di distruzione che questo "nuovo" tessuto rappresenta evoca invariabilmente terrore, ma in molti pazienti stimola anche energie latenti e sia le risorse fisiche che quelle psicologiche vengono chiamate a raccolta per combattere la malattia. Spesso, nello sforzo di recupero della salute e del proprio equilibrio psichico, si scoprono nuove forze creative. Così emerge una dialettica particolare tra malattia e salute, tra disperazione e nuova speranza. Il fatto di avere un cancro, come evidenziano molte narrazioni autobiografiche e artistiche, può evocare in molti pazienti un forte desiderio di espressione di sé. "Se la mia morte, lenta e inevitabile, è ormai predestinata, allora io posso realizzare solo un ultimo desiderio: che io possa ricavare da questa morte, una bella, grande, storia eccitante" (p. 28), come scrisse un paziente/scrittore svedese, nel suo ultimo libro, Shadows (Diggelmann, 1979).
Ho usato l'espressione "cancer stories" (letteralmente, "storie di cancro") per indicare gli scritti pubblicati da malati di cancro che affrontano uno qualunque tra i vari aspetti della loro malattia. Questo genere letterario include autobiografie, diari, racconti personali, romanzi e poesie, come pure i diversi studi scientifici scritti da psicologi, psicoanalisti, medici e filosofi la cui personale vicenda oncologica li ha motivati a scrivere o elaborare indagini scientifiche sull'impatto del cancro ed i suoi vissuti traumatici.
La maggior parte, ma non tutti, gli autori di "cancer stories" erano scrittori prima della loro malattia. Usando diari o registratori, iniziarono a documentare il loro percorso oncologico. Erano spinti da una serie di motivi scaturiti dalla loro malattia. Alcuni, come Diggelmann (1979), iniziarono a scrivere allo scopo di mantenere un qualche controllo della loro vita nonostante i danni inferti dalla malattia:
"Era la mia unica strada, la sola arma che avevo per combattere la malattia. Così mi sono organizzato con questo dittafono sei settimane fa. Perché, ho detto a me stesso, qualunque cosa ti accada non cederai. La trasformerai. Ne tirerai fuori qualcosa. Sarai costretto ad usare la tua immaginazione. é inutile raggomitolarsi e giocare a fare il morto." (p.102)
Altri, come il giovane medico Fitz Mullan (1987), erano motivati dal desiderio di lasciare qualcosa dietro di sé:
"Quando all'età di trentadue anni mi era stato diagnosticato di avere un cancro, i miei genitori mi regalarono un registratore portatile e mi proposero di usare quanto restava delle mie forze per lasciare una traccia della mia dura prova. Scrivere era la mia arte, qualcosa di cui ero esperto e che avevo sempre fatto con piacere. Mi suggerirono di tenere un diario. Forse se ne potrebbe fare un libro, un giorno. Credo che nessuno di noi ci credesse davvero. Più verosimilmente le mie annotazioni avrebbero costituito una memoria, le ultime impronte lasciate sulla sabbia prima di morire, come era molto probabile. Questa motivazione non mi turbò. Al contrario, mi sembrò piena di significato e mi organizzai in modo da registrare ogni giorno il mio vissuto della vita in ospedale e del mio adattamento ad essa come paziente oncologico" (p.45).
Un libro o un oggetto artistico prodotti come elaborazione del cancro danno ai pazienti l'opportunità di proiettare su uno schermo tutte le paure provocate dalla malattia. Nelle parole di Betty Rollin (1976) giornalista televisiva:
"Andavo ancora a lavorare durante la mia crisi di follia, e uscivo anche di notte. Penso che la mia follia non si vedesse molto. Questo perché ora scrivevo di più e mettevo la mia follia sulla carta e questo mi permetteva di essere sana di mente per il resto del tempo. Talvolta pensavo a me stessa come a una di quelle persone che impazziscono e uccidono quattordici persone sparando dal tetto di casa e di cui, in seguito, i vicini dicono: 'ma era tanto un bravo ragazzo, tranquillo, così gentile...' finché non si trova il suo folle diario (p.156)."
Il lavoro creativo del paziente col cancro spesso diviene il contenitore per tutte le emozioni rimosse, specialmente la paura e il dolore, che vengono sperimentate nel corso della malattia e del trattamento, come scrisse il poeta americano Audre Lorde (1980) nel suo diario:
"10 ottobre 1987
Voglio scrivere sul dolore. Il dolore del risveglio dopo l'anestesia, un dolore che peggiora per quell'immediato senso di perdita [per l'asportazione chirurgica]. Dell'andare e venire del dolore e delle iniezioni. Del trovare la corretta posizione del mio braccio per il drenaggio. L'euforia del secondo giorno, e poi il successivo continuo andare in calando. [...] Voglio scrivere del dolore che sento proprio ora, delle lacrime tiepide che non smetteranno di scendere dai miei occhi - per cosa? Per il mio seno perduto? Per la perdita di me? E quale me era quello, di nuovo, in ogni caso? Per la morte che non so come ritardare? O come incontrare con eleganza?" (p.24).
