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RIVISTA SEMESTRALE |
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ANNA PAOLA PECCI, DOMENICO ARTURO NESCI: LA PSICOTERAPIA CON UNA MALATA ONCOLOGICA TERMINALE: RIFLESSIONI SUL TEMA DELLA RIPARAZIONE.
A cura di Grazia Cassatella
La psicoterapia con malati oncologici è un argomento poco trattato nella Letteratura. Per questo motivo abbiamo ritenuto utile pubblicare un caso che, mentre documenta un’esperienza di psicoterapia con una paziente oncologica terminale, seguita in un setting istituzionale, riprende il tema della riparazione in Psico-Oncologia. Oltre a pubblicare integralmente questo lavoro, grazie all’autorizzazione degli Autori e della rivista online Doppio Sogno ( http://www.doppio-sogno.it/ ) su cui sta per uscire, contemporaneamente, segnaliamo un libro sull’argomento: Psychotherapy and the treatment of cancer patients: bearing cancer in mind scritto da Lawrence Goldie con Jane H. Desmarais e pubblicato da Routledge nel 2005. Il libro documenta il lavoro svolto per molti anni, con un approccio Kleiniano, e finalizzato a ridurre la sofferenza dei malati di cancro ricoverati in tre ospedali del National Health Service britannico in reparti oncologici, ginecologici ed otorinolaringoiatrici. Si trattava, in molti casi, di pazienti gravi, che necessitavano di cure palliative, per cui riteniamo importante che i Lettori del nostro Psycho-Journal abbiano un punto di riferimento per documentarsi su un’esperienza che è avvicinabile, per molte caratteristiche, a quella in atto in Italia, nel nostro Servizio Sanitario Nazionale, presso il Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” dove la presenza della Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale SIPSI) sta gradualmente introducendo, grazie all’entusiasmo ed alla professionalità dei suoi tirocinanti, che ricevono una formazione psico-oncologica importante durante il loro training, il pensiero psicoanalitico nell’assistenza ai malati di cancro ed ai loro familiari. Anna Paola Pecci, Domenico Arturo Nesci La psicoterapia con una malata oncologica terminale: riflessioni sul tema della riparazione.
Il paziente riesce a conoscere spesso molte cose di noi… ma fa uso solo delle cose che gli restituiscono qualcosa di sé.
Questo lavoro è frutto di una doppia scrittura, quella originaria, di una allieva della Scuola Internazionale di Psicoterapia nel Setting Istituzionale (SIPSI) che l’ha concepita, elaborata e finalmente partorita come tesi di specializzazione in psicoterapia, nel Febbraio 2010, e quella successiva, di uno dei due co-direttori della Scuola, che l’ha “curata” attraverso un lavoro di editing, frutto del cut and paste di un programma di scrittura e poi di aggiunte e rimaneggiamenti che somigliano alle velature di un dipinto ad olio, dove l’attesa che gli strati successivi si asciughino è ancora più importante della giustapposizione di nuovi strati di colore… Il testo si presenterà così doppio, con in corsivo le parti scritte dall’allieva (ora diventata psicoterapeuta) ed in carattere normale le parti come questa, scritte dal Collega più anziano. Dell’enorme lavoro di scrittura originario resterà, purtroppo, molto poco, ma per pubblicare bisogna avere il coraggio di limitarsi ad un solo tema, ed anche nell’esplorazione di questo, a pochi frammenti che si sceglie di evidenziare… Il senso più profondo di questa rielaborazione a quattro mani è quello di richiamare l’attenzione di chi lavora nel campo della psicoterapia con malati oncologici, e con i loro familiari, sul tema della riparazione. Prologo
Chi è Roberta per me? La risposta a due anni di lavoro non può che essere una: “la paziente”! È stata la prima paziente che ho seguito in psicoterapia durante la mia attività di tirocinio, temuta ed amata: temuta per tutta una serie di perplessità e timori relativi alla mia capacità o meno di essere all’altezza della situazione, di lavorare come psicoterapeuta; amata perché mi ha aiutato a crescere professionalmente, permettendomi al tempo stesso di apprezzare l’importanza di uno spazio per pensare ed essere pensati e di vivere la terapia personale come una necessaria risorsa per la professione. Roberta, paziente “anche oncologica”, ha significato inizialmente per me lottare ed essere in conflitto col mio “doppio” ruolo, futura psicoterapeuta e attuale medico radioterapista: R. era stata presa da me in carico non essendo stata una mia paziente