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RIVISTA SEMESTRALE |
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DANIEL PAUL SCHREBER: DANIEL PAUL SCHREBER: “Memorie di un malato di nervi” A cura di Maristella Taurino e Domenico Arturo Nesci “Veleno”, come spiega il “Dizionario etimologico della lingua italiana” di Cortellazzo-Zolli (ed. Zanichelli), deriva dal latino “venenum” che è connesso con “Venus”, Venere, dea della bellezza e dell’amore. Inizialmente, il suo significato era “filtro amoroso, preparazione d’un decotto di piante magiche”. Lo slittamento verso un significato peggiorativo è avvenuto più tardi. Il tema dell’avvelenamento lo si può riscontrare come tema particolare di un tipo di delirio caratteristico della paranoia. Il “Delirio di avvelenamento” è una forma di delirio paranoico caratterizzato dalla paura di essere avvelenati, contagiati, infettati. Il malato di cancro si sente spesso avvelenato dalla chemio, così come i familiari del paziente hanno non di rado il timore irrazionale di poter essere contagiati dal cancro. Riteniamo quindi possibile proporre, come libera associazione al lavoro commentato nella rubrica delle segnalazioni bibliografiche, il caso clinico del presidente Schreber, su cui S. Freud (1910) scrisse una celebre monografia. Nel 1903 il Presidente della Corte d’Appello di Dresda, Daniel Paul Schreber, pubblicò un libro, “Memorie di un malato di nervi”, in cui descriveva autobiograficamente l’evoluzione clinica della sua malattia, diagnosticata da molti come una forma di paranoia, la cui molla segreta di questa malattia sarebbe rintracciabile, secondo S. Freud, nell’omosessualità rimossa del paziente. Il termine “paranoia”, come spiegato da R. Vincenzi (2008), risale alla lingua della Antica Grecia ed è composto dalle parole “para” che significa “oltre”, “al di là”, e “noia” che viene da “nous”, e significa “mente”. Quindi una “mente che va oltre il normale”. Il significato attuale del termine “paranoia” risale alla psichiatria tedesca dell’Ottocento, che indicava con tale termine un disturbo avente le seguenti caratteristiche:
Tutte queste caratteristiche della paranoia sono rintracciabili nel caso del Presidente Schreber. Come sostiene lo stesso Schreber nelle sue Memorie (1903), durante la sua vita, egli ebbe due crisi nervose, verificatesi entrambe “in seguito ad una fatica intellettuale eccessiva”: la prima volta in occasione di una sua candidatura per un avanzamento di carriera; la seconda volta in occasione degli sforzi lavorativi compiuti dopo l’assunzione della carica di Presidente della Corte d’Appello di Dresda. La prima crisi, riconosciuta come un grave attacco di ipocondria, ebbe luogo tra l’autunno del 1884 e la fine del 1885 e si risolse dopo circa sei mesi di ricovero nella clinica diretta dall’anatomista Flechsig. Negli otto anni successivi Schreber si dedicò alla famiglia e al lavoro, trascorrendoli con tranquillità, se non per qualche turbamento dovuto alla “ripetuta frustrazione del desiderio di avere bambini”. Schreber fu nominato Presidente della Corte d’Appello di Dresda nel Giugno 1893. Nel periodo che trascorse tra la nomina e l’entrata in ruolo ebbe diversi sogni. Si trattava di esperienze oniriche che raffiguravano il ritorno della sua vecchia malattia. Si verificò in particolare un episodio che segnò l’inizio del suo percorso clinico: un giorno, nel dormiveglia, il Presidente Schreber si trovò a pensare che “dovesse essere davvero bello essere una donna che soggiace alla copula”. A partire da questo punto, come ci fa notare Nicolò Terminio (2006), si sviluppò nel Presidente un delirio che coinvolgeva Dio, il sole, complotti, “assassini dell’anima”, catastrofi cosmiche e rivolgimenti politici. “Le sue convinzioni deliranti ruotavano attorno alla convinzione di trovarsi in procinto di essere trasformato in donna e allo stesso tempo di dover lottare contro Dio. Lo scenario che prende forma di pagina in pagina nel testo di Schreber contempla l’alternanza di una sconvolgente architettura di immagini, di nessi e di illuminazioni che ci vengono tra l’altro presentate con la precisione e il rigore logico di un inappuntabile magistrato”. Daniel Paul Schreber dando alle stampe le sue Memorie, voleva dimostrare che, nonostante la sua malattia fosse evoluta fino a configurarsi come un sistema psicotico delirante di straordinaria complessità e gravità, egli era tuttavia idoneo a condurre un’esistenza normale. Alla fine ci riuscì, cosicché fu accolto il suo ricorso alla sentenza d’interdizione. Ciò che rese le Memorie del Presidente Schreber uno dei testi più frequentati dagli studiosi della vita psichica del ventesimo secolo fu proprio la contemporanea presenza di costruzioni deliranti e di ragionamenti che ne delucidavano la sequenza (Cassano, 1974). Nelle sue Memorie, infatti, il Presidente Schreber più volte fa riferimento al veleno o a sostanze che potrebbero trasformare o