L'oggetto artistico o la narrazione mettono il paziente col cancro in grado di oggettivare ed esternare, e pertanto di comunicare, i vissuti della malattia, siano essi le emozioni che vengono attivate o le realtà legate allo specifico dei trattamenti, realtà che sono difficili da comunicare faccia a faccia: "a me rimaneva solo la possibilità di dar loro voce, di condividerli per utilizzarli, affinchè il dolore non venisse sprecato come un inutile rifiuto", per dirla sinteticamente con le parole di Lorde (1980, p.16). Come tutta la letteratura e l'arte, la produzione creativa dei pazienti oncologici adempie alla necessità dell'espressione di sé e valorizza la comunicazione; la realtà del cancro rende urgente il bisogno di espressione ma pone anche ostacoli alla possibilità di una comunicazione diretta.
I pazienti col cancro sentono spesso di voler scrivere sul dolore, sulla perdita e sulla paura fintanto che non sentono di "essersi appropriati della loro esperienza", come Nancy Fried, una scultrice di New York (citato in Langer, 1989, p.133), afferma dopo la sua mastectomia. Oppure, nelle parole di Eva Hesse, l'artista americana che morì all'età di 34 anni per un tumore maligno al cervello, "se qualcosa è significativa, forse è molto più significativa detta dieci volte" (citata in Langer, 1989, p.133).
Con lo scritto, il paziente si batte contro il vissuto che il cancro sia totalmente insensato e privi la sua vita di ogni significato. La maggior parte dei pazienti/scrittori discussi in questo libro erano persone nel pieno della loro vita e descrivono come il cancro abbia fatto intrusione nelle loro esistenze troppo presto, minacciando di distruggerle. L'opera letteraria è la risposta dei pazienti/scrittori alla perdita di significato inerente alla morte di cancro. Paradossalmente, l'asserzione creativa di un significato di fronte alla morte è resa possibile dall'assoluta impossibilità ad afferrarla pienamente ed a rappresentarsi la propria morte. Freud pose in rilievo questa incapacità nel 1915 quando scrisse: "In verità è impossibile per noi rappresentarci la nostra stessa morte e, ogni volta che cerchiamo di farlo possiamo costatare che in effetti continuiamo ad essere ancora presenti come spettatori... [perché] nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità" (p. 137).
I pazienti/scrittori esprimono di frequente l'impossibilità di immaginare la loro stessa non-esistenza. Ad esempio, Peter Noll (1984), un professore di Legge all'Università di Zurigo, cinquantenne, scrisse: " a volte un pensiero divertente mi passa per la mente, che potrei continuare a vivere per ancora cinque-dieci anni come un miracolo della medicina... Siamo indotti a vivere come se fossimo immortali" (p.34). Allo stesso modo, Stewart Alsop (1973), un noto giornalista, anch'egli cinquantenne, scrive:
"Quando iniziai a scrivere questo libro, accettai il pronostico di John (il mio medico) che scommetteva, 20 a 1, che non avrei vissuto per più di due anni. Supponendo che resista molto più a lungo? Posso immaginare i caustici commenti delle solite malelingue: 'non è questo quel vecchio cialtrone che scriveva che stava morendo di cancro?' Curiosa, la prospettiva di potersi sentire imbarazzati per il fatto di essere ancora in vita." (p. 270).
Scrivendo, il paziente/scrittore mantiene il ruolo di "spettatore" della sua stessa morte. Egli non è solo l'attore principale nel dramma della sua morte, è anche il suo pubblico primario. Nell'atto di annotare le sue esperienze, l'autore conquista una distanza dalla violenza della sua malattia. Come afferma Sikes (1984), il traguardo è "vedere me stesso da fuori, come un personaggio nella mia stessa vita" (p.308). Nell'assumere la posizione dello spettatore il paziente/scrittore è finalmente in grado di confrontare la brutale verità della sua morte e della mortalità umana. Come scrive Noll (1984):
"Ho voluto descrivere la morte e il morire come un evento inevitabile che ognuno di noi deve attraversare e superare, mostrare la mia situazione come il nostro destino comune, ma allo stesso tempo come un esempio. Ho voluto mostrare al lettore che confrontarsi con la morte, con il morire e con le fantasie di un aldilà mentre siamo ancora in vita è molto significativo" (p. 227).