oncologica, ma i contenuti talvolta portati erano una facile rete per me in cui cadere, un’esca per farmi agire da medico piuttosto che da terapeuta, creando in me un’attenzione, per non commettere “acting” ed uscite di ruolo, che ostacolava l’accesso ad uno stato sospeso, “tra cielo e terra” (Nesci, 2009b) di attenzione liberamente fluttuante. Perché allora sceglierla come paziente su cui scrivere la mia tesi di specializzazione? In fondo avevo anche altri pazienti in psicoterapia… Ma lei era la prima… era stata la prima… Come fare a non sceglierla? Oppure: come fare a non superare la resistenza a sceglierla? Quale era in realtà il motivo forte della mia resistenza? Dovevo fare i conti con le mie risorse, con la capacità di avere strumenti idonei a non identificarmi con la paziente, mia coetanea peraltro, in un percorso, quello terminale, che sapevo per certo che avrebbe risuonato con miei vissuti ed emozioni personali (mia madre è morta di cancro). Nello stesso tempo, però, avventurarmi in questo percorso di rielaborazione (la scrittura della tesi prima, e di questo lavoro, dopo la morte di Roberta) poteva diventare il momento fondatore del processo interminabile di acquisizione di un’identità professionale come psicoterapeuta. Un’identità che, a livello inconscio, potrebbe avere il significato di una riparazione rispetto all’angoscia di aver potuto danneggiare, con la radioterapia, nell’atto stesso di curarli, i miei pazienti oncologici, a causa degli effetti collaterali traumatici delle radiazioni… oppure di averli dovuti abbandonare, per i limiti stessi del mio ruolo professionale, nei casi in cui la malattia non guariva e diventavano terminali. Che senso ha prendere in psicoterapia una malata destinata a diventare terminale? Forse la domanda appare meno inquietante se ne poniamo un’altra, apparentemente paradossale: che senso ha mettere al mondo un bambino destinato a morire? Sulla scena del parto/nascita vita e morte sono potenzialmente sempre copresenti: il bambino potrebbe morire (questo accadeva spesso in epoche preistoriche) ma nei giorni successivi al parto anche la madre, anticamente, moriva di frequente, se la placenta non si staccava completamente dall’utero ed i frammenti non espulsi andavano in necrosi provocando una setticemia. Il gruppo umano primordiale (Briffault, 1927) affidava tutti i neonati, per questo, al gruppo delle madri che avevano latte in quel periodo (non esisteva nella preistoria il concetto di madre individuale, la “mater sempre certa” della cultura storica degli antichi Romani che avrebbero inventato anche la “patria potestas”) e che erano come madri adottive, come madri di bambini in affido. Chi sopravvive, sempre e comunque in modo transitorio e precario, perché mortali siamo per natura (Freud, 1916), spesso si trova ad affrontare il lutto di restare solo, abbandonato dall’altro che è morto prima di noi. La psicoterapia dunque ha senso sempre, sia con l’anziano che col giovane, sia col malato terminale che col sano, perché è cura della vita: ha sempre senso fino all’ultimo momento di vita. Ma, a livello inconscio, la psicoanalisi ci insegna che non è così, perché possiamo avere una fantasia inconscia in cui tra madre e figlio di vite non ce ne sono due ma una. Bisognerà riprendere le parole di un paziente in analisi: “Se potessi tornare così indietro nel ricordo so quale sarebbe la mia prima memoria: mi ricorderei di aver preso coscienza dell’esistenza di mia madre e di aver sentito che non c’era alternativa: o te o me.” (Segal, 1953) Riparare questa relazione necrofila, tra madre e figlia, dove non ci si poteva separare perché c’era una sola vita ed individuarsi equivaleva ad uccidere l’altro, e trasformarla, nel transfert che si riattiva sulla scena della psicoterapia, è stato il senso del mio lavoro analitico con Roberta. Ed è come contributo alla conoscenza di queste dinamiche inconsce, per gli psicoterapeuti che si trovano (e si troveranno inevitabilmente sempre più spesso) a seguire pazienti che diventano (o sono già senza che lo si sappia) malati oncologici, che abbiamo pensato utile pubblicare queste riflessioni. L’uomo nel labirinto Un giorno chiesi a Roberta “… come definirebbe questo suo momento di vita?” La paziente ha disegnato sul foglio accanto a lei un filo dicendo: “un filo che si chiude, forma un cerchio ed al centro un punto interrogativo”. Nel lavoro psicoterapeutico con lei, dovevo riuscire a trovare una