distruggere la sua testa, il suo intelletto. Si riportano qui di seguito alcuni frammenti tratti dalle Memorie del paziente in cui si rintraccia un riferimento a tale tema. “Si ammucchiarono dunque indefessamente sul mio corpo giorno dopo giorno, ora dopo ora, veleno cadaverico o altre materie in putrefazione, di cui erano portatori i raggi, con l’idea di potermi finalmente schiacciare in tal modo e in particolare derubarmi del mio intelletto.” “Ho motivo di supporre che il veleno cadaverico o le materie in putrefazione siano tratti dagli stessi corpi cosmici sui quali ci si è fissati e dove poi, per così dire, i raggi vengono caricati di veleno cadaverico o di materie in putrefazione oppure essi stessi li succhiano mentre passano di lì.” “[…] si fece ripetutamente il tentativo di ricoprire i miei nervi con certi materiali nocivi, come se in tal modo la naturale capacità di vibrazione dei nervi potesse veramente essere danneggiata […]. Una delle materie adoperate a questo scopo veniva denominata «veleno di intossicazione» […]. Ogni tanto avveniva che mi si trasferissero i liquidi dei cibi da me ingeriti nei nervi della testa, di modo che questi ultimi erano ricoperti da una specie di colla e in tal modo la capacità di pensare sembrava soffrirne temporaneamente; mi ricordo con esattezza che ciò avvenne una volta con il caffè.” “[…] i fili radianti impuri carichi di veleno cadaverico, vengono ogni volta scaraventati verso di me come raggi puri di Dio.” Dalla lettura di tali frammenti si evince chiaramente la presenza del tema dell’avvelenamento. Si potrebbe analizzare nello specifico il significato che tale delirio potrebbe rivestire per la storia del paziente, provando così a fare delle riflessioni in merito. La convinzione che i liquidi dei cibi da lui ingeriti si trasferissero nei nervi della sua testa per ricoprirli di una specie di colla in modo da far soffrire la sua capacità di pensiero, potrebbe stimolare le seguenti riflessioni. Il cibo rappresenta il nutrimento che può farci pensare al primo rapporto con l’Altro, cioè la madre. Galimberti (2006) nel dizionario “Le Garzantine. Psicologia” spiega, infatti, come l’alimentazione sia carica di valenze psicologiche fin dai primi giorni di vita (allattamento). Essendo il cibo il primo rapporto che il bambino ha con il mondo, l’alimentazione permetterebbe la prima forma di costruzione della propria identità. Per effetto della sua rilevanza simbolica, il cibo diventa spesso l’espressione di numerosi conflitti psichici, pensiamo infatti ai disturbi del comportamento alimentare ed alla riflessione metapsicologica proposta a tal proposito da Recalcati (2007) nel differenziare “l’oggetto cibo”, in quanto fonte di soddisfacimento del bisogno, dal cibo-seno, oggetto mitico, significante del primo oggetto di relazione con l’Altro. Nell’anoressia, sostiene l’Autore, è venuto a mancare un “materno capace di oscillare tra la presenza e l’assenza senza irrigidirsi in uno solo di questi due poli”. Non si è creata, di conseguenza, la possibilità di una separazione, ma piuttosto l’instaurarsi di “un’identificazione adesiva” (Meltzer, 1975) o come viene ridefinita dall’Autore “una sorta di specularizzazione dell’Altro”. Nella bulimia, d’altra parte, il cibo rappresenta “un oggetto transizionale fallimentare” che, seppure libidicizzato, si rivela “insufficiente nella sua funzione di oggetto separatore”. Nel valore idealizzante dell’identificazione l’Autore rintraccia un difetto, una debolezza della metafora paterna, di una Legge che non ha sufficientemente limitato e contenuto il desiderio materno. Tenendo presente tali riflessioni sul cibo, possiamo pensare che ci sia qualcosa da indagare sul rapporto del presidente Schreber con sua madre e come questo abbia potuto in seguito influire sulla costruzione dell’identità del Presidente. Infatti, nello studio di questo caso, tanto affascinante quanto complesso, è stato analizzato da molti autori il rapporto del Presidente Schreber con suo padre, ma poche testimonianze si hanno circa il suo rapporto con la madre. Mettendo in relazione le riflessioni sopra proposte, potremmo sospettare che il Presidente Schreber avesse “avuto bisogno” di sviluppare un delirio di avvelenamento, la cui causa potrebbe risiedere nel rapporto che aveva con entrambe le figure genitoriali, che si sa è il rapporto che costituisce le basi dello sviluppo dell’essere umano. A questo punto viene spontaneo chiedersi perché il Presidente avesse avuto bisogno di sviluppare tale delirio. Per rispondere a tale interrogativo può essere utile l’associazione con un termine greco dotato di un doppio significato: “pharmakon” infatti indica sia un medicinale che un veleno, così come “pharmakeus” si riferisce sia ad un guaritore che ad un avvelenatore, per estensione un mago o uno stregone. Uno di noi, in occasione del secondo workshop internazionale organizzato dall’International Institute for Psychoanalytic Research