Tra le tante altre funzioni, quindi, il libro sul cancro serve al suo autore come uno strumento di coping, e forse di superamento dell'universale terrore del morire. Lorde (1980) espresse questa funzione quasi esplicitamente: "e ho iniziato a riconoscere una nuova fonte di potere dentro di me che proviene dalla consapevolezza che, sebbene sia molto desiderabile non avere paura, imparare invece a mettere la paura in un contesto significativo, mi ha dato una grande forza" (p. 20).
I pazienti/scrittori trattati in questo libro offrono tutti interpretazioni personali, non testimonianze documentarie, di cosa sia successo durante le loro malattie. Il materiale ricordato da ognuno di loro è stato ordinato secondo una sequenza personale ed è passato attraverso processi narrativi di selezione ed omissione. Questo lavoro autobiografico non solo conferisce una nuova qualità formale all'esperienza, che l'esperienza originale della malattia non ha mai avuto, ma mette anche l'autore in grado di rivalutare la propria malattia e darle un significato. Attraverso l'elaborazione inerente all'atto della scrittura, il paziente diventa capace di integrare e dare coerenza ad un'esperienza altrimenti devastante. La letteratura sul cancro è generalmente caratterizzata da un gioco dialettico di distanza e intimità che rendono questo tipo di scrittura caratteristica di un modo specifico di conoscenza di se stessi.
Il sentimento di distanza deriva dall'atteggiamento del paziente/narratore come osservatore riflessivo, mentre il senso di intimità deriva dall'essere il narratore il principale protagonista del minaccioso dramma che egli svela. Il fatto stesso di scrivere sulla paura e il dolore di perdita è di per sé un processo di accettazione e superamento di queste emozioni. Il paziente/scrittore affronta la sua malattia ed il suo nuovo sé; questo confronto è un'affermazione di vita. Per raggiungere questa affermazione, il paziente deve sempre combattere contro le sue stesse difese. Questo conflitto interiore è descritto in molti dei libri di pazienti/scrittori che ho letto. La seguente testimonianza di Lorde (1980) è solo una delle molte citazioni che potrei riportare:
"Questa riluttanza è una resistenza ad affrontare me stesso, le mie stesse esperienze, i sentimenti in esse seppelliti e le conclusioni che da esse si possono trarre. é anche, certamente, una resistenza a vivere o rivivere, rivivendo o rinnovando quel dolore" (p.25).
Il cancro forza il paziente a modificare completamente il suo progetto di vita. Noi troviamo spesso nei libri dei pazienti/scrittori un resoconto della vita dell'autore fino alla diagnosi (cioè il suo precedente progetto esistenziale), e poi la sua ristrutturazione. Il paziente tenta di riformulare un nuovo progetto di vita adeguato alla sua nuova situazione, che è continuamente modificabile in base alle vicissitudini e alle limitazioni imposte dalla malattia cronica o terminale. Per esempio, un disagio prolungato spesso impone un nuovo stile di vita o un nuovo universo di relazioni, e alcuni libri di pazienti/scrittori descrivono la ricerca da parte dell'autore di una nuova comunità (di relazioni). In una qualche misura, la perdita di una parte del vecchio progetto di vita significa anche una perdita di identità. Le storie sul cancro così sono spesso resoconti della scoperta di una nuova identità, del divenire una nuova persona.
Bibliografia
Alsop, S. (1973), Stay of Execution. Philadelphia: Lippincott.
Diggelmann, W. (1979), Schatten Tagebuch einer Krankheit. [Shadows, Diary of an Illness]. Zuerich: Benziger.
Freud, S. (1915), Thoughts for the times on war and death. Standard Edition, 14:109-140, London: Hogarth Press, 1959.
James, A. (1964), The diary of Alice James, ed. L. Edel. New York: Dodd Mead.
Langer, C. (1989), The art of healing. Ms. Magazine, Jan./Feb., p.132.
Lorde, A. (1980), The Cancer Journals. San Francisco: Spinsters/Aunt Lute.
Meerwein, P. (1980), Der Krebspatient und sein Arzt im 19 Jahrhundert. Zurich: Juris.
Mullan, F. (1987), A midwife to art. In: Confronting Cancer Through Art, ed. Regents of the University of California. Los Angeles: Jonsson Comprehensive Cancer Center at the University of California.
Noll, P. (1984), Diktate ueber Sterben und Tod. [Dictations on Death and Dying]. Munich: Serie Piper.
Rollin, B. (1976), First You Cry. New York: Warner.
Schur, M. (1972), Living and Dying. New York: International Universities Press.
Sikes, S. (1984), Beating the bogeyman. A cancer patient's diary, Bull. Menn. Clin. 401S:293-317.
Wander, M. (1980), Leben waer eine prima Alternative [Live Would Be a great Alternative]. Darmstadt: Samlung Luchterhand.
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