piccola fessura in quel cerchio per riuscire ad entrarci dentro, per farle compagnia mentre si avvicinava al centro del labirinto, al mistero della vita che si chiude (o si apre?) sempre nel mistero della morte. Con questa forte motivazione ho iniziato a lavorare più intensamente per capire poi che quel filo univa me e lei, e che lo scambio sarebbe stato reciproco, pur da posizioni diverse, aiutandomi a trovare una fessura per conoscere un po’ meglio anche me. Roberta somiglia a quel “primo” paziente che ognuno di noi si porta dentro come un imprinting nel suo lavoro di curante. Quel primo paziente che ci “capacita” a fecondare/essere-fecondati perché ci restituisce un’immagine di noi permeabili emotivamente alla sofferenza dell’altro quanto basta per essere in grado di restituirla in modo riparativo, invece che come la ripetizione di un trauma non elaborabile… Quel primo paziente che ci aiuta ad accedere ad una genitorialità sublimata (prendersi cura di qualcuno in una relazione d’aiuto professionale) che evoca associativamente la metafora dell’adozione o, forse, dell’affido, di qualcosa che si configura come limitato nel tempo, limitato al tempo della crisi e della riparazione di traumi antichi non elaborati… Quel primo paziente che ci insegna a separarci senza che muoia nessuno (anche nel caso paradossale di una psicoterapia che finisce con una malata terminale che in realtà sta andando verso la fine della propria esistenza) perché il vissuto di entrambi, della coppia analitica al lavoro, è quello di un parto/nascita che individua e separa i due protagonisti consentendo ad entrambi di andare per la propria via, serenamente... L’intake Ricevo un pomeriggio la telefonata di Roberta che, con voce tremante e insicura, chiede di parlare con me: dirà di aver trovato il mio numero in una brochure dell’associazione SerenaMente, associazione Onlus per la tutela delle donne operate per neoplasie del seno e ginecologiche nella quale coordino le iniziative scientifiche: “Ho visto la trasmissione in TV dove parlavate della psicoterapia di gruppo che sta per iniziare e ho pensato che forse ne avrei tanto bisogno anche io, ho tanti problemi, tensioni in famiglia. Io avrei bisogno di sfogarmi ma non so… non so se poi riesco insieme ad altre… magari prima io sola, mi può aiutare?…” Le rispondo che sicuramente la cosa migliore è vedersi e fisso un primo appuntamento per il Lunedì successivo alle 17.00: il nome non mi porta a nessuna delle mie pazienti oncologiche, quindi posso accettare di vederla individualmente ed ipotizzare eventualmente un percorso di psicoterapia. Mi ha immediatamente colpito il fatto che non si sia presentata ma abbia subito fatto la sua richiesta che, tra le righe, è una richiesta individuale: emergono da subito un problema importante di identità personale per il suo non nominarsi, non presentarsi a me, ed una grande ansia, aspetti che accompagneranno a lungo il nostro lavoro. Avevo ipotizzato che potesse avere un problema oncologico, visto che la sua domanda era relativa ad una iniziativa della’associazione, ma in realtà nella telefonata aveva solo parlato di “problemi familiari”: a lungo mi sono chiesta perché avesse omesso la malattia, ma solo dopo una parte del percorso terapeutico, mi sono resa conto che nonostante fosse anche paziente oncologica, il nucleo critico era ben altro, legato al suo vissuto nella famiglia d’origine. Figlia di genitori idealizzati, assenti nell’infanzia della paziente, con una madre depressa, Roberta viveva un trauma transgenerazionale della linea materna familiare, una vicenda in cui non era stata in grado di giocare un ruolo riparativo, non avendo generato figli lei stessa. Il setting istituzionale Anche se inizialmente non sapevo bene fino in fondo cosa stavo andando a istituire, una cosa avevo ben chiara: sentivo di dover essere funzionale alla paziente e di dover riuscire, nelle condizioni rese possibili dall’istituzione, a far lavorare il mio inconscio con quello di Roberta, abituandomi a sgombrare il campo dalle razionalizzazioni e dal mondo oggettivo mio personale, competenze professionali mediche in primis, per creare, insomma, quella che Resnik ha definito come la “risonanza emotiva” che è alla base della relazione terapeutica (2009). Dovevo riuscire ad essere io garante del setting e stabilirne le coordinate dopo uno studio accurato: niente poteva essere lasciato al caso. Ero consapevole della mia grande responsabilità