and Training of Health Professionals nella Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, aveva ricordato che: “all’origine il pharmakos non era solo una sostanza, ma era una persona in carne ed ossa. Nell’antica Atene i pharmakoi erano addirittura due, un uomo e una donna…Venivano onorati e accuditi dalla comunità per un anno intero finché, nel giorno stabilito, venivano spogliati e portati in processione per tutte le strade della polis tra due ali di folla eccitata… I pharmakoi avevano, come unico indumento, delle collane di fichi (bianchi e neri, a seconda del sesso) attorno al collo, e tutti i cittadini cercavano di colpirli sui genitali con rami di fico… Non dovete pensare che si trattasse di un rito sadico: il significato del gesto era quello di entrare in contatto, attraverso la mediazione del ramo di fico (codone ombelicale), con il sesso dei pharmakoi al fine di scaricare in loro (figure placentari, capri espiatori del gruppo sociale, del popolo/bambino contenuto all’interno del corpo della madre, il territorio della polis) la propria sterilità, la propria impotenza. Era questa, infatti, a quei tempi, in un’epoca cioè in cui la mortalità infantile era elevata, la principale modalità in cui si esprimeva l’angoscia esistenziale della comunità: angoscia di estinzione come angoscia di impossibilità a riprodursi. Trasferire concretamente questa angoscia (Freud, come sapete, parlava di angoscia di castrazione…) sul corpo dei pharmakoi era il transfert arcaico con cui il gruppo umano cercava, ritualmente, di curare sé stesso costruendo attivamente un suo doppio, un capro espiatorio su cui proiettare tutta la propria distruttività interna…” (Nesci, 2006). Come non chiedersi allora: “e se fosse stata proprio tale angoscia di impossibilità a riprodursi a far scattare la molla per lo sviluppo della paranoia nel Presidente Schreber che, non riuscendo a sostenere il peso di tale frustrazione, avrebbe proiettato all’esterno una visione persecutoria, prima sul dottor Flechsig, poi su Dio?” Il medico, si sa, per il suo paziente è come un Dio, un re sacro, un leader… Come non associare allora con la figura del leader placentare? Nell’immaginario collettivo, il leader “assume delle funzioni placentari, fa come da filtro intelligente degli scambi tra il corpo della madrepatria-ambiente, l’ecosistema, ed il popolo-bambino… Il leader placentare ha una doppia funzione: accrescitore e pharmakos. Da un lato consente il passaggio di sostanze nutritive dall’ambiente-corpo-della madre al popolo-bambino, dall’altro filtra le sostanze di rifiuto ed evita che il bambino si avveleni con tutti i prodotti di scarto del suo metabolismo… La funzione placentare, quindi, è quella di far crescere e prosperare il popolo-bambino e togliergli tutto il suo male interno” (Nesci, 1991). Pensiamo qui ai raggi puri di Dio che il Presidente nomina nel suo scritto. Riprendendo ancora le parole di uno di noi: “Questo male interno che il leader placentare tira fuori dal corpo dei membri del suo gruppo dove và a finire? La placenta non può far altro che passarlo al corpo della madre, sperando che sia lei, poi, a metabolizzarlo. E così fa pure il leader placentare…” (Nesci, 2006). Non si potrebbe allora pensare che il Presidente Schreber, non riuscendo a metabolizzare quanto gli stava accadendo nella sua vita di coppia, avesse avuto bisogno di qualcuno che metabolizzasse per lui quelli che Bion (1963) chiama elementi beta, nello specifico del caso l’impossibilità, per una persona che ricopriva la carica di Presidente della Corte d’Appello di Dresda, di avere figli? Nell’inconscio la sterilità è risignificabile come la fine del mondo, del proprio mondo, della propria capacità di riprodursi e continuare ad esistere nella propria progenie… Naturalmente questi vogliono essere solo degli spunti di riflessione che nascono da libere associazioni maturate all’interno dei Corsi di Psico-Oncologia dell’Università Cattolica e che speriamo aiutino gli operatori sanitari che si dedicano alla cura dei malati oncologici a non sottovalutare le angosce di avvelenamento dei pazienti e di contagio dei loro familiari, angosce che sono il segno di “Stati Borderline Transitori” (Nesci e Coll., 2009), del tutto disconosciuti dalla Psicopatologia dei sistemi nosografici attuali. Nella nostra prospettiva si tratta invece di angosce tanto frequenti quanto, generalmente, transitorie, nei malati oncologici e nei loro familiari, angosce profonde che si collocano in un’area intermedia tra il livello della psicosi e quello della nevrosi e che richiedono quindi un ascolto sensibile ed un contenimento, sia farmacologico che psicologico da parte dell’équipe psico-oncologica interdisciplinare, dove psichiatra e psicologo si integrano con le altre professionalità rese indispensabili dalla complessità dei bisogni (bio-psico-sociali) dei nostri pazienti.
BIBLIOGRAFIA
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