nel “capacitare l’incontro”: come dei genitori che si preparano al concepimento, così dovevo progettare il setting, uno spazio ed un tempo. È stato importante andare a rivedere tutto con l’aiuto di uno spazio mentale terzo, in gruppo, all’interno della Scuola, ricavandone grande aiuto nel rapporto con Roberta, in particolare nel “cambio del setting”, dalle sedute nella stanza dell’ospedale alle ultime quattro sedute in Hospice. La stanza a disposizione, nella sezione di Psicologia Clinica dell’ospedale dove lavoro, è molto essenziale, pur graziosa nella sua semplicità. Il colore dominante è il bianco: alle mie spalle in parete c’è una foto gigantesca di un bellissimo mare in tempesta con un faro in lontananza, un faro però spento, da accendere: “quel mare sembro io dentro…” ha detto R. al secondo incontro. Una scrivania bianca, molto lineare e rigorosa, permette una separazione reale, garantendo la giusta distanza fisica tra me e la paziente. Ad ogni seduta, prima ancora che R. entri nella stanza, stacco il telefono fisso e spengo il mio cellulare; R. in due anni di colloqui non ha mai spento il suo cellulare, tenendosi sempre a disposizione una “via di fuga” dalla seduta, fatta eccezione per le ultime 4 sedute in Hospice. Non ho mai fatto uso di registrazione durante le sedute per evitare che ciò potesse essere vissuto dalla paziente come un aspetto persecutorio e togliesse ai contenuti portati in seduta spontaneità e libertà; non ho neppure scritto durante i vari incontri, lasciando che fluissero e rimanessero le parole, i contenuti e le emozioni che avevano interagito o meglio risuonato in me. Lascio sempre, ad un angolo della scrivania un paio di fogli adagiati tra il paziente e me, con una matita accanto, che sembrino occasionali, per lasciare libero il paziente di poter, se vuole e non sotto richiesta del terapeuta, disegnare o scrivere ciò che magari non riesce ancora a verbalizzare, a comunicarmi: con Roberta questa variabile scelta del setting è stata un elemento prezioso per il nostro lavoro. Ho optato per un setting elastico, a mio parere ineludibile, trattandosi di una paziente oncologica: non per questo senza regole, tutt’altro, pur non essendo rigido ma rigoroso, cioè consapevole di quello che sul piano della relazione il setting voglia dire. Anche con Roberta, come con tutti i pazienti, ho cercato sempre di lavorare sui contenuti da loro portati in seduta, anche sulle foto: l’immagine bidimensionale, come il disegno spontaneo, facilitano l’espressione di istanze interne del paziente, che altrimenti rimarrebbero nascoste molto più a lungo. Ogni strumento, controllato e non premeditato, ha una sua utilità in psicoterapia: non dobbiamo difenderci con regole rigide per la paura di affrontare aspetti ignoti e conseguenti reazioni del paziente, ma, lavorandoci, coglierne il significato in momenti della terapia a volte piatti e indecifrabili. Nel setting istituzionale è stato subito formulato il contratto terapeutico: una seduta a settimana, con la consapevolezza da parte della paziente che ogni Lunedì pomeriggio alle 17.00 aveva il suo spazio e ci sarebbe stato anche in sua assenza, con l’accordo chiaro, nel rispetto reciproco, se possibile, di avvisare in caso di assenza. Durante il primo anno di terapia ho avvertito la paziente con un preavviso di un mese del periodo delle mie ferie; l’anno scorso ho sentito il bisogno di Roberta di mantenere il suo spazio terapeutico, dopo una interruzione legata ad un trapianto di midollo, tanto che ho deciso di proseguire le sedute regolarmente anche durante le mie ferie. Alla richiesta espressa da R. al termine del primo colloquio di darmi del “tu”… “dottoressa la vedo giovane, una volta l’avevo intravista in Oncologia, possiamo darci del tu?”, sentendo la sua tendenza fortemente manipolatoria e vivendolo come un primo attacco al setting, le avevo risposto: “lei crede che sia importante? Ritengo che il darsi del lei non tolga nulla ai contenuti del nostro lavoro, comunque se lei lo sente necessario mi può dare del tu, ma io le continuerò a dare del lei, ok Roberta?”. Avevo fermamente chiarito una regola, cioè non avrei mai dato del tu alla paziente, ma, al tempo stesso, ho sentito in quella domanda la solitudine di R. Al sentimento di rabbia per il primo attacco al setting e alla mia professionalità ancora incerta, è subito seguito il sentire la necessità di essere comunque accogliente e di modulare la sua richiesta dandole del lei ma chiamandola per nome: spontaneamente le ho proposto così quella che mi sembrava la giusta distanza tra me e lei. Roberta non ha mai saltato un suo appuntamento, ovviamente con i limiti imposti dalla malattia e dalle cure ad essa legate. Anche quando, per periodi più o meno lunghi legati a terapie invalidanti, era costretta a ricoveri o periodi a casa allettata, ha sempre mantenuto il suo “spazio”, alla sua ora, anche con il contatto telefonico, che io ho accettato nel rapporto terapeutico perché funzionale alla paziente, sentendo la sua necessità primaria di un contenitore, di un proprio “spazio dove pensare e poter essere pensata”. Le sedute in Hospice, dopo circa due anni di lavoro, hanno portato me a sedermi accanto al letto di Roberta, tipica situazione del contesto istituzionale che cambia la dimensione spaziale, in questo caso della seduta, il luogo, mettendo noi a stretto contatto, vicine: non era presente più la scrivania, elemento che definiva fisicamente la giusta distanza tra me e la paziente, nelle sedute che si svolgevano nello studio dell’ospedale, l’ultimo baluardo di difesa rispetto al rischio di una intimità che temevo eccessiva e distruttiva. Roberta ha dato una risposta alla domanda che girava nel campo della seduta, ha spostato, portandola avanti, l’asta con la flebo tra me e lei, accanto al letto, come un sostituto della scrivania: io ero comunque la psicoterapeuta e come tale dovevo essere a distanza, alla “giusta distanza” (Resnik, 2009). Il cambio di setting non ha assolutamente disturbato il lavoro terapeutico, un lavoro già strutturato da tempo e per il quale, al di là di tutto, la relazione di distanza era stata mantenuta; lo spazio utile trascendeva ormai dal luogo fisico della seduta per essere prioritariamente uno “spazio mentale”. L’orologio rotto della cucina Metaforicamente, il lavoro dello psicoterapeuta è come il lavoro dell’artista, di un artista molto particolare, che si dedica, insieme al suo paziente/oggetto-d’amore, ad un lavoro riparativo che si colloca all’interno di una relazione d’aiuto. Questo lavoro artigianale è simile solo apparentemente a quello del restauratore, che toglie pian piano parti dell’oggetto che ha davanti per riportarne alla luce l’aspetto originario togliendo le incrostazioni e gli artefatti del tempo, le resistenze e rimozioni, i falsi sé, che ogni paziente porta all’inizio della terapia. La differenza tra restaurazione e riparazione è stata invece delineata da un lavoro poco valorizzato nella letteratura psicoanalitica (Traversa, 1975) dove si precisava che la prima tende a ricostruire un oggetto esattamente come era (e quindi è un’operazione adeguata per oggetti inanimati, che vengono idealizzati come degli oggetti feticcio) mentre la riparazione riguarda gli oggetti animati nei quali è implicito che non si può fermare il tempo (o rimandarlo indietro ad un’epoca determinata) ma solo procedere oltre e quindi vicariare parti o funzioni, ristrutturarli, trasformarli. Nel campo della Vita non c’è restauro possibile, solo riparazione e comunque entro certi limiti, perché l’orologio della Vita è sempre in movimento; nel campo dell’inanimato, solo in quello, è possibile restaurare un oggetto, fermare il tempo, come in un’immagine fotografica o in un film, dove esso è addirittura, illusoriamente, ripetibile all’infinito. Ogni artista elabora un’opera d’arte vedendola da un punto di vista suo, personale, così come il restauratore la lavora ed elabora da più punti di vista spaziali: lo spazio è la variabile centrale. Se vogliamo cogliere il messaggio profondo di un’opera d’arte, ed in particolare dell’artista, dobbiamo vederla spostandoci nello spazio: ci comunicherà spesso emozioni e contenuti diversi. Anche in psicoterapia lo spazio e la prospettiva sono importanti: poltrona, lettino, vis-a-vis, dietro le spalle, corridoio, porte d’ingresso o di transito… Ma la variabile fondamentale non è tanto lo spazio quanto il tempo. Regressione, evoluzione, après-coup sono concetti che ci permettono di vedere aspetti diversi del mondo psichico: il vissuto portato, i sogni, possono essere rivisti e risignificati a distanza di tempo, nel corso della psicoterapia. Con Roberta il lavoro ha cambiato assetto dopo circa un anno, in concomitanza di un grosso intervento chirurgico di asportazione di una metastasi al fegato: metaforicamente era come se l’aver tolto una parte malata dell’organo che regola il metabolismo della nostra persona, altro non fosse stato che l’abbandonare le resistenze e le parti malate di sé lasciando aperta la porta al contatto tra i nostri due inconsci. Un anno non è un tempo breve, forse neppure troppo lungo: ad oggi so solo con certezza che per Roberta il tempo di vivere è iniziato nel momento in cui aveva tolto di casa (la casa/corpo/sé dove l’essere umano fantastica di “abitare”) la sua metastasi, la sua malattia che, non a caso, un anno prima, aveva definito “l’orologio rotto della cucina”. Il tempo necessario per far emergere il mondo interiore del paziente non può essere quantizzato, così come il tempo utile per uno psicoterapeuta per imparare ad essere terapeuta è un continuum temporale in evoluzione. Questo per dire che ogni terapia avrà un’evoluzione personalizzata e comunque non durerà per un tempo infinito anche se avrà in ogni caso un punto di arrivo che coincide con la capacitazione del paziente a pensare se stesso, a “rientrare in pista”, riparato dalla capacità del terapeuta a “sentirne” i bisogni. Terapista e paziente, così, nascono insieme, paradossalmente, proprio nel momento in cui si separano individuandosi (Mahler, 1968). Figli adottivi “Sa dottoressa, mio marito, l’altra volta, vedendola, mi ha chiesto: ma la dottoressa ha figli?” Io avrei potuto non rispondere ed invece, senza riflettere, avevo sorridendo risposto:” sì, ne ho uno, pesa 9 kg., è bianco e nero, si chiama Silvestro: è il mio gatto”. Avevamo riso entrambe e solo in seguito mi ero resa conto del significato di ciò: la paziente (che aveva tentato senza successo la strada delle gravidanze assistite ed aveva alla fine adottato due bambini già grandi) aveva proiettato sul marito la sua voglia di conoscere una parte a lei nascosta di me, e soprattutto la voglia di una maggiore intimità con la terapeuta, e mi aveva in fondo indotto ad agire, rispondendole sinceramente e rendendomi visibile in un modo che le consentiva di rispecchiarsi in me e di vivere così una “esperienza emozionale correttiva” (Alexander, 1946) rispetto ad una probabile assenza di rispecchiamento con la madre depressa dell’infanzia. In questo modo avevo aperto io una “fessura” nel cerchio chiuso disegnato da lei nell’incontro iniziale, svelandole qualcosa di me (del terapista/genitore) e rispondendo quindi al suo punto interrogativo… Questo svelamento non ripeteva il suo trauma rispetto alla maternità (perché anche io non avevo figli) ma svolgeva piuttosto una funzione riparativa alla propria infertilità. Il gatto della terapista è come un figlio adottivo… Se si può essere contenti di sé, quanto basta per dedicarsi alla cura di altri (diventare psicoterapeuta è un po’ come dedicarsi a dei bambini in affido, a dei bambini che si affidano alle tue cure) pur non avendo generato, ed avendo “adottato” un gatto come un bimbo, allora il trauma della maternità biologica non raggiunta può essere riparato (après-coup) condividendo con la madre/terapista la maternità psicologica dell’adozione. Il paziente riesce a conoscere spesso molte cose di noi… ma fa uso solo delle cose che gli restituiscono qualcosa di sé. L’ultima seduta C’è sempre un grande rispetto di questo spazio da parte del marito di Roberta: appena arrivo nella stanza dell’hospice lui esce salutando e accertandosi di chiudere la porta. Roberta mi accoglie sempre col sorriso; stasera mi sembra ancora più provata e anche meno collaborante: “mi scusi dottoressa per tutto questo sangue… ieri sono venuti i miei genitori e ho chiesto a mia madre se tamponava un po’ e lei lo ha fatto subito.” Nel transfert colgo l’amore e la tenerezza che la paziente prova nei confronti della madre, nel tentativo di darle un ruolo, di perdonarla (per la sua assenza emotiva, nell’infanzia, nel periodo della sua depressione) e riuscire a riparare la valenza positiva della sua stessa figura: le chiede di tamponare il sangue che le esce ininterrottamente dal naso, tamponare una ferita datata, uno stillicidio lungo quanto la vita della paziente. Mi viene da pensare alla ferita narcisistica legata ad una sua incapacità a generare e riparare un danno; al tempo stesso alla ferita legata al tradimento del corpo, quel corpo che l’aveva tradita con un cancro. La ricerca di scarpe comode per camminare, e firmate, riconferma una esasperata ricerca e bisogno di affermare una propria identità, nel momento in cui Roberta sente che sta perdendo la sua stessa esistenza... R. “Mia madre mi ha regalato gli infradito di Gucci, ho chiesto a mio marito di controllare se ci sono le Hoogan estive nell’armadietto, per uscire, non so quando… Pasqua sicuramente la passerò qui, ma dopo uscirò. Ieri, quando i miei genitori mi hanno salutata, e sono usciti dalla stanza, ho pianto tanto, non riuscivo più a smettere… Mio marito ha cercato di consolarmi, poi mi ha rimproverato ricordandomi che non mi devo affaticare,,,” Mi guarda seria, con l’espressione di chi aspetta qualcosa in cambio. T. “Le emozioni spesso stancano ma credo che valga comunque la pena di sentirle e perché no, magari ne vuole parlare?” R. “Mi è venuto da piangere vedendoli uscire perché ho pensato che con loro usciva una parte della mia vita… so che possono ancora curarmi, ma io sono stanca delle cure, domani lo dirò, ho bisogno di staccare e di andare a casa prima di riiniziare la chemioterapia, voglio sentire il freddo della sabbia sotto i piedi, anche se è fredda è bella…” “Possono ancora curarmi”: lo riferisce ai medici, alle cure, ma lo colgo come riferito al “PRENDERSI CURA” da parte dei genitori ed al suo sentire che non c’è più tempo per potersi prendere cura di sé. Si è già congedata dagli affetti familiari dopo che li ha recuperati e riparati nella relazione terapeutica con me. T. “Mi ha fatto in questo momento ricordare la sua foto da bambina insieme a sua madre e allo zio…” R. (sorride) “Sì, è una bella foto, me ne ero quasi dimenticata…” Noto che di nuovo è serena e sorridente. L’aggancio con la foto da bambina ha avuto l’effetto che cercavo: smorzare l’angoscia di morte portata in campo dalla paziente col racconto della visita dei genitori, del desiderio della sabbia “fredda”, che a me ha fatto immaginare, invece della sabbia, descritta in genere “calda o che scotta”, la terra fredda della sepoltura.
R. continua sorridente a raccontarmi: … “a Settembre voglio mettere a casa mia il parquet. E’ bello, caldo, è come vivere in un cassetto, protetti in una scatola”.
Mi sono venute immediatamente due immagini, una dietro l’altra: la prima, il cassetto protettivo, la scatola, come dire l’utero, il grembo materno, il legno, l’albero della vita, l’imago placentare… a seguire l’immagine di una bara che ho immediatamente cercato di mandare via dalla mente, così come la sabbia fredda da me sentita e vista come la terra fredda della sepoltura. R. “Ho insomma un po’ di progetti da realizzare a breve termine… (sorride) … spesso penso che se affronto questo momento così…” Esita e sorride…
T.” Momento così… per dire?” R. “… Così difficile… con questa serenità che non ho avuto in momenti in cui stavo meglio fisicamente ma mi sentivo una groviera piena di buchi: lo devo al nostro lavoro, alla terapia...” T. “Facciamo un gioco, facciamo finta che io sia un marziano e venga sulla terra e le chieda: Roberta mi spieghi, ne parlano tanto sulla terra, ma cosa è questa psicoterapia?” Lei volge lo sguardo a un punto della parete, corruga le sopracciglia e, parlando tra sé e sé… R. “Cosa direi? Come lo spiegherei?... Per me la psicoterapia è un portone aperto sulla vita”… non direi niente di più di questo. Io ho visto diversamente tante cose, passate e presenti, ho migliorato la mia vita…” L’emozione che la paziente mi trasmette è enorme, devo fare appello alle mie difese per non far trapelare la mia commozione: è una bellissima e inaspettata restituzione che mi ha dato. Anche io ho sentito allora la necessità di darle una restituzione, avendo la paura… la consapevolezza… che poteva essere l’ultimo incontro, invitata anche dal precedente intervento di Roberta (“Lo ha fatto subito” aveva detto all’inizio della seduta, a sottolineare la pronta disponibilità nei suoi confronti da parte della madre a tamponare l’emorragia e, al tempo stesso, rimandandomi la sensazione precisa che non c’era più tempo, che è “stanca per le cure”. Quel “fare subito” l’ho sentito come un messaggio diretto anche a me, in quanto figura di accadimento, e l’ho agito immediatamente, di nuovo inconsciamente cercando di realizzare un’esperienza emozionale correttiva mentre agivo il mio movimento controtransferale... T. “Anche per me questo lavoro è importante: le confido un segreto...” (R. ascolta sorridente, come una bimba) “parte del lavoro fatto e che continueremo a fare insieme sarà la mia tesi di specializzazione.” Roberta sorride ed inizia a piangere…
R.: “è un regalo bellissimo che mi fa, sono davvero felice, però una copia poi me la regalerà?”
È arrivata la cena che Roberta manda indietro dicendo a me sorridente… R.: “stasera non ho fame e non ho proprio bisogno della cena…” Il tempo è scaduto, la saluto ed esco, devo dire serena, nonostante tutto. Conclusioni Nel tempo della scrittura della tesi, l’immagine portata da Roberta, la groviera piena di buchi, mi ha fatto pensare ai “buchi psichici” e alla patologia del lutto bianco (Green, 2005). Mi riferisco alla patologia del vuoto o del negativo, per esprimere un disinvestimento massiccio, radicale e temporaneo che lascia delle tracce nell’inconscio in forma di “buchi psichici”, che per Roberta sono riempiti tardivamente da “reinvestimenti”. La terapia ha permesso alla paziente di ricostruire le sue relazioni interne, di ridare, dopo aver disinvestito, dei ruoli sani alle persone che la circondano: se fino a pochi mesi prima gli altri erano presi in considerazione come oggetti di proiezione dei vissuti interni della paziente stessa, salvati solo da idealizzazioni, oggi ognuno ha ripreso un ruolo, tutti al loro posto: madre, padre, marito. Durante buona parte del percorso terapeutico con Roberta, in particolare nell’ultimo periodo, è stato possibile concedersi di parlare di vita e morte, modulando le emozioni forti che ne emergevano con associazioni, spontanee o da me indotte consapevolmente, ad aspetti vitali remoti. Nei momenti in cui avevo sentito a livello transferale la distruttività di Roberta che andava incontro alla morte, avevo riportato la paziente ai profumi dell’infanzia… Nella seconda seduta effettuata in hospice, la paziente è tornata a parlare dell’ importanza del marito nel suo accudimento per i figli, dicendo: “è il padre che avrei voluto per loro, quando non ci sarò più… sa anche fare i dolci, cosa che in casa mia faceva solo la mia nonna… che ora non c’è più.” Avevo spostato il pensiero ed il contenuto del campo dalla morte al ricordo della casa delle nonne, il profumo di limone e di dolce nell’aria e delle tante piccole cose, oggetti di poco conto, ma comunque preziosi, che anche io ricordavo di mia nonna insieme a Roberta. Cosa mi aveva mosso a sentire quell’ultima seduta come il termine della terapia con Roberta? Non è stata una decisione a priori legata allo scadere delle condizioni fisiche della paziente; non è stata neppure la consapevolezza di un’ aspettativa di vita breve. Quello che mi ha fatto capire che la terapia era terminata è stata la riparazione degli affetti che durante tale incontro la paziente mi aveva trasmesso, suscitandomi un sentimento di tenerezza e vitalità… la certezza che il mio lavoro con Roberta aveva avuto la conclusione desiderata e inaspettata. La morte di Roberta, a circa un mese di distanza, sarebbe stata annunciata da un messaggio al cellulare, alle 5.30 di mattina: avevo visto il suo numero e non avevo volutamente letto il messaggio, nel mio spazio privato, ma solo quando ero già in Ospedale, dopo circa tre ore. Il dolore è stato grande e mi sono ritornati nei giorni successivi i flash dei nostri incontri, il suono della sua voce, i movimenti delle mani di Roberta nelle ultime sedute. Ho avuto bisogno di parlare a lungo nella supervisione successiva di cosa sentivo, in particolare della mia difficoltà a scrivere di lei, a rileggere i colloqui passati, le varie sedute: l’avevo persa… Solo dopo due mesi mi è stato possibile riprendere in mano le sedute e rileggerle con tanta tenerezza e riuscire a “ritrovare” la paziente, potendo acquisire la consapevolezza del lavoro con lei. Al di là delle intense emozioni provate nel momento acuto, non mi ha lasciato l’angoscia che temevo, tanto meno il vissuto depressivo spesso descritto per il fine terapia, ma fino ad oggi sento una grande serenità. Ho a lungo riflettuto su questo aspetto: mi viene da pensare a Ferenczi, alla possibilità di “introiettare” gli aspetti vitali della terapia, trasformando il dolore conseguente alla perdita della persona in una quiete serena e direi proprio in una sorta di forza interiore che rimane, portando forse a ciò che Ferenczi definisce “l’IO espanso del terapeuta”, da non confondere assolutamente con il narcisismo dello stesso. BIBLIOGRAFIA ALEXANDER F., FRENCH T. M., ET AL. Psychoanalytic Therapy: Principles and Applications. New York: Ronald Press, 1946. BARANGER W.M., La situazione psicoanalitica come campo bi-personale”, Milano, Raffaele Cortina Editore, 1990. FERENCZI S., Introiezione e transfert, Milano, Raffaele Cortina Editore, 1990. FERRO A., Nella stanza d’analisi, Milano, Cortina editore, 1996. FORNARI F., Affetti e cancro. Edizioni Cortina, 1980. FREUD S., Caducita', in Opere , cap. VIII , Boringhieri, Torino,1976 GREEN A., Narcisismo di vita, narcisismo di morte, Cap. VI. 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